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P E RU’

LA NAVE NERA

(1913)

Abraham Valdelomar (1888-1919)

Taduzione di Emilio Capaccio

Una delle figure più emblematiche della letteratura peruviana, insieme a César Vallejo, José María Eguren e José Santos Chocano. È stato narratore, poeta e critico letterario, esponente del postmodernismo, affine alla corrente dell’avanguardia, anche se sono presenti inclinazioni nella sua opera che denotano una nostalgia per la vita di provincia e tentativi di elaborare temi creoli e incaici. Il racconto seguente fa parte dei “cuentos criollos” (racconti creoli) ed è ambientato durante l’infanzia dell’autore nella cittadina natale di Pisco nei pressi di Ica. Il racconto fu scritto nel 1913 e originariamente inserito in una raccolta intitolata: “La aldea encantada”, opera che non fu mai portata a termine. Il racconto venne pubblicato solo più tardi, nel 1917, sulla rivista “Almanaque de La Prensa” e non figurò in nessuna raccolta antologica dell’autore.

I

La nostra casa di Pisco era un posto delizioso: a un isolato dal mare, con una siepe di toñuces (1) a oriente, immersa in uno slargo sterrato e salnitroso, dalla porta si vedeva passare il convoglio che andava a Ica. Avanti l’enorme e potente locomotiva, che lanciava sbuffi di fumo denso e nerastro, attaccate le carrozze di prima classe, poi quelle di seconda e infine i carri merce, in cui era ammassato il pesce pescato il giorno prima. Avevamo un giardino che custodiva un ricino piantato da mio fratello Roberto. Alla sua ombra prosperavano gracili violette, belle di notte profumate, chiazze di malva e reseda. Accanto al tronco grigio del ricino, il pozzo apriva la sua bocca nera e sui bordi crescevano grano e pannocchie selvatiche. Un fagiolo rampicante, dalle enormi foglie verdi e biancastre, si impigliava delicatamente dentro la grata che delimitava il giardinetto. Sul graticcio che segnava la fine del nostro giardino e il confine con il nostro vicino, si era allungata con grande disinvoltura una passiflora nelle cui oscure ramaglie facevano il nido i passeri. Sul fondo c’erano delle zone acquitrinose dove ognuno di noi, secondo i consigli e sotto la direzione di mio padre, seminava e aveva la responsabilità del raccolto. A Roberto, il più grande, che oggi è sposato, piaceva seminare il cotone per portarlo ad Ica, dove con le sue bianche matassine andava a nettare il viso del Signore di Luren (2); Rosa, la seconda, si dilettava a raccogliere i fiori da tutti i terreni; ad Anfiloquio piaceva piantare grano che una volta raccolto consumava egli stesso; a me e a Jesús, la mia sorella minore, allettavano le violette e un fico cresciuto da poco. Così i nostri genitori ci hanno insegnato a seminare la terra, a segnare le mani con le nobili scorticature dei solchi; a conoscere i misteri della natura e la bontà sublime di nostro Signore, ad amare tutto ciò che è semplice e buono, utile e bello.

La sera, a Pisco, dopo la cena e dopo aver recitato il rosario, ci mettevamo in cerchio all’imbocco della stradina. Lì, seduti, mio padre raccontava le occupazioni avute durante la giornata, mentre noi gli raccontavamo le nostre nel giardino, gli chiedevamo cose della terra e generalmente si finiva a discutere su quale coltivazione fosse la migliore. Scendeva la notte, si affievoliva la luce del lampione sotto il quale discorrevano, e, tutt’insieme, andavamo a baciare i nostri genitori per ritirarci a dormire, con l’anima piena di cristallina gioia, ma con l’ansia che le galline potessero evadere dal recinto e andare a beccare i germogli nel giardino.

Una sera mio padre era uscito ed era rimasto fuori più del solito, quando spuntò sulla stradina ci venne incontro rattristato.

Mia madre gli chiese:

— Hai visto Isabel? L’hai vista? Verrà domani?…

— Sta molto peggio, oramai è perduta – disse mio padre. — Se ne sta vicino alla finestra, presa nella sua eterna ossessione: la nave nera.

— Ma c’era davvero una nave nera quel giorno?

— In effetti c’era. Fu una strana coincidenza. Dopo il matrimonio, Isabel, raggiante e sorridendo a tutti, con la sua bella testa incoronata di fiori d’arancio e il suo vestito bianco, si sedette a tavola allegramente con ognuno degli invitati. Quando finì la cerimonia e avremmo voluto porgere i saluti, ci accorgemmo che Chale era scomparso. Lo sposo fu chiamato inutilmente. Dov’era andato a finire? Isabel lo cercava, lo chiamava a gran voce, ma Chale non rispondeva. In seguito, lo cercarono dappertutto, per strada, in città, al molo. Chale non c’era. La baia era agitata, c’era paraca (3), l’aria del sud sollevava onde increspate, un cielo giallastro angosciava il paesaggio, e le barche sembravano gettate sul mare, inclinate a tramontana, come se una mano estranea le avesse lanciate con rabbia. Al molo domandarono a un pescatore.

— Come? Non riuscite a trovare il signor Chale? – disse —. Ma è passato poco fa. L’ho visto camminare in tutta fretta con due uomini fino al molo e giurerei che quelli non fossero del posto… Erano sbarcati.

— Non sapemmo mai più nulla di Chale. Isabel vide in mare la nave nera e la povera donna credette che il marito se ne fosse andato con la nave.

— Maledetto!…

— Non direi. Chale ha vissuto in modo irreprensibile per dodici anni. Era buono, attento, generoso. C’erano giorni in cui non metteva la testa fuori di casa.

— Quell’uomo era molto triste…

— Da allora – continuò mio padre — la povera Isabel si è data molta pena. Si porta addosso diciotto anni di vita tormentata, e ora sta peggiorando. Non vuole più uscire, né scostarsi da quella finestra, e a volte non mangia neppure.

— Ma verrà? Verrà domani? – domandò mia madre.

— Sì, mi ha promesso che verrà a fare l’escursione.

I miei genitori avevano organizzato una gita con tutti i miei fratelli per distogliere Isabel dalla sua fissazione.

— E dove andremo?

— Andremo a Santa Rita.

— È molto lontano. Meglio alle piantagioni di pepino (4). Lì, può essere che Isabel si distragga.

Si attenuò lentamente la luce del lampione. La porta fu serrata. Baciammo i nostri genitori e recitammo la preghiera, mentre a poco a poco il silenzio avvolgeva la casa e ci addormentammo al blando torpore del mare la cui brezza blandiva gli alberi del giardino.

II

La triste allegria del mare.

Era un giorno chiaro di ottobre; le imbarcazioni si distinguevano così precisamente nel porto, che sembravano viste attraverso un cannocchiale. Si potevano contare gli alberi e le innumerevoli corde e persino le lettere delle navi si riconoscevano vagamente. Il mare era mosso, quasi allegro, sembrava ridente. Le onde, sotto un’aria fresca e trasparente, si disfacevano in spruzzi brillanti. Il sole era splendido, ma caldo.

Era una giornata che stava passando senza troppe emozioni. Nulla mi aveva scosso lo spirito. Non una gioia o una paura o una tristezza. Dopo pranzo mentre ci preparavamo per la passeggiata, mio padre andò a prendere Isabel. Le mie sorelle indossarono i loro allegri abiti tradizionali a fiori, con i pastorelli di paglia che si reggevano graziosamente sul petto con larghi nastri di seta.

La domestica, in una cesta, aveva sistemato qualche provvista, pane con il burro, carne fresca e alcune scatole di conserve. Arrivò Isabel, accompagnata da mio padre. Quella povera donna faceva spavento. Un pallore sul viso sfiorito, gli occhi infossati, le mani smagrite. Indossava un leggero indumento nero. Salutò e uscimmo.

Che pomeriggio! Che sinistra chiarezza nel porto! Che tragico silenzio avvolgeva le cose! Dov’erano finiti gli abitanti del villaggio? Attraversammo la piazzetta scalcinata e salnitrosa su cui s’affacciava la mia casina, camminammo per un po’ vicini alle toñuces (5), in seguito passammo per la factoria, un fabbricato fatto di lamiere traforate, dove si riparavano carri marciti e sfasciati, c’erano vecchie molle, ruote fisse, caldaie crivellate, pezzi di meccanica, abbandonati in mezzo alla sterpaglia che s’arrampicava, rachitica, sopra di loro.

Di seguito incrociammo la palma dove la notte si diceva venisse fuori un uomo e poi imboccammo un sentiero di salici. Arrivammo al villaggio. Attraversammo alcune calle isolate. Ritrovammo la piazza d’armi, lastricata e ombreggiata da enormi ficus e, a un angolo, la Iglesia de la Compañía (6), con un animale mitologico sulla porta e con le sue torrette squadrate. Ci addentrammo per un angusto sentiero pietroso su cui ombreggiavano enormi e tranquilli salici piangenti, sotto i quali correva un canale, la cui acqua fluiva tanto debolmente da sembrare stagnante. Doveva essere molto fredda, trasparente, piena di crescione e di portulaca.

Camminammo per molto tempo. Ma ognuno restava in silenzio. Di tanto in tanto le parole risuonavano gravemente, disegnavano un arco e smorivano. In mezzo a noi c’era Isabel. Era una processione di anime in pena. Nessuno rideva. Perché non c’era allegria in quel pomeriggio?

Qualcuno disse che quello non era il tragitto. Bisognava tornare indietro e imboccarne un altro. Eravamo considerevolmente lontano dal villaggio. Dovevamo passare per la vecchia chiesa, perciò ci dirigemmo da quella parte. Cominciò a spazzare un vento secco. Vedemmo in lontananza, oltre le mura di cinta, stagliarsi la tonda cupola di un tempio abbandonato, seguitammo a camminare.

III

Attraversammo un ponticello, scavalcammo enormi mattoni e arrivammo alle mura della chiesa diroccata. In quel momento la domestica, una vecchia di colore, riferì:

— Dicono che in questa chiesa vengano a penare. Che al mattino, allo scoccare dell’alba, si veda, dalle fenditure, uscire un prete con la sua casula e dire messa, con un sacrestano; e che, poi, i due percorrano la chiesa versando acqua benedetta ed entrino in sagrestia…

— Taci, donna – disse mio padre -. Non dire sciocchezze…

— Sì, signore. E nel pomeriggio, verso le sei, si senta cantare in sottofondo un coro, e squillare tre volte una campana…

Ci stavamo avvicinando alla chiesa. Era tutta murata. Alla porta maggiore ricoperta di mattoni restavano ancora attaccati alcuni pezzi di legno. Piccoli buchi ovunque. Dalle torri in macerie uscivano ciuffi d’erba; mi avvicinai e guardai da una fessura. Dentro non c’era niente. Le nicchie degli altari senza santi, la navata imbrattata di terra, abbandonata; alcuni pezzi di legno caduti e ricoperti di polvere, l’altare maggiore vuoto, pieno di crepe e dalle fessure filtrava la luce. Un pipistrello svolazzò da uno spigolo all’altro, e mentre tornavo dagli altri, qualche gufo che ci guardava dal tetto, volò via strillando.

— Siamo arrivati – disse mio padre -. Ecco le piantagioni di pepino…

Davanti a noi, infatti, si stagliava un capanno; siepi verdi; una cascinetta allegra. Le piantagioni di pepino, con le loro foglie violacee, si estendevano all’orizzonte. Bisognava superare una piccola collina, e ci inerpicammo. Una volta sopra ci fermammo per riprendere fiato. Lì accanto, sotto alcuni salici, c’era la casetta del fattore, intorno correva un canale orlato di peperoncini rossi e di margherite profumate. Un vecchio fece voce a un cane che vedendoci arrivare cominciò ad abbaiare.

— Buon pomeriggio a voi! … – disse.

— Buon pomeriggio – rispose mia madre.

Quando stavamo per cominciare la discesa. Isabel si fermò di colpo, fissando il mare che si estendeva in lontananza…

— Però donna, rallegrati un po’…

Isabel guardava con enormi occhi spalancati, più cadaverica, senza sentire nulla intorno a sé. Emise un grido strano; cominciò a tremare sul cumulo della collinetta. Si avvicinarono a lei:

— Isabel!

La donna stringendo forte la mano di mio padre e indicando il mare gridò con una voce gelida:

— La nave nera! Guardate, guardate!…

Tutti volgemmo lo sguardo nello stesso punto. All’orizzonte, nella baia lontana, spiccava la sagoma di una nave a tre alberi…

— La nave nera! – Isabel urlò disperatamente, correndo giù per la collina come una dissennata.

L’afferrammo per le braccia, e la sorreggemmo, mentre i miei genitori e i miei fratelli la condussero sul sentiero per La Playa (7).

— Ci sarà paraca – disse mio padre.

Il vento cominciò a sferzare gli alberi. Fitti vortici sollevavano le foglie lontane. Il cielo si oscurò. Sentimmo i cani latrare in lontananza e ci affrettammo senza proferire parola. Eravamo impalliditi.

IV

Camminammo muti, per il sentiero, i nostri passi producevano uno strano rumore sulle foglie secche che fuggivano ai nostri piedi, strappate dal vento. Giungemmo in prossimità del porto. Isabel piantò lo sguardo sul mare, tremava, sbattendo i denti, si sorreggeva al braccio di mio padre, e ad ogni istante ripeteva come posseduta:

— Più in fretta, più in fretta, lì, c’è la nave nera, più in fretta per Dio…

Arrivati al porto, vedemmo alcune persone fuggire perché ora il vento scompigliava i vestiti e faceva volare i cappelli. I bambini correvano attaccati alle mani dei loro genitori.

Il paraca diventava rabbioso. Quando sboccammo nella piazzetta per dirigerci verso casa, il vento era così forte che sembrava volesse fermarci.

La piazzetta di pietra era deserta. Avevamo smesso di vedere il mare, e quando arrivammo allo squarcio da cui si vedeva un’altra volta la distesa azzurra, Isabel ci passò avanti e si mise a gridare in modo spaventoso.

— Se ne va, se ne va! La nave nera se ne va …!

Se ne andava! La vedemmo tutti chiaramente. Una colonna di fumo si sfilacciava sullo sfondo ocra del cielo. Erano le sei. Il paraca si era calmato. Le pietre erano completamente gialle e ricoperte di guano che il paraca aveva portato dalle isole lontane (8).

Tutto era giallo, giallo.

Le case, il cielo, il mare, la terra! Desolazione infinita!

La nave nera se ne era andata. Era sparita sulla linea dell’orizzonte. Cadde un sole rosso molto grande sul mare. Sfinita, quasi insensibile, mentre continuava a parlare in modo sconclusionato, riportarono a casa Isabel.

E sopra quel giorno strano cadde la notte nera e misericordiosa, mentre sul mare tremolavano luci giallastre, come fuochi fatui, e sulla riva le pietre, al battito delle onde, producevano un grezzo rumore di ossa …

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1) Pianta arbustiva aromatica, molto ramificata con infiorescenze rosate, tipica di molte zone del Sudamerica. In alcune regioni del Perù è molto diffuso il suo utilizzo come recinzione di orti, giardini e aree coltivabili.
2) Si tratta di un crocifisso in legno, di più di due metri di altezza. È patrono della città di Ica, in Perù, ed oggetto di devozione di gran parte della popolazione locale.
3) Vento forte del Pacifico.
4) Variante locale di kaywa. In Italia, noto con il nome di cetriolo degli Inca. Si tratta di un ortaggio rampicante diffuso in America Latina, appartenente alla famiglia delle cucurbitacee.
5) Toñuz (plu. toñuces) è una pianta arbustiva diffusa prevalentemente dal Perù all’Argentina, conosciuta anche con il nome di chingoyo o chilca.
6) È posta quasi all’estremità della città di Pisco, città situata sulla costa pacifica, nella zona centro-meridionale del Perù. Il suo nome completo è Iglesia de la Compañía de Jesús. Si tratta di una chiesetta, costruita dal 1704 al 1724, caratterizzata da due piccole torri massicce, una cupola e una facciata in stile barocco
7) Factoria, la palma, La Playa sono nomi che indicano alcuni luoghi specifici nella cittadina di Pisco.
8) Presumibilmente si tratta della Isla Chincha o delle Islas Ballestas o, più lontano, dell’arcipelago delle Galapagos