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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Risultati della ricerca per: canto presente

Canto presente 55: Francesco Palmieri

21 lunedì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Tag

Canto presente, Francesco Palmieri, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Francesco Palmieri

 

Da “Studi lirici (solo parole d’amore)” edizioni La Vita Felice, ottobre 2012

 

QUANDO TI TROVERO’

 

quando ti troverò amore

tu non volterai lo sguardo

da un’altra parte

 

quando ti troverò

tu non mi lascerai solo

nella strada

né ti nasconderai più

perché io ti rincorra

con troppo fiato nella gola

 

quando ti troverò amore

tu non avrai un segreto

da nascondere,

tu non avrai segreti

 

quando ti troverò

tu non giocherai

al gatto e al topo

e non sarai tu il gatto

non sarò io il topo

 

quando ti troverò amore

sarà una giornata d’estate

e ci saranno i fiori nei giardini,

il vento profumerà di rose

e brillerà il sole

negli occhi tuoi d’estate

e di fiori

 

quando ti troverò amore

tu mi chiamerai per nome

ed io ti chiamerò per nome

 

e per tutto il giorno

noi non ci lasceremo mai

noi non ci lasceremo più.

 

 

[ED ORA]

 

ed ora

che mi hai dannato al gelo,

posso stare qui o altrove

sopra o sottoterra,

al centro della stanza

o lungo cento strade,

 

posso respirare

o tapparmi naso e bocca,

uscire se c’è il sole

o buttare via la chiave,

 

posso apparecchiare

o guardare com’è profondo un piatto,

posso sentirmi carne

o solo un po’ di fumo

 

posso coprirmi ancora

o strapparmi anche la pelle,

sentire tutto il tremito

lo scricchiolio del ghiaccio

 

ed ora

che mi hai dannato al gelo,

ho fatto dell’inverno la mia casa,

 

domani in un giardino

io sarò l’albero

e tu la neve.

 

 

Da “Fra improbabile cielo e terra certa” Edizioni Terra d’ulivi, gennaio 2015

 

PASSAGGIO DI CONSEGNE

 

conserva queste mie parole

per quando verrà il tuo inverno

(lo vedrai sui rami

di alberi a fine autunno,

su un’altalena ferma

nei parchi di novembre,

nel freddo sulle mani

e i passeri sul filo

a prendere la neve,

lo sentirai nel ghiaccio

che incrosta a fior di pelle

e non ci sarà più scialle

a trattenere stelle,

non ci sarà più tempo

per altro giro e danza,

e lo saprai per certo

che è solo andata il viaggio

e non c’è freno ai giorni,

non uno che ritorni,

che l’essere felici è stato breve

per noi che siamo ore

ma abbiamo sottopelle

l’impronta dell’eterno),

conserva queste mie parole

per quando verrà il tuo inverno

e un passo dietro l’altro

tu ti farai da parte

a chi chiederà la strada

per le sue gambe forti

per il vento sulle spalle

l’avanzo dei domani

la creta nelle mani

(e non avrà sospetto

che tu hai ancora fame

che spasimo è il suo seno

che aspetti un altro treno

ed è un obbligo di carne

il decreto che tradisce,

un computo di giorni

a fare il vuoto intorno),

non un respiro in più

da questo inverno mio

e neanche una parola

per la consolazione,

sarà solo sapere

che tutto quanto è stato,

 

che sono andato avanti

nel solco di discesa

che fa più estranei i vivi

e meno lontani i morti.

 

 

IL GIOCO DELLA VERITÀ

 

bruciare fino all’ultima scintilla,

questo tocca,

strappare con i denti dalla pelle

la residua piuma che ti resta

 

recidere lo spago ai palloni nella testa,

pungere le bolle per lo scoppio

e sia l’aria e il nulla

l’inconsistente che li tiene

 

domani

al cenno lieve della luce,

riporrò i vestiti sulla porta

e uscirò nudo

al ghiaccio che c’è fuori

 

in cielo

in terra

e dappertutto.

 

Da “Il male nascosto” Edizioni Terra d’ulivi, maggio 2016

 

LA QUINTA STAGIONE

 

ormai non ci credo più, io,

che camminavo con occhi spalancati e luci,

io, che ogni mattina correvo sul balcone

ad aspettare rondini d’aprile

e fiori freschi e nuovi esplosi dentro ai vasi,

 

che a novembre uscivo all’ora dei lampioni

(e piovesse, speravo, quell’acqua venuta da lontano)

e dalle case un chiudersi di porte

le voci dei bambini a chiedere la cena

 

non ci credo più, io,

che ho conosciuto campi a farsi grano

e le cicale pigre nei pomeriggi lunghi

papaveri, rosso e ulivi

e poi l’ottobre e l’uva,

le giacche più pesanti

riprese dagli armadi

 

erano gli anni del rosario a maggio,

del pane segnato dalla croce,

di Cristo che moriva verso sera

e alla domenica campane e voli a riportarlo in vita

(ed era festa nei vestiti nuovi,

nelle cucine accese di mattina presto)

 

era la primavera e poi l’estate,

era l’autunno e poi l’inverno,

era l’attesa certa di un ritorno

e tornavano a novembre anche i morti

quando s’accendevano lumini sotto ai quadri

e si cuoceva il pane con l’uva passa e il vino

 

ormai non ci credo più

e so per certo che nessuno torna

mai niente che ritorni.

 

 

IL MALE NASCOSTO

 

mai ti mostrerò le mie ferite

 

(e il piatto da lavare nel lavello

la polvere che cresce già nell’angolo

il libri aperti e chiusi ad uno ad uno

perché non c’è parola che mi salvi)

 

vedrai con i tuoi occhi il corpo intatto

il nodo fatto bene alla cravatta

il viso che sorride senza barba

ed io che dico in chiaro: tutto bene

 

(e no, tu non saprai

che sotto alla mia giacca

ho sempre una camicia

con uno squarcio netto in mezzo petto).

 

 

Da “Biografie” Edizioni Terra d’ulivi, maggio 2019

 

COME CI SI ACCORGE

 

come ci si accorge

quando l’anima è perduta

e non più ha scosse il sangue

 

e rimane il camminare

dare fuoco al gas

per qualcosa da mangiare

pulire vetri e panni

lavare il pavimento

 

credevi alla scommessa

che dio c’era anche nei sassi

e comunque e in ogni caso

noi si era un po’ speciali

 

(ma non bastò una candela

a fermare il temporale

-fu mia nonna che l’accese

e la posò sul davanzale,

chiamò angeli e beati

martiri e santi in paradiso-

ma venne grandine dal cielo

che spezzò tutte le spighe)

 

si diceva che c’è un fine

al passaggio di noi qui a terra,

che siamo tutti sottopelle

particelle d’universo,

che in fondo al ciclo naturale

cesserà ogni dolore

e senza carne e né più tempo

non avremo noi paura

 

forse l’anima era quella

pensare buone tutte le cose

avere in corpo mille vite

e tu per sempre bella

vaniglia fra i capelli

 

forse l’anima era quella,

quel guardare dietro ai vetri

come scendeva giù la neve

e sentir tremare dentro

quanto bianco, quanto silenzio,

e nessun freddo, neanche un brivido,

 

nemmeno quando senza guanti

prendemmo il ghiaccio fra le mani.

 

 

(A MIA FIGLIA)

 

ricordami come mano

un passo alle spalle

a guardarti il cammino

 

ricordami all’angolo

come una fotografia

tra la mensola e il muro,

come il gattino, l’orsetto,

ora in fondo alla cesta

 

e se ti verrò in mente

qualche giorno o per anni,

tu fammi leggero

scarta errori e dolori

sfoglia il velo di nero

delle colpe a mio nome

poi di quelle accadute

senza averle volute

 

guarda all’attimo puro

quando io padre e tu figlia

stavo avanti nel buio

per le ombre sui muri

l’improvvisa paura

 

e ricordami un breve

ricordami lieve

 

sarò morto due volte

se sarò sulle spalle

un altro peso di croce.

 

 

[IL PASSERO]

 

il passero

preso nella stretta

sembra più domestico

 

mangia

beve

quando è sera dorme

 

solo certe notti

sbatte un po’ le ali

cinguetta dentro al sonno

 

forse sogna.

 

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Canto presente 54: Adriana Gloria Marigo

11 venerdì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Adriana Gloria Marigo, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Adriana Gloria Marigo

Poesie scelte    

 

da   Un biancore lontano, LietoColle, 2009

 

*

Tu non hai memoria dell’infinito

al mio sorriderti nella sera d’aprile

alta su Treviso, dopo lo stupore del temporale

che sorprese lo sfarfallio del nostro pensiero.

 

Neppure ricordi la luce intrepida sull’erba

vibrante il fresco dell’acqua generosa,

i petali volati lontani dal fiore,

gli umidi balsami nell’aria, di nuovo azzurra.

 

 

*

Trascorsi stagioni in terra di nessuno –

landa vasta, senza orizzonte

al plausibile, al gioco ermeneutico

o al magico conto che serve

il viaggio fenicio.

 

Il tempo trascorse dalla terra

per verticale di linfe

e nel punto di fuga iniziò – alla prospettiva –

l’evento creatore.

 

 

da   L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice, 2012

 

*

Attesi l’estate per l’esultanza

della luce, la benedizione

dell’ombra, quando lo zenit

è acceso e tutta l’aria

è ambizione della sera

l’intesa di un intrico

verde pulsato di bianco.

 

Venne invece la distrazione

del prodigio, l’orbita rovesciata

nella gravità dei corpi, l’urto

scomposto alla letizia.

 

 

*

S’inclusero le tue parole

in una perla d’aria

– memoria tenue d’universi –

mentre io sgranavo giorni

nei miei occhi di ninfa

mi feci vertigine d’ala

intesi l’ammanco originale

la tua nascita sotto un graffio di vento.

 

 

da   Senza il mio nome, Campanotto Editore, 2015

 

Amor coeli

Sovrastati dal suono della luce

non ci trattengono basse correnti

dove motteggia sempre vero

il tonfo della specie

bassura transitiva di minimo

non accettabile all’inquieto

malleolo in danza.

 

E s’avvera l’azzurro teso

Stando in maestà la luna

di notte viene un vento raro

ad avvolgersi selvatico

sugli alberi spersi nella brughiera

a sconfinare stelle fino in terra.

 

E s’avvera l’azzurro teso,

la sua pagina infinita.

 

 

 

da   Astro immemore, Prometheus, 2020

 

*

Basterà l’aria levantina

selvatica e scarna di oggi

sull’iperbole stesa del prato

 

il cielo di nubi zoomorfo

a specchiare l’incerta

profusione vegetale

 

imprimere cesura al frusto

mentre ad agresti lunari

ascendono canti alati.

 

 

*

Obbediente alla congiura dei miti celesti

dalle geometrie sassose oltre il lago

irrompe con lama tagliente

il ventoso sterminatore di foglie

piegate alla confisca dei neutrini di luce,

impone tra la dura trama grigia

spore di cielo, notazioni somiglianti

a suoni su pentagramma.

 

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Canto presente 53: Silvana Pasanisi

09 mercoledì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Canto presente, poesia contemporanea, Silvana Pasanisi

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Silvana Pasanisi

LETTERE DEL DISTURBO

Carissimo amore
figlio di un cane
scendo ora da questo pandemonio
e pensavo di invitarti a leggere qualche rima
quelle storte che non mi mandi più.
Ne ho bisogno
piccolo disturbo solido,
invenzione delle quindici del pomeriggio,
avverto la tua mano esattamente nella sua posa.
Avevi un meccanismo perfetto
conservalo
ne rivedo il ritmo
il ticchettio dell’orologio.
Mio amore d’altre letture
sono la sposa di tutte le tue mani
io
dovresti saperlo,
non ho altro sangue a disposizione
ma qualche immagine si
se vuoi.
Ti ho scritto da dov’ero
ed è qui il punto.
Non c’era arrivo e nessuna partenza,
restavamo attaccati a piccoli fiori botanici
nello stesso posto
confuso
ingrigito da piccoli alveari.
Una lettera non può arrivare cosi.
Ora qui si tratta di partire
da movimento a movimento,
siamo intesi, ci manterremo in piedi con qualche utensile
l’uno con l’altro
un tandem da piccole manifestazioni eroiche.
Ho parlato con gli amici
mi portano alla rotonda
sono cosi perfettamente sincroni.
Tu non hai mai indovinato un accordo
dio quanto eri fuori tono.
La voce però
aveva un’ infinita anima baritonale
diffusa
da Creatore.
Questa è una lettera
si scrive per un motivo,
e io devo riavvolgere un’intera pellicola,
pensa quanto tempo starò muta a riguardare le scene.
Mandami un colore
uno che parta felicemente
senza croci
senza nemmeno la minima alleanza.
Vedrò di farne qualcosa
mi rinvigorisce il pensiero
dare utilità a qualcosa già perfetto
come la somma del viola e del giallo
o il perbene di certe donne
aggraziate
Mi disturba non sentire la tua voce
era nel basso
nella tastiera
nell’orlo del mio vestito
ora è nell’anticamera del mio gelso bianco.
Ora devo andare
scusa la stanchezza
ho usato vigore e pezzi interi di alchimie
devo conservarmi per tutti gli usi
come fai tu.
In calce al foglio trovi tutto
anima
esempio
storia
presupposti
angolazioni.
Ora anche le scarpe mi sembrano appaiate.

IL DISPETTO

Questa va a memoria
per fare dispetto ai morti
va tenuta a mente
va considerata senza discrezione
Se vi pare poi
dimenticatela
o aggiustatela
mentre siete col vostro cane
Vale per tutte quelle trame non scritte
Per tutte le volte che la realtà ha sopraffatto il mezzo
l’unico mezzo che abbiamo
pieno di parole
Per mancanza di inchiostro
Pure
Per arresto cardiaco
Pure
Che strano
Pensavo di poterne salvare almeno una
di donna come me
con gli stessi vermi
con lo stomaco pieno di capoversi
con l’utero assassino
Non è andata così
Con fare recitativo
impiegate tempo ad imparare i nomi
Ma sono morte
e sono insieme
Non chiedo più alle vive
Il mio appello è alle croci
sotto tutta la terra
Rassegnatevi
Li siamo salve
Intere
A memoria
Da tenere a memoria

PIETA’ DI ME

Scusate se insisto
se mi permetto
avreste per me un aspetto di ripiego?
Si
un paio di occhi scuri come la neve
un portamento antico
a spremere fierezza sui fianchi

Come un limone sul balcone di fronte
che non si inchina più alla sua pianta
Scusate
lo so
vi sembreranno richieste fuori luogo
voi siete una platea intera
e io una
ma per sbagliare bene
devo farvi inumidire gli occhi
e ho bisogno di una forma di sostegno
che non mi pianga addosso

Scusate se insisto
tutte le bambine che sono
non fanno una donna sana

Avreste per me
Qualcosa da dire al mio posto?

ELEGIA DEL CONTRARIO

Sei più bella cosi
morta
Appariscente ma giusta
esaltata dai buoni amici
e non da te

Qui c’era un si
deve essere scappato
sulle inconsistenti nebbie dell’accondiscendenza
Ne faremo buona cenere di legna1313
per il primo fuoco

Lo vedevo quel filo che ti legava alla vita
cosi volgare
Eretico

Lascia che arrivi il finale
A chiacchierare poco
A rendere grazia
A eliminare il sospetto
Stai meglio
morta
le mani giunte e il cappello spostato sugli occhi
le lacrime arrivate fino alle ossa
il libro
diviso in piccole parti

Fottili

arrenditi prima
falli pensare

La foto in cui somigli
a quello che vorrebbero dire di te
l’ho messa sulla lapide
ho scritto con la lingua bagnata
Qui non c’è nessuno
potete piangere
nessuno vi vede

APERTURE ORDINARIE

Si apra il ramo
spuntino a modo loro le sostanze impreviste
foglie
argomenti
clave usate sotto dettatura
amori da fame
quello che ancora non è stato detto
Si chiudano i varchi appassionati
non c’è tempo
Ora che ho la tua attenzione
affacciati e segna col dito i tratti
Può funzionare
se tutto è troppo per una valigia
Da qui
in solitaria
passano isole
qualcuna forse la riconosceresti
promontori lontanissimi
non so
mi dicono siano necessari al viaggio.
Che non si dica mai
mai
che lo sguardo non arrivi al pianeta seguente
che non pratichi l’ingordigia
Oseremo chiamare per nome
una ad una
le conchiglie che portano al mare
Gli arcipelaghi no
quelli faranno di noi
esattamente quello che vogliono

LE MIE SORELLE

Le mie sorelle
sono sottili
fogli di pergamena sottili
dalle gambe fragorose di tritolo
che camminano storte
e ti silenziano il sonno
ti operano lo sguardo

Hanno un rumore di fondo
senza ombra
la loro copertura
e’ da ambiente dell’altro mondo
povero poverissimo
come un santuario chiuso
srotolano i capelli
di lunghezza impercorribile
ma loro lo sanno che cadranno
tutti
e sulle loro teste si spaccherà la luce

Sulla copertina della rivista
sembrano spettatrici casuali
iridescenti
Non credere a niente di quello che vedi
hanno rami lunghissimi e contorti
intrecciati
all’interno del libro ispido
troverai cotone da cucire
tra le cosce e le pieghe
e si svuotano le mascelle
di saliva irata

Con un intero mare al tramonto

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Canto presente 52: Anna Maria Bonfiglio

03 giovedì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Anna Maria Bonfiglio

CANTO MINIMO

Ora che la vita stride nelle ossa
ammalorate
la viola incide l’arco minimale
del canto che vorrebbe lievitare.
E l’accompagna un suono
come d’incanto
un incendio che esplode e si fa verso.

Venne sull’ala ubriaca della notte
la voglia di cantare
e fu subito festa
distesa geometria di voli
impennati all’albero più alto
un gioco pazzo
di cui t’accorgi tardi e che tradisce
segreto che ti sguscia dalle mani
prima dell’allegria, prima del sogno.

Abiti la più nuda fra le case
vesti la più impossibile menzogna
e ti fai strada chiusa
anello inciso di desideri e date
età del disincanto
stella che irradia inutili bagliori
profeta di stagioni di declino.

ASSENZA

Forse è naturale consegna
quest’assenza che nessuno reclama
l’ombra solo a me visibile
negli occhi di chi mi parla.

L’azzurro è svolato
verso cieli che ignoro
la notte è segreto
che taglia il respiro.

Ovunque, la pena.

Attendere lune chiare
fra i rami secchi del platano
mentre tu navighi altre barche
e tendi a svalutare
l’oro del mio cuscino.

Svegliarsi e sentire
la vita che torna ―
un grembo profondo
per nascere ancora.

IL TEMPO BREVE
(a Carmelo Pirrera, in memoria)

Dicemmo ci sarebbe stato tempo.
Eppure sapevamo
che alle nostre spalle
tramavano i pirati
che i giardini sarebbero sfioriti
e i campi maturato altro grano.

“Che tempo è, signore?”
“Tempo di solitudine, amico”

La pioggia di febbraio
ha sciolto il miele del tuo canto
e maggio sarà un mese come un altro
solo più lungo forse
e un po’ più solitario
senza colombe e glicini sui muri.

“Che tempo ora sarà, signore?”
“Tempo che fa più breve il nostro, amico”.

GIORNO DEI MORTI

Al mattino era la cerca agli angoli
più oscuri delle stanze ―
forse i Morti ci avrebbero premiati
entrando nella notte a piedi scalzi
o tramutati in misteriosi insetti.
La mosca, per esempio, era zio Gino ―
dieci anni ed una polmonite.

La nonna raccontava della guerra
da cui zio Raffaele tornò dopo
tanti anni dentro una teca lignea

(ombre del nostro immaginario
custoditi dai Lari della casa)

Lo scotto era salire alla collina
e pregare in ginocchio ―
mestizia a sacrificio
e per ringraziamento

Ci accompagnano ora altre assenze
brandelli scomposti della nostra vita
che un giorno ― pare ―
saranno ricomposti

nessuno sa se è vero.

IN ALTRO LUOGO
(a mio padre)

Muti d’abbracci i nostri giorni
si persero nel tempo di un respiro.
Vicini nella resa
ci prendemmo le mani
-fievoli le tue, percorse
da ingrossati rivi pallidi,
le mie rapaci, ancora a reclamare
crediti legittimi e insoluti.

E’ un’altra volta autunno
e nell’umida luce
che taglia il silenzio della stanza
torni anche tu
nella quietezza antica che mi manca.
Potessi avere almeno la certezza
di ritrovarti ad aspettarmi
-quando chiuderò per sempre la mia casa-
e insieme finalmente camminare.

L’APPARENZA

Non guardare di me l’occhio che ride
la voce fresca
o l’ilare bocca che adesca.
Nell’atlante che sfiori con le dita
non cercare le alture ardimentose
o le pianure erbose.
Esplora invece i fiumi azzurri
sotterranei che adornano
le mani, le logorate valli
i merletti dei tarli.
Quello che non appare
è l’ago che segna la scissione
fra il viaggio dell’andata
e l’inversione.

MATTUTINO

Sei tornato nel sonno
dell’ora mattutina
-piccolo dono estorto a mani avare-
e avevi sulla bocca
l’oro del tuo silenzio risolino.
Ti frugavo nel cuore con le mani
per trovare di me qualche frammento
una scaglia rimasta conficcata
nella tua carne d’uomo.

Poi ti oscurò la luce
e fu di nuovo giorno.

 

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Canto presente 51: Enrico Cerquiglini

05 domenica Set 2021

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Enrico Cerquiglini

Li vedi i colori che fanno della collina
la festa dei gabbiani? È una collina
che si alimenta ogni giorno
dei nostri sogni dismessi,
del cibo che non sazia,
delle mode ora derise,
archiviate nel ridicolo dell’anima,
dell’orgoglio d’essere
figli dell’occaso
destinati alla gloria eterna,
promessa da divinità
e mercanti del tempio.
Lo vedi il bosco delle case
come si espande sulla pianura,
sulla collina, sul pianoro
cacciando il verde variabile
di un bosco senza camere
e sale d’intrattenimento?
Lo vedi il fumo nero
che a volte oscura il sole?
È il padre della luce,
delle macchine che vanno
da sole, che vanno ovunque,
che parlano e pensano per noi.
Lo vedi quel serpente che va
rasentando la montagna
portando con sé
il colore della nostra pelle
e il pudore del corpo puliti,
tutto ciò che non osiamo mostrare.
Vedi laggiù, sempre più vicine,
nuvole di fuoco che si nutrono
di vita? Sono i nostri fiati
infernali, le nostre gole fameliche,
le nostre fantasie illogiche.
Dall’altra parte vedi le acque salire
acque salate e calde,
acque che strappano argini
e sommergono i boschi
di cemento, le strade
dei viaggiatori del nulla.

Vedi, figlio mio,
un giorno non lontano
tutta questa distruzione
sarà tua.

*
Ti scriverò un giorno una lettera,
magari in brutti versi,
per dirti in quale modo scorre il tempo
alla periferia della Storia,
in questo angolo di terra
coperto di viti, ulivi e solitudine.
Ti scriverò, senza prentendere risposta
– so che dove sei o non sei
non si è usi alla scrittura –
magari con una patina d’ironia
o con la scrittura asciutta
che preferivi all’incedere barocco
di certe confidenze infauste.
Ti scriverò per dirmi
cose che non mi son mai detto
rimandando di giorno in giorno
il conto da saldare
e le finestre da aprire
per dare aria a questo universo
di parole su carta.

*
nessuno arse con Giordano Bruno
– “quello scelerato frate domenichino de Nola” –
i più scesero a patti con gli aguzzini
con compromessi generando stirpi abiuranti
altri corsero a procurarsi fascine
per approntare il rogo per lo “heretico ostinatissimo”
ignari di eresie e di speculazioni
spinti dal desiderio di vedere tra le fiamme
“nudo e legato a un palo” un frate
da altri frati “abbruggiato vivo”
e raccontar per anni
– con nauseata soddisfazione –
testimonianza di carne umana arrostita
del dolce nauseabondo fetore
– oh l’odore del napalm al mattino
colonnello Kilgore! –

anche la mordacchia per tacitare
prima della morte lo “eretico impenitente
et ostinato” e lordarne di sangue
il volto e il cencioso vestito
da additare come cane al volgo
imprecante orante e soddisfatto
cantando “letanie”
mentre torvo disprezzava la croce
in nome della quale lo si straziava

“e così arrostito miseramente morì
andando ad annunciare io penso
a quegli altri mondi da lui immaginati
in che modo gli uomini blasfemi
ed empi sogliono essere trattati dai Romani” (Kaspar Schoppe)

e nella plebe soddisfatta
della giustizia trionfante
nuove abiure covavano
nuovi roghi nuovi strazi

*

qui la gente è triste
ha paura dei propri pensieri
rinuncia a pensare
per non rischiare di turbare
il passo solenne delle parate

qui la gente è triste e cattiva
si uniforma e non s’informa
urla sbraita maledice
ma in privato nelle sere di gala
piega le jenou e fa il baciamano
come dovuto omaggio di vassallo

qui la gente è triste cattiva e violenta
desidera il sangue nelle strade
odia la gioia che sboccia a volte
sui visi di alcuni bambini e padri
venuti da mitiche terre lontane
dove spontanei nascono i giorni

qui la gente compra il niente
per vederselo svanire tra le dita
e si nutre di un veleno dolcissimo
per morire per qualche ora
ma al risveglio ha la bocca amara
e abbaia randagia alla vita

*
Quando il sole è basso sull’orizzonte,
crescono a dismisura le ombre
di uomini piccoli piccoli.
Sembrano giganti
e sono granuli di polvere
che il sole, al ritorno, schiaccerà.

*
Allenare le parole,
domare gli ulivi,
addestrare le mani al lavoro,
rubare le briciole dalla mensa,
calpestare le foreste di simboli,
farci spiegare i nostri pensieri,
acquistare alimenti a km zero o poco più,
inquinare i torrenti di sudore,
dissetarsi con le parole della messa,
rubare la fantasia ai fanciulli,
invecchiare col cervello in mano,
dissodare i pensieri,
disboscare i desideri,
delocalizzare i cimiteri…

fatto questo puoi anche fermati
ad ammirare lo spettacolo
del tramonto dell’universo.

*
Questa è la mia terra:
aspre mani di gente che insiste
tra pietre e ulivi
a vegliare ciò che va o resta;
assetata, arida, riarsa
fino a spaccarsi d’estate
aprendo abissi d’infinito,
fino a separare radice da radice,
zolla da zolla,
prima di richiudersi
avvolgendo misteri insondabili.
Questa è la mia terra:
violenta, respingente,
dura, avara, avida di sudore,
distesa di stoppie e cardi,
di istrici, cinghiali, lupi e volpi,
di uccelli di rapina,
di inquietanti canti notturni…
Questa è la mia terra:
inclemente, spietata a volte,
senza rimorsi…
ma quando s’accende di verde,
quando gli ulivi danzano al vento,
quando la macchia respira
e tutte le voci
si fondono in un coro di secoli,
quando la quercia ti avvolge
con la densa sua ombra,
il vino ti scivola in gola
– sangue di oscure radici –,
allora, solo allora ti accorgi
che questa terra nutre
la tua vita, la tua morte
dal tempo in cui le rughe
divennero calanchi
impressi nei gesti.

*

poi sentivi sul calar della sera
ronzare le api – come una preghiera

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Canto presente 50: Enrico Marià

18 lunedì Gen 2021

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Enrico Marià, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

ENRICO MARIA’

 

Le mani tese

verso un oltre

che non posso

guardarlo negli occhi

ferita longitudinale

è la mia bocca che succhia

assi marcite, il vuoto incorniciato.

*

Le protesi

per le onde mutilate

che la boscaglia

del mare calmo

si fa spalto

a scovarmi

sangue acciaio.

*

La vasca quella

col sangue dei detenuti

e l’esistenza attesta

il male oscuro

questo desiderio

la rivincita dei corpi

il nome breve.

*

La superficie l’acqua immota

percorsa dagli animali feriti

che mai torna a casa

la complessità di questa luce.

*

I bambini

è questione

di odori buoni

di corpi caldi

amati il tempo

per il tempo

giusto per venire

un container

dove provvisorio

è il bestiame spostato.

*

Stefano è morto giovane

e io la piango ancora di nascosto

la famiglia slogata

la ricerca della colpa

e il non toccarmi mai più carne

se non treno fucile in faccia

che non voglio sia colpa tua

il ritorno di me

nel bianco del lenzuolo.

*

È il gesto che mi dice

che non so più essere

che quell’angolo incontrollabile

dove la lontananza mai raggiunta

il tempo scorso.

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Canto presente 49: Ivano Mugnaini

07 lunedì Dic 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Ivano Mugnaini, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

IVANO MUGNAINI

 

Quale amnistia?

 

Quale amnistia? Per quali peccati mortali?

È cosa da poco, in fondo, la morte, banale,

veniale o giù di lì, di sicuro scontata,

garantita come una sentenza, o un elettrodomestico

Philips con controllo illimitato di qualità.

Perché tarda allora l’indulto al vizio comico

del vivere? Qualcuno lo disse “assurdo”,

questo abuso, tale misera esuberanza, ma

fu solo mirabile tautologia.

Almeno allora uno sconto di pena alla pena

dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita,

il lusso di un carcere aperto alla speranza

della redenzione, il crimine antico di ritrovarsi

colti clamorosamente sul fatto, nel sacco entrambe

le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso,

e recidivo, di essere ancora vivi, ancora umani.

 

* * *

 

Il mondo non ha angoli

 

Ci ritroveremo, mi hai detto,

in qualche angolo del mondo.

Ma il mondo non ha angoli,

ogni punto equivale a tutti

e a nessuno, la curva del tempo,

ferro, graffio, veleno,

traccia di sogno, linea di una mano.

Ci ritroveremo, certo, e ci accorgeremo

che è gravido di altre carni, di altri

semi, il ventre del destino.

Ma ancora, tenace, avido,

partirà lo sguardo verso un lembo

di pelle, l’occhio, il collo, il braccio,

il seno, e di nuovo sarà immagine

del mondo, spazio di luce agibile,

abitabile, l’attimo in cui, ridendo,

ci diremo che non è possibile.

 

*  *  *

( poesie da La creta indocile, Oèdipus edizioni, 2018)

 

Nei tropici si deve anzitutto mantenere la calma.

Levò un indice ammonitore. Du calme, du calme. Adieu

 

J.Conrad, Cuore di tenebra

 

 

   Conradiana

 

Voi che vedete solo la misura,

dello scheletro, il calibro

delle ossa, i numeri dell’Iban

e delle estrazioni del lotto,

i grattaevinci e la polvere grigia

sul bancone dell’immensa tabaccheria,

sappiate che anche qui,

nei tropici franosi del Bel Paese

traforato come un Emmentaler

di tragiche farse

reiterate ad libitum,

perfino qui

conta e necessita

anzitutto mantenere la calma,

du calme, du calme,

e qualche attimo vitale

di tenerezza strappata all’acciaio

e al cemento

dei nostri cuori di tenebra

prima del giorno d’aprile

da sempre agognato.

 

 

*  *  *

 

 

Lui soltanto

 

Siate gentili! Tanto, alla fine,

adesso e domani,

in ogni frammento di tempo,

altro non siamo che aliti impuri

nella trama perfetta di un cielo

cieco a cui non apparteniamo,

ragni impettiti inghiottiti

da uno sbadiglio.

Siate gentili, non vi agitate,

fate conto di essere ramarri

tramortiti lungo un ripido

pendio con cui gioca un gatto

tignoso in un afoso giorno

d’estate.

Solo l’amore,

quello che non siamo e non abbiamo,

si può permettere di essere

frenetico e crudele, perché lui,

lui soltanto,

è essenziale.

 

*  *  *

 

Ipotesi

 

Che poi in fondo,

niente è cambiato;

già prima ci scrutavamo

l’un l’altro di soppiatto

la forma degli occhi, la bocca,

le mani, il colore della faccia

e delle parole e ci lavavamo

con cura le mani scordandoci

di disinfettare

il cuore.

Ci osservavamo a tradimento,

eterni stranieri in una sala

d’aspetto o sui divani

di un locale, passeggeri

sulla panchina di un tram

ognuno verso il suo deserto

o la zona rossa della sua sera.

Forse la vera sfida, a ben vedere,

non è non ammalarsi

è guarire.

     

               ( inediti da libro )

 

 

 

 

 

 

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Canto presente 48: Andrea Castrovinci Zenna

30 lunedì Nov 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Andrea Castrovinci Zenna, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

ANDREA CASTROVINCI ZENNA

 

Non così – propriamente così, come credevi

remota ipotesi non vomitarlo

tutto quel bene, “alcolico dimentico

ristoro, i suoi capelli nel castano

ondeggiamento lucevano d’oro” – e così

scindono scissi, accecano lucendo

e tu, tu, per spogliarmi così

non tu (o sì?) potresti ricompormi?

 

Sveglia da sempre in te dormivo

un non innocuo incubo d’amore.

 

*

 

Probabilmente

niente ho da dirti in aggiungere

forse in levare sarebbe ancora dire

al punto tale che tacerne è amarti.

 

*

 

Novembre sgelami dall’ansia acerba

per non averla in casa in fretta,

oltre presenze dubbie di timori;

lascia traspaia

come in lei amante

una tremenda primavera.

 

Epicedio a Romeo

 

Come chi piange e non sa ricomporsi,

così tu piangi e nulla ti conforta…

 

Ripensi a quando docile

si accoccolava tra le tue lenzuola,

tra le vesti leggere, sul tuo petto?

E nulla nel dolore ti è più abietto

che ricordare le felici cose…

Ma il tuo pensiero disperatamente

torna a quei gesti, alle gioiose fusa

svola sugli occhi, sui baffi, risente

morbido il morso (un solletico appena!)

su le punte dei piedi

quando d’inverno, tremendo e non scorso

ancora, nera la coda, il nasino,

dolce ossimoro tra il bianco dei plaid,

la carezzavi, gli smeraldi intenti.

 

Oggi entri in casa, non la trovi in giro;

di quelli il vuoto e il morso assenti, provi:

frugano gli occhi trepidi il divano

cercano invano grigia la figura.

Rubescono gli occhiucci, l’aria è tremula:

alla tua mano lesinando il pranzo

con animosa leggiadria discreta

più non si ammusa micia.

Nella tua stanza, tra lacrime chiusa,

è solo un gatto! segreta ripeti…

Ma fiele bevi riguardando foto

un tempo liete e ti avveleni a un fato

che tutte le creature fece carne

più o meno gravi o consapevoli.

 

*

 

E ti rivedo, in certi giorni grigi

tra le mie poche cose care e chiare;

come l’aliare bianco delle strigi,

impercettibile, crepuscolare.

 

*

 

Ma così biondo il mio tesoro mai

da illuminarmi ancora adolescente,

catartizzato in musica,

stordito, etilico!

Gioivi stretta al fianco mio bambino

nella solare gloria del tuo riso chiaro.

 

*

 

Bionda di grano il mio tesoro, docile

come la spiga al vento lieve; avorio

ha nelle dita cesellate e sfioro

un’altra volte te, suprema gioia.

 

 

 

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Canto presente 47: Davide Cortese

31 sabato Ott 2020

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Canto presente, Davide Cortese; poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

DAVIDE CORTESE

Mi soqquadra
il tuo sguardo.
Dice un blu
che cielo dopo cielo
è stato azzurro
e bianco nuvola
per tornare blu
fino a me.
E i miei occhi nero rondine
ti volano dentro.

*
Non siamo che reduci dal più abbagliante degli splendori.
Tutto ciò che di più saggio abbiamo detto,
noi lo abbiamo detto da bambini.
La più alta vetta dell’arte,
l’abbiamo toccata da bambini.
La gloria a cui aspiriamo da grandi,
noi l’abbiamo posseduta da piccoli:
ed era soltanto l’umile tappeto
davanti al tempio sfavillante
della nostra gioia.

*
Tra i fiocchi di neve che cadono
ce n’è sempre uno,
non visto,
che risale il cielo.
Ogni autunno ha una foglia segreta,
che rimane salda all’albero.
C’è sempre tra gli uomini
un uomo che non muore.
Egli attende
che quelli che lo conoscevano
si siano tutti spenti.
Resta acceso
a illuminare
un’eternità che non so.

*

Disfare una barchetta di carta
per scrivere sul foglio marezzato
versi che hanno sete d’avventura.
Rileggere parole migranti
che salpano per sempre lontano
muovendo con la mano un addio.

*

PRIMA DI PARTIRE PER LA NAMIBIA

Cosa cerco laggiù nel deserto
(laggiù: polvere e sole,
grembo dolce della madre nera)
che non sia già qui nel mio petto?
Cos’è che mi chiama a sé?
di chi, questa voce antica?
Da lontano e da vicino
io rispondo: “Sono qui”.
Eccomi al cospetto
del silente deserto.
Non mi nego, no, al tuo richiamo.
Io vengo a te
a camminare sulla pelle di un dio.
Non un solo granello andrà perso.
Non un solo granello.
Sul sonno della tua pelle
muovo i miei arcani passi.
Tu sei deserto se solo io sono qui.

*

Mi basta il sole, adesso
e saper vivo il tuo respiro
pensare che da qualche parte
scintilla il tuo sorriso
e c’è a vagabondare nell’aria
un atomo della tua luce.
Sei un pensiero felice.
Tu non farci caso se ti amo.

*
Ecco il corpo
con cui compio il mio destino.
La mia innocenza
ha toccato la tua innocenza.
E non siamo mai più
stati innocenti.
In noi vita e morte
nel gioco nudo
di fare l’amore.

*

Crollano l’una accanto all’altra
tutte le estati segate dalle cicale.

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Canto presente 46: Nicola Grato

06 lunedì Lug 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

NICOLA GRATO

e mia madre pregava a bassa voce
si faceva la croce ripulendo
il tagliere di legno dalle bucce
di zucchine, melanzane, cipolle;
credo sperasse in qualcuno o qualcosa,
forse anche in una povera salvezza
in una brezza fina e senza corpo
nel canto corroso del corvo nero
nelle spine in fiore del maggio pieno.

*

tra le tue cose una rosa
secca di santa Rita –
tra i medicinali scaduti
le ricevute di cambiali
gli incartamenti colorati
dei regali, biglietti
d’auguri per Pasqua e Natale
spediti da Forlì;
una rosa, povera cosa –
riposa da lungo tempo
tra le pagine gialle
di un libretto delle ore:
passita nel silenzio
nel bruno del tempo
passita povera cosa
in una giornata di giugno
afosa,
fiore devoto –
la vita dei vecchi,
al suono dei tasti
una Olivetti
nei cerchi di fumo del tempo.

*

la pazienza dell’insetto
o della pietra all’acqua
dei millenni nello sguardo
tuo al mattino;
concia di guerra e fame
di pane duro e asciutto
d’aria chiusa nel rifugio
antibombe – e i tuoi morti
teatralmente in posa
sul palcoscenico del comodino.
Chiama da un altro dove
quel marinaio fuggito
– tu attenta e sognante
sulle carte bollate,
sulle bollette pagate –
m’insegnavi pietà
per le cose perdute.

*

Peppino, nome di un ragazzo
di due secoli fa:
Palermo di miseria,
di bombe, di pane duro
e cimici: tessera annonaria –
un punto al giorno come un colpo
al cuore, gli occhiali
di tartaruga fissi sulla settimana
enigmistica. Ti ricordo senza
averti conosciuto, ventura
dei poeti: esisti nei versi,
apostolato delle vite di dura scorza,
mercede della memoria –
storia che si fa soffio di canto,
quiete di un giorno di luglio.

*

canto e accompagnamento,
tempo che dalla prima
fessura del mattino
è cammino, mungitura
fino a che scura –
ma la sera Fanuzzo
suonava la cromatica
e nessuno sa che lui esiste
che la musica la sognava
di notte e l’amava
sulla tastiera; lui è un paese,
un volo di rondini
nel maggio… Erano
primavere mesi anni
di fatica: la faccia
gialla d’una spiga non matura
se non accalda,
se non la guarda
l’occhio dritto del sole.

Testi tratti da Inventario per il macellaio, Interno Poesia Editore, 2018

*

restare qui 

la lumaca

il bambino ha schiacciato la lumaca,
lava e stende lenzuola la signora
sulla strada; qui in paese passa il tempo,
passa quello della verdura e grida
cacuocciuli chi su belli. Il bambino
la guarda la lumaca che ha schiacciato,
gli fa pena, ritorna col sorriso
di chi l’ha combinata molto seria.
Violenza è questo fare
finta che non sia successo nulla,
abbozzare, chiudere le persiane
spegnere lumi e occhi, dormire a sonno
pieno. Ma no, non è così, perché Sara
difende un’idea, quella di passeggiare
a schiena dritta e sguardo fiero
di andare a letto col cuore leggero

*

un paese, anni fa

 

gli innesti che portava

nel tascapane verde

e una lepre raminga –

tempo al tempo, luce

del cosmo in un secchio

di plastica sbiadita;

il pruno attecchì a fatica,

non il mandarino nano

dono di Enzo che se ne andava –

una spiga il ricordo,

una canzone antica

*

lettera a Nino

 

come quell’ombra scura, quel pensiero

di te e di tuo fratello, era l’estate

forse l’inverno ma ora è un pensiero

di lui al bar o in campagna, la zappa

sulla carriola a fine giornata.

Per le tempeste le donne gettavano

pezzetti di panuzzo benedetto

sui tetti, forse sperando al bello,

a un cielo terso e fino, profumata

l’aria come la manta della babba

santa nelle domeniche d’aprile.

La morte, caro Nino, è quando uno

che prima c’era al bar ora non c’è –

l’uomo col gilet da cacciatore

non ritorna più dalla passeggiata,

hai buttato la domenica quiz

ritrovata tra giornali e scartoffie.

La morte fa l’inchino, guarda dalla

buca quel vecchio pazzo che non ha

lasciato casa dopo l’alluvione;

gioca con gesso e stecca, lo prepara

bene il tiro: occhio, sponda, palla dentro –

ride il bambino al sole di novembre,

sempre canzoni alla radio al pomeriggio,

chi non c’è fa ressa nel nostro cuore,

hai le parole ma voti al silenzio

il giorno, l’ora trascorre sui nidi

sotto i balconi di rondini e cade

dove non sai. C’era tuo fratello,

vita in borgata, poi la limonata

del pomeriggio: il corno che suonava

era il segnale, tutti aspettavate

l’uomo coi baffi e col grembiale bianco,

avrebbe dato il gelato, il biscotto –

mentre accendeva l’orizzonte il faro

del porto, tanto lontana nel sole

era Palermo: acceso spento acceso,

e tuo fratello scappava nel vento.

*

domenica a Polizzi Generosa

i nati sono pochi, i morti aumentano,
Polizzi Generosa è foglie e vento –
da un bar coi fiori nuovi e le piantine
La cura di Battiato, dai saloni
Proraso e brillantina. Le persone
però quelle non ci sono, fa vuoto
il vuoto di parole nei paesi,
sui calendari il mese resta fermo,
lo scemo col vestito cerimonia
sorseggia la gazosa al tavolino,
il pomeriggio
sa di insegne antiche e di limone
e acqua per combattere calura
e sangue amaro. Ma fa male il cuore
se domani uno parte e uno muore.

*

il tramonto a Punta della suina

 A Danilo Lupo

il tramonto a Punta della suina

colora di rosso e blu sabbia e scogli:

trema di voci, conchiglie, posidonie

questo mare –

davanti alle prime luci di Gallipoli.

Qui penso a mio padre: lui che al mare

non voleva mai andare, che amava

il silenzio ciarliero dei boschi

le poste all’alba a conigli, lepri, pernici.

Ricordo quando stava lungamente

in silenzio in queste ore che le parole

non possono dire, ma le campane –

e passi incerti, ché l’ombra s’allunga

in ogni dove, e già ci sono le stelle.

 

Nicola Grato, testi inediti

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Canto presente 45: Gianpaolo Mastropasqua

27 lunedì Apr 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Gianpaolo Mastropasqua, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

GIANPAOLO MASTROPASQUA

Introduzione e poesie tratte dall’introvabile DANZAS DE AMOR Y DUENDE (Editorial Enkuadres, edizione bilingue a cura di Julio Pavanetti y Francesca Corrias – fotografia di Dana De Luca, Valencia, prefazione di Luis Miguel Rubio Domingo, 2016)

 

ANTICHISSIMO E FUTURO AMORE

Amare è fermare il rumore del tempo, distendersi, fingersi morti nell’erba di una millimetrica nascita, porgere l’orecchio alla terra per ascoltare il battito del cuore del mondo, per sentire il soffio della profezia delle primavere e il grido di tutti i dispersi, all’unisono. Rialzarsi, innalzarsi a stento come neonati con l’attinta consapevolezza negli occhi e una nuova lingua da combattimento per rubare il frammento di futuro prima che diventi annuncio di maceria. L’uomo che sopravvivrà alla storia sarà l’uomo dal linguaggio ultimo, primordiale, l’uomo che avrà attraversato l’ustione dell’epoca rimanendone marchiato e indenne. Egli fonderà una nuova lingua, rapida come le nuvole, profonda come un oceano, danzante come una danza. Un essere che è ragazzo e abisso, poesia incarnata di alfabeti estremi, destino e duende. Egli sarà pontefice dall’uno all’altro da sé. Egli sarà poesia, egli sarà poesia perché non sarà più egli, sarà risonanza universale con l’anima degli uomini che hanno l’anima. Essere in poesia è penetrare l’oltrefemmina per entrare nel suo più intimo abbacinante segreto, amandola con tutto il corpo fino a perderlo, domando la materia fisica e metafisica anche a rischio di sprofondare interamente nei suoi lidi quintessenziali, anche a costo di farsi divorare intero dalla sua fame arcaica.  Giungere dunque, dove nessun altro è giunto, per allenarsi nella sua vertigine più numinosa, nel suo limbo più inaudito. Salire, risalire folle e sacro, atleta dell’ignoto nei piani dell’esistenza, per fuoriuscire olimpico, novella di massimi sensi, dinastia di ultime labbra. Essere il suo amante assoluto per essere il definitivo amore. L’unico a cui pur dettando ordini nuovi lei obbedisce costretta nel giogo di forze, nel campo stremato delle grammatiche dove ogni silenzio è una gravidanza, dove il suo letto d’inchiostro e biancofoglio è un regno trasformante, un patto metamorfico. Divenire, attraversando quelle lande mirabili e urlanti per essere il suo strumento sonoro e corporeo, la sua lingua traducente, il suo oltrepoeta. Tu, solo nel fuoco dell’essere libero, solo non temendo di scomparire vivo o riemergere morto tra le sue spire ancestrali potrai essere, solo non temendo la solitudine o l’isolamento dalla superficie del visibile lei potrà amarti e donarti il primo verso nell’arsi di un colpo d’ali spezzate. Non ci sono altre vie, altrimenti non esiterebbe un solo istante a divorarti, abbandonarti o tradirti e scomparire per l’eternità. Io che non sono io non scrivo per gli uomini, io scrivo per gli déi.

 

GGM – Siviglia, Via Alvarez Quintero 44, Venerdì 12 dicembre 2008

 

Labbra di Maiorca

Se non fossi pura come il nettare

delle ninfe terrestri, affamata

come la luna che divora i raggi

delle notti bianche, risveglierei l’alba

in un corpo d’acque semplici,

invece tu lama nel petto vibrante

accarezzi le corde più inaudite

del vento lirico, soffi nelle vene

con le tue dita d’arpa corrente

generi pianeti, occhi felici,

passaggi celesti, furie perdute

in taciturni di sguardi audaci

e poi baci sull’anima tremula

fino al tramonto irraggiungibile

dei sensi viandanti, sei il calice

ricolmo di primavere dove attingo

foreste di notturni e sillabe verdifoglia,

sei terra o volo dove voglio distendermi

e rotolarmi poema nudo della pioggia

per addormentarmi tra le lenzuola intime

del tuo sudore, con la faccia nel raccolto

dei tuoi monti negromanti lucidi

tu dell’universo il buio.

 

Ora catalana

Facemmo sogni definitivi e volgari

come figli o feti dalle vetrate

alzammo mondi circolari, tombe

a orologeria, genocidi apparenti

con mani predisposte o pazienti

come ladri vani, con case curate

fino al furto, fino alle rate.

E il mio amore giocherà a carte

con la morte, senza barare

tra le bare, amore amore

cosa rubo se non il tuo nome?

Ci stenderemo nel fiato delle strade

nelle volte delle chiese che respirano

nella quiete catenaria, come minerali,

come michelangeli d’aria tra le arcate

tra i colori monumentali di una specie

con le finestre più nere della pece.

 

Lamento della musa innamorata

Tu non sei fatto come un poeta,

mi prendi a calci, all’angelo

hai strappato le ali, tu vivi con i falchi,

della Grecia possiedi il corpo

senza fare nulla, e il sangue selvatico

dell’impero, occidentale e furia

tu non nasci nei cimiteri impolverati

e non hai dèi, né padri, né madri

giungi dalle strade tra i sud e la polvere

ora per riposarti vieni, in battaglia

come un capriccio nel mio letto

e mi fai fuoco con la tua fame di canti

mi prepari cospargendomi di aromi

e incensi, mi fai lucida, un altare

serri le vie di fuga con il tuo corpo

a corpo, mi uccidi di bianco

per farmi rinascere, senza tregua

e danzi perché danzino i millenni

nel mio ventre, ti fai spazio, paesaggio

e pietra, campanile, cappella, guglia

tu ripeti le architetture fino a Dio

volteggiando nelle cose, fai pioggia

col tuo duende, dissemini gli antenati

con il tuo battere oscuro, entri adulto

e non hai mai avuto paura del buio

tu non parli, hai una lingua ignota

vuoi scrivermi, mi apri libro e muori dentro.

 

Benedetta

In te si chiude la giovinezza come un libro

tra le palpebre dell’ultima pagina

mentre danzi perfetta e folle

con tutte le lettere degli alfabeti

e doni la scienza inconoscibile

della profezia, a queste mani

che devono tradurre presto

o morire, perché non sono più mani

e non più sono all’altezza di colpire

la luce, nel punto estinto dove la mente

diviene colpo di coda, arto, atto.

E tu non comprendi l’amore delle pareti

perché sei la casa dell’essere

la domanda abitata da tutte le risposte

come una figlia in gravidanza che ride,

sei tu la ferita da cui nacque il mondo

tu atomica e acerba, tu sei benedetta.

 

Karmica

Tu sei la mia anima e mi tocca

vivere senza, come una tomba

che cammina, un vizio vuoto.

Tu sei il mio corpo illuminato

e ora spento, nel sudario del letto.

Vago senza pupille nell’estate autunnale

nella schizofrenia delle stagioni

come una foglia volata

tra i piedi di Dio. Dove sono

i tuoi occhi neri e le dita rituali

che mi cullavano fino all’estasi?

Nessuna creatura comprenderà mai

i tuoi cento travestimenti, il respiro,

la strage dell’amore e del dolore

a ore, in quale celeste cantano

la tua voce di violino in fiamme?

Ritorno ogni resurrezione

al cimitero, raccolgo un fiore

di vento per Amelia e attendo il bacio

marziale, quel tocco illimitato

nel punto sciolto dove giace l’uomo

il cui nome fu scritto nell’acqua.

 

(Roma, Cimitero Acattolico)

 

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Canto presente 44: Giovanni Ibello

13 lunedì Apr 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Giovanni Ibello, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

GIOVANNI IBELLO

Da “Dialoghi con Amin” (plaquette fuori commercio stampata dalle edizioni del Premio Città Fiumicino, 2018)

*

Utero incendio

Amin, il volo a trapezio dei cormorani è un alfabeto senza luna. Avrai una stella di cenere sul fianco, uno stecco di mezzaluce. Una spilla conficcata nel cuore di neve, la tua parola sarà l’inganno, la Mesopotamia dell’invisibile: uno che batte furiosamente il viola dei polsi sulla rena. Fermati, fermati primavera.

 *

La parola era il nostro Yucatan.

*

 Sonno pulviscolare

Sei smarrito nel cimitero della sete. Amin, sei solo come la sfinge. Devi scornarti con l’assoluto, con il rinoceronte nero. Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare. Notte di canicola e di antenne. Sei smarrito nel santuario delle nebbie. In un rammendo di secondi luce ti pieghi sulle ginocchia, mescoli il sangue e l’acquavite. Dicevi: “Verrà la fine, verrà… la chiromante delle ustioni.”

 

Da Turbative siderali (Terra d’Ulivi, 2017)

 

Di quello che sognavi veramente

non resta che un silenzio siderale

una lenta recessione delle stelle

in pozzanghere e filamenti d’oro,

il riverbero delle sirene accese

sui muri crepati delle case.

Così dormi, non vedi e manchi

il teatro spaziale delle ombre.

Il desiderio è l’ultimo discanto.

Ma quanti gatti si amano di notte

mentre l’acqua scanala nelle fogne.

 

*

 

Anche tu la chiami morte

questa armata silenziosa senza lume?

Questa rete di spade

incrociate sopra i corpi,

l’antilope che si ritira tra i canneti.

La preghiera del giorno: siamo muti.

Tutto si separa per venire alla luce.

 

Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora tra Napoli e Lucca come avvocato. Si occupa di privacy e diritto informatico. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative Siderali (Terra d’Ulivi edizioni, con una postfazione di Francesco Tomada). Nello stesso anno l’opera vince il “Premio internazionale di letteratura Città di Como” come Opera Prima, risulta finalista al “Premio Ponte di Legno Poesia”, al “Premio Poesia Città di Fiumicino” (come Opera Prima) e al “Premio Camaiore Proposta – Vittorio Grotti”. Il lavoro è stato recensito su diverse riviste letterarie e lit-blog italiani. È redattore della rivista «Atelier» (sezione online) e collabora con il blog di poesia della Rai di Luigia Sorrentino. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. Nel 2018 vince il “Premio Poesia Città di Fiumicino” per la sezione “opera inedita” con il poemetto “Dialoghi con Amin”. Il poemetto è stato tradotto e pubblicato in Russia nella collana “Contemporary italian poetry” diretta da Paolo Galvagni per l’editore Igor Ulangin.

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Canto presente 43: Marcello Buttazzo

03 lunedì Feb 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Marcello Buttazzo, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

MARCELLO BUTTAZZO

A te

ho donato

le mie virtù di sogno

le ansie palpitanti

la carità di suono.

Timorosa

questa luna errante

nascosta dietro coltri che non so.

Trepidante il mio cuore rosso marezzato.

A te

ho donato

le mie incertezze

le stagioni inquiete

e questo sangue imprigionato.

Benigna

questa Natura

assetata di visioni

e d’ebbrezze.

Impaziente

questa vita

che non conosco.

Sulla mia terra

c’è ancora

il tuo nome.

Il cielo

nell’azzurro

infinitamente

l’ama.

*

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Canto presente 42: Marina Marchesiello

09 giovedì Gen 2020

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Marina Marchesiello, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

MARINA MARCHESIELLO

Faccio piaghe di felicità
a tutte le mie nuove pieghe di luce.
Vedi, l’arrivare ancora ferita
sottopelle alla notte
mi aiuta;
rende ancora più liquidi
occhi ed umori e l’unto di consolazione
di avere resistito all’affronto
di un’altra luce sbagliata
del giorno senza te.
Faccio un sangue più sano
perché tu ci possa passare bene
sopra le dita.
Tu che hai le mani pulite che avevo
creduto le mie quando non sapevo
come mettere insieme le cose
che nessuno mi diceva appartenessero niente altro che all’aria del mondo
quando non si sa di essere due.
Faccio piaghe di felicità
per questo vistoso premere
del mio corpo in attesa del colpo violato.
Fossi stata più dura ai coltelli del “sento”
sarei stata la infelice vincente;
senza secernere continue albe,
queste bende di te.

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Canto presente 41: Giovanni Sepe

28 sabato Set 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Giovanni Sepe, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

GIOVANNI SEPE

Occasione

Penso alla morte come a un’ombra sola
che cade floscia tra le rose nuove,
un velo opaco sui mirtilli bruni.
penso a una voce fioca nelle vene,
lenta come una sera in solitudine
mentre la luna pullula nel cielo.
Penso alla morte e piango silenzioso.
Morire insieme al seme e ai girasoli
farebbe della morte un’occasione.

Non domandarmi il peso del mio nome
tra tanti in lettere informali brama
la calda candela.
Tu non conosci il ritmo delle ombrose
luci sul passo della voce piccola
nei vicoli stretti,
la colla che ci lega al mare aperto
sul tufo sgretolato dalla noia.
Non domandarmi un nome per le cose
di cui non ho voce.

Nutrivo l’onestà delle parole:
il peso degli accenti sulle labbra
rifrangeva la luce come un prisma.
Stelline puntiformi, intorno il buio.
Ho elettricità adesso nelle tasche
un circùito stampato: un chip,
dieci grammi di molecole.
Fumo, leggo
e ti penso, è un gioco luminoso
perderti ora.

Tu non lo sai, il tuo sonno che vegliava
l’assenza di un cuore, quanto lunghe
faceva le mie sere.
Quanto mi è caro ora tu non lo sai,
quel tempo in cui ero, io stesso, custode
di memorie future.
La giovinezza veniva in soccorso
in voci uguali a un ricordo dolce.
Della parola nata
dal tuo sonno infecondo tu non sai

Hai lasciato il disordine alle mensole
come in un giorno qualunque di giugno:
Il sale grosso dietro le stoviglie,
i biscotti umidi ormai da riporre,
dietro agli infusi con la teiera bianca,
sopra la scatola aperta dei farmaci.
C’è ancora da ordinare i pomodori,
quattro file da dieci semi ognuna
e il tuo sorriso impreciso da cogliere.
L’ aria, che tiepida arriva dal mare,
l’odore dei limoni e delle rose,
la voce rumorosa del vicino:
metterò in ordine avanti i ricordi.
E nel mio cuore lascerò il disordine

Quanto di te perdo
sarà il silenzio che incontrerò la notte,
quando il cuore avrà voglia di morire.
Il magenta sbiadito in autunno
sulla fissità rugosa del tempo
dove la speranza s’incurva su un filo di luce.
Sarà il tramonto della luna
al di là della collina,
mentre la gente s’intrattiene
per non sentirsi sola.
il battito tremulo di un fiore
acceso dal vento,
mentre chiudi i miei occhi sul tuo ricordo.
Quanto di te perdo oggi
sarà mio solo domani.

Vi dico “addio” come al migliore amico
nell’incertezza di giorni lontani.
Addio alla voce senza più rumore,
alla mia carne che vesto dell’ombra
perché la luce cerni dal silenzio
il male speso nelle mie parole.
Addio al giardino in fiore e al gelso rosso
ai lunari prolissi di ricordi.
A quanti un filo d’erba guarderanno.
Vi dico “addio”, sarò breve a morire.

Sei il miele che s’affina sulla bocca
quando pronuncio la parola buona,
quella netta, precisa del tuo nome.
Sei figlia, e madre, del mio verbo guasto,
incauto, quasi giusto, indovinato.

Sei, mentre parlo, tu quanto divieni:
più ricca o povera alle mie parole.
E taccio, e invecchia il pensiero di te.

da “Il peso della luce”, Controluna, 2018

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Canto presente 41: Anna Lamberti Bocconi

02 martedì Lug 2019

Posted by Loredana Semantica in SINE LIMINE

≈ 1 Commento

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

ANNA LAMBERTI BOCCONI

Mia giovinezza andata
nella sua qualità di bel mazzetto
regalato ogni sera
come fosse un giochetto da due lire
quei quadrati coi numeri
che mandavi su e giù con un sol dito
nella cornice di plastica
uno era vuoto e quello
determinava le mosse
per metterli tutti in fila.
Ma io avevo il buco inchiodato
tiranno maledetto ed avariato
comandava da immobile.
Io lo credevo l’anima
causa la trasparenza delle lacrime
sul fondo ultravioletto della sera.

*

Vidi due labbra fresche adolescenti
posarsi sull’orrendo volto vecchio
di un dio di morte, e tutti gli spaventi
della mia vita al fondo di uno specchio.

Udii che un desiderio e un dispiacere
sono la stessa cosa, e lo diceva
questa mia voce, e il vino nel bicchiere
era versato ma non si beveva.

*

ANNA SULLA DARSENA

Cercare la mia anima di un tempo
tra vie rifatte che non riconosco.
Solo le case sono sempre loro,
l’acqua, la riga dritta delle vie.
Io ho fatto la fine dei dinosauri:
troppo grandi, non c’era da mangiare,
schiacciati sotto una meteora, il ghiaccio
se li è portati via con sé, le ossa
là, immense nella sala di un museo.
Dico qualcosa a chi mi vuol sentire
poi vado a riguardare quel che fui,
o meglio, dove stavo quando fui.
Anche la solitudine si è estinta.

*

Non sento altro che la tua mancanza,
piccola mamma, nelle foglie tese
verso il loro orizzonte verticale
tu che racconti di bellezza e amore,
spaventi di bambina, il tuo tappeto,
persona eccezionale, madre mia
vedo soltanto che te ne sei andata
la primavera infrange ogni vetrata,
creata e discreata. Ancora esisto
se penso a te, le frange del tappeto
in piena luce, la calligrafia
che si assomiglia, che era tua ed è mia
girano testa e vento nella stanza
vortica il mondo e non è mai abbastanza,
fino a che anch’io diventerò poesia.

*

Io sono il fiore in mano
col fil di ferro in gola
quello che va nel marmo,
l’amore del tuo nome
che sussurrò bellezza
gioia, consolazione
la foto cancellata
dimenticata in acqua,
sono il pigmento rosso
che incarna la tua rosa
alta col fil di ferro
piantato nella gola.

*

Ti amo sul mio mare che lascia il mare
la vela bianca e grigia che sembra nebbia
sul sale che incrosta lento l’amo incagliato
immerso da anni e anni dentro il relitto
dal giorno livoroso della tempesta,
il fiore ombelicale che ignaro nacque
avido, amaro, errato, colmo di pianto
il fiore che viveva come un furore,
ti amo da quella gioia dimenticata
quel vecchio paradiso tinto di sangue
che non ne vuol sapere di tramontare.

*

Sogno di bere una fanta in una bocciofila
poco davanti ad una fontana che gocciola,
dopolavoro di autisti e tranvieri, domenica,
sole d’estate che avvita i suoi raggi nell’anima.
Lì piano piano potresti capire che esisto
sempre, con te, senza te, col cuore di vento,
come la linea più bella che traccia una rondine
quando nel cielo rincorre l’arte di perdere.

*

Perduta e sola con i miei due versi
da quando la parola è intelligente
imito il Sole partendo dal Niente
fianco al silenzio e fronte al grande brodo
cercando sottigliezze e gemme fine
in tutta questa fine senza fine.

 

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Canto presente 40: Massimo Botturi

08 sabato Giu 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente

≈ 3 commenti

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Canto presente, Massimo Botturi, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

MASSIMO BOTTURI

A MIA MADRE

 Quasi cadesse ancora quel filo d’erba nuova
dalla tua mano e hai appena due anni
ora che in fila, aggiusti il borsellino
per quando sarà il conto.
Le poche tue cibarie, un flit per i mosconi
galanterie portate da casa in questo uffizio
dove le giovinette sistemano scaffali
e taciturne vanno alla pesa.
Sempre attenta, io t’ho veduta in queste faccende
un soffio d’aria, versata d’innocenza sui vortici del mondo
tra le rotonde e i clacson sguaiati
luminarie, file di denti come promessa.
Ora sei china
non più al figliolo nudo dai gomiti incrostati
ma alla severità delle vene, delle ossa
di ciò che ti sorregge a fatica
senza un pianto.

QUANDO POI SMETTE DI PIOVERE

Quando poi smette di piovere, fa strano
e sembra che più niente ci sia a volare intorno.
Ti sembra d’esser mai esistito, e che le foglie
si chiamino a custodi del mondo
con le leggi
le regole non scritte che spingono le verdi
e annullano le gialle alla fine dei respiri.
È come avere te, un foglio bianco, sesso aperto
per contraddire Darwin in sette giorni solo;
è come avere letteratura, mani e bocca
volume in edizione extra lusso.
Gli occhi, ancora
come dei secchi d’acqua con dentro le tue lune
le tue mammelle poco educate
il tuo ombelico, sporgente come un pesce
alle briciole del pane.

L’UOMO ACCANTO

Quando dormo profondo allungo il corpo
come l’acqua dentro il vino
come i sogni, che odorano di more e tempesta.
Torno al Vico
a quel trasloco di San Martino, alla maestra
che m’educò all’amore per libero pensiero.
Ritorno al lume, chiuse le imposte
e al libro nuovo. Sulla credenza via dallo sporco
perché oro, sarebbe stato i giorni a venire.
Dormo e sboccio
maturo come il fiore di pero e di genziana
tra i tiri dello schioppo nel bosco e altri lamenti.
E quando dormo profondo
in altri mondi, poi getto le mie viole a ricordo;
ho calze corte, un piccolo maglione sfibrato
ma sorrido. Sì forte che del sangue poi m’esce
e mostra il segno
sul labbro un bacio pronto a venire
l’uomo accanto.

ROSSA

Là, una rosa
ha già varcato il limite imposto di un cancello;
la debole ed inutile leggina che la vuole
di proprietà a un’anziana signora.
Ma n’è nulla
ciò che la vanità scrive in calce, lei si fionda
accetta il rischio d’essere scissa;
che so io, da uno innamorato prima che torni a casa
da una ragazza mentre l’annusa
e trova pari, al seno suo lavato di fresco.
Eccola china
del peso di rugiada scolpita, come vena
varice della terra ghiaiosa
Dio inventore.

INTERMITTENZE

Questa mia stanza ha un occhio a est, piccino.
Davanti un sortilegio di foglie, a inverno coppi.
La luna ci sghignazza minuti, forse un’ora
poi gira il culo e va verso il Michigan, Milano
o una città che adesso mi scordo.
Sembra niente, ma a me vien su il magone
perché è una bella donna che sfugge, come gli anni
Allora viene in mente quando prendevo il treno
e tra una riga e l’altra di un libro salutavo
le amiche pendolari di stessa mia premura.
Nemmeno un caffè insieme;
garretti, borse, corse
e metropolitane d’ogni colore, e tram.
Mi viene anche in mente la mia morosa mora
le uscite di nascosto dal padre che dormiva
le scuse alla sorella portata per candela.
E allora penso, porca miseria, è proprio vero
son attimi che passano svelti quelli belli
ma restano che sembrano secoli, ciao amore!

 

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Canto presente 39: Pasquale Del Giudice

30 giovedì Mag 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, SINE LIMINE

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Canto presente, Pasquale Del Giudice, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

PASQUALE DEL GIUDICE

Dal corpo.

Avere un corpo, zampe e zanne, trascinare
in giro un guscio, al guinzaglio
della coscienza, un ordigno in prestito,
oscuro oggetto di studi, provvisorio
intrico, ferraglia che stride
il proprio involucro, ignorato
dall’altezza degli occhi, delle analisi sommarie
indagini sulle superfici, sui paesaggi
terrestri, dal taglio della propria
inconsapevolezza, inconsistenza conoscitiva,
dal corpo scavare il corpo della terra
concentrato di lesioni, assimilate
ferite, cancellazioni e stratificazioni
scendendo con la penna, ribaltare
il progetto degli appezzamenti, la cartina
delle proprietà, delle vene, delle strade
lasciandone emergere il risvolto,
il lavorio sotterraneo di gallerie,
funzioni, formiche, avi che trasportano briciole
ossigeno, monumenti alla debolezza di tutti,
col corpo rinvenire genealogie
verticali e parentele orizzontali,
tra ulivi bisnonni e piante neonate,
essere un corpo é non avere corpo,
l’illusione di un giorno, servire
il destino della storia e l’ordine del discorso,
avvenire nei sensi, consumare il gioco
di stare al mondo, prescritti, urbanizzati
urtando altre parti di mondo,
riproducendolo, nei fraintendimenti,
nei dialoghi della bocca e delle braccia,
desiderando il mistero di un altro corpo,
dall’enigma del proprio, esposti e difesi
nella carne, cartapesta di pori
e vespaio di cellule altrui, con cui
guerreggiare a nome di un altro,
nel solo corpo che hai e che non ti appartiene
a nome tuo e di nessuno che moltiplica i giorni,
le scuse, i passatempi per restare in piedi
tra gli altri, contro gli altri,
avere un corpo, un materasso su cui morire,
deteriorarsi, contando, misurando
parole tra sé e la propria carcassa,
oscurarsi tra le coperte, in nuovi
anfratti, pieghe, lasciando cadere sillabe,
come squame, pelli secche, cicliche mute
come distanze cadute, di pareti e mura di sé
anni, crolli, avvicinandosi alla polvere,
dal corpo sentire i gradi, il calore,
signore crudele al giuramento degli alberi,
col corpo tornarsene a casa, nell’altra gabbia,
torcendo il capo tra gli archivi,
mentre la città muove strumenti, apparecchi
macchine, motori, alla finestra
guardare la pace estiva, le cattedrali,
gli edifici, la miseria, l’asfalto,
le televisioni che parlano a vuoto, i ritagli
di giornale, le scadute politiche del mondo,
dalle vetrate degli occhi, vedere chi vince
più vicino alla morte, la vita di ognuno
una storia di commiati diretti al comune,
all’ultimo congedo, mentre si cerca
invano la particella neutra, il volto dell’altro,
il laccio, l’accordo a quella frequenza monotona
neutra, sottopelle, dove non termina il filo
e una testa, una cellula si lega all’altra,
occhi di tutti i colori, corpo di Dio,
corpo di tutti i corpi, tutto il dolore del mondo
vedere con tutti gli occhi del mondo,
soffrire la sincronia delle piaghe mentre
si diffondono, si ripetono, ognuno
portatore sano di ferite, che arreca agli altri,
disperdendo il primo trauma, dal corpo.

Ipotesi sulle aule studio.

Geometrie che si ripetono
in un’armonia predisposta di sedie
banchi e postazioni computer,
rigidità inflessibile
di architetture razionaliste
composizione minimalista,
patria di zaini, occhiali, matite
occhiate, effetti personali, segreti amori
mondo sottomarino, enorme
acquario di pesci boccheggianti, di pazzi
che parlano da soli, macchine
che borbottano in parallelo, di sottolineature
di sacrifici di parti di testo espunte dal testo,
di testi messi insieme, stuprati e riassunti
passati da una bocca all’altra, fabbrica
di impuniti travisamenti,
le aule studio rivelano l’interesse
la curiosità verso l’altro e il fastidio
l’attrazione e la repulsione del diverso
origliato nel proprio universo,
le biblioteche sono allevamenti
intensivi della specie, in cui la scrittura
passa il testimone filogenetico
mentre si gonfia e si rigonfia il palloncino
solipsistico degli scopi personali,
l’illusione dei propri obiettivi,
la prefigurazione degli esami
mettendosi alla prova
ognuno nutrito dalla benzina del suo fine,
le aule studio sono palestre di boxe
sale d’addestramento
dove ognuno si prepara alla gara
prendendo a pugni il suo sacco, il suo libro,
camere iperbariche, anticamere
d’arrivismo sociale,
in questi luoghi amo i distratti,
chi fissa un punto a caso della stanza,
chi incrocia uno sguardo fuoriuscito
dalla sua bolla d’attenzione
chi è incapace di concentrarsi su di sé,
chi si annoia di sé, chi è innamorato
della fisionomia dei corpi, del mondo
che gli passa vicinissimo nelle sue forme
e sta attento a non approfondirlo,
amante della superficie, del gusto del vedere
divinità innalzatasi a contemplare
l’ansia dei suoi figli sfiniti e contratti dal lavoro
al di sopra o al di sotto dei suoi doveri
del suo debito nei confronti della vita,
in una via di mezzo, nel possibile
tra il conosciuto e lo sconosciuto,
ognuno in attesa dell’evento, dell’impatto
effettivo, eterno riscaldamento
nelle aule studio si fanno ipotesi sui freni
sulla tenuta del motore, officine
in cui si eseguono rituali, prove
sulle gomme, crash test, cercando di coprire
e prevedere le domande, di mangiare
l’intera torta del programma
in vista dell’esame che forse non si terrà mai,
studiare per un esame è un esercizio chirurgico,
un’ossessione della prestazione,
leggere è guidare a caso per le strade del mondo,
conoscere cose per il piacere di farlo,
nelle ore o nei giorni di festa
le aule studio sono ospedali senza pazienti
reparti dormienti, letti vuoti, corridoi spenti.

Volti prismatici di un mocio.

Polipo addomesticato, sbattuto sulla pietra
sulle superfici di casa,
piste d’atterraggio o da pattinaggio
per curling amatoriali
per parrucche di treccine idroassorbenti,
scettro delle signore di casa
migliore amico, fucile delle casalinghe,
alghe redivive a contatto con l’acqua,
teste schiantate da un battiscopa all’altro
maltrattate da donne frustrate, sottomesse
alla gerarchia patriarcale
allo scazzo di badare a figli, mariti e amanti,
futuro strumento di rivolta,
arma con la quale i lavoratori domestici
otterranno l’indipendenza,
un mocio è una lattuga dalla facile usura
un sommozzatore col fiatone
un ragazzetto bullizzato
col cranio nel cesso, torturato,
immerso e strizzato più volte;
dovremmo lasciarlo prosperare
nel suo secchio specifico, in ammollo
come una creatura marina
una medusa di listarelle nel suo acquario,
senza farlo disidratare,
imputridire nel lercio del passato,
ogni tanto versando dell’acqua fresca
della vita nuova o del detersivo
come forma di premio, come dental stick,
come dessert, come bevanda
analcolica bluastra allucinogena,
il mocio è un regalo, un prestito di Zeus
alle faccende domestiche
ballerino provetto, come tutti
inizia a perdere pezzi, a puzzare di marcio,
a soffrire di calvizie, lasciando in giro
ciocche, parti di chioma,
la sua arte è trattenere il fiato
la giusta misura d’acqua
per affrontare le insenature, i rischi
e le strettoie quotidiane della vita,
sapendosi sporcare e ripulire,
rimettendosi nuovamente in gioco;
uno e molteplice, questo straccio sofisticato
è un esemplare di Komondor
tenuto in un angolo o in un ripostiglio
dal temperamento notoriamente
equilibrato, affettuoso, indipendente
gentile e tranquillo, rasta con asta
un mocio non è altro che un omaggio
divino alla testa danzante di Rud Gullit.

La manutenzione.

Sono vivo, un cantiere aperto,
una macchina usata, un mostro precario
civilizzato, puntualmente i peli mi rispuntano sul viso,
il sebo si accumula nei pori,
il mondo è la criniera di un cavallo,
ogni cosa necessita di manutenzione e del suo stalliere,
della sua lametta e del suo giardiniere,
di revisioni, di versioni, di una controllatina
ai freni, alla tenuta dei bulloni
la vegetazione, le unghie ricrescono, la pelle decade,
ciclicamente sono necessarie
radiografie, controlli delle pompe
del sistema e del livello di putrefazione raggiunto,
è opportuno ridurre ad ordine umano
la matematica delle sterpaglie,
più cresci più muori, più muori più cadi a pezzi,
più perdi illusioni, più i tuoi gesti
si sommano negli errori degli anni,
hanno avuto incidenza, hanno ferito e perdonato,
hanno deluso e smentito se stessi,
esposta alle intemperie e alla consunzione del tempo
la vita è un cadavere sezionato
dunque le cose muoiono con gusto
e ogni giorno implica lo sforzo
di tenere a bada il loro disfacimento,
la loro fuga, la loro tentata ribellione
rimandando la loro fine,
ritinteggiando le porte e i capelli, le pareti,
la manutenzione tiene sveglio il mondo
il suo bisogno di cure, morte che ci tiene in piedi,
che stimola, smuove a mettere in ordine la stanza
a usare il tempo nel migliore
o nel peggiore dei modi, sperperando
quello che resta in affronto al tempo
e a se stessi, costantemente ridare senso
dove si era dato senso, nei rapporti sociali
nei propri spazi, nel cassetto
delle delusioni, opponendosi alla forza
centrifuga che mette in moto la macabra pantomima,
bisogna immaginare Sisifo barbiere,
crollare è darla vinta alle liane, alle piante rampicanti
quando ti sommergono i piatti da lavare,
quando la tua casa si arrende
alla forza riassorbente dell’edera
e del muschio, delle erbe infestanti, dei nidi di ragno,
dei topi, delle formiche, dei rifiuti dei passanti.

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Canto presente 38: Alfonso Ravazzano

23 giovedì Mag 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA, SINE LIMINE

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Alfonso Ravazzano, Canto presente, poesia

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

ALFONSO RAVAZZANO

LA GRAMMATURA DELL’INCERTO

Prendevi in prestito
i respiri che mostravano
coraggio e che io cercavo
in ogni luogo di confine.
La tua gola piena di tubi
mi ricordava il gesto del subacqueo
quando mira ai pesci.

 

Non è tanto sparire allontanarsi
è rimanere aggrappati a noi stessi.
Io e tutte le mie assenze
abbiamo il peso del buio
la grammatura dell’incerto
il sapore di un miscuglio
già bevuto.

 

Parlare di chiodi, di attese
una mano a martello
e lo sguardo disfatto.
Tu che il sonno lo inventi
pensa a salvarti ad essere
là dove potresti rinascere.

 

Il senso delle parole è in una foto che guardo
da una montagna di tormenti, descrive l’esercizio
della fatica silenziosa, quella che spinge l’aria
verso luoghi che non abbiamo abitato e nel disegno
dello sguardo la descrizione di un salto infinito.

 

I pesci hanno tanto coraggio e non si aspettano niente.
Ti avevo chiesto un bacio ma tu tardavi a morire
mentre l’amo feriva l’acqua senza averne paura.

 

Nutrire ogni forma di delirio
la mano aggiunge acqua alla sete
e il freddo è una coperta di sogni
si riesce a sentirne il calore da fuori
possibile sfidare le superfici isteriche
quando sdraiati si resta più deboli
cosa sono le cosidette assenze
se non tornano i conti e le somme
può servire adagiarsi su uno strato di pelle
quello più vicino alla luce in un fiato.

 

Ogni volta che muori
la dismisura del viaggio
fra il tuo allontanarsi
e il mio divenire – verifica
l’attimo in cui suggerivi
di comprendermi.
Dentro a questa geografia
dello smarrimento – regni
un poco risparmiata e cupa.
Ogni sillaba che costruisce
il tuo nome genera altri mondi
altre incomprensioni o incertezze.
Rivedo la tua mano dettare
in un foglio scarabocchiato
disegni visibili e necessari.
Tu m’abbandonasti al confine
imperturbabile di una città
che non avremmo mai conosciuto.

 

Guarda i miei occhi le tue debolezze
fissami pure potremmo incontrarci
Il male che mi porgi è la geometria dei vinti
sono per quello che respiri anche se non saprai dimenticarlo
Io prendo coraggio dal tuo labbro quello che bacia
la fisionomia del sangue.
Aprimi succhiando l’aria che non dovrò respirare.

 

La respirazione è un talento
la somma dei rami tagliati
la voce matura dei passeri
e altre direzioni di volo
è tutto nelle radici di un acero
la variante dell’ossigeno
raggiunta la trachea
sentirai soltanto un soffio d’aria
sei troppi movimenti e linee
per sparire.

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Canto presente 37: Fernanda Ferraresso

05 martedì Mar 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Fernanda Ferraresso

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

FERNANDA FERRARESSO

STUPIDA, STUPIDA!

Sono stupida
ho più di trent’anni
e mi tengo un pugnale
nella testa un dolore di lama piantato dentro il cervello e
non penso ad altro. Niente altro che .
Non ho visto. Non ho visto che il viaggio. Non so altro.

La mia vita?
Rotta. La mia vita si è aperta oltre un campo.
Non ho testa io
ho un secchio bucato
dove butto le parole da sciacquare
le orme dei piedi la testa di chi con la lingua
fa esercizi per massacrare.
Io
sono stupida sì sono stupida mi perdo
sull’attenti per ore e ore in cerca di un nome che non c’è

lascio tutto di me ogni cosa non so più chi sono io
curo la vita le forme dove la vita dentro mi richiude il silenzio.
E perdo i denti io e i capelli e mi rompono le ossa delle braccia
ho perso la voglia di vivere io
la libido la espello come la voce di un fringuello
e ho desiderio io
desiderio di toccare ogni cosa sentirla nel ventre e dentro i polpastrelli
nella gola un fiato di vento e un trifoglio da mangiare.
E il pensiero lo taglio col filo di ferro è solo
una vecchia voce scialba uno sguardo
che non guarda sotto la cenere che ora è dovunque
sparsa la luce a terra che dentro ci salta con tutte le chiavi di ogni porta
e il luogo è quel dove
dove tutto cambia per restare sempre uguale.

E i vinti?

Sono un’isola che non ha futuro
un immobile equinozio
una scena senza soglia un confine
oltre tutte le città che pigramente ospitano una vita scolpita
a suon di parole di muffa nel vuoto delle case
nei gessi dei corpi di gente senza identità.
Ma niente si trova niente ha più una notazione.
E rifiuti su rifiuti è cresciuta una montagna di menzogne
un plastico rifiuto a vivere tutte le stagioni
l’interno del nero noi quel sacco di pattume
orlando immobili il drappello delle tracce randage di quei nomi
perse tra le baracche tra i fantasmi e altri sguinzagliati suoni di sirene e cani
che fiutano tra ombre l’orma di corpi senza più padrone.

Dove non si riconosce ancora il mondo?

Le parole battezzano soltanto i nostri vuoti
e gli occhi scorrono oltre i pensieri.

Dove si cerca ancora il mondo?

Dentro un sacco di plastica
l’altra sera un feto era un’isola
una curva dentro la corrente
una parola certa dentro la nostra morte.

E MI RICORDO

mi ricordo
come te lo gridavo da un posto piccolo
perso in fondo a me stessa fino a dove stavi tu
che non sapevo mai dove stavi
tu eri mia madre ed eri lontana oltre i confini della mia terra
così cantavo mi cantavo tutto quello che solo io potevo vedere
stavo aperta come un libro dentro la mia testa e aveva un sole
a tutte le ore dentro la mia voglia
anche quando dicevano che avevo troppa fantasia
e che non sarei mai stata abbastanza accondiscendente
che non avrei ceduto facilmente anche se volevano
spaccarmi la luce dentro regole che non erano niente
io cantavo
mi cantavo senza pensare che non portasse a niente
che inutilmente avrei girovagato attorno ai confini che sentivo
sempre più labili dentro un corpo che mi abitava e
non era solo le mie gambe le mani o il cervello era
una specie di canzone che mi teneva in vita e ancora
continua a farlo quando ti perdo
e non sento che quel ricordo venirmi incontro.

NEI GIORNI SUCCESSIVI

non fui capace di trovare uno specchio
d’acqua pulita non riuscii a vedere una faccia né il mio
volto di limo che quasi non sentivo più
come se l’aria intorno fosse la precisa mole della sua inconsistenza
e gli occhi fossero due vuoti
annodati al fondo e consumato lo sguardo fosse
casa di abbandono.
Mi fermavo ad ogni parola
che mi suonava nella testa come straniera
ora che non avevo nessuno con cui barattarla
nessuno
tranne me stessa e tacendo le parole
scorrevano nella mente come in un letto vuoto e l’ignoranza
si scopriva come un alito di desiderio scopre il desiderio stesso
maturando i suoi acerbi pensieri da una creta corrotta
ne faceva materia scomposta e impalpabile.
Mi guardavo intorno e vedevo corpi
d’ogni specie erbe e piante
decapitate forme animali recisi dal busto
nullo il mio sguardo
poteva raccoglierne la primitiva forma l’involucro osceno
di tutto quel mondo che dicevamo ci avesse nutrito prima, ora
poteva chiamarsi in qualunque modo ma non
natura, non terra la nostra
furia d’essere creato e creatore in un contatore nucleare
inoppugnabile aveva esploso quella verità e in questa
vitrea vita terrena fatta a pezzi
ora esponeva i ludici cadaveri del suo scempio.
Grande e madre la Terra offriva ancoraggio
a tutti quegli esseri viventi ancora
in qualche modo partecipi di un ciclo di cui ciascuno
piccola infima parte chiudeva il complemento necessario affinché
anche nella morte il ciclo si evolvesse fino in fondo. Ombre e segni
di altri selvaggi mi spingevano a scegliere
il silenzio.

Che scendesse si avviluppasse profondo
tra ciò che restava e si facesse l’essenziale
forma di un’altra espressione consapevole di quel giorno
ancora in piedi su tanta catastrofe umana.
Non ho più parole ora
depongo i miei sassi nel ventre ammutolito del tempo.
Gli uomini non gridano
non guardano, non più
ci sono voci che sfiorano l’orlo.
Di un giorno qualsiasi è l’andare e venire della luce.
Tutto questo silenzio è un tuono nuovo
nell’identico andare
al fondo della notte e in cima al precipizio.


RICORDO IL MIO PRIMO

il mio primo respiro
ha disegnato profondo
tutto il mondo
un piano universo
un cielo aperto
foreste e selve
un mare di ginestre
gialle tempeste le messi festive rondini tardive
noccioli e querceti profumi essenziali
nodi di temperature valloni di echi
indissolubile mi ha legato
tra le sponde della morte e nella vita
mi ha scandita in una lingua tersa
attraverso ogni giornata

testi tratti da “L’inventario” di Fernanda Ferraresso

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