Grandi donne: Frida Kahlo

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Frida Kalho, una donna e una biografia affascinanti, come un romanzo. Una forte personalità espressa non soltanto nei tratti del viso e dei suoi dipinti, ma nell’ immagine offerta di sé, nella sua arte e nelle scelte.

Ciò che mi preme mettere in luce includendo Frida Kahlo tra le grandi donne di questa rubrica, che è anche il motivo per il quale l’ho scelta, è la sua capacità di trasformare una vita segnata dalla disgrazia in successo, di fare dell’arte il catalizzatore d’ogni nevrosi, risolvendo in essa ogni tribolazione, non tanto per calcolo o ricerca di gloria, ma per necessità. Il modo cioè in cui si manifesta spesso un’autentica vocazione all’arte.

Nacque nel 1907 a Coyocan in Messico, dove morì 47 anni dopo. Il padre di Frida, Guillermo, era un ebreo di origine ungherese emigrato in Messico a diciannove anni, che, dopo aver svolto vari mestieri, divenne fotografo e probabilmente trasmise a Frida il suo amore per l’arte, l’espressione artistica e l’inquadratura fotografica. La madre messicana regala a Frida il fascino bruno e latino, le sopracciglia folte convergenti sulla cima del naso e quel velo di baffetti che Frida esibiva invece di nascondere, giocando anche a vestire con abiti da uomo il suo corpo sottile androgino. L’effetto di questo travestimento produce un risultato, misterioso e attraente come testimoniano alcune foto.

Guillermo Kahlo, Frida in Men’s Clothing, 1926

Guillermo Kahlo, Frida in abbigliamento maschile, 1926

L’evento più significativo della giovinezza di Frida fu un grave incidente per uno scontro tra un tram e il pullman sul quale lei viaggiava col fidanzato Alejandro. Era il 1925. L’investimento ebbe sul corpo di Frida effetti devastanti. Riportò la frattura della colonna vertebrale in tre punti, del bacino in tre parti, undici fratture alla gamba sinistra, lo schiacciamento del piede destro, un corrimano del pullman le attraversò il ventre da parte a parte. Subì innumerevoli interventi chirurgici e dovette trascorrere anni a riposo a letto, con un busto di gesso. Una volta in piedi riuscì a camminare, ma dovette sopportare i dolori conseguenti all’incidente per tutta la vita, oltre a non poter avere figli. Fu proprio durante questo periodo di convalescenza che cominciò a dipingere. La famiglia per agevolarla le comprò dei colori e un particolare letto a baldacchino con specchio sul soffitto che le permetteva di specchiarsi. Dipingeva autoritratti nei quali era ben rappresentata con vividezza di colori e incisività delle linee la sofferenza del corpo martoriato.

Scopertasi artista per via della sofferenza, una volta che si riprese dal trauma pensò di sottoporre le sue opere al vaglio di Diego Rivera, famoso pittore messicano per averne un parere. Frequentandosi Diego e Frida si innamorarono l’uno dell’altra e Diego introdusse la sua amata nell’ambiente culturale messicano e politico comunista. Questa coppia d’artisti formerà fino alla morte di Frida un singolare e discusso connubio, vissuto tutto a loro modo, nell’autonomia reciproca (vivevano in case separate collegate da un ponte), nei frequenti tradimenti di Diego ai quali corrispondevano gli innamoramenti di Frida con coinvolgimento anche erotico (e pare anche sessuale) per donne autodeterminate, forti e indipendenti come Tina Modotti la cantante Chavela Vargas e per uomini tra i quali Lev Trotsky  e Andrè Breton.

Le tensioni  con Diego giunsero al culmine quando lui tradì Frida  con la sorella di lei  Cristina. Frida pretese il divorzio, ma appena un anno dopo Diego e Frida si riavvicinarono. Lui alto imponente e corpulento appare nelle foto che li ritraggono insieme massiccio e predominante rispetto a Frida snella e piccola. Eppure lui amava di lei proprio questo aspetto androgino e sottile e lei in lui quella carnalità prorompente che riempie.

Nickolas Muray, Diego e Frida, 1939.

Nickolas Muray, Diego e Frida, 1939.

Frida seguì per tutta la vita la sua passione per la pittura, per Diego, per il comunismo e il folclore messicano. Si raffigurava nei suoi piccoli autoritratti (prediligeva il formato 30×37) vestita con gli sgargianti colori degli abiti tradizionali. Famose le sue acconciature complicate di trecce e fiori nei capelli, collane e bigiotteria appariscente. Viene raccontata come una donna piena di vita, intelligente, allegra, che amava alcool, droga e sigarette, feste con gli amici.

Oggetto dei suoi quadri sarà soprattutto se stessa, dirà che ciò avviene perché, trascorrendo molto tempo da sola, è il soggetto che conosce meglio. Osservare i suoi dipinti significa penetrare il vissuto e complesso mondo dell’artista, dall’infanzia all’incidente che la segnò per la vita,  dall’amore per Diego ai tormenti del corpo, dal dolore per l’aborto subito all’attenzione per le istanze sociali del suo popolo. Frida nei suoi quadri rappresenta i suoi capelli, i suoi peli e cuore, le sue viscere esposte, la colonna spezzata che sostiene il suo busto. Per inquadrare la sua opera si è parlato di simbolismo e di surrealismo, e dapprima Frida sembrò accogliere questo accostamento, definendo il surrealismo come l’espressione artistica che fa aprire l’armadio dove a sorpresa si trova un leone invece delle previste camicie. Poi lo rinnego` affermando “credevano dipingessi i miei sogni e invece ho sempre dipinto la mia realtà” .

Frida Kahlo, Le due Fride, 1939

Frida Kahlo, Le due Fride, 1939

Nel 1953 il Messico le dedicò una mostra alla quale poté partecipare su un letto a baldacchino, trasportata sul luogo in ambulanza. Un anno dopo morì, alcuni dicono per l’abuso di farmaci, altri per un’embolia polmonare. Aveva appena quarantasette anni. Oggi è la più famosa pittrice messicana, popolare in tutto il mondo. Della sua pittura diceva «La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno. Dipingo sempre quello che mi passa per la testa, senza altre considerazioni.»

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Cosa ho avuto dall’acqua, 1938, Frida Kahlo

 

Prisma lirico 13: Bertolt Brecht – Mario Sironi – Auguste Rodin

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Nell’ ambito della rubrica  Prisma lirico, oggi propongo la profonda poesia di Bertolt Brecht e le intense opere di  Mario Sironi e Auguste Rodin

mario sironi paesaggio 1952 tre cime di lavaredo

Mario Sironi, Paesaggio, 1952

Nei tempi oscuri

Non si dirà: quando il noce si scuoteva nel vento
ma: quando l’imbianchino calpestava i lavoratori.
Non si dirà: quando il bambino faceva saltare il ciottolo piatto
sulla rapida del fiume
ma: quando si preparavano le grandi guerre.
Non si dirà: quando la donna entrò nella stanza
ma: quando le grandi potenze si allearono contro i lavoratori.
Tuttavia non si dirà: i tempi erano oscuri
ma: perché i loro poeti hanno taciuto?

Bertolt Brecht trad. Roberto Fertonani

The_Thinker_Musee_Rodin

Auguste Rodin, “Il pensatore”, particolare

Di innoxiussThinking at Hell’s gate, CC BY 2.0, Collegamento

Testo: Bertolt Brecht, da “Poesie” Einaudi, 1992
Opere:
Mario Sironi, “Paesaggio” ( tre cime di Lavaredo), 1952
Auguste Rodin,  “Il pensatore”, particolare

Punti di vista 3: La Scuola di Atene

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In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.

Oggi analizziamo La Scuola di Atene di Raffaello.

La Scuola di Atene è un affresco (770×500 cm circa) di Raffaello Sanzio, databile al 1509-1511 ed è situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane” che si trovano all’interno dei Musei Vaticani. Rappresenta una delle opere pittoriche più importanti della Città del Vaticano, visitabile all’interno del percorso.

Dopo l’insediamento, papa Giulio II, manifestò il desiderio di non utilizzare gli appartamenti del suo predecessore, Alessandro VI, decorati dal Pinturicchio. Per il nuovo appartamento scelse ambienti al piano superiore dei palazzi vaticani, in seguito noti come Stanze, di cui si progetta in un primo tempo la decorazione dei soffitti, ad opera di un gruppo di pittori provenienti da varie regioni italiane: il Perugino, il Sodoma, Baldassarre Peruzzi, il Bramantino, Lorenzo Lotto e il tedesco Johannes Ruysch. A partire dal 1508 ad essi si aggiunge Raffaello, che comincia a lavorare nella Stanza della Segnatura con il Sodoma e Ruysch.  Colpito dalle prove del pittore urbinate, il papa decise di affidargli l’intera decorazione degli appartamenti. Nel soffitto il Sanzio dipinge le personificazioni della Teologia, della Filosofia, della Poesia e della Giurisprudenza entro tondi che sovrastano le lunette delle pareti mentre in scomparti angolari raffigura l’Astronomia, il Giudizio di Salomone, il Peccato dei Progenitori e Apollo e Marsia. Il fatto che fosse ripreso lo schema decorativo tradizionale delle biblioteche medievali e rinascimentali, che ne rispecchiano l’ordinamento in “facoltà” ha fatto pensare che l’ambiente fosse originariamente destinato a ospitare la biblioteca privata del pontefice, anche se non vi sono documenti in tal senso. La decorazione pittorica si avviò dalla volta, per proseguire alla parete est, dove venne raffigurata la Disputa del Sacramento e a quella ovest della Scuola di Atene. Raffaello e i suoi aiuti vi attesero dal 1509 al 1510.

Non è chiaro quanto fu frutto della fantasia e della cultura dell’artista, pienamente inserito  nell’ambiente colto della curia romana e quanto venne invece dettato dal papa e dai suoi teologi. Durante il sacco di Roma gli affreschi della Stanza della Segnatura subirono danni dai soldati luterani che accesero fuochi, il cui fumo danneggiò gli affreschi e vi tracciarono scritte sulla fascia basamentale che vennero coperte da ridipinture seicentesche. Del dipinto esistono vari studi preparatori superstiti.

L’affresco, inquadrato da un arco dipinto, rappresenta i più celebri filosofi e matematici dell’antichità intenti a dialogare tra loro, all’interno di un edificio ancora incompiuto di grandiose proporzioni, ispirato a esempi tardo-antichi e ai progetti di Bramante per il nuovo San Pietro. Una larga scalinata taglia l’intera scena, al centro è raffigurata una coppia di figure che conversano, identificate in Platone e Aristotele. Una sorta di vasto proscenio favorisce la dinamica articolazione dei gruppi in cui è rispettata la gerarchia simbolica senza tuttavia alterare l’effetto di naturalità della rappresentazione. Le cinquantotto figure presenti nell’affresco hanno sempre sollecitato gli studiosi circa la loro identificazione. Nei volti di alcuni filosofi sono stati riconosciuti i lineamenti di artisti contemporanei: Euclide ha le sembianze di Bramante, Platone quelle di Leonardo, Eraclito quelle di Michelangelo. Raffaello stesso si è ritratto insieme al Sodoma all’estremità destra della lunetta. La presenza di così tanti pensatori di varie epoche evidenzia lo sforzo di arrivare alla conoscenza, alla ricerca razionale, comune a tutta la filosofia antica. Tale rappresentazione è complementare al dipinto della Disputa del Sacramento sulla parete opposta, dove si esaltano la fede e la teologia. I due dipinti rappresentano così la cultura classica e la cultura cristiana. Nel tempo l’opera di Raffaello ha sollecitato innumerevoli interpretazioni: è stata intesa come una raffigurazione della storia del pensiero antico dalle sue origini o anche una rappresentazione delle sette arti liberali con in primo piano, da sinistra la grammatica, l’aritmetica e la musica, a destra la geometria e l’astronomia, e in cima alla scalinata la retorica e la dialettica. L’uomo domina la realtà, grazie alle sue facoltà intellettive, ponendosi al centro dell’universo, in una linea di continuità fra l’antichità classica e il cristianesimo. Nei pilastri che fanno da sfondo alla gradinata su cui si trovano i filosofi, sono collocate due statue, entrambe riprese da modelli classici: Apollo con la lira a sinistra e Minerva a destra, con l’elmo, la lancia e lo scudo con la testa di Medusa. Sotto Apollo si trovano una Lotta di ignudi e un Tritone che rapisce una nereide. Sotto Minerva si vedono invece figure di più difficile interpretazione, tra cui una donna seduta vicino alla ruota dello zodiaco e una lotta tra un uomo e un bovino. Nei medaglioni sotto la cupola sono raffigurati due bassorilievi. Una rappresentazione prospettica così complessa lascia pensare che Raffaello si sia avvalso di uno specialista, forse Bastiano da Sangallo o come riporta Vasari, lo stesso Bramante. È noto però che una delle specialità del Sanzio fosse proprio la prospettiva. Platone, raffigurato con il volto di Leonardo da Vinci, regge il Timeo e solleva il dito verso l’alto a indicare il Bene; Aristotele invece, il cui volto sembra essere quello del maestro di prospettive Bastiano da Sangallo, regge l’Etica Nicomachea e distende il braccio destro per indicare il processo opposto a quello indicato da Platone, ovvero il ritorno dal mondo intellegibile al mondo sensibile. Nella raffigurazione dei due filosofi è stato visto anche un parallelismo con i due apostoli Pietro e Paolo. Tra i filosofi rappresentati alcuni sono chiaramente riconoscibili mentre di altri l’identità è più controversa. A sinistra di Platone, con una tunica verde si trova Socrate, tra i giovani davanti a lui si sono riconosciuti Alcibiade o Alessandro Magno, Senofonte ed Eschine. All’estrema sinistra, Zenone di Cizio vicino a un fanciullo, che regge il libro letto secondo alcuni da Epicuro incoronato da pampini di vite. Pitagora è seduto più avanti, in primo piano, mentre legge un grosso libro. Dietro di lui Averroè col turbante, che si china verso di lui, e un vecchio che prende appunti, identificato con Boezio o Anassimandro o Senocrate o Aristosseno o ancora Empedocle. Davanti si trovano un giovane in piedi di controversa identificazione, Parmenide o Aristosseno. Verso il centro Eraclito, isolato, poggia il gomito su un grande blocco. Il personaggio sulla sinistra, di fianco a Parmenide vestito di bianco e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è probabilmente Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino e nipote del papa Giulio II.

Negli ultimi anni si è identificata questa figura con Ipazia, matematica di Alessandria d’Egitto del IV-V secolo. Nel gruppo di destra è rappresentato Zoroastro mentre tiene in mano un globo celeste, in quanto ritenuto fondatore dell’Astronomia. Il gruppo a destra di Aristotele è di difficile interpretazione. L’uomo vestito di rosso potrebbe essere Plotino, al centro sdraiato sui gradini c’è Diogene. In primo piano si trova un gruppo centrato su Euclide (o di Archimede), in ogni caso la figura è raffigurata con le sembianze del Bramante, intento a enucleare un teorema tracciando figure geometriche. I decori sulla sua tunica sono stati interpretati come la firma di Raffaello,”RVSM”: “Raphaël Urbinas Sua Manu” e forse la data MDVIIII. Dietro di lui, l’uomo che dà le spalle allo spettatore e regge un globo è Claudio Tolomeo. Davanti a lui si trova un uomo barbuto, forse Zoroastro, e dietro due personaggi di profilo, in vesti contemporanee, Raffaello stesso e l’amico e collega Sodoma. La collocazione degli artisti nell’affresco dimostra la consapevole e orgogliosa affermazione della dignità intellettuale dell’operare artistico, secondo lo spirito tipicamente rinascimentale.

Deborah Mega

PUNTI DI VISTA 2: Danae

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In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.

Oggi analizziamo Danae di Gustav Klimt.

Realizzato tra il 1907 e il 1908, è di piccole dimensioni (77 x 83 cm) e si trova a Vienna alla Galerie Würthle.

Il mito di Danae, figlia di Acrisio e madre di Perseo, che Zeus amò sotto forma di pioggia d’oro, è un tema trattato da diversi artisti: Correggio, Tiziano, Artemisia Gentileschi, Rembrandt, Rodin. Anche Klimt, uno dei fondatori della Secessione viennese, la scuola austriaca dell’Art Nouveau, l’ha utilizzato, in modo però molto originale: la rappresentazione coglie il momento del concepimento di Perseo. Il ricordo del mito e di qualsiasi elemento narrativo è quasi del tutto cancellato mentre compaiono nel quadro il motivo della fertilità, tipico dello Jugendstil e l’ossessione klimtiana di una sessualità esclusivamente femminile. Le forme, i colori e gli elementi curvilinei presenti, insieme agli elementi decorativi tratti dalla cultura bizantina, sono ulteriormente accentuati dalla cromaticità dell’oro, dalla pioggia d’oro che scivola nel corpo di Danae, rappresentata rannicchiata  in posizione fetale e avvolta in modo circolare, con forme tondeggianti che rimandano al tema della maternità e fertilità.

Il personaggio mitologico è trasportato ai nostri giorni per effetto di un velo orientaleggiante e di una calza di seta appesa alla caviglia.

La donna rappresenta un esempio di femminilità completamente autonoma e di desiderio solipsistico che si autosoddisfa.  Il viso reclinato e incorniciato dai lunghi capelli rossi, la bocca socchiusa e la contrazione della mano destra di Danae, sembrano descrivere il momento dell’estasi. La stessa nudità diventa elemento decorativo e così la borghesia e l’aristocrazia viennese accettarono questi  nudi perchè emergevano da sfondi colorati di oro e d’azzurro, trasmettendo l’impressione di una bellezza rigogliosa, di una ricchezza sconfinata, caratteristiche ricorrenti in tutte le opere di Klimt. L’ornamentazione del corpo e lo stile decorativo provocano distanza dall’osservatore; come in molte altre sue opere la dimensione onirica avvolge il personaggio e consente di rappresentare Danae dimentica di tutto e sprofondata nel suo mondo irreale, tanto da divenire icona del narcisismo femminile. L’elemento maschile, pure presente, appare cifrato e ridotto al simbolo astratto del rettangolo nero in basso a sinistra che fluisce tra la pioggia d’oro.

Deborah Mega

 

PUNTI DI VISTA 1: Ritratto dei coniugi Arnolfini

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In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.

Oggi analizziamo il Ritratto dei coniugi Arnolfini del pittore Jan van Eyck, uno dei dipinti ad olio più famosi al mondo.

Realizzato nel 1434, di piccole dimensioni (82 x 60 cm), si trova alla National Gallery di Londra, nella stanza numero 56 con il numero d’inventario NG186. Il ritratto fu commissionato dal lucchese Giovanni Arnolfini, uno dei più facoltosi mercanti di Bruges, rappresentato con la moglie Giovanna Cenani, anch’essa figlia di un mercante di Lucca. I due sposi sono raffigurati in piedi, nella stanza nuziale, nell’atto di pronunciare il solenne giuramento di fedeltà matrimoniale e di scambiarsi la fede secondo l’uso canonico anteriore al Concilio di Trento. L’interno borghese e l’inconsueta ambientazione  in camera da letto sono rappresentati con cura per rendere meglio la caratterizzazione sociale dei personaggi e perché ogni elemento, il cane, il candeliere con una sola candela, lo specchio, gli zoccoli di legno, le arance, si riveste di significati simbolici come la fedeltà matrimoniale e la fertilità. La firma del pittore Johannes de eyck fuit hic posta sopra lo specchio, che lo riflette insieme all’altro testimone, garantisce l’avvenuto giuramento tra i coniugi.

La simmetria della composizione sembra accrescere la solenne austerità del momento, le due figure sono di una immobilità assorta, quasi in meditazione. Sono avvolte di luce ed emergono da uno spazio crepuscolare che accentua le tonalità calde dei colori e l’intimità dell’evento. Il gesto dell’uomo può essere interpretato come una benedizione, un saluto, un giuramento; la donna gli porge la mano destra, mentre appoggia la sinistra sul proprio ventre, con un gesto che sembrerebbe alludere ad una gravidanza futura, in realtà i coniugi non ebbero figli. Il dipinto è un repertorio di elementi tipici della pittura fiamminga: nel clima raccolto e domestico i due personaggi in posa per il pittore sono abbigliati in abiti d’apparato e illuminati dalla luce proveniente da un’alta finestra laterale. L’immagine di Arnolfini appare frutto di uno studio di carattere: il volto è scavato, il naso lungo e sottile, le narici dilatate, l’espressione è intensa e assorta. Il tentativo di interpretazione interiore del personaggio e la cura particolaristica hanno determinato la supposizione che possa trattarsi di un autoritratto. L’unico personaggio a fissare lo spettatore, a non riflettersi nello specchio è il griffoncino di Bruxelles dal pelo rossiccio. La stanza è rappresentata con estrema precisione, tutti gli oggetti sono raffigurati dettagliatamente, tra questi spicca, al centro, uno specchio convesso, dove il pittore dipinse la coppia di spalle e il rovescio della stanza. Jean-Philippe Postel, uno scrittore parigino che è anche un medico, nel suo libro/inchiesta “Il mistero Arnolfini”, pubblicato di recente da Skira con prefazione di Daniel Pennac e la traduzione di Doriana Comerlati, ha analizzato questo quadro così enigmatico. Ha rilevato la presenza di un terzo uomo, l’uomo con il turbante rosso, per molti lo stesso van Eyck; l’ipotesi sostenuta da molti che si tratti del mercante lucchese Arnolfini secondo lui sarebbe da escludere perché negli altri suoi ritratti coevi non mostra alcuna somiglianza fisica con questo dipinto. Nel 1990 un ricercatore francese della Sorbona, Jacques Paviot, scoprì nell’archivio dei duchi di Borgogna un documento matrimoniale di Giovanni Arnolfini datato 1447 e che probabilmente si riferisce al secondo matrimonio. A Bruges nel XV secolo ci furono quattro Arnolfini e due di essi si chiamavano Giovanni, il più ricco era quello che aveva rapporti con il duca di Borgogna per il quale lavorava Jan Van Eyck.

L’opera rimase sino al 1516 nella casa dei coniugi Arnolfini; poi fu sequestrata e donata a Maria d’Ungheria, reggente dei Paesi Bassi. Nel 1556 il dipinto venne collocato nel palazzo reale di Madrid, per poi giungere in Francia, trafugata da Giuseppe Bonaparte. Successivamente venne prelevata dai soldati inglesi e venduta alla National Gallery di Londra per la bella cifra di seicento guinee. Il dipinto sembra rappresentare un’allegoria della maternità oppure alluderebbe al momento del fidanzamento. Altra ipotesi suggestiva è che nel dipinto sia rappresentata la prima moglie di Arnolfini, Costanza Trenta. La maggioranza degli oggetti fu dipinta dopo avere creato la scena principale. Dall’osservazione degli oggetti e degli abiti indossati appare evidente la condizione di agiatezza della giovane coppia. Lui indossa una tunica scura e sobria, coperta da un mantello con le falde foderate di pelliccia di marmotta e indossa un ampio cappello di feltro nero. Lei indossa un vestito verde, colore della fertilità, con guarnizioni di pelliccia d’ermellino. Ha un’acconciatura elaborata ed indossa una collana, vari anelli e una cintura broccata d’oro. La disposizione degli zoccoli sul pavimento della stanza non è casuale: quelli di Giovanna, rossi, stanno vicino al letto; quelli del marito sono in primo piano, più vicini alla porta d’ingresso. Vengono sfruttate più fonti luminose,  la ricchezza dei dettagli, visibile attraverso l’uso della luce, avvicina l’arte fiamminga a quella del Rinascimento italiano. Una certa rigidezza delle forme e l’espressione enigmatica dei personaggi sono anche caratteristiche tipiche della prima scuola fiamminga. Da grande ritrattista e pittore di costume qual è, Jan van Eyck rivela tutto il suo amore per la luce, il senso della materia e della pluralità delle forme, un’arte nuova che concilia sentimento e ragione.

Deborah Mega

 

Prisma lirico 7: Francesco Tontoli, opere di Thure Sundell e Maurice de Vlaminck

Nell’ambito della rubrica  Prisma lirico, oggi presentiamo una poesia di Francesco Tontoli. La rijfrazione “prismatica” delle parole in immagine e colori è affidata a due opere pittoriche, rispettivamente “Moonlight” di Thure Sundell (1864-1924)  e “L’onda” di Maurice de Vlaminck (1876-1958). In calce una breve biografia/link dell’autore del testo.

Thure Sundell (1864-1924)

“Moonlight”, Thure Sundell

Credetemi
non esiste l’idea del silenzio
senza un giardino silenzioso
non esiste fruscio di vento
ronzare d’ape, abbaiare di cane
planare d’uccello su specchio d’acqua
tuonare di temporale in lontananza
non esiste moto d’onda e gorgoglio
rumore di pioggia che fa affondare
le gocce nel mare aggiungendo
al bicchiere già colmo
altra sostanza vitale
altro silenzio al silenzio taciuto.

l'onda

“L’onda”, Maurice de Vlaminck

testo di Francesco Tontoli

opere:

“Moonlight” di Thure Sundell

“L’onda” di Maurice de Vlaminck

Prisma lirico 5: Sebastiano A. Patanè Ferro

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Nell’ambito della rubrica Prisma lirico, oggi presentiamo una poesia di Sebastiano A. Patanè Ferro alla quale ben si accompagna la Resurrezione di Lazzaro di Giotto. In calce una breve biografia dell’autore del testo.

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che fine ha fatto Lazzaro…

ogni giorno muore qualcosa dentro
e ogni mattina una resurrezione
che imbarazza un po’ per quelli (sospiro)
che non ce l’hanno fatta…
dietro i sogni non ci puoi correre sempre
né comunque fermarti ma (un sorso di vino)
proviamo a ricordare insieme tutti gli anni
tutti, dal primo all’ultimo e senza trascurare
le frazioni e gli aneddoti dimenticati (breve sorriso)
le bambole ignoranti le scelte artefatte dal cuore
e dalla stirpe dei falsi cugini…
(serio) parliamone, parliamone anche senza ricordarli

quanta verità può conoscere un uomo
si chiedeva Nietzsche senza trovare risposta
e quanta menzogna gli si schianta contro
quando decide sulla sincerità
pensiamo al sortilegio della vita e all’artificio
della morte mettiamo riserve:
dov’è Lazzaro che fine ha fatto e quanta strada

potrebbe insegnarci innumerevoli alberi e pietre
ma forse ha maledetto quel giorno…
per fortuna un poeta muore e risorge ad ogni verso
per fortuna (altro sorso di vino)
(drammatico) per fottutissima fortuna

testo di Sebastiano A. Patanè Ferro da “Lazzaro”, estensione poetica, 2015, Piccolo Teatro da Camera, Collezione

Sebastiano A. Patanè

nasce a Catania nel 1953 sotto l’acquario di febbraio. Fin da giovanissimo coltiva la passione delle lettere che comincerà a sviluppare con impegno negli anni ‘80 quando fonda il centro culturale e d’arte “Nuova Arcadia” salotto di poesia e sede di numerosi reading. Presente in diverse riviste ed antologie nazionali ed internazionali del periodo, alla fine degli anni 80,primi ’90, dopo la separazione dalla moglie, abbandona la scrittura e comincia a viaggiare per il mondo. Quindici anni dopo, nel 2008, riprende a scrivere con l’intenzione di non smettere più. Sue poesie sono rintracciabili su diversi autorevoli blog tra cui Poetarum Silva, La stanza di Nightingale, Larosainpiù, Il giardino dei poeti e Neobar. Nel 2010 la Clepsydra Edizioni di Anila Resuli ha pubblicato “Poesie dell’assenza” in E-book.

opera “Resurrezione di Lazzaro” di Giotto

Prisma lirico 4: Francesco Tontoli – René Magritte – Loredana Semantica

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Nell’ambito della rubrica Prisma lirico, oggi presentiamo una poesia di Francesco Tontoli, con fotografia di Loredana Semantica e opera di Renè Magritte

ph. Loredana Semantica

VERBO

Credo sia arrivato il momento di dirlo
il sole non è rotondo come non lo è l’arancia
e nemmeno la Terra è blu
azzurro il cielo e i monti e i laghi
non sono morti i morti e i vivi
E’ tutta una fantasia
tenuta gelosamente nascosta
a cui abbiamo creduto perché faceva comodo crederci
Tu per esempio , non sei quella che sembri
così per dire, e io non sono quello che sono.
Ed è davvero strano che nonostante
questo non essere questo o quello
non essere interamente bianco su bianco
non essere il corpo che getta ombra
non essere completamente in accordo
e combaciare perfettamente l’uno dentro l’altro
noi, e dico noi per dire chiunque altro
noi cerchiamo ancora la curva che abbellisce la forma
la ruga del viso dove va a sostare una lacrima
trovando l’uno dentro l’altro uno spazio, un luogo
aprendo porte, attraversando corridoi
rimanendo per anni sospesi dentro a una promessa
accontentandoci di essere curvi minatori
crescendo figli come fossero verbi incarnati.
Poi, dopo le traversate nel deserto
quando la vista del sole ci appare schiacciata ai poli
e il colore sbiadito ci fa immaginare
la stupida perfezione della verità delle cose
il pensarlo ci mette davanti allo specchio dell’altro
e magari ci tocca morire proprio sul più bello
lasciando l’altro nel corridoio delle promesse non mantenute
di un verbo non pronunciato nella sua pienezza
come ad esempio il verbo amare.

Francesco Tontoli

René Magritte

Prisma lirico 2: Maria Allo – Daniele Gozzi

Nell’ambito della rubrica Prisma lirico, oggi presentiamo le poesie di Maria Allo, la fotografia di Daniele Gozzi. In calce link  e/o una breve biografia degli autori.

Tutto dipende da come vedi  l’oscillare delle cose : le stagioni , i nomi, le perdite, le voci dei bambini  che il mare avrebbe dovuto trattenere,  finché ogni cosa si fa consueta in un modo che non hai bisogno di capire. Eppure salda qualche verità rimane :  nessuno può più esentarsi  dalle crudeltà del tempo.

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Non posso andare senza una vera meta
C’è una pagina da dire con parole diverse
direbbe questa casa fino alla scogliera.
Così cerco un coraggio obliquo
che bruci nel profondo e percorra la sabbia
su una spiaggia nuda , ma se ascolto …
voci flebili di bimbi
pagine cancellate dalla risacca
rimbombano nelle orecchie.
Dovunque
*
Che cosa può rimuovere l’amore?
La nostra luce in cenere
stride su arenili increduli fin nelle radici
sbiadisce assorta sul fondo del mare
non questa materia grezza
dovunque.
*
In fondo non è niente.
Come l’amore
Il tempo striscia sui seni dell’attesa
moltiplica impronte nel deserto
a volte brutale , ma vale tutte le parole
e in ogni duna ripiega il suo tramonto.
dovunque

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Eppure ti sento come l’aroma del caffè fumante
attraverso le ossa a ostacoli sul mare
dannata raffica dolente
anche se il tuo volto svanisce e la tua ombra.

*

Il sole attraversa l’albero di casa
si fa splendente la tenda bianca
un uccello prende il volo
di fuoco gli occhi in un varco
tra la finestra e i giorni.
Se questa è ancora luce
e non invece questo tempo precario
come delirio per camminare ai bordi
prendimi anche se sui gesti e le parole
il silenzio di tanto in tanto cade fra le ali
e la luce in fondo a una fessura.

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testi di Maria Allo

fotografie di Daniele Gozzi

Diplomato alla scuola di Belle Arti “Adolfo Venturi” a Modena, Daniele Gozzi lavora come grafico dalla notte dei tempi. Da sempre appassionato di fotografia, grazie anche alle moderne tecnologie digitali, interpreta in modo personale e creativo le “normali” immagini che cattura con l’obiettivo, cercando di ottenere risultati piacevoli all’occhio e alla mente. Il suo è un viaggio senza tema fisso, un vagare nelle emozioni catturate in uno spazio-tempo indefinito. Nel settembre 2011 la prima personale al Palazzo Comunale- Cantine degli Scolopi di Fanano. Nel 2012 “apre” un gruppo fotografico su Facebook e con diversi di questi artisti porta avanti una collettiva, che si apre a gennaio 2014 con una prima esposizione nello spazio “Art in Loft” di Modena, poi a quello del Palazzo Comunale di Castelvetro (Mo) e infine ancora nel Palazzo Comunale-Cantine degli Scolopi di Fanano (Mo). Nell’ottobre 2013 partecipa con 4 opere, alla quinta edizione del Med Photo Fest di Catania e da settembre 2013 a luglio 2014, a 10 collettive tenute allo “Spazio E” di Milano.

Prisma lirico 1: Filippo Parodi – Gianluca Di Pasquale

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Nell’ambito della rubrica Prisma lirico, oggi presentiamo le poesie di Filippo Parodi, i dipinti di Gianluca Di Pasquale. In calce una breve biografia degli autori.

FELCE 40x50 cm olio su tela anno 2014

FELCE, 40×50 cm, olio su tela, anno 2014

Commosso

Ridere velluto sulle costruite cime,
pur sempre il vuoto addosso, ma
carezze senza indagine

nuotando poi l’allarme
in luce stretta che raduna
chiamarsi: ecco un riverbero
di flebile o magnifico.

LAGO 130x200 cm olio su tela anno 2007

LAGO, 130×200 cm, olio su tela, anno 2007

I cigni

Dopo tutto questo tempo
ho sfiorato la tua via
ch’era stata anche la mia,

truccavamo i possessivi in
quell’insolita assonanza
dalle così brevi vene
mentre il mondo si piegava al
nostro
specchio sotto gli alberi.

BOSCO GIALLO 120x180 cm olio su tela anno 2012-2013

BOSCO GIALLO, 120×180 cm, olio su tela, anno 2012-2013

testi di Filippo Parodi

Filippo Parodi nasce a Genova nel 1978. Nel 1986 si trasferisce a Milano, dove tutt’ora vive. Si laurea in Filosofia Estetica nel 2003, con una tesi sul verosimile e il meraviglioso nella poesia. A partire dal 2007 pubblica i suoi primi testi su The End e sulla rivista internazionale di poesia e ricerche Zeta. Nel 2012 vince un concorso indetto dalla casa editrice Gorilla Sapiens ed esce un suo racconto nell’antologia Urban Noise. Sempre per Gorilla Sapiens, alla fine del 2013, pubblica il primo libro La testa aspra. In seguito scrive racconti per Verde Rivista e Ultrafilosofia. Nel Novembre 2014, insieme a Massimo Bacigalupo, Peter Carravetta e ad altri studiosi, viene invitato a partecipare al convegno Terribile la parola: i filosofi sono succubi del problema-parola, tenutosi al Palazzo Ducale di Genova, per celebrare i quarant’anni di pensiero e scritture del poeta-filosofo Raffaele Perrotta. Nel 2016 vengono inseriti su The Livingstone alcuni suoi componimenti. Nel 2017 pubblica poesie su Il Foglio Clandestino. Attualmente sta lavorando al secondo libro, la cui uscita è prevista nei prossimi mesi.

dipinti di Gianluca Di Pasquale

Gianluca Di Pasquale (Roma – 1971)

Vive e lavora a Milano.

http://www.gianlucadipasquale.com/

Prisma lirico: intro

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Foto da wikipedia: prisma ottico

Oggi anticipo l’avvio di una nuova rubrica nella quale la parola sposa l’immagine, si coniugano l’arte verbale e l’arte visuale. La rubrica prende il nome di “Prisma lirico”. I post di “Prisma lirico” si alterneranno senza alcuna regolarità ai mercoledì di “Forma alchemica”. Nell’ambito di questa rubrica proporrò componimenti scritti (poesie, racconti, stralci di romanzi ecc..) e immagini (fotografie, dipinti, opere d’arte ecc.)

Parole e immagini sono un connubio affascinante, per quanto avere sotto gli occhi soltanto il testo dà risalto alla parola. La lettura di un racconto o di una poesia infatti già apre nella mente del lettore scenari immaginari che intercettano l’esperienza del lettore, sprigionando tutto il potere suggestivo dello scritto per scelta dei vocaboli usati, per la loro concatenazione, a seconda del ritmo e delle pause della scrittura, oltre che per il significato di ogni lemma, ogni frase, periodo e componimento complessivo.

Similmente un’immagine, sia essa un dipinto, una fotografia,  un disegno, quando stia a sé instaura già per se stessa un dialogo con l’osservatore, provocandone una risposta emozionale e suggestiva non molto diversa dalla “risposta” provocata dalle parole, con in più l’immediatezza del messaggio. L’immagine infatti, ancora più di quanto faccia la poesia, va subito al cuore del pensiero evocato, è sufficiente uno sguardo ad un’immagine e già è stata catturata l’attenzione, l’interesse, quando invece la parola ha bisogno di più tempo, occorre che gli occhi scorrano sul foglio e che la mente si apra alla concatenazione logica delle espressioni per coglierne il senso, il messaggio.

Proporre l’immagine insieme al testo è un’operazione diversa da proporli assoluti l’uno dall’altro, quando si associano si stanno intersecando tra loro diverse arti espressive. Il che illumina parola ed immagini ad un più ampio senso oppure consente di modificarlo, definirlo, leggerne uno completamente diverso, specie quando il pensiero sia stato manifestato in modo indiretto, sfumato oscuro. L’immagine verso la parola e viceversa la parola unita all’immagine, possono trasformare un trobar clus nel suo opposto, in ogni caso lo moltiplicano nella ricchezza sensitiva: occhi-mente-cuore.  Nello stesso tempo, consentono all’opera, alle opere,  un percorso mentale nel cervello recettivo, un flusso comunicativo che scorre altrimenti da una visione indipendente e assoluta, si muove cioè in un alveo che forse altrimenti, cioè senza questo connubio, non avrebbe avuto sviluppo e ancora meno vita.

Per questa nuova rubrica ho scelto il titolo di “Prisma lirico”. L’arte visuale infatti si manifesta grazie alla luce, che rivela il colore e la forma. Colore e forma sono per l’arte visuale quello che le parole sono per la scrittura e la comunicazione verbale. La radice, l’essenziale, gli elementi necessari che permettono la costruzione. La parola “Prisma” intende riferirsi al prima ottico, lo strumento che consente di dividere un fascio di luce nei suoi componenti spettrali, gli stessi che possiamo ammirare nel cielo dopo un temporale nell’arcobaleno, fungendo le goccioline d’acqua, ancora sospese nell’aria dopo la pioggia, come innumerevoli prismi che rifrangono la luce.

L’aggettivo “lirico” invece ha la sua radice etimologica nella parola lira, lo strumento musicale che nell’antichità accompagnava  i componimenti poetici o le narrazioni degli aedi, i cantori professionisti dell’antica grecia che nel 600, 700 a. C., si tramandavano mnemonicamente le gesta epiche degli eroi, le guerre, gli uomini, gli dei e le raccontavano agli uditori. Così sono nate Iliade ed Odissea. Per saper cantare e suonare divinamente la lira, il nome di Orfeo è stato tramandato come il più grande poeta dell’antichità. Un mito immortale, giunto fino ai nostri giorni.

Successivamente l’aggettivo lirico è stato riferito estensivamente agli scritti letterari che sono espressione di sensibilità. L’aggettivo vuole essere quindi un riferimento all’utilizzo delle parole per creare emozione, comunicazione, trasmettere messaggi di interiorità, cosa che avviene con la poesia, certo, ma nondimeno si può riscontrare in grado elevato in belle pagine di racconti o romanzi.

L’insieme del titolo della rubrica vorrebbe suggerire l’idea che l’immagine, coi colori e le forme, la parole in forma letteraria, con le suggestioni e la fantasia, scompongono e ricompongono l’illuminazione mentale che è l’espressione artistica, l’unica luce, insieme all’amore ( o se preferite alla carità o alla bontà) nel mare di oscurità che ci avvolge

Loredana Semantica

Forma alchemica 1: La stella di Edmond Rostand

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Perdettero la stella un giorno.
Come si fa a perdere la stella?
Per averla troppo a lungo fissata.
I due re bianchi, ch’erano due sapienti di Caldea,
tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.

Si misero a calcolare, si grattarono il mento.
Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,
e quegli uomini, la cui anima
aveva sete di essere guidata,
piansero innalzando le tende di cotone.

Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri, si disse:
“Pensiamo alla sete che non è la nostra.
Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali”.

E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,
nello specchio di cielo
in cui bevevano i cammelli
egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.

Edmond Rostand

Oggi è il giorno dell’Epifania e per commemorarlo degnamente propongo questa bella poesia di Edmond Rostand che ha per protagonisti i Re Magi e per titolo L’Etoile, cioè La stella. Rostand è noto per essere l’autore di Cyrano de Bergerac, un’opera teatrale molto apprezzata dal pubblico parigino che alla prima, nel 1897, lo applaudì in una standing ovation di 20 minuti.  La scrittura di Rostand appartiene alla corrente del Romanticismo che ha dominato la letteratura francese del XIX secolo, contrapponendo alla razionalità e culto della bellezza classica che avevano caratterizzato l’Illuminismo del XVIII secolo, il sentimento, la fantasia, la  spiritualità, come aspetti che recuperano la dimensione più umana dell’essere.
Tutti elementi presenti nella poesia di Rostand, nella quale egli immagina che i Re Magi in viaggio, guidati dalla stella cometa verso il luogo ove è nato il Re dei Giudei, a un certo momento perdano la guida celeste. I Magi allora si disperano e fanno calcoli, studiano, si impegnano a fondo per cercare la stella smarrita, rintracciarla nel luogo dov’è nascosta.
Essi ne sentono un profondo bisogno, essendo alla ricerca del Salvatore, essendo la stella l’unica loro guida, avendo applicato per tanto tempo il loro occhio, cuore, mente alla contemplazione del cielo ed ora dell’astro che rappresenta l’ avveramento della profezia di una nascita regale.
Il Vangelo di Matteo (2, 1-12) parla dei Magi e della stella, e, sebbene alcuni lo considerino leggendario, il racconto appartiene quindi alla tradizione cristiana dei Vangeli. Sono stati tramandati, tra l’altro, i nomi dei Magi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Tre come i doni che essi recano: oro, incenso e mirra
Ai doni è stato dato un preciso significato simbolico: l’oro chè metallo destinato ai re, l’incenso che è il riconoscimento di natura divina e la mirra usata nel culto dei morti, perché il Messia è tutte e tre le cose insieme: re, dio e uomo, quindi mortale. Egli è Dio che si è fatto uomo.
Epifania è la festa cristiana che ricorda il momento in cui i Magi giungono alla grotta dove è nato Gesù, gli porgono i doni e lo omaggiano come si conviene a un Re. Epifania ha la sua etimologia dal greco ἐπιφάνεια, epifàneia, che significa manifestazione, proprio perché la venuta e l’adorazione dei Re Magi rendono manifesta la natura divina del bambino appena nato e il suo destino soprannaturale.
Tornando alla poesia del Rostand, l’autore immagina che mentre due dei Magi, sapienti di Caldea, siano tutti presi a scrutare la volta celeste alla ricerca della stella, il terzo, il povero re nero disprezzato da tutti “le pauvre Roi noir, méprisé des deux autres”, riflette: “Pensiamo alla sete che non è la nostra. / Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali.”
E’ un pensiero di attenzione semplice verso l’alterità non di altri uomini, bensì animali cioè i cammelli, la cavalcatura dei Re Magi. Si percepisce nel testo poetico una sorta di diagonale discendente che passando dai Re sapienti intercetta l’uomo, oggetto di disprezzo e infine gli animali, una linea cioè che, di essere in essere, arriva alla base della catena, agli esseri meno importanti. I sapienti che si dedicano agli studi dimenticano i bisogni degli altri, essi sono metafora di tutti gli intellettuali, che ottenebrati dal tanto studio perdono il senso della vita, a questi si contrappone l’uomo che percepisce il bisogno elementare di altri esseri viventi. Accade allora un piccolo miracolo, che mentre il Re nero dà da bere agli animali, nel magico specchio acqueo del secchio sospeso vede brillare riflessa la stella cometa. E la ritrova lui quindi l’etoile, le pauvre Roi noir, l’ultimo dei Re, nel gesto semplice di dissetare gli ultimi della terra.
Il testo regala dunque un messaggio basilare: per non perdere mai la guida, l’orientamento e il senso della vita abbiate cura degli altri, dei più umili, attenzione ai loro bisogni e porgete il secchio con l’acqua, dando da bere agli assetati.
In ciò richiamando un altro passo del Vangelo di San Matteo cap. 25, quando Gesù, ormai grande, al versetto 35 dice “perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere”  e parla poi dei piccoli «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».
La piccolezza è la chiave di lettura della poesia che dai Re adoratori del Re dei Re, si sposta agli Ultimi, ai più Piccoli. L’altruismo è chiave di lettura della poesia. Il messaggio d’amore cristiano è chiave di lettura della poesia. E per riferire tutto il senso che essa contiene in modo ancora più quotidiano, meno epico e connotato più da un etica di contrasto all’egoismo che da religiosità, l’imperativo che essa detta è di aver attenzione, di prendersi cura degli altri  a cominciare dai propri cari, al vicino, ai colleghi, ai dipendenti e così via fino ad includere tutta l’umanità della nostra cerchia relazionale.
Quanto ai Re Magi essi non hanno affascinato soltanto il Rostand di questa poesia, ma sono stati anche fonte di ispirazione di molti pittori che hanno voluto rappresentare il climax dell’adorazione, momento che manifesta all’umanità la natura divina del Salvatore appena nato.
Propongo qui a riprova tre splendidi esempi de “L’adorazione dei Magi” di tre grandi Maestri della pittura: Giotto, Gentile da Fabriano, Sandro Botticelli.

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Giotto (1303-1306)

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Gentile da Fabriano (1423)

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Sandro Botticelli (1475)

VAGABOLARIO Viaggio miniato tra le leggende dei piccoli popoli nelle isole linguistiche d’Italia

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La leggenda

Com’è nata la neve in Carnia 

Tratta da

Renzo Balzan, Poesiis e Liendis de Tiere di Cjargne, A. Moro, Tumieç 2000

della quale esiste il testo originale

(una delle 21 tratte dal libro, relativa ad uno degli altrettanti “piccoli popoli” oggetto del mio studio e del libro).

Cemût che je nassude la nêf in Cjargne 

Ducj in Cjargne lu san, almancul chei che a lòghin tal Cjanâl di Guart, che la mont clamade di Crostas e je une des plui ricjis di lejendis. A Culino, a Gjviano, a Tualis e a Salârs s’in puedin scoltà plui di une. Su la mont di Tencje si dan adun in cunvigne e a bàlin lis striis, come che si saveve ancje deant che lu scrivès tes sôs prosis la Percude, e che il Carducci lu cjantâs te sôs poesiis; ma che su la mont di Crostas e fos nassude la nêf o crodìn che a sèdin pardabon in pôs a savêlu.

E conte cheste liende che si jere a la fin dal mês di març e che i prins clips de vierte a tacavin bielzà a fâsi sintî. Dutcâs une buinore de tiere al scomençà a burî fûr come par un incjantesim, un lizêr vapôr  ch’al lave jevansi simpri plui in alt, fintramai ch’al rivà a subissâ e a cuviergi i flums, i lâts, i plans, i boscs e la mont di Crostas. E plui il timp al passave, plui si faseve dut blanc.

Un blanc simpri plui penç. Cussì ogni cjosse e restà torcenade e subissade di chel ch’al jere aromai diventât une sorte di mâr di fumate cjandide. Ma vè che a un ciert pont e vignì fûr une piore che lè su disburide pe cleve di Tualis, e traviersà il bosc e svelte come un cjavrûl e corè su la cueste de mont fintremai a l’ultime cime, po cun tun grant varc e rivà sù tal cîl. Daûr di jè e rivà une seconde, e une tierce, e dîs e cinquante e cent… Alore pai infinîts prâts, colòr blâf dal cîl s’invià une gare, vivarôse e graciôse. Lis pioris al corevin lizeris une plui di chê âtre e i agnui ur svualavin daûr e a cirivin di fermâlis cjapanlis pai riçts de lôr velade di lane. Ma lis pioris si diliberavin, lassant tes mans dai agnui  i bocui de coltre mulisite. A un ciert pont al rivà ancje il vint e si zontà a cheste sorte di zûc. La lane sgjarpide e lizere si niçulave ta l’arie muesse, slusint al soreli ch’al lave a mont daûr lis cretis. A sgurlavin i flocs cjandits in lêgre danze, si alçavin sù adalt e po biel planc a vignivin jù, a vignivin jù… La nevere e lè indenant fissè, fissè, pa dute la gnot, po sul scricâ de l’albe la neule e scomençà a viergisi e sot la lûs incierte de buinore la tiere braurôse e mostrà lis monts cuviertis dal blanc mantîl. In face a cheste vision al ridè apajât purpûr il soreli ch’al jevave su la mont di Crostas, come par un strieç ch’al jere riessût pulît.

 Com’è nata la neve in Carnia

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Forse non tutti sanno che sul monte Crostis, un giorno, è nata la neve. Questa leggenda racconta che si era alla fine del mese di marzo, e che i primi segni della primavera cominciavano già a farsi sentire. Cominciò d’un tratto a fuoriuscire un leggero vapore dalla terra, che si alzava sempre più in alto, fino ad arrivare a ricoprire i fiumi, i laghi, le pianure, i boschi e il monte Crostis.  E più il tempo passava, più si faceva tutto bianco.  Un bianco sempre più denso. Così ogni cosa venne circondata e avvolta da quello che era ormai diventato una sorte di mare di nebbia candida. Ma ecco che a un certo punto venne fuori una pecora che andò su per la salita di Tualis, attraversò il bosco e svelta come un capriolo corse sulla cresta della montagna fino su all’ultima cima, poi con un grande salto arrivò su nel cielo. Dietro di lei arrivò una seconda, e una terza, e dieci e cinquanta e cento… Allora sugli infiniti prati dal cielo iniziò  una gara, vivace e graziosa.  Le pecore correvano leggere una più dell’altra e gli angeli volavano loro attorno e cercavano di fermarle afferrandole per i riccioli del loro vello di lana. Ma le pecore si liberavano, lasciando tra le mani degli angeli i boccoli del loro soffice mantello.  A un certo punto arrivò anche il vento ad unirsi a questa specie di gioco.  La lana sfilacciata leggera dondolava nel vento, rilucendo al sole che stava salendo dietro le cime. Giravano attorno a se stessi  i fiocchi candidi in una danza leggera, si alzavano su in alto e poi piano piano venivano giù, venivano giù… La nevicata è andata avanti fitta, fitta, per tutta la notte, poi alle prime luci dell’alba la nuvola cominciò ad aprirsi e sotto la luce incerta del primo mattino la terra mostrò i monti coperti dal bianco mantello. A questa vista rise appagato perfino il sole che si alzava sul monte Crostis, come per una stregoneria che era riuscita bene.

Francesco Severini

Vagabolario

Viaggio miniato tra le leggende dei piccoli popoli nelle isole linguistiche d’Italia

Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2016; br., pp. 264

SINOSSI

Il progetto Vagabolario nasce con l’intento di rendere plausibile il nesso tra la parola e l’immagine, il legame che scaturisce da vincoli intimi e giocosi mediante i quali è possibile dare ancora voce cristallina alla narrazione. Quella capace di suggerire e dar vita ad infiniti racconti, proprio come nella tradizione orale che rigenera fiabe e leggende, modificandole di volta in volta, arricchendone il senso, ridefinendone gli spazi ed i tempi d’azione. Il sottotitolo in tal senso, oltre il titolo stesso, ne definisce inoltre i contorni e gli ambiti. Si tratta appunto di un viaggio miniato, un viaggio per immagini vivo di racconti nel racconto, tra le leggende di quelle che sono state (in certi casi anche giuridicamente) definite isole linguistiche esistenti in varie zone d’Italia, ciascuna virtualmente inscritta entro confini regionali, il più delle volte troppo angusti e per questo limitanti. Dove variegati sono i popoli che le costituiscono e le abitano, seppure persino misconosciuti, eppure forti di un’energia straordinaria; quella che attinge, coniugandoli, sapere e attenzione alla vita. Il mio lavoro di ricerca intorno alle leggende di questi piccoli popoli – la definizione è solo apparentemente, volutamente minimizzante – è diretto ad una riscoperta, che in molti casi diventa vera e propria scoperta, dei rimandi ad una tradizione che fonda le proprie radici nel tessuto letterario dell’oralità. Il fine: restituire loro una dignità culturale capace di rimarcare, elevandola, l’identità peculiare di ciascuno di essi. Ventuno, dunque, i popoli, tanti quanti le lettere dell’alfabeto italiano. Di qui l’idea di altrettanti capolettera da rendere quali miniature di un singolare vocabolario, il mio personale Vagabolario, appunto: una sorta di breviario laico che attraverso un ordine ben noto, dalla A alla Z, scandisca il tempo della narrazione. Ventuno capolettera, ciascuna densa di figurazioni che illustrano la storia presa in esame – essa stessa stimolo primario di un soggetto (oggetto) visuale – spesso in maniera didascalica, altre volte lasciando che un’immagine chiave della leggenda ne divenga il punto focale. Il progetto non ha la pretesa di rappresentare una indagine demologica esauriente, tanto meno esaustiva, in merito ai piccoli popoli e alle loro leggende prese a riferimento. Mi auguro, piuttosto, essa sia stimolo per nuovi ed interessanti approfondimenti che possano far luce su alcune realtà ancora poco indagate, quando anche sconosciute, di un Paese già minato nelle sue fondamenta più solide, ovvero la disattenzione alla propria storia e alla sua straordinaria cultura. Non dimenticando, mai, che proprio nel ricorso alla tradizione un popolo, pur nelle sue infinite differenze identitarie, può trovare sempre ulteriori spunti per la coesione e la sua unitarietà. Il volume, stampato da Prospettiva Editrice, consta di una introduzione, di una breve prefazione di Antonella Orlacchio, della successione delle ventuno “stanze” ordinate alfabeticamente, come in un comune vocabolario, all’interno di ciascuna delle quali c’è l’immagine del capolettera miniato, alcune informazioni relative di ognuno dei “piccoli popoli”, in una sezione finale il rimando ad una loro relativa sitografia e bibliografia, oltre a rimandi generali sitografici e bibliografici, infine una nota biografica sull’autore.

Francesco Severini

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