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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

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La chiave d’oro

06 lunedì Mag 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

≈ 1 Commento

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Giovanni Verga, La chiave d'oro

 

Foto di Loredana Semantica

La chiave d’oro, scritta da Giovanni Verga nel 1883 e pubblicata per la prima volta sul periodico palermitano “Il Momento”, è l’unica sua novella che faccia riferimento al fenomeno della mafia, tratta infatti i rapporti di stampo mafioso che intercorrono tra latifondisti, campieri malavitosi e amministratori della giustizia.

*

A Santa Margherita, nella casina del Canonico stavano recitando il Santo Rosario, dopo cena, quando all’improvviso si udì una schioppettata nella notte. Il canonico allibì, colla coroncina tuttora in mano, e le donne si fecero la croce, tendendo le orecchie, mentre i cani nel cortile abbaiavano furiosamente. Quasi subito rimbombò un’altra schioppettata di risposta nel vallone sotto la Rocca.

– Gesù e Maria, che sarà mai? – esclamò la fantesca sull’uscio della cucina.

– Zitti tutti! – esclamò il Canonico, pallido come il berretto da notte. – Lasciatemi sentire -.

E si mise dietro l’imposta della finestra. I cani si erano chetati, e fuori si udiva il vento nel vallone. A un tratto riprese l’abbaiare più forte di prima, e in mezzo, a brevi intervalli, si udì bussare al portone con un sasso.

– Non aprite, non aprite a nessuno! – gridava il Canonico, correndo a prendere la carabina al capezzale del letto, sotto il crocifisso. Le mani gli tremavano. Poi, in mezzo al baccano, si udì gridare dietro al portone: – Aprite, signor Canonico; son io, Surfareddu! – E come finalmente il fattore del pianterreno escì a chetare i cani e a tirare le spranghe del portone, entrò il camparo, Surfareddu, scuro in viso e con lo schioppo ancora caldo in mano.

– Che c’è Grippino? cos’è successo? – chiese il Canonico spaventato.

– C’è, vossignoria, che mentre voi dormite e riposate, io arrischio la pelle per guardarvi la roba – rispose Surfareddu.

E raccontò cos’era successo, in piedi, sull’uscio, dondolandosi alla sua maniera. Non poteva pigliar sonno, dal gran caldo, e s’era messo un momento sull’uscio della capanna, di là, sul poggetto, quando aveva udito rumore, nel vallone, dove era il frutteto, un rumore come le sue orecchie sole lo conoscevano, e la Bellina, una cagnaccia spelata e macilenta che gli stava alle calcagna. Bacchiavano nel frutteto arance e altre frutta; un fruscìo che non fa il vento; e poi ad intervalli silenzio, mentre empivano i sacchi. Allora aveva preso lo schioppo d’accanto all’uscio della capanna, quel vecchio schioppo a pietra con la canna lunga e i pezzi d’ottone che aveva in mano. Quando si dice il destino! Perché quella era l’ultima notte che doveva stare a Santa Margherita. S’era licenziato a Pasqua dal Canonico, d’amore e di accordo, e l’1 settembre doveva andare dal padrone nuovo, in quel di Vizzini. Giusto il giorno avanti s’era fatta la consegna di ogni cosa col Canonico. Ed era l’ultimo di agosto: una notte buia e senza stelle. Bellina andava avanti, col naso al vento, zitta, come l’aveva insegnata lui. Egli camminava adagio adagio, levando i piedi alti nel fieno perché non si udisse il fruscìo. E la cagna si voltava ad ogni dieci passi per vedere se la seguiva. Quando furono al vallone, disse piano a Bellina: – Dietro! – E si mise al riparo di un noce grosso. Poi diede la voce: – Ehi!…-

Una voce, Dio liberi! – diceva il Canonico – che faceva accapponar la pelle quando si udiva da Surfareddu, un uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio. – Allora – rispose Surfareddu – allora mi spararono addosso a bruciapelo – panf! – Per fortuna che risposi al lampo della fucilata. Erano in tre, e udii gridare. Andate a vedere nel frutteto, che il mio uomo dev’esserci rimasto.

– Ah! cos’hai fatto scellerato! – esclamava il Canonico, mentre le donne strillavano fra di loro. – Ora verranno il giudice e gli sbirri, e mi lasci nell’imbroglio!

– Questo è il ringraziamento che mi fate, vossignoria? – rispose brusco Surfareddu. – Se aspettavano a rubarvi sinché io me ne fossi andato dal vostro servizio, era meglio anche per me, che non ci avrei avuto quest’altro che dire con la giustizia.

– Ora vattene ai Grilli, e di’ al fattore che ti mando io. Domani poi ci avrai il tuo bisogno. Ma che nessuno ti veda, per l’amor di Dio, ora ch’è tempo di fichidindia, e la gente è tutta per quelle balze. Chissà quanto mi costerà questa faccenda; che sarebbe stato meglio tu avessi chiuso gli occhi.

– Ah no, signor Canonico! Finché sto al vostro servizio, sfregi di questa fatta non ne soffre Surfareddu! Loro lo sapevano che fino al 31 agosto il custode del vostro podere ero io. Tanto peggio per loro! La mia polvere non la butto via, no! –

E se ne andò con lo schioppo in spalla e la Bellina dietro, ch’era ancor buio. Nella casina di Santa Margherita non si chiuse più occhio quella notte, pel timore dei ladri e il pensiero di quell’uomo steso a terra lì nel frutteto. A giorno chiaro, quando cominciarono a vedersi dei viandanti sulla viottola dirimpetto, nella Rocca, il Canonico, armato sino ai denti e con tutti i contadini dietro, si arrischiò ad andare a vedere quel ch’era stato. Le donne strillavano:

– Non andate, vossignoria! –

Ma appena fuori del cortile si trovarono fra i piedi Luigino, che era sgattajolato fra la gente.

– Portate via questo ragazzo – gridò lo zio canonico. – No! voglio andare a vedere anche io! – strillava costui. E dopo, finché visse, gli rimase impresso in mente lo spettacolo che aveva avuto sotto gli occhi così piccolo.

Era nel frutteto, fatti pochi passi, sotto un vecchio ulivo malato, steso a terra, e col naso color fuligine dei moribondi. S’era trascinato carponi su di un mucchio di sacchi vuoti ed era rimasto lì tutta la notte. I suoi compagni nel fuggire s’erano portati via i sacchi pieni. Lì presso c’era un tratto di terra smossa colle unghie e tutta nera di sangue.

– Ah! signor canonico – biascicò il moribondo. – Per quattro ulive m’hanno ammazzato! –

Il canonico diede l’assoluzione. Poscia, verso mezzogiorno, arrivò il Giudice con la forza, e voleva prendersela col Canonico, e legarlo come un mascalzone. Per fortuna che c’erano tutti i contadini e il fattore con la famiglia testimoni. Nondimeno il Giudice si sfogò contro quel servo di Dio che era una specie di barone antico per le prepotenze, e teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva ammazzar la gente per quattro ulive. Voleva consegnato l’assassino morto o vivo, e il Canonico giurava e spergiurava che non ne capiva nulla. Tanto che un altro po’ il Giudice lo dichiarava complice e mandante, e lo faceva legare ugualmente dagli sbirri. Così gridavano e andavano e venivano sotto gli aranci del frutteto, mentre il medico e il cancelliere facevano il loro ufficio dinanzi al morto steso sui sacchi vuoti. Poi misero la tavola all’ombra del frutteto, pel caldo che faceva, e le donne indussero il signor Giudice a prendere un boccone perché cominciava a farsi tardi. La fantesca si sbracciò: maccheroni, intingoli d’ogni sorta, e le signore stesse si misero in quattro perché la tavola non sfigurasse in quell’occasione. Il signor Giudice se ne leccò le dita. Dopo, il cancelliere rimosse un po’ la tovaglia da una punta, e stese in fretta dieci righe di verbale, con la firma dei testimoni e ogni cosa, mentre il Giudice pigliava il caffè fatto apposta con la macchina, e i contadini guardavano da lontano, mezzo nascosti fra gli aranci. Infine il Canonico andò a prendere con le sue mani una bottiglia di moscadello vecchio che avrebbe risuscitato un morto. 

Quell’altro intanto l’avevano sotterrato alla meglio sotto il vecchio ulivo malato. Nell’andarsene il Giudice gradì un fascio di fiori dalle signore, che fecero mettere nelle bisacce della mula del cancelliere due bei panieri di frutta scelte; e il Canonico li accompagnò sino al limite del podere. Il giorno dopo venne un messo del Mandamento a dire che il signor Giudice avea persa nel frutteto la chiavetta dell’orologio, e che la cercassero bene che doveva esserci di certo.

– Datemi due giorni di tempo, che la troveremo – fece rispondere il Canonico. E scrisse subito ad un amico di Caltagirone perché gli comprasse una chiavetta d’orologio. Una bella chiave d’oro che gli costò due onze, e la mandò al signor Giudice dicendo:

– È questa la chiavetta che ha smarrito il signor Giudice?

– È questa, sissignore – rispose lui: e il processo andò liscio per la sua strada, tantoché sopravvenne il 60, e Surfareddu tornò a fare il camparo dopo l’indulto di Garibaldi, sin che si fece ammazzare a sassate in una rissa con dei campari per certa quistione di pascolo. E il Canonico, quando tornava a parlare di tutti i casi di quella notte che gli aveva dato tanto da fare, diceva a proposito del Giudice d’allora:

– Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena -.

Nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini.

Giovanni Verga, Tutte le novelle

 * 

La novella fu oggetto di un rigoroso approfondimento da parte di Sciascia poi dal critico palermitano Di Gesù che svolse un esame sinottico del prototipo verghiano, della versione che ne offrì Luigi Capuana nel 1902 e della traduzione dialettale che ne fece nel 1923 Alessio Di Giovanni. Si tratta di tre variazioni sul tema. La trama è quasi identica. In Verga: un ladro di olive viene sorpreso e ucciso da un campiere di nome Surfareddu, che si dà poi alla macchia. Il proprietario del terreno, un canonico, cerca di rabbonire il giudice che conduce l’inchiesta invitandolo a pranzo. Ma il giudice è più esigente e gli dice di aver perso la chiave del suo orologio nel frutteto durante le indagini. Il Canonico, compresa l’antifona, ne compra una d’oro, che il giudice finge di riconoscere. Il processo si conclude con lo scagionamento del canonico. Capuana, a parere di Sciascia, alleggerisce la vicenda nel racconto intitolato “L’anello smarrito”. L’omicidio viene sostituito da una banale lite catastale. Uno dei contendenti, per ingraziarsi il giudice corrotto deve donargli un anello con diamante. Infine Di Giovanni, attraverso l’utilizzo del dialetto, mette in luce la mafiosità del campiere Surfareddu, che non esita a uccidere un uomo per quattro ulive. Per Massimo Onofri, la novella di Verga «non solo palesa un’ idea di mafia come permanenza di residui feudali, ma ci dà una straordinaria testimonianza della collusione tra amministratori della giustizia e possidenti». Di Gesù sostiene invece che la novella lasci intravedere relazioni criminali di tipo mafioso. Il nodo centrale e più significativo della novella non è l’omicidio in sé, nonostante sia precisato che il Canonico diede l’assoluzione al moribondo senza soccorrerlo, ma la corruttibilità del giudice che permette e rende legittima la violenza privata nella difesa della proprietà. Allo stesso modo il Canonico legittima lo scambio di favori, parlando della vicenda infatti ribadisce la galanteria del giudice che si è accontentato della chiave dell’orologio mentre avrebbe potuto esigere anche l’orologio e la catena. In cambio della chiavetta il giudice non denuncerà il Canonico, colpevole di tenere al suo servizio un assassino. La chiusa della novella poi ricorda in tono favolistico che il ladro di olive rende fertile il frutteto. La giustizia infatti è garantita ai ricchi proprietari grazie alla collusione con i giudici ma è negata alla povera gente.

Deborah Mega

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VERSO UNA NEUTRALITÀ DELLA LINGUA/Come evitare le forme sessiste nella lingua italiana

08 lunedì Apr 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, COSTUME E SOCIETA', La società

≈ Commenti disabilitati su VERSO UNA NEUTRALITÀ DELLA LINGUA/Come evitare le forme sessiste nella lingua italiana

Arte matita di Visoth Kakvei.

Dell’importanza socio-politica della lingua ci si è resi conto da qualche tempo: solo nell’ultimo ventennio tuttavia, con il risveglio della coscienza femminista, con il moltiplicarsi di studi e approfondimenti sulla differenza di genere, si è cominciata ad acquisire consapevolezza di quanto e come la nostra lingua sia ricca di forme sessiste, che rispecchiano radicati valori patriarcali. Ciascuno di noi crede di poter controllare e manipolare la lingua secondo i propri bisogni e i propri scopi mentre è la lingua stessa che spesso ci parla, ci condiziona e produce effetti discriminatori e riduttivi nei confronti delle donne perché spinge a utilizzare lessemi, formule, immagini stereotipate. Diversi sono gli aspetti di problematicità che emergono nel corso del discorso.

Secondo la teoria elaborata nei primi del Novecento da Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, il linguaggio influenza il pensiero e la nostra percezione della realtà. Questo modello ha preso il nome di “relativismo linguistico” a rilevare come il pensiero divenga “debole” in relazione alle possibilità “forti” che assume la competenza lessicale. La lingua rispecchia la società e la cultura in cui siamo immersi, ordina la realtà, la forma e la modella determinando e caratterizzando il modo di pensare comune: data la sua natura convenzionale, è facile dare per scontato il consenso al codice. Tra l’uomo e la realtà non c’è contatto diretto ma tutta una mediazione simbolica costituita da categorie percettive e concettuali, rappresentate appunto dalla lingua, dal mito, dalla religione, dall’arte; tale mediazione condiziona e guida la nostra visione della realtà, non a caso Cassirer aveva definito l’uomo “animale simbolico”. Recenti studi sui processi cognitivi hanno dimostrato che il nostro cervello pensi attraverso etichette linguistiche: anche quando non c’è chiesto di nominare gli oggetti, immediatamente dopo l’attivazione di aree cerebrali preposte alla visione, si attivano quelle preposte al linguaggio; di conseguenza elaboriamo pensieri e ricordi per mezzo del linguaggio verbale. La lingua segue di pari passo l’evoluzione della società, è un sistema di segni e regole che si trasformano nel tempo, essendo “una sovrastruttura, che nasce esclusivamente attraverso un processo naturale di sedimentazione a ritmo lentissimo…” [Devoto] Fino a un secolo fa affinché un neologismo si affermasse, occorrevano tempi lunghi, nella società odierna invece é sufficiente un gruppo di trasmissioni televisive perché s’impongano in breve tempo diverse novità linguistiche. La lingua italiana presenta un alto grado di androcentrismo: tutto il patrimonio linguistico è organizzato intorno all’uomo. Sembrerebbe che in primo luogo sia avvenuta la cancellazione del femminile, poi la strutturazione secondo modelli che si riferiscono al maschile, successivamente la reintroduzione del femminile come variante. Si tratta di uno dei tanti condizionamenti che la donna ha dovuto tollerare per secoli. Per rendersene conto basta leggere i saggi della De Beauvoir, della Greer, dell’italiana Elena Gianini Belotti, che, nel 1970 scrisse il saggio “Dalla parte delle bambine” edito da Feltrinelli, sul condizionamento operato dalla scuola, dalla famiglia e dal contesto sociale sulle bambine. Il maschile assume i connotati di razionalità e concentrazione, il femminile diventa simbolo d’irrazionalità ed emotività, caratteristiche che ostacolano la conoscenza. Ne consegue la sua svalutazione. Anche nella costruzione della propria soggettività le bambine si sottovalutano mentre l’autostima da parte dei bambini appare esagerata. La stessa identificazione di genere e di conseguenza anche la scelta di giochi e giocattoli avvengono nell’età compresa tra i 2 e i 12 anni. In Francia il dibattito sulla questione di genere applicata alla lingua è talmente acceso e sentito che il ministro dell’Istruzione Vincent Peillon e la ministra dei Diritti delle donne Najat Vallaud Belkacem hanno ideato un programma scolastico contro il sessismo, Abcd de l’égalité, destinato alle scuole del primo ciclo. Linguisti e studiosi della lingua affermano che il genere grammaticale e il sesso non andrebbero confusi ma è innegabile che le parole riferite a uomini siano di genere maschile mentre quelle riferite a donne siano di genere femminile tranne che per poche rare eccezioni (es. la sentinella). Ora la dicotomia maschile/femminile è ovvia e necessaria; il problema però è che tale dicotomia non divide il mondo in due zone di pari poteri e importanza, mediante forme linguistiche stereotipate si rafforza la posizione di potere dell’uomo e la subalternità della donna nella società. Nelle coppie oppositive uomini e donne, ragazzi e ragazze, fratelli e sorelle, avviene sempre la precedenza del maschile affermandone la preminenza linguistica, un po’ come nei contrari il buono e il cattivo, il bello e il brutto, il vero e il falso, ecc. Secondo le regole grammaticali, alla presenza di una serie di nomi femminili e maschili, gli aggettivi, i sostantivi, i participi passati si concordano al maschile per assorbimento del femminile, anche quando c’è prevalenza di nomi femminili. Il fondamento androcentrico della lingua si ritrova anche nell’indicare le professioni, con facilità si utilizzano le forme cassiera, cameriera, infermiera, parrucchiera, riferite alle donne ma, nel momento in cui si passa a definire la professionista con laurea, emergono le incertezze e allora le forme ingegnera, prefetta, sindaca appaiono inconsuete e poco credibili, anche perché la presenza femminile in queste funzioni è ancora limitata. Se invece si fa riferimento a termini con il suffisso –essa come professoressa, (attestato per la prima volta nel 1881, nella Sintassi italiana dell’uso moderno di Raffaele Fornaciari) e dottoressa (utilizzato nel sonetto “La mi’ nora” di G.G. Belli del 1834), è evidente che tali resistenze linguistiche sono crollate miseramente e i termini risultano giustamente  riscattati. C’è anche chi sostiene che termini come preside, deputato, notaio, ministro indichino ruoli e funzioni senza alcun riferimento di genere. La tesi è accettabile per lingue che non attuano distinzioni morfologiche di genere, non dunque per l’italiano. Il suffisso –trice oggi usato, dà luogo a forme regolari e diffuse come senatrice, direttrice. Il suffisso –tora invece è stato spesso utilizzato per indicare professioni riferibili a una sfera sociale bassa come pastora, fattora. Molte professioniste preferiscono il titolo al maschile per trasmettere maggior rigore e serietà: tale svalorizzazione instaura una relazione psichica di dipendenza dagli uomini. Va evidenziato anche il peso diverso di alcuni aggettivi o sostantivi se riferiti a uomini o a donne. Serio ha un significato diverso rispetto a seria così come onesto/onesta, pubblico/pubblica, ecc. La disimmetria semantica intende più o meno consapevolmente richiamare la volontà di controllo sociale del corpo delle donne e del loro comportamento sessuale. Anche con aggettivi epiceni (uguali al maschile e al femminile), in molti casi, si usa l’articolo maschile quando si tratta di cariche di prestigio (Es.: il Presidente della Camera Laura Boldrini). Talvolta interviene addirittura il modificatore donna anteposto o posposto al nome base (Es.: donna sindaco oppure ministro donna, ecc.) istituendo così altre forme disimmetriche: la donna sindaco deriva infatti dal sintagma «la donna che ha la funzione di sindaco», così come il «sindaco donna» deriva dal sintagma «il sindaco che (però) è donna»; spesso, il modificatore appare ingiustificato perché basterebbe l’articolo a specificare il genere. Altre forme discutibili sono zitella e scapolo; nel linguaggio burocratico si utilizzano rispettivamente nubile e celibe ma, mentre per zitella s’intende una donna nubile, di età avanzata e si usa in senso ironico o dispregiativo, scapolo si utilizza con riferimento agli aspetti più invidiabili della libertà maschile nei rapporti con la donna o con riferimento alla solitudine. Fortunatamente espressioni come “prendere moglie”, “portare all’altare” che ricalcano sempre lo stesso stereotipo, sono ormai anacronistiche. Anche il termine maschile / femminile ha una diversa connotazione: mentre è normale dire “una donna molto femminile”, non lo è allo stesso modo per l’uomo, mai sentito, infatti, “un uomo molto maschile”, semmai virile. Perfino nelle metafore non c’è reversibilità: esiste la “mangiatrice di uomini” ma non “il mangiatore di donne”, allo stesso modo l’espressione “gambe mozzafiato” si usa esclusivamente per la donna. Tra stereotipi e clichés c’è anche il pregiudizio della “piccolezza” della donna, che appare finalizzato a far passare la donna per una creatura fragile e indifesa, bisognosa di una figura maschile che le faccia da protettore. È vero che in molte razze la femmina è più piccola del maschio ma da qui ad estendere questa caratteristica anche agli aspetti intellettuali e morali ne passa. Anche l’abbigliamento femminile è descritto attraverso diminutivi o vezzeggiativi mentre mai si parlerebbe del cappellino o della giacchina di un uomo se non con intenti caricaturali. Grande responsabilità riveste infine la figura dell’insegnante nello sviluppare il senso critico delle nuove generazioni, e del giornalista, protagonista indiscusso del processo di mutamento del patrimonio linguistico, del suo arricchimento o, in alcuni casi, peggioramento. Non a caso, quando i mass media trattano un personaggio femminile, focalizzano l’attenzione sulla femminilità del soggetto anziché sul suo comportamento, positivo o negativo che sia, scatenando sentimenti di diffidenza, poiché occupa un particolare ruolo. Anche nelle interviste la formula prevede sempre domande personali, sulla famiglia, i figli, le relazioni, la difficoltà o meno di conciliare il lavoro con le esigenze familiari. Dopo diversi anni di lotte di emancipazione che hanno senza dubbio inciso sull’assetto sociale e politico, il linguaggio della stampa e la lingua quotidiana non si sono completamente adeguati ai cambiamenti avvenuti. La donna continua a essere la grande “esclusa” dalle pagine dedicate alla politica e all’economia, mentre comincia ad affermarsi in quelle dedicate alla cultura e allo sport; emerge con facilità invece nella copertina e nelle immagini pubblicitarie. Nelle riviste femminili spesso gestite da donne, non solo la donna è finalmente presente  ma anche il linguaggio utilizzato non è più patriarcale. Tra i molti cambiamenti linguistici avvenuti in questi anni, diversi sono derivati da una precisa azione socio-politica, l’abolizione ad es. di termini come spazzino, serva, giudeo, negro, è stata accettata e assorbita perché non si vuol essere considerati classisti o razzisti; allo stesso modo si dovrebbe giungere a evitare forme linguistiche discriminatorie per non essere tacciati di sessismo. Tutte le forme sopra suggerite sono anch’esse frutto di un’ideologia dichiarata, non più solo di diritti ma di valori laddove “parità” significhi legittimare la differenza e diventi possibilità concreta di sviluppo e realizzazione per tutti, pur nella diversità.

© Deborah Mega

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 1970

Raffaelle Fornaciari, Sintassi italiana dell’uso moderno, Firenze, G.C. Sansoni Editore, 1881

Giuseppe Gioachino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Ed. integrale, Roma, Grandi tascabili economici Newton, 1998, 2 voll.

Commissione Nazionale per la Parità e le pari opportunità tra uomo e donna, Il sessismo nella lingua italiana, a cura di Alma Sabatini, con la collaborazione di Marcella Mariani, Edda Billi, Alda Santangelo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma, 1993, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

*articolo già pubblicato da l’Estroverso a questo indirizzo: https://www.lestroverso.it/verso-una-neutralita-della-lingua/

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EROS E MISTICISMO NELLA POESIA DI ALDA MERINI di Anna Maria Bonfiglio

01 lunedì Apr 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA

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Alda Merini, Anna Maria Bonfiglio

photo by Aaron Draper

Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.

Questa breve poesia di Alda Merini, costituita da otto versi endecasillabi divisi in due quartine senza cesura, ancorché inserita in una raccolta di poesie d’amore dedicate, include una disposizione di segno più ampio, aperta anche ad altro significato. La purezza del verso, la scelta semantica e l’andamento lirico della composizione rimandano ad una misura d’amore che trascende la mera sensualità. Qui le “meraviglie d’amore” non sono solo lo stupore per il sentimento ma accolgono implicazioni di valore spirituale giacché si collegano agli elementi della natura e suscitano una gioiosa esaltazione che viene accompagnata dal tumulto dell’anima. Non si tratta dunque della “meraviglia” come sorpresa dell’incontro con l’altro ma delle “meraviglie” intese come prodigio d’amore aurorale dentro il quale perdersi (… e lì/dentro l’amore/mi son persa come alla bufera). In questo senso mi sentirei di assegnare al testo una valenza anche metafisica, un’eco mistica, e d’altra parte erotismo e misticismo sono due coordinate essenziali nella poetica di Alda Merini. Ma il sentimento erotico che investe grande parte della sua opera contiene in sé dei limiti, è intriso di nostalgia, di rimpianto, è una ricerca continua che non placa il bisogno di donarsi e che non rende felicità. E’ tanto misterico quanto è misteriosa la scaturigine della parola poetica meriniana, vibrante, sferzante, aspra e dolce, stillata da una predisposizione naturale, quasi inconsapevole. Mistero è l’inquietudine dell’anima in bilico fra lucidità e follia, mistero l’esasperato inseguimento dell’eros e il contrappunto di un misticismo al limite dell’estasi, mistero infine l’approdo alla fede, l’incontro con la Croce e la rivelazione del messaggio cristiano comunicato attraverso la visione dell’attesa come meraviglia.

La prima giovinezza di Alda Merini è segnata dall’incontro con poeti e critici già affermati nel campo della cultura nazionale, uomini molto più grandi di lei, dai quali impara quello che gli studi incompiuti le hanno negato. “(…) sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del rinnovamento letterario. Io ero troppo piccola per capire cosa facessero quei grandi uomini. Erba, Pasolini, Turoldo, Manganelli.” E da qualcuno di questi grandi, grandi anche anagraficamente, viene attratta e coinvolta sentimentalmente. E’ facile immaginare quanto in questo pesi la figura del padre dal quale la giovane si è sempre sentita compresa. Racconta: “Mio padre aveva capito il mio destino di monaca e l’aveva aiutato. Mia madre lo aveva combattuto (…) e così mi obbligò a sposarmi. (…) Mio padre si oppose, ma lei fu molto decisa e disse giustamente che la vita in famiglia di una madre è molto più meritevole ed onerosa di quella dei Santi e non c’è grazia che possa illuminare una madre se non quella che viene direttamente da Dio.” La Merini nutre ammirazione per questa madre dalla rigida volontà e dalla notevole bellezza ma al contempo prova gelosia per il rapporto di forte complicità che avverte fra i genitori e fra i due sceglie il padre dal quale riceve insegnamenti e al quale chiede approvazione. Figura di riferimento, dunque, quella paterna, inseguita nelle tante presenze maschili e ritrovata come Padre Eterno alla fine del suo percorso.

La poetica dell’Eros è in Merini un dolore che nasce da radici profonde, percorre la sua vita e la sua scrittura e in fondo si riduce ad una privazione sofferta, ad un bisogno di elevare lo spirito verso qualcosa di ideale e di trascendente. Alla fine è una condizione di solitudine e di vuoto che si riconduce alla necessità di farsi “abitare” da un’Assenza mistica. “Basta un sorriso o un’assenza e/ la mia mente concepisce un amore”. Tutto l’arco dell’esistenza di Merini è percorso da una tensione erotizzante che la conduce verso esperienze amorose che la poesia esalta o maledice ma sempre sublima attraverso la parola affabulante, temeraria nella sua sostanza per i tratti del vissuto che “osa” raccontare e audace nella sua forma per il privilegio di poter coniugare costruzione lirica e libertà versificante. Eppure il turbamento sensuale la prova, considera una condanna la sua appartenenza al sesso femminile al punto di stabilire quasi una relazione fra la follia e l’essere donna: “L’uomo che vuole imporre la sua diversità con la violenza fa pensare che nascere donna sia quasi un invito al delitto. (…) E ancora: “Il marchio manicomiacale della donna sono proprio i suoi genitali. Ogni donna è stata nel proprio manicomio. Ogni donna, benché si coprisse, ha dovuto sottostare alle voglie del maschio dopo la battaglia. (…) La donna viene umiliata ogni volta che ride ed è felice di se stessa.” Questa sorta di abiura ha radici lontane, nel tempo in cui la giovanissima Alda si scopre gelosa del rapporto fra i suoi genitori. Scriverà infatti: “Il più grande dualismo della mia vita furono mio padre e mia madre. Io un figlio che stava nel mezzo, con un sesso che non mi piaceva.” La complicità con il padre, considerato “il primo maestro”, è pari all’ostilità nei confronti della madre, ritenuta collerica e autoritaria. Scriverà in seguito a proposito della figura materna: “Sono anni che ti penso, e sebbene tutti dicano che sono impazzita per amore, sbagliano. Io sono impazzita per te. Sei stata la donna che ho odiato di più nella vita, perché eri bella, stupenda, regale…”

Nella prima raccolta di poesie, La presenza di Orfeo, inizia a prefigurarsi la dualità presenza-assenza (si vedano i versi: “Orfeo novello amico dell’assenza”) e a delinearsi la percezione del corpo come limite e dell’amore come destino di abbandono; mentre in Paura di Dio si annuncia la tensione che ascende alla preghiera e si manifesta la concezione della passione amorosa come Vetta e Abisso. (“Padre, se questa ascesa/ è simile all’abisso e colorata,/ prosperosa ogni vena di ricordo,/ dammi morte ossequiosa/ dei miei ciechi travagli/ e una pura deriva/ a cui possa ancorare ogni divieto”). Qui Dio è ancora presenza indefinita, duplice entità che ha volto luminoso per chi non conosce travaglio ed occhi foschi per le anime inquiete che si scontrano con “l’ombra nemica” brancolando nel buio. Tutta la raccolta vibra di stanchezza interiore, nasce il dolore, “parto ultimo e solo”, per essere inghiottito dal respiro perfetto della morte (Pax). La preghiera è urgenza, solo Dio può porre fine al tormento scatenato dai turbamenti d’amore “perché è a Te che io tendo dalla vita/ prima che conoscessi questi inferni.”

Amore-amori-amanti: cosa cerca Alda se non l’Amato?  E’ una lunga ricerca durante la quale si mettono in uso tutte le armi, è una corsa dentro la quale sta la paura e la follia, è un percorso di attesa e nostalgia,  di accensioni e spegnimenti, di forza e di delusione. “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato /l’amato del mio cuore;/ l’ho cercato ma non l’ho trovato.” Dichiara la sposa del Cantico dei Cantici.  E così Alda non si stanca di percorrere sentieri bui, di bruciare di passione per ogni incontro, e ogni amore è per lei un’Annunciazione, anche quando il tempo ha accumulato anni e segni sul suo corpo e sulla sua anima. Cambia l’apparato simbolico, resta l’attesa, la ricerca di un unico volto che ha assunto vari nomi o, cambiando i termini, di un solo nome che si è rivestito di tanti corpi. Le duplici nozze, gli amanti goduti e quelli solo desiderati, le fantasie erotiche avvolte in dense metafore o espresse con linguaggio esplicito, tutto si riconduce al bisogno di abitare il vuoto, di popolare il deserto dentro cui l’anima vaga anelando il congiungimento che le renda un’identità unica. Già Pasolini, recensendo La presenza di Orfeo, parlava della “ragazzetta milanese” come di una personalità “dall’inquietudine nervosa e dai sensi infelici (…) che vive uno stato di informità” e continuava “(…) soltanto la mancanza del senso d’identità configura nella Merini un dato mistico.” E’ la luce mistica della sofferenza che accompagna il cammino della poetessa nella ricerca di una identità d’amore: “Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento/gemmando fiori da ogni stanco ramo/ e fiorita son tutta e d’ogni velo/ vo’ scerpando il mio lutto” (Genesi). Nella ricchezza dell’amore, genesi che cancella il lutto per ciò che è andato perduto o che mai si è trovato, si riflette quella sorta di misticismo umano che pervade l’eros quando è totale e felice, quando è dono di sé all’altro, quando è fecondo di intenti nei quali riconoscersi. Trovare l’Amato e perderlo e non stancarsi di ricominciare a cercare, perché la ferita della sua assenza è inguaribile e la nostalgia più grande del desiderio di arrendersi. La parola meriniana, corporea e fremente, racconta l’autentica essenza a cui appartiene primariamente la natura del poeta: materia di sensazioni che l’intelletto traduce in realtà metaforica, rivelazione misterica e testimonianza di vita. La donna Alda Merini cerca in ogni amante le tracce assolute dell’Amato, la parte “divina” che vive in ogni uomo, e in questa ricerca esperisce l’avventura nascita- morte- rinascita, sia attraverso la propria vicenda umana sia con il parto della parola creativa. “Quando tu non vieni/le acque del parto/si diffondono in terra/ e cade un pensiero meraviglioso/che tu vedi/ ed è la fine del mondo nel cuore di una donna/ (…) ma quando tu non vieni/ le acque del parto si colorano d’olio/ e io vorrei uccidere mia madre.” (Clinica dell’abbandono). Versi in antitesi, dove l’incipit è metafora di creazione gioiosa e la chiusa è tenebra di morte, desiderio di  cancellare la nascita. Il corpo, nella sua gloria e nella sua miseria, è la chiave che può condurre l’anima ad aprirsi all’enigmatica dimensione dell’Invisibile.

“Il suo sperma bevuto dalle mie labbra/era la comunione con la terra./Bevevo la mia magnifica/esultanza/guardando i suoi occhi neri/che fuggivano come gazzelle.” Versi audaci per la carica che traghetta l’assalto dei sensi verso l’esaltante convinzione di appartenere  ad una dimensione panteistica. La “comunione con la terra” è l’anticipo dell’Incontro Ultimo a cui Merini affiderà il tratto finale della sua avventura umana, condotta come un estenuante duello fra la vita e la sofferenza. Il dolore è stato nella sua carne e nella sua anima, urlo e silenzio, è stato la terra orfica dalla quale tutto ha inizio e nella quale tutto si conclude. “Si sfaldano le rose della mia avvenenza/piano piano in un terreno consunto./Non solo petali che ardono di luce/ma solitarie piante/di chi è stato a lungo dimenticato…”

Merini vive una libertà di linguaggio che si apparenta alla lingua della contemporaneità, un linguaggio che pur restando radicato nella tradizione del secondo Novecento letterario parla alla modernità e forse proprio per questo la sua poesia, contrariamente a quanto succede alla poesia in genere, è amata anche dai giovani.

Anna Maria Bonfiglio

 

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Di sera, un geranio

25 lunedì Mar 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Di sera, Luigi Pirandello, un geranio

Di sera, un geranio è una delle Novelle per un anno di Luigi Pirandello, pubblicata nel 1934 sul “Corriere della Sera”. Si tratta di una novella decadente in cui lo scrittore descrive la scomparsa di una persona di cui non viene detto il nome dal proprio punto di vista. Il defunto vede il suo corpo abbandonato, gli oggetti che gli sono appartenuti, la villa in cui ha vissuto e il suo giardino. La constatazione finale tratta un tema metafisico, comune a molte novelle dell’ultimo Pirandello: il mistero di ciò che attende l’uomo dopo la morte.

S’è liberato nel sonno, non sa come: forse come quando s’affonda nell’acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà su da sé, e su invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giú. Dormiva, e non è piú nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell’aria della sua camera chiusa. 

Alienato dai sensi, ne serba piú che gli avvertimenti il ricordo, com’erano; non ancora lontani ma già staccati: là l’udito, dov’è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov’è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giú il pavimento col tappeto, e quell’uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s’indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia così lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull’occhio. Lui, quello! Uno che non è piú. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d’addormentarsi. Difatti poi, nel sonno… Continua a leggere →

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Nota critica su “Di tanto vivere” di Anna Maria Bonfiglio

11 lunedì Mar 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Deborah Mega, Di tanto vivere

 

Di tanto vivere è l’ultima opera in versi di Anna Maria Bonfiglio, edita da Caosfera nella collana Alabaster. Fin dai primi versi è possibile rendersi conto della qualità dell’offerta poetica indubbiamente dovuta ad una ricca formazione e ad un’assidua frequentazione della poesia. La silloge si articola in diverse sezioni: Discorsi di 27 componimenti, Stanze di 12, Atterraggi di 11, Miserere di 11. I vari testi appaiono d’immediato impatto comunicativo, vi avverto, fin dalla prima lettura, l’elegantissima nobiltà della forma e l’incanto di sensazioni sottili. La poesia è gremita di oggetti espressi in un ricco plurilinguismo espressionista che mira a comporre una lirica prosastica. Una puntualità lessicale al limite del tecnicismo persegue una poetica dell’oggetto evocativa e visionaria. Le formule sono assertive, eloquenti, nette, spiazzanti perché spontanee ma allo stesso tempo sempre finemente cesellate. Il controllo della forma è evidente mentre, dal punto di vista del contenuto, colpisce l’inconsueto contrasto tra partecipazione sentita e distacco controllato che mira a sublimare ed equilibrare la materia poetica.

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Axolotl

21 lunedì Gen 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Fine del gioco, Julio Cortazàr

Uno dei più inquietanti racconti sul tema della metamorfosi è Axolotl, parte di Fine del gioco. Si tratta di un racconto di Julio Cortàzar che declina in chiave moderna il tema del doppio, tanto caro al fantastico tradizionale. Un anonimo ragazzo tutti i giorni si reca all’acquario del Jardin des Plantes  per osservare gli esemplari del pesce anfibio Axolotl e resta a fissarli per ore.

Ci fu un’epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell’acquario del Jardin des Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl. Il caso mi condusse da loro un mattino di primavera in cui Parigi apriva la sua coda di pavone dopo il lento inverno. Scesi lungo il Boulevard de Port-Royal, svoltai per Saint-Marcel e l’Hôpital, vidi il verde fra tanto grigio, e mi ricordai dei leoni. Ero amico dei leoni e delle pantere, ma non ero mai entrato nell’umido e oscuro edificio degli acquari. Lasciai la bicicletta appoggiata alla cancellata e andai prima a vedere i tulipani. I leoni erano brutti e tristi, e la mia pantera dormiva. Decisi per gli acquari, e dopo aver dato un’occhiata ad alcuni pesci per niente interessanti m’imbattei all’improvviso negli axolotl. Rimasi un’ora a osservarli, poi uscii incapace di pensare ad altro. Nella biblioteca Sainte-Geneviève consultai un dizionario e seppi che gli axolotl sono forme larvali, provviste di branchie, una specie di batraci del genere amblistoma. Che fossero messicani me lo avevano fatto intendere loro stessi, i loro piccoli e rosei volti aztechi e il cartello sopra la vasca. Lessi che ne sono stati trovati alcuni esemplari in Africa capaci di vivere sulla terra durante i periodi di siccità, e poi continuare la loro vita in acqua quando giunge la stagione delle piogge. Trovai il loro nome spagnolo, ajolote, l’indicazione che sono commestibili e che il loro olio era usato (si direbbe quindi che non si usa piú) come quello del fegato di merluzzo. Non volli consultare altre opere scientifiche, ma il giorno seguente tornai al Jardin des Plantes. Cominciai ad andarvi tutte le mattine, qualche volta mattino e pomeriggio. Il guardiano degli acquari sorrideva perplesso nel ritirare il mio biglietto. Io mi appoggiavo alla sbarra di ferro che corre lungo le vasche e stavo là a guardarli. Non c’è nulla di strano in questo, perché fin dal primo momento compresi che eravamo legati, che qualcosa d’infinitamente perduto e distante continuava nonostante tutto a tenerci uniti. Mi era bastato fermarmi quella prima mattina davanti al vetro della vasca dove alcune bolle d’aria scivolavano nell’acqua. Gli axolotl si ammonticchiavano sul meschino e stretto (solo io posso sapere quanto meschino e stretto) pavimento  di pietra e muschio dell’acquario. Erano nove esemplari,  e quasi tutti poggiavano la testa contro il vetro guardando con i loro occhi d’oro chi si avvicinava. Turbato, quasi vergognoso, provai un sentimento d’impudicizia nell’affacciarmi su quelle figure silenziose e immobili ammucchiate in fondo all’acquario. Mentalmente ne isolai una, a destra e un po’ discosta dalle altre, per studiarla meglio. Vidi un corpicino roseo e come traslucido (pensai alle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), simile a una piccola lucertola di quindici centimetri che termini in una coda di pesce di una delicatezza straordinaria, la parte piú sensibile del nostro corpo. Lungo la schiena aveva un’aletta trasparente che si fondeva con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza straordinaria, che terminavano in dita minute e in unghie minuziosamente umane.  E fu allora che scoprii i suoi occhi, il suo volto. Un volto inespressivo, senza altro ornamento che gli occhi, due orifizi come punte di spillo, interamente d’oro trasparente, privi in modo assoluto di vita, ma che guardavano e si lasciavano penetrare dal mio sguardo che pareva attraversare il punto aureo e perdersi in un diafano mistero interiore. Un sottilissimo alone nero circondava l’occhio e lo iscriveva nella carne rosa, nella pietra rosa della testa vagamente triangolare, ma con lati curvi e irregolari che la rendevano in tutto simile a una statuina corrosa dal tempo. La bocca era nascosta dal piano triangolare del volto, solo di profilo s’indovinava la sua grandezza considerevole; di fronte, una sottile fenditura incrinava appena la pietra senza vita. Sui due lati della testa, dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, le branchie, suppongo. Ed erano l’unica cosa viva in lui, ogni dieci o quindici secondi i rametti si drizzavano rigidi e si riabbassavano. Qualche volta una zampa si muoveva impercettibilmente, io vedevo le piccole dita posarsi con leggerezza sul muschio. È che a noi non piace muoverci molto, l’acquario è cosí stretto; appena avanziamo un tantino ci urtiamo l’un l’altro con la coda o con la testa; nascono difficoltà, liti, fatica. Si sente meno il tempo se stiamo quieti. Fu il loro quieto raccoglimento che mi spinse a  chinarmi affascinato la prima volta che vidi gli axolotl. Oscuramente mi parve di capire la loro segreta volontà di abolire lo spazio e il tempo con un’immobilità indifferente. In seguito capii meglio, la contrazione delle branchie, il tastare delle zampe sottili sulle pietre, il nuoto improvviso (alcuni di essi nuotano con una semplice ondulazione del corpo) mi dimostrarono che erano capaci di evadere da quel sopore minerale in cui passavano ore intere. I loro occhi, soprattutto, mi ossessionavano. Accanto a loro, nelle altre vasche, diversi pesci mi mostravano la semplice stupidità dei loro begli occhi simili ai nostri. Gli occhi degli axolotl mi parlavano della presenza di una vita diversa, di un’altra maniera di guardare. Con il volto contro il vetro (qualche volta il guardiano tossiva, inquieto) cercavo di vedere meglio i minuti punti aurei, quell’entrata al mondo infinitamente lento e remoto delle creature rosate. Era inutile battere con il dito sul vetro, davanti ai loro volti; mai si avvertiva la benché minima reazione. Gli occhi d’oro continuavano ad ardere nella loro dolce, terribile luce; continuavano a guardarmi da una profondità insondabile che mi dava le vertigini. Eppure erano vicini. Lo seppi prima, prima di essere un axolotl. Lo seppi il giorno in cui per la prima volta mi avvicinai a loro. I tratti antropomorfici di una scimmia rivelano, contrariamente a quanto si crede, la distanza che la separa da noi. L’assoluta mancanza di somiglianza degli axolotl con l’essere umano mi dimostrò che il mio riconoscimento era valido, e che non mi basavo su facili analogie. Solo le manine… Ma anche una lucertola ha mani si- mili, eppure non somiglia in nulla a noi. Credo che fosse la testa degli axolotl, quella forma triangolare rosea con gli occhietti d’oro. Quello guardava e sapeva. Quello re- clamava. Non erano animali. Pareva facile, quasi ovvio, cadere nella mitologia. Cominciai a scorgere negli axolotl una metamorfosi che non riusciva ad annullare una misteriosa umanità. Li immaginai dotati di coscienza, schiavi del loro corpo, infinitamente condannati a un silenzio abissale, a una riflessione disperata. Il loro sguardo cieco, il minuto disco d’oro inespressivo e tuttavia terribilmente lucido, mi penetrava come un messaggio: «Salvaci, salvaci». Mi sorprendevo a mormorare parole di conforto, a trasmettere puerili speranze. Loro continuavano a guardarmi, immobili; all’improvviso i rametti rosei delle branchie si drizzavano. In quell’istante io sentivo come un sordo dolore; forse mi vedevano, captavano il mio sforzo di penetrare l’impenetrabile delle loro vite. Non erano esseri umani, ma in nessun animale mai avevo trovato una relazione cosí profonda con me. Gli axolotl erano come testimoni di qualcosa, a volte come terribili giudici. Mi sentivo privo di nobiltà di fronte a loro; c’era una tale spaventosa purezza in quegli oc- chi trasparenti. Erano larve, ma larva significa maschera e anche fantasma. Dietro a quelle facce azteche, inespressive e tuttavia di una crudeltà implacabile, quale immagine aspettava la propria ora? Li temevo. Credo che se non avessi sentito vicino a me qualche visitatore o il guardiano non avrei avuto il corag- gio di restare solo di fronte a loro. «Lei se li mangia con gli occhi», mi diceva ridendo il guardiano, che doveva giudicarmi un po’ squilibrato. Non si rendeva conto che erano loro che mi divoravano lentamente con gli occhi, in un cannibalismo d’oro. Lontano dall’acquario non facevo che pensare a loro, era come se agissero su di me a distanza. Arrivai al punto di andare a trovarli tutti i giorni, e di notte li immaginavo immobili nell’oscurità, mentre stendevano in avanti una mano che improvvisamente trovava quella di un altro. Forse i loro occhi vedevano in piena notte, e il giorno continuava per loro indefinitamente. Gli occhi degli axolotl non hanno palpebre. Adesso so che non ci fu nulla di strano, che questo doveva accadere. Ogni mattina, chinandomi sull’acquario, il riconoscimento diventava sempre piú perfetto. Soffrivano, ogni fibra del mio corpo raggiungeva quella sofferenza muta e imbavagliata, quella tortura rigida in fondo all’acqua. Spiavano qualcosa, un lontano dominio annientato, un’epoca di libertà in cui il mondo era stato degli axolotl. Non era possibile che un’espressione cosí terribile che riusciva a vincere la forzata inespressività dei loro volti di pietra, non racchiudesse un messaggio di dolore, la prova di quella condanna eterna, di quell’inferno liquido che pativano. Inutilmente volevo dimostrare a me stesso che la mia sensibilità proiettava sugli axolotl una coscienza inesistente. Loro e io sapevamo. Per questo non fu strano quel che accadde. Il mio volto era attaccato al vetro dell’acquario, i miei occhi cercavano di penetrare ancora una volta il mistero di quegli occhi d’oro senza iride e senza pupilla. Vedevo molto da vicino la faccia di un axolotl immobile contro il vetro. Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, invece dell’axolotl vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dell’acquario, la vidi dall’altra parte del vetro. Allora la mia faccia si staccò, e io compresi. Una sola cosa era strana: continuare a pensare come prima, sapere. Rendermi conto di ciò fu simile all’orrore del sepolto vivo che si sveglia al proprio destino. Fuori, la mia faccia si avvicinava di nuovo al vetro, vedevo la mia bocca con le labbra strette nello sforzo di capire gli axolotl. Io ero un axolotl e sapevo adesso istantaneamente che nessuna comprensione era possibile. Lui era fuori dell’acquario, il suo pensiero era un pensiero fuori dell’acquario. Comprendendolo, essendo lui stesso, io ero un axolotl e mi trovavo nel mio mondo. L’orrore era generato – lo seppi all’istante – dal credermi prigioniero in un corpo di axolotl, trasmigrato in lui con il mio pensiero di uomo, sotterrato vivo in un axolotl, condannato a muovermi lucidamente fra creature insensibili. Ma tutto cessò quando una zampina venne a carezzarmi il volto, quando spostandomi appena vidi un axolotl vicino a me che mi guardava, e seppi che anche lui sapeva, senza comunicazione possibile, ma chiaramente. O io ero anche in lui, oppure tutti noi pensavamo come gli uomini, incapaci di espressione, limitati entro lo splendore dorato dei nostri occhi che guardavano la faccia dell’uomo contro l’acquario. Lui tornò molte volte, ma adesso viene meno. Passano settimane prima che si affacci. Ieri l’ho visto, mi ha guardato a lungo e se ne è andato bruscamente. Mi è parso che non si interessasse tanto a noi quanto piuttosto obbedisse a un’abitudine. Siccome l’unica cosa che faccio è pensare, ho potuto pensare molto a lui. Mi capita di pensare che in principio continuassimo a comunicare, che lui si sentisse piú che mai unito al mistero che lo ossessionava. Ma i ponti fra lui e me si sono rotti, perché quel che era la sua ossessione è adesso un axolotl, estraneo alla sua vita di uomo. Credo che in principio io fossi capace di tornare in un certo senso a lui – ah, solo in un certo senso – e mantenere sveglio il suo desiderio di conoscerci meglio. Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è soltanto perché ogni axolotl pensa come un uomo chiuso nella propria immagine di pietra rosa. Mi pare di essere riuscito a comunicargli qualcosa di tutto questo nei primi giorni, quando ero ancora lui. E in questa solitudine finale, alla quale egli ormai non torna, mi consola il pensiero che forse scriverà qualcosa su di noi, credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl.

Julio Cortàzar, Fine del gioco, trad.it.di F. Nicoletti Rossini, in I racconti, Einaudi, Torino 1994  

L’azione narrativa, come in altri racconti di Cortàzar, è piuttosto esile e riassunta tutta nell’incipit:

Ci fu un’epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell’acquario del Jardin des Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl. 

Immediatamente il lettore si chiede se chi parla è diventato un axolotl o se a parlare sia proprio un axolotl. Come sempre in Cortàzar il destino è tracciato dal caso.

Il caso mi condusse da loro un mattino di primavera in cui Parigi apriva la sua coda di pavone dopo il lento inverno. Scesi lungo il Boulevard de Port-Royal, svoltai per Saint-Marcel e l’Hôpital, vidi il verde fra tanto grigio e mi ricordai dei leoni. Ero amico dei leoni e delle pantere, ma non ero mai entrato nell’umido e oscuro edificio degli acquari.

La letteratura fantastica non è una letteratura d’evasione, ma piuttosto di invasione da parte dell’inaudito, dell’illogico, dell’irrazionale che penetrano nella vicenda provocandone il mutamento, la trasformazione, che comincia dall’ossessione del protagonista per l’animale. Il narratore in prima persona registra paure, perplessità, descrizione degli axolotl dai piccoli e rosei volti aztechi con accuratezza maniacale, che mette in evidenza l’attrazione che l’animale esercita sull’uomo.

Rimasi un’ora a osservarli, poi uscii incapace di pensare ad altro.

L’impressione, in diversi racconti del testo, è che gli animali siano mossi da una determinazione quasi diabolica nel voler scavalcare la supremazia dell’uomo; l’invasione degli spazi privati da parte dell’animale distrugge le sicurezze umane, rendendo la bestia più forte dell’uomo sul piano psicologico. Nel finale la metamorfosi è definitivamente compiuta. Il ragazzo è divenuto un axolotl e osserva se stesso attraverso il vetro dell’acquario. Il pesce diventa simbolo del desiderio di conoscenza di qualcosa di irraggiungibile. Il tema del doppio insiste sul tasto dell’incomprensione e non sull’ambiguità alla maniera di Poe o Stevenson.

Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dall’acquario, la vidi dall’altra parte del vetro. Allora la mia faccia si staccò, e io compresi. Una sola cosa era strana: continuare a pensare come prima, sapere. Rendermi conto di ciò, fu simile all’orrore del sepolto vivo che si sveglia al proprio destino.
Alla fine tutto resta invariato, axolotl e uomo continuano a occupare il posto di sempre, anche se invertito, perché quello che si consuma attraverso il vetro è un mutamento tutto interiore.

Credo che in principio io fossi capace di tornare in un certo senso a lui – ah, solo in un certo senso – e mantenere sveglio il suo desiderio di conoscerci meglio. Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è solo perché ogni axolotl pensa come un uomo chiuso nella propria immagine di pietra rosa.

Nel finale affiora l’ennesima deviazione e sfida alla ragione, da cui scaturisce l’orrore:

Mi pare di essere riuscito a comunicargli qualcosa di tutto questo nei primi giorni, quando ero ancora lui. E in questa solitudine finale, alla quale ormai lui non torna, mi consola il pensiero che forse scriverà qualcosa su di noi, credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl.

Deborah Mega

 

 

 

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Incipit 24: La casa degli spiriti

12 lunedì Nov 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Isabel Allende, La casa degli spiriti

Man Ray, Zero

Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia.
In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto.
Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.

 […]

Isabel Allende, La casa degli spiriti, Feltrinelli, 1983

 

La casa degli spiriti è il primo romanzo di Isabel Allende, pubblicato a Buenos Aires nel 1982 e tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1983. Pare che faccia parte di una trilogia ideale, gli altri romanzi, scritti successivamente, furono  La figlia della fortuna e Ritratto in seppia. La Allende si trovava già a Caracas, in autoesilio dopo il golpe del generale Pinochet in cui aveva trovato la morte il cugino di suo padre, il presidente Salvador Allende. Il golpe di Pinochet era stato un grave colpo per la famiglia Allende e Isabel era stata costretta a riparare con il marito e i due figli a Caracas. Il libro affronta la storia del Cile, vista attraverso gli occhi e le emozioni delle donne di tre differenti generazioni. Inizia negli anni venti del Novecento, con la morte di Rosa del Valle, avvelenata accidentalmente dagli avversari politici del padre. La morte di Rosa è un evento traumatico per la sorella più piccola, Clara, che fin da bambina manifesta il dono della preveggenza e della telepatia. Esteban Trueba, già innamorato di Rosa, stava lavorando duramente per poter sposare la ragazza, ma, dopo aver appreso la notizia della sua morte, si trasferisce nella sua tenuta di campagna, “Le Tre Marie” e, dopo anni di decadenza e di incuria la riporta allo splendore, imponendosi come uno dei proprietari terrieri più eminenti della zona. Lì, però, risente della solitudine e compie violenze contro le figlie dei contadini delle sue campagne. Nove anni dopo Clara prevede che Esteban Trueba chiederà la sua mano, e questo succede quando l’uomo torna nella capitale per dire addio alla madre malata. Convinto di doversi sposare, infatti, Esteban chiede la mano di Clara del Valle, sorella della defunta Rosa, la quale, accetta la proposta e rompe il silenzio di diversi anni di mutismo volontario. Dopo pochi mesi si celebra il matrimonio. Esteban si innamora di Clara tuttavia capisce subito che lei non ricambierà mai il suo amore perché è un essere angelico appartenente più all’altro mondo, quello delle anime, che a quello dei mortali. È allo scopo di farla innamorare che decide di costruire la “Grande casa dell’angolo”, una bellissima casa di lusso che costituirà lo sfondo per le avventure delle future generazioni. Trasferitasi nella casa di campagna, con loro va a vivere Férula, sorella di Esteban che aveva accudito la loro madre fino alla sua morte e che instaura una grande amicizia con Clara, che si protrae fino a quando l’uomo, disturbato e geloso delle cure e dell’adorazione dimostrata da Férula nei confronti di sua moglie, la caccia di casa. Férula morirà emarginata e povera, e il suo spirito si presenterà a salutare per l’ultima volta l’amata cognata. Clara intanto aveva dato alla luce Blanca, ma dopo alcuni anni il padre la manda in collegio per farle avere un’educazione adeguata al suo status sociale. Durante uno dei suoi rientri a casa, Blanca incontra Pedro Terzo Garcìa, il figlio di uno dei contadini delle Tre Marie. Con gli anni Blanca coltiva per lui un amore profondo e indissolubile quanto impossibile. La storia tra lei e Pedro è senza speranza perché lei è la figlia di un nobile e lui il figlio di un mezzadro. Un giorno Trueba, preso dall’ira, colpisce al volto la moglie che si era pronunciata in difesa della figlia, e Clara decide di non rivolgergli mai più la parola e di andarsene dalla campagna per tornarsene in città. Dopo alcuni anni Blanca torna a casa e sfida l’autorità del padre per amore del ribelle Pedro Terzo García, che conosceva fin da quando era bambino.  Blanca rimane incinta di Alba, che viene però considerata figlia del conte de Satigny al quale Esteban aveva dato in sposa Blanca. La giovane era fuggita dal proprio marito, nel momento in cui aveva scoperto gusti libertini non compatibili con il matrimonio. Un giorno Clara dice ad Alba che le anime la stanno chiamando dall’altro mondo, e che è finita la sua permanenza in quello dei mortali. Clara muore il giorno del settimo compleanno della piccola, ma Alba, Blanca ed Esteban continuano a sentire la sua presenza tra i muri della casa. Clara non lascia mai veramente la storia, è sempre un’anima che guida la famiglia nei momenti difficili. L’amarezza di Trueba si attenua solo quando Blanca dà alla luce Alba che, soprattutto dopo la morte di Clara, per l’ormai vecchio Trueba rappresenta l’ultimo affetto, dopo che aveva allontanato anche i due fratelli più piccoli di Blanca, i gemelli Jaime e Nicolás. Esteban si affeziona alla nipote più di quanto avesse mai fatto con i suoi figli. Quando Esteban entra in politica, i suoi rapporti con Pedro si inaspriscono ancora di più, perché il ragazzo sostiene la rivoluzione, mentre Esteban è un esponente della Destra Conservatrice. Nel 1970 vince le elezioni per la carica di presidente Salvador Allende, un socialista. Esteban Trueba si oppone con forza al presidente e fa parte del gruppo di politici che organizzano il golpe cileno, con l’aiuto della CIA. Alle spalle di Trueba, Jamie diventa amico del presidente Allende, mentre nel paese si moltiplicano gli scontri tra ceto medio e aristocrazia e gli atti di terrorismo imperversano nel paese. Nel 1973 viene realizzato il Colpo di Stato cileno. Quando i militari entrano nel Palazzo della Moneda, sequestrano tutti, compreso Jamie, che viene torturato e poi ucciso. L’Esercito non restituisce il potere alla Destra politica, come pensava Esteban, una volta al potere, estromette i politici conservatori da cui aveva ricevuto impulso e finanziamenti e affida il potere a Pinochet. Jaime, imprigionato durante il golpe, si rifiuta di mentire sulla fine del Presidente, di cui era amico, e viene torturato e ucciso. Trueba riesce a far espatriare in Canada Blanca e Pedro Terzo García. Alba intanto offre rifugio ai perseguitati dal regime, che come fantasmi popolano la casa dell’angolo, confusi da Esteban con le altre ombre, quelle degli spiriti della famiglia, che avevano frequentato i circoli esoterici di Clara. A causa della sua relazione con il rivoluzionario Miguel e del suo appoggio ai guerriglieri e ai latitanti, la giovane viene arrestata, torturata e stuprata dai militari che vogliono sapere dove si nasconda il suo amante, e in particolare da uno dei tanti nipoti illegittimi di Trueba, Esteban García, che covava sin da piccolo il rancore della nonna, una delle contadine violentate dal padrone, e l’invidia per la padroncina. Esteban Trueba riesce a liberare la nipote, grazie alla sua amicizia con Tránsito Soto, una prostituta nota tra i funzionari militari. Alba, infine, in attesa di Miguel e di mettere al mondo la propria figlia, riscopre i vecchi quaderni dove Clara annotava minuziosamente la sua vita durante i lunghi silenzi, e con essi ricostruisce la storia della sua famiglia e del suo paese. Esteban Trueba, in punto di morte, verrà salutato dal fantasma di Clara, poi muore tra le braccia di Alba, dopo averle raccontato tutta la storia della famiglia a partire dalla morte di Rosa. Il romanzo si conclude come era iniziato, con la differenza che non è più Clara a narrare le vicende della famiglia, ma la giovane Alba, che è il simbolo della vita che continua, nonostante gli errori e le disgrazie. Con La casa degli spiriti la Allende si è affermata come una delle più importanti voci della letteratura sudamericana. Il romanzo descrive eventi effettivamente accaduti, notevole è inoltre nel libro la presenza di elementi di realismo soprannaturale, come gli spiriti, da cui il titolo. Con un linguaggio semplice e a volte crudo si descrivono il dolore, le passioni, la dittatura, la colpa, la vendetta, l’ingiustizia e si analizzano tipologie umane differenti come quella di Esteban, ossessionato dal senso di possesso di persone e cose, agli antipodi rispetto alla personalità di Clara, immersa in un mondo parallelo, fatto di mutismi volontari, di spiriti, di visioni. Il romanzo è un misto tra realtà e fantasia, tra ricordi e racconti, tra politica e situazioni familiari. Il realismo magico è un tratto caratteristico di tutta la letteratura sudamericana ed è interessante notare che, nell’opera della Allende, le donne, Rosa, Clara, Blanca, Alba sono il motore dell’azione e i catalizzatori di tutta la magia.

Deborah Mega

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FRANKENSTEIN, GENESI DI UN CAPOLAVORO

31 mercoledì Ott 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA

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Frankenstein ossia il moderno Prometeo, Mary Shelley

Ti ho chiesto io, Creatore,

di modellarmi uomo dalla mia creta?

Ti ho sollecitato io

a liberarmi dall’oscurità?

John Milton, Il Paradiso Perduto

(X, 743-5)

In occasione del bicentenario dalla pubblicazione nel 1818 di Frankenstein, vi proponiamo un approfondimento dedicato a questo celebre romanzo. Non c’è altra opera della tradizione gotica che sia penetrata così profondamente nell’immaginario collettivo. Continua a leggere →

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Incipit 23: Moby Dick

17 lunedì Set 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Herman Melville, Moby Dick

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un gran gesto filosofico Catone si butta sulla spada: io zitto zitto m’imbarco. E non c’è niente di strano. Se soltanto lo sapessero, prima o poi quasi tutti nutrono, ciascuno a suo modo, su per giù gli stessi miei sentimenti per l’oceano.  […]

Herman Melville, Moby Dick, Bentley, Harper & Brothers, 1851

Il romanzo Moby Dick fu scritto in un anno e mezzo da Hermann Melville e fu dedicato all’amico Nathaniel Hawthorne. Capolavoro della letteratura americana della American Renaissance,  fu pubblicato in due versioni differenti nel 1851: in ottobre a Londra dall’editore Bentley con il titolo The Whale (“La balena”) con modifiche fatte dall’autore e dall’editore per ripulire il testo dalle parti considerate offensive nei confronti della Corona britannica; in novembre a New York presso l’Editore Harper & Brothers con il titolo definitivo Moby-Dick. Alla morte di Melville però, nel 1891, l’opera era fuori stampa, fu riscoperta solo negli anni Venti del ‘900.

La vicenda narrata da Ismaele, nome di origine biblica, nella Genesi infatti Ismaele è il figlio di Abramo e della schiava Agar, tratta il tema del viaggio della baleniera Pequod, comandata dal capitano Achab e della maledizione perchè la nave è condannata ad essere affondata da un’enorme balena bianca, in realtà un capodoglio, verso il quale Achab nutre una smisurata sete di vendetta. In Moby Dick oltre alle scene di caccia alla balena, si affronta il dilemma dell’ignoto, il senso di speranza, la possibilità di riscattarsi. Il narratore Ismaele, alter ego dell’autore, tratta riflessioni scientifiche, religiose, filosofiche sulla verità e la giustizia e trasforma il viaggio in un’allegoria della condizione della natura umana. Il contenuto enciclopedico e digressivo richiede che la lettura sia accompagnata dall’interpretazione, in quanto l’autore utilizza un gran numero di citazioni di storie epiche, shakespeariane, bibliche. Moby Dick fu tradotto in italiano per la prima volta nel 1930 dallo scrittore Cesare Pavese che non riuscì a farlo pubblicare. Solo nel 1932 l’editore Carlo Frassinelli lo fece stampare nella sua neonata casa editrice come primo titolo della collana Biblioteca europea diretta da Franco Antonicelli. Il narratore Ismaele è un marinaio che nonostante «sia oramai piuttosto vecchio del mestiere» ha deciso che per il suo prossimo viaggio s’imbarcherà su una baleniera. In una notte di dicembre giunge alla Locanda dello Sfiatatoio, presso New Bedford, accettando di dividere un letto con uno sconosciuto al momento assente. Quando il suo compagno di branda, un tatuatissimo ramponiere polinesiano chiamato Queequeg, fa ritorno a ora tarda e scopre Ismaele sotto le sue coperte, i due uomini si spaventano reciprocamente. Diventati amici, i due decideranno di imbarcarsi assieme dall’isola di Nantucket sulla Pequod. La nave è comandata da un inflessibile capitano chiamato Achab ed è equipaggiata da 30 marinai di ogni razza e provenienti da ogni angolo del pianeta. Sul molo i due amici s’imbattono in un misterioso uomo dal nome biblico di Elia che allude a future disgrazie che colpiranno Achab. L’atmosfera di mistero si amplifica la mattina di Natale quando Ismaele vede delle oscure figure nella nebbia vicine al Pequod, che proprio quel giorno spiega le vele. All’inizio sono gli ufficiali della nave a dirigere la rotta, mentre Achab se ne sta rinchiuso nella sua cabina. Il primo ufficiale è Starbuck, un uomo severo e coscienzioso che si dimostra anche un abile comandante; il secondo ufficiale è Stubb, spensierato e allegro, collezionista e fumatore di pipe; il terzo ufficiale è Flask, tozzo e di bassa statura e del tutto affidabile. Una mattina, qualche tempo dopo la partenza, finalmente Achab compare sul cassero della nave. La sua è una figura imponente priva di una gamba dal ginocchio in giù, rimpiazzata da una protesi realizzata con la mascella di un capodoglio. Achab svela all’equipaggio che il vero obiettivo della caccia è Moby Dick, un vecchio ed enorme capodoglio, dalla pelle chiazzata che lo ha menomato durante il suo ultimo viaggio a caccia di balene. Egli non si fermerà davanti a niente nel suo tentativo di uccidere la balena bianca. Durante la prima calata della lance per inseguire un gruppo di balene, Ismaele riconosce gli uomini intravisti nella foschia prima che il Pequod salpasse. Achab aveva in segreto portato con sé il proprio equipaggio, incluso un ramponiere chiamato Fedallah, un enigmatico personaggio che esercita una sinistra influenza su di lui. Il romanzo descrive numerosi incontri con altre navi in mare aperto durante i quali Achab rivolge sempre la stessa domanda all’equipaggio delle altre navi: «Avete visto la Balena Bianca?». Quando il Pequod entra nell’Oceano Pacifico Queequeg si ammala e chiede al carpentiere della nave che gli venga costruita una bara che non gli servirà poiché alla fine deciderà di continuare a vivere. Quando Achab non accoglie richieste di aiuto da altre navi perché è davvero vicino a Moby Dick e non si fermerà di certo per soccorrerli, Starbuck lo implora invano di riconsiderare la sua sete di vendetta. Il giorno dopo, il Pequod avvista Moby Dick. Per due giorni l’equipaggio insegue la balena, che infligge loro numerosi danni, compresa la scomparsa in mare del ramponiere Fedallah. Il terzo giorno Moby Dick, riemergendo, lo mostra ormai morto avviluppato dalle corde dei ramponi. Il capodoglio che nuota lontano dal Pequod non cerca la morte dei balenieri mentre Achab vuole la sua vendetta. Achab ignora per l’ennesima volta la voce della ragione e continua con la sua caccia sventurata. Poiché Moby Dick aveva danneggiato due delle tre lance che erano salpate per cacciarlo, l’imbarcazione di Achab è l’unica rimasta intatta. Achab rampona la balena, ma la corda del rampone si rompe. Moby Dick si scaglia allora contro il Pequod stesso, il quale, danneggiato gravemente, comincia ad affondare. Achab rampona nuovamente la balena ma questa volta il cavo gli si impiglia al collo e il capitano viene trascinato negli abissi oceanici dall’immersione di Moby Dick. La lancia viene quindi inghiottita dal vortice generato dall’affondamento della nave, nel quale quasi tutti i membri dell’equipaggio trovano la morte. Soltanto Ismaele riesce a salvarsi, aggrappandosi alla bara di Queequeg. Il romanzo di Melville ha notevolmente influenzato gli autori successivi dando origine a innumerevoli citazioni in altre opere e ad una ricca cinematografia.  La caccia alle balene ai tempi di Melville era divenuta un’attività idealizzata, rappresentava la vitalità dello spirito americano che si espande sugli oceani e il conflitto primordiale tra l’uomo e le forze misteriose della Natura. Il viaggio diventa per Ismaele e per Melville alternativa alla morte, processo di accostamento al Vero. È impresa eroica, ma anche processo di colpa e punizione. Qualcuno ha sottolineato l’aspetto faustiano di Achab, il fatto che rappresenti la maledizione dell’uomo moderno, escluso dalla Natura che rimpiange; altri hanno visto in lui l’eroe folle di Byron e dei romantici, il superuomo o il dittatore che spinge una ciurma di automi al suicidio collettivo. Nel rispettare l’altro da sé e il mistero delle cose Ismaele è l’unico che si avvicini a capire la balena bianca e l’unico capace di sopravvivenza e di rinascita. Forse per questo è l’unico a salvarsi e a poter testimoniare. Moby Dick è per ciascuno ciò che vuol credere: per Achab l’incarnazione del male metafisico, per Queequeg uno dei demoni contro cui si deve lottare, per Ismaele una creatura ambigua come la Natura, benigna e malvagia, vulnerabile e allo stesso tempo immortale. Per Melville la lotta epica tra Achab e la balena rappresenta l’eterna sfida tra il Bene e il Male e Moby Dick il Male dell’universo.  Ma la balena rappresenta anche l’Assoluto che l’uomo insegue e non può conoscere mai.

Deborah Mega

 

 

 

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Meriggiare pallido e assorto

01 sabato Set 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto, Ossi di seppia

Limina Mundi riprende la sua programmazione ordinaria con la pubblicazione di un celebre testo di Eugenio Montale dedicato all’estate e tratto dalla raccolta Ossi di seppia. Il poeta descrive il paesaggio ligure assolato e riarso dal sole durante le ore più calde di un pomeriggio estivo. Gli elementi della natura diventano emblemi della sofferenza e del male di vivere che accomuna tutte le creature: il frusciare delle serpi, il movimento incessante delle formiche, il suono quasi metallico del mare sono tutte espressioni del brancolare privo di senso, dietro le quali si annida prepotentemente il nulla. Lo stesso vivere è come camminare costeggiando un muro invalicabile, che ha in cima “cocci aguzzi di bottiglia”, si mette in evidenza così l’impossibilità di sfiorare e comprendere il vero senso dell’esistenza. Meriggiare è il primo di una lunga serie di infiniti e forme impersonali come “ascoltare” “Osservare”, “andando”, “sentire”, “seguitare” che ricorrono nel componimento, per rappresentare una situazione di desolante staticità. I suoni aspri e secchi della c velare, della s e della r insieme al gruppo gl (“abbaglia”, “meraviglia”, “travaglio”, “muraglia”, “bottiglia”) che ricorrono per tutta la poesia, ricordano le scelte stilistiche dell’Alighieri delle “rime petrose”. L’immagine del muro è qualcosa di invalicabile, più che ad una barriera fisica si fa riferimento ad una condizione metafisica ed esistenziale. La poesia si compone di tre quartine e una strofa conclusiva di cinque versi (di varia misura, dall’endecasillabo al novenario) con rime secondo lo schema: AABB CDCD EEFF GHIGH.

foto di Deborah Mega

 

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

EUGENIO MONTALE, da Ossi di seppia

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Incipit 22: Ragazzi di vita

28 lunedì Mag 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita

  1. Il Ferrobedò

E sotto er monumento de Mazzini…
Canzone popolare

Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante. Appena finito il sermoncino del Vescovo, Don Pizzuto e due tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei ragazzi che s’inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto si sentiva rodere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa vado,» fece il Riccetto, «tengo fame.» «Vie’ a casa mia, no, a fijo de na mignotta,» gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo.» Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull’asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c’era silenzio, ma era carico come una mina. Il Riccetto s’andò a cambiare.
Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d’immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s’imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini. 
Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza o d’un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare s’aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette regolari di legno, dall’altra i magazzini. Il Riccetto col branco di gente attraversò il Ferrobedò quant’era lungo, in mezzo alla folla urlante, e giunse davanti a una delle casette. Ma lì c’erano quattro Tedeschi che non lasciavano passare. Accosto la porta c’era un tavolino rovesciato: il Riccetto se l’incollò e corse verso l’uscita. Appena fuori incontrò un giovanotto che gli disse: «Che stai a fa?» «Me lo porto a casa, me lo porto,» rispose il Riccetto. «Vie’ con me, a fesso, che s’annamo a prenne la robba più mejo.»  QUESTO TESTO E’ STATO COPIATO DAL BLOG LIMINA MUNDI.  Continua a leggere →

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Incipit 21: Elogio della follia

07 lunedì Mag 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam

                                                       Erasmo da Rotterdam al suo Tommaso Moro

Alcuni giorni fa, tornando dall’Italia in Inghilterra, per non sprecare in chiacchiere banali il tempo che dovevo passare a cavallo, preferii riflettere un poco sui nostri studi comuni e godere del ricordo degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra i primi che mi sono tornati alla mente c’eri tu, Moro carissimo. Anche da lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava, nella consueta intimità, la tua presenza che è stata, te lo giuro, la cosa più bella della mia vita. Visto, dunque, che ritenevo di dover fare ad ogni costo qualcosa, e che il momento non sembrava adatto a una meditazione seria, mi venne in mente di tessere un elogio scherzoso della Follia. “Ma quale capriccio di Pallade – ti chiederai – ti ha ispirato un’idea del genere?” In primo luogo, il tuo nome di famiglia, tanto vicino al termine morìa, quanto tu sei lontano dalla follia. E ne sei lontano a parere di tutti. Immaginavo inoltre che la mia trovata scherzosa sarebbe piaciuta soprattutto a te, che di solito ti diletti in questo genere scherzi, non privi, mi sembra, di dottrina e di sale, perchè nella vita di tutti i giorni fai in qualche modo la parte di Democrito. Sebbene, infatti, per singolare acume d’ingegno tu sia tanto lontano dal volgo, con la tua incredibile benevolenza e cordialità puoi trattare familiarmente con uomini d’ogni genere, traendone anche godimento. Quindi, non solo accoglierai di buon grado questo mio modesto esercizio retorico, per ricordo del tuo amico, ma anche lo prenderai sotto la tua protezione; dedicato a te, non mi appartiene più: è tuo. E’ probabile, infatti, che non mancheranno voci rissose di calunniatori ad accusare i miei scherzi, ora di una futilità sconveniente per un teologo, ora di un tono troppo pungente per la mansuetudine cristiana; e grideranno che prendo a modello la commedia antica e Luciano, mordendo tutto senza lasciare scampo. Vorrei però che quanti si sentono offesi dalla scherzosa levità del mio tema, si rendessero conto che non sono l’inventore del genere, e che già nel passato molti grandi autori hanno fatto lo stesso. Tanti secoli fa, Omero cantò per scherzo “la guerra dei topi con le rane”, Virgilio la zanzara e la focaccia, Ovidio la noce. Policrate incorrendo nelle critiche di Ippocrate fece l’elogio di Busiride, Glaucone quello dell’ingiustizia, Favorino di Tersite, della febbre quartana, Sinesio della calvizie, Luciano della mosca e dell’arte del parassita. Sono scherzi l’apoteosi di Claudio scritta da Seneca, il dialogo fra Grillo e Ulisse di Plutarco, l’asino di Luciano e di Apuleio, e il testamento – di cui ignoro l’autore – del porcello Grunnio Corocotta menzionato anche da san Girolamo. Lasciamo perciò che certa gente, se crede, vada fantasticando che, per svago, a volte, ho giocato a scacchi, o, se preferisce, che sono andato a cavallo di un lungo bastone. Certo, è una bella ingiustizia concedere a ogni genere di vita i suoi svaghi, e non consentirne proprio nessuno ai letterari, soprattutto poi quando gli scherzi portano a cose serie, e gli argomenti giocosi sono trattati in modo che un lettore non del tutto privo di senno può trarne maggior profitto che non da tante austere e pompose trattazioni. Come quando con mucchi di parole si tessono le lodi della retorica o della filosofia, o si fa l’elogio di un principe, o si esorta a fare la guerra ai Turchi, mentre qualcuno predice il futuro, o va formulando questioncelle di lana caprina. In realtà, come niente è più frivolo che trattare in modo frivolo cose serie, così niente è più gradevole che trattare argomenti leggeri in modo da dare l’impressione di non avere affatto scherzato. Di me giudicheranno gli altri; eppure se la presunzione non mi accieca completamente, ho fatto sì l’elogio della Follia, ma non certo da folle. Quanto poi all’accusa di spirito mordace, rispondo che si è sempre concessa agli scrittori la libertà d’esercitare impunemente la satira sul comune comportamento degli uomini, purché non diventasse attacco rabbioso. Per questo mi meraviglia tanto di più la delicatezza delle orecchie d’oggi, che riescono a sopportare ormai solo titoli solenni. In taluni, anzi, trovi una religione così distorta che passano sopra alle più gravi offese a Cristo prima che alla minima battuta ironica sul conto di un pontefice o di un principe, soprattutto poi se entrano in gioco i loro privati interessi. D’altra parte, uno che critica il modo di vivere degli uomini così da evitare del tutto ogni accusa personale, si presenta come uno che morde, o non, piuttosto, come chi ammaestra ed educa? E, di grazia, non investo anche me stesso con tanti appellativi poco lusinghieri? Aggiungi che, chi non risparmia le sue critiche a nessun genere di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare tutti i vizi. Se, dunque, ci sarà qualcuno che si lamenterà d’essere offeso, sarà segno di cattiva coscienza o per lo meno di paura. Satire di questo genere, e molto più libere e mordenti, troviamo in san Girolamo, che talvolta fece anche i nomi. Io non solo non ho mai fatto nomi, ma ho adottato un tono così misurato che qualunque lettore avveduto si renderà conto che mi sono proposto la piacevolezza piuttosto che l’offesa. Né ho seguito l’esempio di Giovenale: non ho mai smosso l’oscuro fondo delle scelleratezze; ho cercato di colpire quanto è risibile piuttosto che le turpitudini. Se poi c’è ancora qualcuno che nemmeno così è contento, ricordi almeno questo: che è bello essere vituperati dalla Follia e che avendola introdotta a parlare, dovevo rimanere fedele al personaggio. Ma perché dire queste cose a te, avvocato così straordinario da difendere in modo egregio anche cause non egregie? Addio, eloquentissimo Moro, e difendi con zelo la tua Morìa. Continua a leggere →

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Incipit 20: Demian

12 lunedì Mar 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Demian, Hermann Hesse

Demian_Erstausgabe

Eppure, non volevo tentar di vivere

se non ciò che spontaneamente

voleva erompere da me.

Perché? Era tanto mai difficile?

 

Per raccontare la mia storia devo incominciare dal lontano inizio. Se mi fosse possibile, dovrei risalire molto più addietro, fino ai primissimi anni della mia infanzia, e più oltre ancora nelle lontananze della mia origine. Quando scrivono romanzi, gli scrittori fanno come fossero Dio e potessero abbracciare con lo sguardo e comprendere la storia di un uomo e riprodurla quasi Dio la narrasse a se stesso, sempre essenziale e senza veli. Io non ne sono capace, come non ne sono capaci gli scrittori. La mia storia però ha per me più importanza di quanto non ne abbia per altri scrittori la loro; è infatti la mia vita, è la storia di un uomo non inventato e possibile, non ideale o in qualche modo non esistente, ma di un uomo vero, unico, vivente. Certo che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai, e perciò si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso e unico della natura. Se non fossimo qualcosa in più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie. Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore. Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggior facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia. Non posso dire di essere un sapiente. Fui un cercatore e ancora lo sono, ma non cerco più negli astri e nei libri: incomincio a udire gli insegnamenti che fervono nel mio sangue. La mia storia non è amena, non è dolce e armoniosa come le storie inventate, sa di stoltezza e confusione, di follia e sogno, come la vita di tutti gli uomini che non intendono più mentire a se stessi. La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità. Ognuno reca con sè, sino alla fine, residui della propria nascita, umori e gusci d’uovo d’un mondo primordiale. Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l’uomo. Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso; ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso.

[…]

Hermann Hesse, Demian, Fisher, 1919

Demian – Storia della giovinezza di Emil Sinclair, è un romanzo di formazione scritto in pochi mesi da Hermann Hesse durante la prima guerra mondiale e pubblicato per la prima volta nel 1919 presso l’editore Fischer, sotto lo pseudonimo di “Emil Sinclair”. È la storia di un uomo combattuto tra due mondi, quello retto, “chiaro e giusto” e quello proibito e cattivo, problematica che esercitava grande impressione sui giovani reduci della guerra. Probabilmente il nome di Sinclair è stato suggerito allo scrittore da un Eduard von Sinclair, amico e benefattore di Friedrich  Hölderlin. Il romanzo dovette piacere molto anche a Thomas Mann che lo definì un piccolo capolavoro e che per qualche tempo credette all’esistenza di un Sinclair, uno scrittore giovane e malato che risiedeva in Svizzera. L’opera di Hesse fu il risultato di una profonda crisi interiore vissuta dall’autore, sono presenti infatti echi autobiografici della propria adolescenza tormentata, che affermò di aver compreso razionalmente solo vent’anni dopo, grazie a quest’opera. Appaiono anche frequenti citazioni e richiami biblici, riflesso dell’educazione cristiana ricevuta durante l’infanzia. Sono presenti anche gli influssi culturali del tempo, come la filosofia di Friedrich Nietzsche e la psicologia analitica di Carl Gustav Jung nonché il tema tipicamente hessiano della polarità, che si ritroverà in molti lavori successivi. Durante gli anni vissuti a Berna, Hesse potè approfondire anche lo studio delle opere di Freud e la conoscenza della teoria degli istinti, dell’inconscio, dell’interpretazione dei sogni. Nel romanzo i fatti sono descritti in prima persona: Emil Sinclair narra la propria  evoluzione spirituale attraverso gli anni della crescita. Sin dall’inizio Emil  è diviso tra due opposte visioni della vita: la luce e il bene da un lato, l’oscurità e il male dall’altro. Il primo gli proviene dalla famiglia; il secondo è invece quello “proibito”, che Emil, suo malgrado, trova emozionante e attraente. Egli vorrebbe condurre una vita esemplare sul modello dei genitori, ma la sua inclinazione lo conduce sempre più verso la perdizione. Diviene così  succube di Franz Kromer, un ragazzo malvagio e prepotente, dal quale subisce ripetuti episodi di bullismo, violenza ed estorsione. Il giovane Emil arriva a rubare soldi a casa non osando confessare la verità ai propri familiari. Diventa sempre più introverso e scontroso e pare quasi attendere la distruzione del mondo, unica possibilità di salvezza. Si rivela provvidenziale però l’arrivo di un nuovo compagno di scuola, Max Demian, che lo libera dalla dipendenza negativa di Kromer. All’inizio, il nuovo ragazzo suscita l’interesse di molti tra i coetanei, dando l’impressione di essere molto intelligente e maturo per la sua età. Durante una passeggiata Max racconta a Emil la propria interpretazione della leggenda biblica di Caino e Abele: il marchio impresso sulla fronte del fratricida, non era il segno della sua colpevolezza ma simbolo di superiorità e di forza. Quando Max scopre che Emil soffre a causa di Franz, contribuisce a risolvergli il problema ma Emil si ritira nella ritrovata serenità della sua fanciullezza, perdendolo di vista. Qualche anno dopo, tra i partecipanti alle lezioni del catechismo, ritrova Demian, a cui si avvicina nuovamente, perché a lui affine. Egli influenza sempre più Emil con le sue opinioni filosofiche e le sue critiche ad alcuni concetti religiosi e simbologie bibliche, tanto che Emil comincia a rendersi conto che  Dio è rappresentato come “buono” solo a metà, mentre l’altra metà viene attribuita al demonio. Il giovane ripensa così al conflitto insanabile tra due mondi paralleli presenti in ciascun essere umano, si tratta dunque di un problema riguardante l’intera umanità. Max gli spiega che anche i pensieri della metà oscura devono essere realizzati: ogni individuo deve decidere da solo  ciò che è giusto e ciò che è proibito per lui in ogni momento, perchè le stesse convenzioni sociali cambiano e si modificano nel corso del tempo. Dopo l’estate Emil si separa dal suo ambiente e da Demian, per proseguire gli studi in collegio. Dopo più di un anno vissuto in maniera solitaria e ritirata, compiuti i sedici anni, diventa un assiduo frequentatore di taverne e, mentre si vede scivolare sempre più verso il mondo oscuro, avverte l’urgenza di un amore. I genitori, che si son recati da lui a fargli visita, quasi non lo riconoscono tanto appare scontroso e indisciplinato. Il suo conflitto interiore comincia a risolversi quando incontra una donna e se ne innamora. La chiama Beatrice, come la Portinari amata da Dante Alighieri.  Prova perfino a dipingere dei ritratti della sua amata in cui però riconosce la fisionomia di Demian. In un momento d’ispirazione disegna un uccello che sembra uscire da un gigantesco uovo e lo spedisce al vecchio amico. Poco dopo, durante una lezione, Emil trova all’interno d’un libro un piccolo pezzo di carta con incise alcune parole vergate da Max che fanno riferimento all’uccello che lotta per uscire dal suo guscio cioè dal suo mondo in direzione della divinità Abraxas, che appunto unisce in sé sia il divino che il diabolico. A questo punto Emil conosce un organista di nome Pistorius, cultore di mitologie e religioni antiche in cui trova un confidente e una guida, nel quale si può ravvisare lo psicanalista del sanatorio dove Hesse fu ricoverato per un esaurimento nervoso e successivamente conosce un giovane di nome Knauer.  Una sera, Emil, trascinato da una profonda forza interiore, si reca alla periferia della città immersa nella neve, e dopo aver riconosciuto il nuovo amico Knauer, riesce a farlo desistere dal suicidio. Capisce così che la cosa più importante è che le persone individuino il  cammino da percorrere, assegnatogli dal destino  e lo perseguano senza fermarsi. In procinto di intraprendere l’università, e superati ormai i diciotto anni, Emil incontra Max Demian; dopo una visita alla madre di Demian, la signora Eva, con stupore riconosce in lei l’oggetto d’amore delle sue fantasie. La donna diventa per il giovane il suo punto di riferimento ed egli comincia a frequentare assiduamente la sua casa e suo figlio Max. I tre formano sempre più una specie di ristretta comunità in cui vige una costante armonia. Allo scoppio della guerra tra la Germania e la Russia, i due amici però si vedono costretti a partire. L’ultima volta che Emil incontra Max è in un ospedale militare, dove si trova ricoverato in quanto gravemente ferito dallo scoppio di una granata. Si salutano e Max gli dice che, se non dovesse mai più rivederlo, lo ritroverà dentro se stesso. Durante la stesura dell’opera Hesse si trovava in conflitto con la prima moglie, aveva da poco perso il padre e si era dovuto rifugiare in Svizzera dalla Germania a causa della guerra. Per tutto il 1917 svolse presso il dottor Lang, allievo di Carl Gustav Jung, una novantina di sedute per potersi riprendere dal brutto stato in cui versava. Tutto il romanzo invita i giovani a ripercorrere il cammino dell’interiorità alla ricerca della verità nascosta tra le pieghe dell’inconscio. È  imperniato sul raggiungimento del sé attraverso cinque tappe fondamentali: conoscenza dell’ombra, parte nascosta dell’Io che lotta per emergere (Franz Kromer), conoscenza della guida che può essere considerato il deimon del ragazzo(Max Demian), conoscenza dell’anima, proiezione dell’amore interno (Beatrice), conoscenza dell’inconscio collettivo ricorrente nei popoli antichi e nelle religioni (Pistorius), conoscenza della grande madre (Eva). Il Demian è anche un inno all’amicizia, come appare chiaro dai rapporti tra Sinclair e Demian o tra Sinclair e Pistorius. Quando uscì nel 1919 Demian coinvolse profondamente il pubblico giovanile, fortemente scosso e disorientato dall’esperienza della prima guerra mondiale. Il successo del libro fu enorme, Hesse utilizzò uno pseudonimo forse per il desiderio di rivelare un mondo nuovo, diverso da quello delle poesie e dei racconti precedenti. L’entusiasmo dei giovani era dovuto alla convinzione che lo scrittore fosse uno di loro, tanto era spontanea la narrazione, fresco e vivace lo stile. Allo scrittore fu perfino commissionato un premio letterario, dedicato all’opera prima di un autore emergente, il premio Fontane, che Hesse, ormai quarantenne, volle restituire. Soltanto la nona edizione uscì con il nome di Hermann Hesse.

Deborah Mega

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Incipit 19: Un uomo

05 lunedì Feb 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, COSTUME E SOCIETA', Cronache della vita, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Alekos Panagulis, Deborah Mega, Oriana Fallaci, Un uomo

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione.

[…] 

Oriana Fallaci, Un uomo, Rizzoli, 1979

Un uomo è un libro scritto da Oriana Fallaci e pubblicato nel 1979, in cui la scrittrice racconta la storia di Alekos Panagulis, suo compagno tra il 1973 e il 1976 e simbolo di libertà e democrazia. “La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principi assoluti da qualsiasi parte vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti.” In questo modo la Fallaci presenta la sua opera nel prologo, attribuisce al suo personaggio i connotati emotivi e caratteriali dell’eroe classico e racconta una vicenda che presenta le caratteristiche mitopoietiche dell’epopea. Il romanzo si apre con i funerali di Alekos che avevano radunato un’enorme folla di persone, paragonata ad una piovra, i cui tentacoli avevano intasato le strade adiacenti. La storia prende avvio dal tentativo da parte del giovane studente di ingegneria, Alekos Panagulis, di uccidere il tiranno della Grecia, Georgios Papadopoulos. L’attentato fallisce ed Alekos viene catturato, torturato e infine condannato a morte il 17 novembre 1968 dunque trasportato all’isola di Egina per l’esecuzione. La sentenza viene rinviata più volte e infine mai eseguita grazie alle pressioni della comunità internazionale e al timore da parte del regime che l’attentatore diventi un martire e così, il 25 novembre 1968, Panagulis viene tradotto nelle prigioni militari di Boiati. Panagulis continua ad essere torturato per cinque anni ma non si piega al progetto dei suoi carcerieri affinchè diventi collaboratore della dittatura. Durante la prigionia tenta più volte di evadere dal carcere di Boiati, ma tutti i tentativi vanno a vuoto. Negli ultimi due anni di carcerazione, i più duri, è imprigionato in una cella di pochi metri quadrati denominata “La Tomba”.  Dopo anni di prigionia e maltrattamenti tornerà libero a seguito della grazia ricevuta dal governo democratico che si instaura alla caduta del regime di Papadopoulos. Qualche giorno dopo incontrerà la Fallaci che si era recata a fargli visita per intervistarlo. Da quell’incontro, prenderà avvio la loro storia d’amore che durerà fino alla sua morte, avvenuta il 1º maggio 1976. Uscito di prigione, Panagulis, viene conteso dalla destra e dalla sinistra ma si rende conto che la democrazia di quel tempo era una farsa e che il parlamento era soggiogato dal potere della dittatura militare, rappresentata da un nuovo colonnello. Sorvegliati dai servizi segreti, Panagulis e la Fallaci riescono a rifugiarsi in Italia, da cui cercano, senza risultati, confidando nell’appoggio dei politici italiani, di rovesciare il dittatore greco. La storia d’amore procede tra alti e bassi, la giornalista in questi anni perde il bambino che aspetta da lui. Qualche tempo dopo Panagulis si rende conto che dall’estero non ha il potere di cambiare la situazione in Grecia e decide di ritornare in patria, tenta di fondare un proprio partito politico ma la sua iniziativa fallisce.  Con il partito Unione del Centro – Nuove forze, riesce a farsi eleggere deputato. Negli anni successivi Panagulis tenta di raccogliere documenti e testimonianze per dimostrare la natura corrotta della democrazia greca ma si mette in contrasto con il ministro della difesa Evangelos Averoff. Quando comincia a diffondere i documenti segreti di cui è venuto in possesso, viene ucciso in un incidente stradale, provocato da due sicari. Nei mesi successivi alla sua morte il governo greco non supporterà l’evidenza dell’omicidio, ignorando le perizie italiane effettuate sull’automobile di Panagulis che dimostravano i chiari segni degli speronamenti e dei tamponamenti. Il libro si conclude riprendendo l’incipit in modo ciclico, con il funerale di Panagulis accompagnato dalle grida dell’enorme massa di persone che urlano: “Zi! Zi! Zi!” (Vive! Vive! Vive!), segno che il popolo ha intuito le verità scomode che Panagulis tentava di far emergere. La Fallaci scrive una storia romanzata in cui si pone come narratore interno, avendo vissuto in prima persona diverse esperienze; talvolta diventa, invece, narratore esterno, quando il suo punto di vista non coincide con quello del suo protagonista. Negli ultimi mesi della sua vita, Panagulis aveva insistito con la scrittrice affinché lei scrivesse un libro sulla sua vita, una volta morto e lei realizzò questo desiderio delineando una figura di eroe moderno che si batte per la libertà e per la verità contro tutto e tutti. Il romanzo è diventato un best seller tradotto in ben diciannove paesi. La Fallaci è riuscita a rendere Panagulis  immortale ed eterno e a trasmettere un insegnamento ancora attuale: “non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere”.

Deborah Mega

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STEFANO D’ARRIGO: CREATIVITÀ LINGUISTICA IN HORCYNUS ORCA

15 lunedì Gen 2018

Posted by maria allo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Filologia, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI, SINE LIMINE, Uomini eccellenti

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scrittori siciliani

 

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Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme in provincia di Messina, è  venuto a mancare nel ’92. La storia personale di Stefano D’Arrigo è strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca, romanzo di quasi 1300 pagine di sperimentalismi linguistici,  una delle pubblicazioni più importanti e, allo stesso tempo, meno lette dell’intero Novecento italiano. Un lavoro che ha impegnato l’autore per quasi vent’anni in continue riscritture e aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, regionalismi segnici mono rematici e polirematici, rimandi all’epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del ‘900. Un impegno costante ,dicevo,  che ha contribuito a trasformare I fatti della fera (questo il titolo originario) in un mitico ed epico poema della metamorfosi. Horcynus Orca è una lettura che manifesta l’immensa ricchezza tematica con cui Stefano D’Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l’Odissea e l’Eneide, l’Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano o a Moby Dick, sono tutti elementi che affascinano e costringono il lettore ad addentrarsi nella grandiosa costruzione su cui D’Arrigo ha trascorso una vita .” Si tratta di un romanzo sfrontato che mira niente di meno che a gettare un ponte tra Storia e Mito (ponte bombardato, come si vedrà), la cui mole, densità e qualità finiscono per intimidire, per tenere un po’ ai margini il lettore comune” dice  Paolo Mantioni. L’espressione “Horcynus Orca” ci riporta però anche al mondo latino, in cui il termine “orca”, fra altre cose, indica proprio l’orca assassina, come si può vedere nel celebre passo di Plinio il Vecchio che suona quasi darrighiano ante litteram («…cuius imago nulla repraesentatione exprimi potest alia quam carnis inmensae dentibus truculentae», Nat. Hist., IX, 12), e rimanda naturalmente a “Orcus”, che è il nome del regno dei morti, del suo custode e, in senso figurato, della morte stessa. La pubblicazione del romanzo nel 1975, tuttavia, non ha interrotto il labor limae di D’Arrigo, il quale è tornato sul testo fino alla morte con ulteriori modifiche, seppur lievi, tant’è vero che la riedizione del 2003 reca nell’aletta di copertina la dicitura nuova edizione con le ultime inedite correzioni d’autore.

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Stefano D’Arrigo

Stefano D’Arrigo (Alì Marina, Messina, 1919 – Roma, 1992), laureatosi in Lettere a Messina con una tesi su Hölderlin, svolse servizio come sottotenente a Palermo durante la seconda Guerra Mondiale fino allo sbarco alleato. Dopo un’altra parentesi a Messina, si stabilì a Roma nel 1946, dove si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte, frequentando pittori e mercanti d’arte. Intorno alla metà degli anni ’50, D’Arrigo passa all’attività letteraria scrivendo un libro di versi (Codice siciliano) e cimentandosi con un’opera di narrativa di ampio respiro, La testa del delfino, scritta di getto in quindici mesi tra il 1956 e il 1957. Quest’opera, ancora inedita, è il primo abbozzo di quel romanzo che poi, dopo infinite riscritture e ampliamenti protrattosi per quasi vent’anni, diventerà Horcynus Orca. La prima questione da affrontare riguardo all’Orca e al suo significato nel romanzo concerne la particolare denominazione scelta da Stefano D’Arrigo nel titolo, perché il grande mistero che circonda l’animale comincia proprio da lì. Se è abbastanza noto che il nome zoologico dell’Orca è “Orcinus Orca” (o “Orcynus Orca”), meno noto è il fatto che l’espressione “Horcynus Orca” non ricorre mai nel romanzo (per essere più precisi non ricorrono mai per esteso neppure le espressioni “Orcinus Orca” e “Orcynus Orca”). Per i “pellisquadre” di Cariddi (vale a dire i pescatori, cosiddetti perché hanno la pelle ruvida come quella dello “squadro”, cioè lo squalo, che a sua volta prende il nome da “squadrare”, ovvero lisciare e pareggiare il legno ruvido con la cartavetrata: «pelli, insomma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri», p. 254), l’Orca è il “ferone”, cioè la ‘grossa fera’, perché con la fera essa condivide una caratteristica fisica ben precisa (oltre naturalmente a quella ‘comportamentale’ della ferocia): «la coda piatta invece che di taglio» (p. 618). Quando però il navigato signor Cama, basandosi sul suo inseparabile manuale di cetologia illustrata, spiega loro che l’animale arrivato nello “scill’e cariddi” è un’Orca, dice via via che essa è l’”orcinusa”, l’”orca orcinusa”, l’”orcynus” (quest’ultima espressione ricorre solo una volta, mentre le altre verranno poi ripetute spesso), per far capire che già nel suo nome (omen nomen…) è scritto il suo destino di animale assassino, creato da Dio solo per ammazzare gli altri e impersonare così la stessa Morte (cfr. pp. 657). Per il resto, l’Orca, quando non è detta semplicemente “orcinusa”, è connotata nei modi più svariati nell’inesauribile suppurazione linguistico-morfologica del romanzo, ogni volta per sottolinearne una sfumatura diversa, ma comunque legata alla ferocia, alla morte e alla putrefazione: oltre ai frequentissimi “orcaferone” (da orca + ferone) e “orcagna” (da orca + carogna), troviamo anche, occasionalmente, “porca” (cfr. p. 801), “orcarogna” (da orca + carogna + rogna: cfr. p. 801), “orcassa” (da orca + carcassa: cfr. p. 955), “orcassale” (da orca + carcassa + sale: cfr. 967), “orcarca”. Ma allora, perché quell’H nella denominazione dell’animale che compare nel titolo? Secondo Walter Pedullà (cfr. la sua “Introduzione” a I fatti della fera), uno dei massimi esperti su D’Arrigo, poiché quell’H fa sì che leggendo solo le iniziali (HO) si ha quasi la formula chimica dell’acqua, D’Arrigo ha voluto segnalare un’identificazione dell’Orca col mare sulla base del binomio vita/morte. Questa ipotesi è ampiamente giustificata dal testo, perché D’Arrigo insiste spesso non solo sull’Orca come fonte di vita e di morte (pur essendo per definizione la Morte, essa è anche donatrice di cibo vitale per gli affamati pescatori, sia perché da viva porta loro la “cicirella”, cioè i banchi di anguille appena nate, sollevandola dal fondo del mare, sia perché da morta offre tutta se stessa come cibo e materia prima per la fabbricazione di oggetti d’uso quotidiano, come pettini, posate, scarpe, ecc.), ma anche sul mare come luogo in cui i pescatori svolgono il loro eterno ciclo di vita (la pesca, il lavoro) e di morte (la carestia, la ‘morte per acqua’ come nella Terra desolata di Eliot, ecc.). In un passo-chiave, l’”animalone” è proprio definito «un essere dell’altro mondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due» (p. 668), ed è, questa, una caratterizzazione che si può benissimo adattare al mare, inteso come elemento originario, principio e fine di tutte le cose, sin dall’alba del pensiero occidentale. Per non dire che nella serie di visioni apocalittiche che ha sullo sperone, ‘Ndrja prima vede lo Stretto ridotto a un deserto di sale, dal quale i pescatori tirano a riva l’”orcassale” (cioè la carcassa di sale dell’Orca), e poi vede l’Orca stessa ricostituirsi, riprendere l’antico aspetto, agitarsi furiosamente, rigenerare da sé il mare liquefacendosi dalla coda e infine fondersi in esso, tornando ad essere «una goccia d’acqua nel mare», come se «il mare rivivesse dalla morte di quell’essere orcinuso, rivivesse, cioè a dire, dalla morte della Morte». Altro discorso va fatto per la scelta della forma con la y nella denominazione latina dell’Orca, che, come visto, non solo è attestata nell’uso, ma ricorre una volta anche nel corpo del romanzo. Rispetto alla spiegazione dell’H, quella della y è molto più congetturale, proprio perché non è un’invenzione di D’Arrigo. Pedullà propone una spiegazione molto complessa e affascinante. Intanto la y è il simbolo matematico di un’incognita, e poiché cade al centro della parola “orcynus”, sembra alludere alla piaga dell’animale (la sua sezione trasversale avrebbe proprio quella forma), la cui origine è e resta misteriosa in tutto il romanzo. In biologia essa è anche il simbolo del cromosoma maschile, e ciò rimanda all’origine della vita, intimamente connessa con la malattia e la morte, dei cui segreti l’Orca è depositaria. Infine, la y è una lettera greca (Y) passata al latino, e dallo stesso padre fondatore della cultura greca proviene l’idea mitopoietica, poi ereditata e consolidata dai poeti latini, di popolare di creature di inaudita ferocia la Sicilia e il mare dello Stretto (Scilla e Cariddi, il Ciclope, ecc.).L’Orca, dunque, in quanto ‘Orco’ e ‘Leviatano’ nello stesso tempo (da un pescatore è paragonata a un drago favoloso che chiederà tributi di pesce spada che finiranno per ridurre alla fame la popolazione: cfr. p. 657), si presenta come il luogo d’incontro di due tradizioni generalmente alternative nella cultura europea, ovvero quella classica, omerica, greco-romana, e quella ebraico-cristiana, assumendo così l’aspetto di un ‘segno’ simbolico mostruosamente (è il caso di dirlo) significante. Sui legami di Horcynus Orca con l’Odissea, col suo eroe, con le sue creature femminili e coi suoi mostri, non è il caso di dilungarsi troppo, perché sono di una evidenza palmare e si ha avuto modo di esplicitarli, sebbene in parte (‘Ndrja/Ulisse; Caitanello/Laerte; Cata/Nausicaa; Marosa/Penelope; Ciccina Circè/Circe e Calipso; femminote/sirene; e poi Scilla e Cariddi, al punto che D’Arrigo chiama il mare dello Stretto «lo scill’e cariddi» sin dall’incipit del romanzo, ecc.). Basti qui sottolineare soltanto che la rivisitazione del mito in Horcynus Orca è però fortemente critica e demistificante, e in tal senso, a un livello più profondo, ‘Ndrja è più lontano da Ulisse di quanto non lo sia Leopold Bloom: mentre infatti l’eroe omerico, dopo un’assenza di venti anni, torna dalla guerra da vincitore e persino da maggiore artefice della vittoria (si pensi al Cavallo di Troia), trova la moglie che è stata ad aspettarlo pazientemente e riporta l’ordine nel suo piccolo regno facendo strage delle “fere” che infestano la sua casa, il povero “nocchiero” della Marina Italiana torna dopo soli  due anni da una guerra persa dopo essere stato mandato allo sbando dal suo comandante auto affondatosi, trova la sua promessa “zita” Marosa astiosa e sessualmente affamata come fosse sua moglie da anni (e invece è solo una “muccusa”, appena sbocciata durante la sua assenza) e, nel tentativo di restituire al suo mondo infestato da un “ferone” i valori perduti di dignità e lavoro onesto, muore appena quattro giorni dopo il suo arrivo mentre si sta allenando per una competizione sportiva, colpito in fronte da una pallottola sparata quasi per caso dalla sentinella di una portaerei un po’ troppo nervosa. Ma è Virgilio che, in occasione della discesa agli inferi di Enea (Eneide, VI, 273-281), descrive le fauci dell’Orco in un passo che contiene in nuce, personificate (Luctus, ultrices Curae,  Morbi, tristis Senectus, Metus, malesuada Fames, turpis Egestas, Letum, Labos, Sopor, mala mentis Gaudia, mortiferum Bellum, Discordia demens), praticamente tutte le nefaste conseguenze che comporta per i cariddoti la presenza dell’Orca nel loro mare (terrore, sterilità, fame, inattività soporifera per lo spirito, discordia, sconcia esaltazione per lo sciacallaggio, ecc.). Da questo punto di vista, Horcynus Orca è il romanzo della disperazione, il romanzo di una catastrofe esistenziale, storica, antropologica e cosmica senza rimedio, in cui il mondo è abbandonato da tutte le divinità celesti ed è lasciato in balia solo di quelle ctonie e dei loro emissari più feroci: i dittatori che scatenano le guerre, le fere e, soprattutto, a “riesumo” simbolico di ogni forza del male, l’Orca/Orco. Tutto muore in esso, inghiottito dallo sbadiglio delle fauci dell’Orco: muore la forma di vita secolare dei cariddoti, il quali, se non scelgono il suicidio (come ha fatto Ferdinando Currò, l’eroico salvatore di donne e bambini nel corso del disastroso “terremaremoto” del 1908), possono sopravvivere solo adeguandosi a scendere a patti con i bassifondi del nuovo ordine del “dollaro” e con i suoi metodi cinici e utilitaristici, i cui profeti al livello più basso sono figure equivoche e parassitarie come lo scagnozzo e il Maltese; muore ‘Ndrja, nel tentativo donchisciottesco di arrestare la storia nell’attimo i cui essa stritola con somma indifferenza i più umili; e infine, a suggellare il Trionfo della Morte sulla sua stessa manifestazione fisica più emblematica, muore l’Orca, dopo aver dato l’illusione beffarda di essere una divinità benigna apportatrice di “manna”, quando invece, come ripete Luigi Orioles, la verità bruta è che l’apparizione in superficie della “cicirella” è un effetto casuale degli inabissamenti del mostro marino, e se mai essa è segno di qualcosa, è segno solo dell’inutile tentativo di quest’ultimo di andare a distruggere la vita stessa alla radice (cfr. p. 663 e p. 667). Che il grande romanzo di Melville (molto amato da Stefano D’Arrigo) sia echeggiato in Horcynus Orca è un fatto assolutamente ovvio (si pensi solo al fatto che il signor Cama ha un manuale di cetologia illustrata che sembra proprio quello ipotizzato da Melville nel famoso capitolo 32 di Moby Dick), ma qui ci interessa soprattutto vedere come il contatto con esso conduca l’Orca darrighiana verso il mostro biblico. Le varie credenze sull’Orca come animale unico, onnipresente, immortale e contiguo alla Morte per destino intrinseco, sulle quali D’Arrigo insiste moltissimo, si ritrovano tutte quasi alla lettera nel giro dei celebri capitoli 41 e 42 di Moby Dick, intitolati rispettivamente Moby Dick e La bianchezza della Balena. Nel primo Melville riferisce due “superstizioni” da balenieri che riguardano il carattere soprannaturale della balena, ovvero la sua ubiquità nello spazio e la sua immortalità (che poi è l’”ubiquità nel tempo”). Nel secondo fa esibire Ismaele in una dottissima dissertazione storico-antropologica sul rapporto che nelle varie culture umane sussiste tra il colore bianco, il terrore e la Morte. Abbiamo qui elementi sufficienti per ricondurre l’Orca di D’Arrigo, tramite Melville, entro l’alveo della cultura ebraico-cristiana, perché un animale unico, ubiquo e immortale può essere stato creato solo da Dio e direttamente, e questo il signor Cama non si stanca mai di ripeterlo ai pelli squadre. Ma queste caratteristiche della sua balena, Melville, più esplicitamente ancora di D’Arrigo, le riconduceva direttamente al mitico mostro biblico, come si vede già a partire dal fatto che l’ampio catalogo di citazioni cetologiche posto a vestibolo del romanzo comincia con ben cinque passi biblici: Genesi, I, 21; Giobbe, XLI, 24; Giona, I, 17; Salmi, CIV, 26 e Isaia, XXVII, 1, tre dei quali, cioè il secondo, il quarto e il quinto, menzionano esplicitamente il leviatano. Tutto ciò, com’è evidente, apre la strada a un’interpretazione in chiave messianica, sacrificale ed escatologica dell’intero romanzo, che lo stesso D’Arrigo suggerisce a più riprese anche in contesti che non riguardano direttamente l’identificazione dell’Orca con il leviatano ebraico. Una lettura del genere, comunque, deve passare attraverso un parallelismo tra ‘Ndrja, eroe-messia sacrificale e redentore, e l’Orca, mostro redento e pertanto destinato al pasto totemico con cui la comunità dei ‘giusti’ celebra la ritrovata comunione con Dio. E su questo parallelismo il testo lascia pochi dubbi. Inoltre, nel suo addio alla “zita” Marosa, egli offre alla ragazza, che sta ricamando il suo cuore in nero su uno sfondo bianco, il petto nudo per farselo ricamare sulla pelle sopra quello vero (in una posa «che fatalmente ricordava … la posa dell’Ecce Homo», p. 1023), e quando la stringe al petto le sue lacrime gli scendono sul petto «come gli lacrimasse il costato a lui» (p. 1024). Con questo D’Arrigo crea un rapporto diretto con l’Orca, la quale, quando è trainata verso la riva legata per i denti, mostra agli sbigottiti pellisquadre il suo ultimo mistero: una macchia bianca a forma di cuore sul petto nero, «come un gigantesco neo di desio, una gigantesca insoddisfatta voglia d’orca incinta, stampata sulla pelle del figlio» (p. 1015). Infine, come l’Orca, che, oltre a donare ai pescatori la cicirella, vitale per la loro alimentazione fino a quel momento quasi esclusivamente a base di fave secche (è il cibo per cavalli abbandonato dai fascisti in fuga dalla Sicilia dopo lo sbarco degli alleati), finisce per offrire loro in pasto tutto il suo corpo, ‘Ndrja dà tutto se stesso e poi anche la sua stessa vita per guadagnare quelle mille lire utili all’acquisto della barca, arca di salvezza per l’economia della comunità, dopo essersi prodigato per ottenere, con l’intercessione del Maltese, che gli inglesi arenassero l’animale morto, e il romanzo si chiude con lui morto nella sua barca-bara portata come un’arca dell’alleanza ai cariddoti, che nel frattempo stanno consumando il banchetto dei ‘giusti’ attorno al corpo dell’Orca.

Maria Allo

Fonti

Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, introduzione di Giuseppe Pontiggia, Mondadori, 1982 (1975)

Carmen Micalizzi, “L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea – A.A. 2002-2003

http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma-puntate/mare-nostrum-stretto-di-messina/39232/default.aspx

http://www.gazzettadelsud.it/news/spettacoli—cultura/17492/Quei-mostri-letterari–di-Stefano-D-Arrigo-.html

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Incipit 18: Dell’amore e di altri demoni

08 lunedì Gen 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Dell'amore e di altri demoni, Gabriel Garcìa Màrquez

Il 26 ottobre 1949 non fu una giornata con grandi notizie. Il professor Manuel Clemente Zabala, caporedattore del quotidiano dove facevo i miei primi passi come giornalista, mise fine alla riunione del mattino con due o tre suggerimenti di prammatica. Non affidò un lavoro concreto ad alcun redattore. Qualche minuto dopo venne informato per telefono che stavano svuotando le cripte funerarie dell’antico convento di Santa Clara, e mi ordinò senza illusioni:

«Va’ a fare un giro da quelle parti e vedi un po’ cosa riesci a cavarne».

Lo storico convento delle clarisse, trasformato in ospedale da un secolo, doveva essere venduto affinché al suo posto si costruisse un albergo a cinque stelle. La preziosa cappella era quasi scoperchiata per via del crollo progressivo del tetto, ma nelle sue cripte rimanevano sepolte tre generazioni di vescovi e badesse e altri personaggi di rango. Il primo passo consisteva nello sgomberarle, nel consegnare i resti a chi li avesse reclamati, e nel buttare i rimanenti nella fossa comune. Mi stupì il primitivismo del metodo. Gli operai sventravano le fosse a colpi di zappa e piccone, tiravano fuori le bare marce, che si sfasciavano appena venivano spostate, e separavano le ossa dall’impiastro di polvere con brandelli di abiti e capelli avvizziti. Più il morto era illustre e più il lavoro era arduo, perché bisognava frugare tra le vestigia dei corpi e cernere con sottigliezza i residui per recuperarne le pietre preziose e i pezzi di gioielleria.

Il capomastro copiava i dati della lapide su un quaderno da scolaro, sistemava le ossa in mucchietti separati, e metteva il foglio col nome sopra ognuno per evitare che si confondessero. Sicché la mia prima visione quando entrai nel tempio fu una lunga fila di cumuli di ossa, riscaldate dall’inclemente sole di ottobre che penetrava a fiotti attraverso gli spiragli del soffitto, e senz’altra identità che il nome scritto a matita su un pezzo di carta. Quasi mezzo secolo dopo sento ancora lo stupore che mi causò quella testimonianza terribile del passaggio devastante degli anni. C’erano,  fra molti altri,  un viceré del Perù e la sua amante segreta;  don Toribio de Cáceres y Virtudes,  vescovo di questa diocesi;  diverse badesse del convento,  fra cui madre Josefa Miranda,  e il baccelliere in belle arti don Cristóbal de Eraso,  che aveva consacrato metà della sua vita a fabbricare i soffitti a cassettoni.  C’era pure una cripta chiusa con la lapide del secondo marchese di Casalduero,  don Ygnacio de Alfaro y Dueñas,  ma quando l’aprirono si vide che era vuota e mai usata.  Invece i resti della sua marchesa,  donna Olalla de Mendoza,  avevano una lapide propria nella cripta accanto.  Il capomastro non vi diede importanza:  era normale che un nobile creolo si fosse allestito la sua tomba e che l’avessero sepolto in un’altra. Ma, nella terza nicchia dell’altare maggiore, dalla parte del Vangelo, ecco la notizia.

La lapide schizzò via in pezzi al primo colpo della zappa, e una chioma viva di un color rame intenso si sparse fuori dalla cripta. Il capomastro volle estrarla intera con l’aiuto dei suoi operai, e più la tiravano e più sembrava lunga e abbondante, finchè non uscirono gli ultimi capelli ancora attaccati a un cranio di ragazzina. Nella nicchia non rimasero che pochi ossicini minuti e dispersi, e sulla lapide di marmo corroso dal salnitro era leggibile solo un nome senza cognomi: Sierva Marìa de Todos los Angeles. Dispiegata a terra, la chioma splendida era lunga ventidue metri e undici centimetri. Il capomastro mi spiegò senza stupore che i capelli umani crescevano di un centimetro al mese anche dopo la morte, e ventidue metri gli sembrarono una buona media per duecento anni. A me, invece, non sembrò così comune, perché da bambino mia nonna mi raccontava la leggenda di una marchesina di dodici anni la cui chioma le strascicava appresso come la coda di un abito da sposa, che era morta di mal di rabbia in seguito al morso di un cane, e che era venerata nei paesi dei Caraibi per i suoi molti miracoli. L’idea che quella tomba potesse essere la sua fu la mia notizia di quel giorno, e l’origine di questo libro.”

Cartagena de Indias, 1994

Un cane cenerognolo con una stella sulla fronte irruppe nei budelli del mercato la prima domenica di dicembre, travolse rivendite di fritture, scompigliò trabacche di indiani e banchetti della lotteria, e passando morse quattro persone che si trovarono sul suo percorso. Tre erano schiavi negri. L’altra fu Sierva Marìa de Todos los Angeles, figlia unica del marchese di Casalduero, che si era recata con una domestica mulatta a comprare una filza di sonagli per la festa dei suoi dodici anni.

[…] 

Gabriel Garcìa Màrquez, Dell’amore e di altri demoni, Mondadori, 1994 

 

Dalla prefazione, apprendiamo che il libro prende spunto dal ritrovamento di un’antica tomba, presso lo storico convento delle clarisse. Presentando per verosimile una situazione assurda, i capelli infatti non crescono dopo la morte e collegando la singolare scoperta ad un’antica leggenda di una bambina dai lunghissimi capelli rossi, venerata nei Caraibi per i suoi miracoli, Màrquez parla dell’amore inteso come demone. Protagonisti di quest’amore, una bambina, un padre e un prete esorcista.

Il romanzo è ambientato in Colombia ai tempi dell’Inquisizione spagnola. Narra la storia di una giovane marchesina dai capelli rossi, Sierva María de Todos los Ángeles, figlia di un pigro marchese, Don Ygnacio de Alfaro Y Duenas e di una contrabbandiera, Bernanda Cabrera. La ragazza, indesiderata e trascurata dai familiari, cresce insieme alla servitù e apprende i loro dialetti e i loro rituali. A causa dell’odio della madre e dell’indifferenza del padre, cresce isolata da tutti. Il giorno del suo dodicesimo compleanno, al mercato coloniale, Sierva María viene sfiorata e graffiata alla caviglia da un cane rabbioso senza però manifestare alcun sintomo della malattia. Due giorni dopo il cane muore di rabbia e viene appeso ad un albero. Solo a quel punto il marchese riscopre l’amore per la figlia e fa di tutto perché guarisca affidandola alle cure di un discusso medico di nome Abrenuncio. Ciò nonostante, la “malattia” della ragazza peggiora, fino a farla ritenere posseduta dal demonio: il vescovo della città ordina al padre di rinchiuderla nel convento delle monache di clausura, dove la ragazza subisce i soprusi delle altre monache che la credono una creatura di Satana, anche per via della sua chioma ramata che lei ha fatto voto di tagliare solo dopo le nozze. Anche il comportamento selvaggio e le manifestazioni di ira vengono scambiate con le manifestazioni tipiche della rabbia o prese per “sintomi inequivocabili di una possessione demoniaca”. Ad aiutare la ragazza interverrà un giovane prete, Cayetano Delaura, che cercherà di salvarla, dimostrando che non si tratta di possessione nè di mal di rabbia. All’inizio la ragazza è molto diffidente e ostile, in seguito lui riesce a conquistarla con i versi di Garcilaso de la Vega. Tra il prete e la ragazza nasce, mettendo a dura prova la fermezza di lui, il «demone più terribile», l’amore. Màrquez rappresenta personaggi sempre ambigui, avvolti in un alone di mistero, unici ed impenetrabili nelle loro caratteristiche più evidenti come l’intolleranza religiosa del Santo Uffizio, il bigottismo del vescovo e delle suore, la coerenza e la libertà dai pregiudizi del prete esorcista e così via.

García Márquez nasconde dietro a un intreccio semplice e ad un’emozionante storia d’amore la critica alla Santa Inquisizione e descrive il ruolo non sempre positivo svolto dalla chiesa cattolica nei confronti degli schiavi importati dall’Africa, considerati come delle bestie e nei confronti di chi era sospettato di eresia o di essere vittima del maligno. Lo scrittore, mentre descrive personaggi e ambienti, conferendo un tono evocativo a tutta la vicenda, sottolinea l’importanza di non appoggiare mai fanatismi e ideologie estremiste. La prosa di Marquez è scarna ed essenziale, limpida e struggente, e sembra rievocare le atmosfere di “Cent’anni di solitudine” e i temi de “L’Amore ai tempi del colera”, in cui l’eros diventa malattia, metafora della letteratura e della vita. Il lettore viene trasportato in un mondo surreale e magico capace di travolgere i sensi e i sentimenti.

Deborah Mega

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NOTTURNI

21 giovedì Dic 2017

Posted by frantoli in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Poesie

≈ 1 Commento

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Francesco Tontoli, Notturni

NOTTURNO I

io, di notte

conto sempre i quarti d’ora

e in molti ovili il contatore mi salta a tal numero

e tastando le pecore nel sonno sento che hanno

quel pelo che immagini sotto ci sia chissà cosa e

allora io, di notte

oltre alle cose che mi passano accanto

mi tengo lontano dal sonno dei lupi

in una veglia interiore che molte volte

attende un albeggiare pallido

come fossi immerso con le mani nel nulla

a dipanare i fili che

 

invece io, di notte

sto lì a tendere

e ogni filo, di notte, diventa il mio tessuto

che si fa e si disfa in una trama sempre nuova

come se raccontasse quella storia o quell’altra

e a volte con la navetta e il pettine

di un telaio musicale

 

purtroppo io, di notte

a furia di cantare curvo sulle corde tese

mi consumo come se consumassi la notte stessa

e quando anche ne aspettassi un’altra

la notte

le altre volte tesse sé stessa senza che

 

insomma io, di notte

possa cantarne i suoi oscuri motivi notturni

sicché la notte

mi vince con la forza della sua musica

e i suoi disegni pare si cancellano non appena

 

per caso io, di notte

cesso di far fluire le mezzore nelle clessidre

e dimentico di svuotare nel cielo della notte

la sabbia delle stelle

il tempo consumato nelle veglie

 

 

NOTTURNO  II

 

Tu, stanotte

hai di che dormire

stringo la tua mano

tengo nella mia mano il tuo sonno

veglio i fremiti della tua elettricità

che ti attraversano i palmi su binari che si biforcano

e la pulsazione delle tue vene

mi fa pensare che di notte vivi di altro ulteriore

e mi aiuti con il sonno a stare in questa notte

tu, stanotte

col treno fai arrivare alle stazioni

gli esseri alati che volano nel tuo sogno

delle cui storie mi racconterai domani

e lì accadono cose che ti fanno muovere labbra

e aggrottare sopracciglia, distendere gli arti

accennare a un dolore e fare di conto

e attraverso sottrazioni dell’essere

arrivi a sospirarmi qualcosa che non capisco

nella lingua che precede la poesia

 

 

NOTTURNO III

 

la notte per loro è una tana

si nascondono chiusi dentro quel bozzolo

e l’odio che secernono a ogni sogno

li fortifica convincendoli che sono nel sogno giusto

e che il mondo è conforme a quello

che c’è da aspettarsi da un mondo

il loro sonno ronza progettato giustamente

come è progettato il piano inclinato sul quale rotolare

al risveglio la notte li avrà ricaricati

avranno molte tacche ai loro archi

molte sfide di finanza li attendono

come assalire e predare, uccidere variando i tassi finanziari

considerano la speranza una sconfitta

la notte non li trascura, e stando lì a oliare gli indici

metteranno in ginocchio le loro madri prima che faccia giorno

 

NOTTURNO  IV

 

Buttato in un aeroporto

la notte non mi fa paura

saporiti dormiamo tra le valigie

sogniamo fusi orari come quelli

dei quadri di Dalì in terre desolate.

Si è fermato alle tre di questa notte

il tempo ha bivaccato cantando

la canzone di chi chiede asilo.

Ognuno al cellulare fotografa la scena

dove i bambini restano di stucco

ridendo sui cartoni illuminati.

 

Chi dorme sogna i suoi vent’anni

li avrà chi non li ha mai avuti da vivo

la notte stanotte non mi ha divorato.

 

 

NOTTURNO  V

 

tenta la notte ancora di annottare

scende, tratta col vento la sua tregua

ma i patti erano patti e dilaga

lungo questo asse non ancora invernale

attendiamo uno strano Godot dall’Artico

si avvicendano i nuovi giorni al calendario

senza che si veda nulla all’orizzonte

dalla nostra fortezza il tenente ispeziona l’oscurità

nel deserto di cose che abbiamo davanti

c’ è l’idea di un nuovo crollo del fronte

spediremo lettere a casa con “amore mio”

come solo ed eterno richiamo che filtri calore

e il ricordo di un pianto dentro un foglio inzuppato.

 

 

NOTTURNO VI

 

Notte di una notte senza fine

notte il cui confine non arrivo a percepire

notte che passo dentro ad altre notti

in bilico a sedere su una sponda di letto

di un orizzonte opaco e imperfetto

Notte che il giorno me lo racconto e me lo canto

me lo tengo stretto accanto sul cuscino

lo vivo come sogno di luce, di cammino

E immagino un rumore di passi che percorrono la notte

con l’aria che si ingoia di notte ad un aprir di finestra

e in quell’affaccio ti vedo attraversare il filo delle ore

che contate e ricontate non sono più notte

su ore non ancora calde che non fanno il giorno

Notte che annotti sulla città

afferrando e scuotendo lampioni

con un vento che vorrebbe parlarmi

senza aver proprio nulla da dire.

Sarebbe molto meglio dormire

quasi (almeno) come un piccolo morire.

 

Francesco Tontoli

 

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Incipit 17: Le Ore

20 lunedì Nov 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Le Ore, Michael Cunningham

by George Charles Beresford, 1902

Prologo
Si affretta, via di casa, indosso ha un cappotto troppo pesante per il clima. È il 1941. È scoppiata una nuova guerra. Ha lasciato un biglietto per Leonard, e un altro per Vanessa. Cammina con determinazione verso il fiume, sicura di quello che farà, ma anche in questo momento è quasi distratta dalla vista delle colline, della chiesa e di un gregge sparso di pecore, incandescente, tinto di una debole traccia di zolfo, che pascola sotto un cielo che si fa più scuro. Si ferma, osserva le pecore e il cielo, poi riprende a camminare. Le voci mormorano alle sue spalle; bombardieri ronzano nel cielo, ma lei cerca gli aeroplani e non riesce a vederli. Supera uno dei lavoranti della fattoria (si chiama John?), un uomo robusto, con la testa piccola, che porta una maglietta del colore delle patate; sta pulendo il fosso che corre lungo il vincheto. Lui la guarda, fa un cenno con il capo, guarda di nuovo in basso, nell’acqua marrone. Mentre lo supera diretta al fiume, pensa a quanto lui sia appagato, a quanto sia fortunato, a pulire il fosso in un vincheto. Lei invece ha fallito. Non è una scrittrice, non veramente: è solo una stravagante dotata. Squarci di cielo brillano nelle pozzanghere lasciate dalla pioggia della notte precedente. Le sue scarpe affondano leggermente nella terra soffice. Ha fallito, e ora le voci sono ritornate, mormorano indistinte proprio dietro il suo campo visivo, dietro di lei, qui, no, ti volti e sono andate via, da qualche altra parte. Le voci sono ritornate e il mal di testa si sta avvicinando, sicuro come la pioggia: il mal di testa che distruggerà qualunque cosa lei sia e prenderà il suo posto. Il mal di testa si sta avvicinando e sembra (lo sta solo immaginando, o no?) che i bombardieri siano di nuovo comparsi nel cielo. Raggiunge l’argine, lo scavalca e continua giù, di nuovo verso il fiume. C’è un pescatore a monte, su per il fiume, non si accorgerà di lei, oppure sì? Comincia a cercare una pietra. Lo fa in fretta, ma con metodo, come se stesse seguendo una ricetta a cui bisogna obbedire scrupolosamente per raggiungere un buon risultato. Ne sceglie una approssimativamente del peso e della forma della testa di un maiale. Anche mentre la raccoglie e la spinge a forza in una delle tasche del cappotto (la pelliccia le fa il solletico sul collo), non può fare a meno di notarne la qualità fredda e gessosa e il colore, un marrone lattiginoso con tracce di verde. Sta vicino alla sponda del fiume, che si spinge contro l’argine, riempiendo le piccole irregolarità del fango di acqua chiara, acqua che potrebbe essere una sostanza completamente diversa da quella giallo-marrone, chiazzata, apparentemente solida come una strada, che si stende immobile da una sponda all’altra. Fa un passo avanti. Non si toglie le scarpe. L’acqua è fredda, ma non tanto da essere insopportabile. Si ferma, ormai nell’acqua fino alle ginocchia. Pensa a Leonard. Pensa alle sue mani e alla sua barba, alle linee profonde intorno alla sua bocca. Pensa a Vanessa, ai bambini, a Vita e Ethel: tante persone. Anche loro hanno fallito, no? All’improvviso, si sente immensamente dispiaciuta per loro. Immagina di voltarsi indietro, di tirare fuori la pietra dalla tasca, di tornare a casa. Potrebbe forse rientrare in tempo per distruggere i biglietti. Potrebbe continuare a vivere; potrebbe compiere questo atto finale di gentilezza. Immersa fino alle ginocchia nell’acqua che si muove, decide di no. Le voci sono qui, il mal di testa sta per arrivare e, se si affida alle cure di Leonard e Vanessa, non la lasceranno andare via di nuovo, vero? Decide di continuare, perché la lascino andare. Si muove a stento, goffamente (il fondo è fangoso), fino a che l’acqua le arriva ai fianchi. Getta uno sguardo a monte, al pescatore, che porta una giacca rossa e non la vede. La superficie gialla del fiume (più gialla che marrone, vista da così vicino) riflette un ciclo scuro. E questo, allora, l’ultimo momento di percezione vera: un uomo che pesca con una giacca rossa e un ciclo nuvoloso che si riflette nell’acqua opaca. Quasi involontariamente (a lei sembra che sia involontariamente) fa un passo avanti o inciampa, e la pietra la spinge giù. Per un momento, ancora, sembra niente, sembra un altro fallimento: solo acqua gelata da cui può facilmente uscire; ma poi la corrente la avvolge e la trascina con una forza così muscolare, così improvvisa che sembra che un uomo forte si sia sollevato dal fondo, le abbia afferrato le gambe e se le sia strette al petto. Sembra un contatto personale.
Più di un’ora dopo, suo marito ritorna dal giardino. “La signora è uscita,” dice la cameriera, battendo un logoro cuscino che scatena una piccola tempesta di piume. “Ha detto che sarebbe ritornata presto.” Leonard sale in salotto per ascoltare le notizie. Trova una busta blu, indirizzata a lui, sul tavolo. Dentro c’è una lettera.


Carissimo,
sono certa che sto impazzendo di nuovo: sento che non possiamo affrontarlo un ‘altra volta ancora. E stavolta non mi riprenderò.Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi sto per fare quella che mi sembra la cosa migliore.
Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quanto potevi essere.
Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici, fino a che non è arrivata questa terribile malattia.Non posso combatterla oltre: so che ti sto rovinando la vita, so che senza di me potresti lavorare. E lo fami, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere bene questo biglietto. Non riesco a leggere.Voglio dirti che ti devo tutta la felicità della mia vita.
Sei stato estremamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dire che… Lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, tu avresti potuto. Tutto mi ha abbandonato, tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita.
Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto siamo stati noi.
V.

Leonard esce dalla stanza, corre giù, dice alla cameriera: “Credo che sia successo qualcosa alla signora Woolf. Credo che abbia cercato di uccidersi. Da che parte è andata? L’ha vista lasciare la casa?”La cameriera, in preda al panico, scoppia a piangere. Leonard corre fuori, supera la chiesa e il gregge; supera il vincheto. Sull’argine, trova solo un uomo con una giacca rossa, che pesca. Viene trascinata in fretta dalla corrente. Sembra una figura fantastica, in volo, le braccia aperte, i capelli fluttuanti, la coda del cappotto di pelliccia che si gonfia dietro di lei. Si lascia trasportare, pesantemente, attraverso lance di luce marrone, granulare. Non arriva lontano. I piedi (le scarpe non ci sono più) toccano il fondo di quando in quando, e sollevano una nuvola lenta di fango, piena di neri scheletri di foglie, che se ne stanno tutti dritti e immobili nell’acqua quando lei è già scomparsa alla vista. Strisce di erbacce verde-nero si infilano tra i suoi capelli e nella pelliccia del cappotto, e per qualche momento gli occhi le vengono accecati da un ammasso compatto di foglie, che finalmente si libera e galleggia, avvolgendosi e svolgendosi e riavvolgendosi ancora.Si ferma e trova pace, alla fine, contro uno dei piloni del ponte a Southease. La corrente le preme addosso, la tormenta, ma lei è saldamente posizionata alla base della colonna tozza e squadrata, con le spalle al fiume e il volto contro la colonna. Si raggomitola lì, con un braccio contro il petto e l’altro a galla, là dove cominciano i suoi fianchi. A poca distanza sopra di lei c’è la superficie brillante, increspata. Il cielo vi si riflette barcollante, bianco e carico di nuvole, attraversato dalle sagome ritagliate in nero dei corvi. Automobili e camion rombano sul ponte. Un bambino (non avrà più di tre anni) attraversa il ponte con la madre, si ferma al parapetto, si china e spinge un ramoscello che ha portato con sé fra le assi della staccionata, in modo che cada in acqua. La madre gli dice di muoversi, ma lui insiste a rimanere ancora un po’, a guardare il ramoscello trascinato dalla corrente.Eccoli qui, in un giorno all’inizio della Seconda Guerra Mondiale: il bambino e la madre sul ponte, il ramoscello che galleggia sulla superficie dell’acqua e il corpo di Virginia sul fondo del fiume, come se lei stesse sognando la superficie, il ramoscello, il bambino e la madre, il cielo e i corvi. Un camion grigio-verde rotola lungo il ponte, carico di soldati in uniforme, che salutano il bambino che ha appena lanciato il ramoscello. Lui saluta a sua volta. Chiede alla madre di prenderlo in braccio per vedere meglio i soldati, in modo che anche loro vedano meglio lui. Tutto questo entra nel ponte, risuona attraverso il legno e la pietra ed entra nel corpo di Virginia. Il suo volto, schiacciato di fianco contro la colonna, assorbe tutto: il camion e i soldati, la madre e il bambino.

[…]

Michael Cunningham, Le Ore,  Farrar, Straus and Giroux, 1998

 

Le ore (titolo originale The hours) è un romanzo dello scrittore statunitense Michael Cunningham che si è aggiudicato il premio Pulitzer per la letteratura nel 1999, il Pen/Faulkner Award e quello Grinzane Cavour nel 2000 per la narrativa straniera.

Il libro racconta i destini intrecciati di tre donne, che vivono in luoghi e momenti storici diversi, dunque apparentemente non hanno niente in comune, ma sono in qualche modo legate dal romanzo La signora Dalloway di Virginia Woolf. Un’altra cosa accomuna le tre protagoniste: sono donne determinate, che non vogliono rinunciare a sé stesse, narrate in un momento cruciale della loro vita. La prima è proprio la Woolf, autrice del libro e ritratta a un passo dal suicidio, nel 1941 e poi mentre è alle prese con la stesura de La Signora Dalloway. Virginia Woolf lotta contro la malattia mentale che l’avrebbe condotta al suicidio. Proprio per cercare di mettere a tacere le “voci” si è trasferita con il marito fuori Londra, ma il richiamo alla vita della città è troppo forte. La seconda è Laura Brown, una casalinga californiana, madre di famiglia bella e inquieta, intrappolata da una società che si aspetta che annulli sé stessa in nome del marito, dei figli, della casa, e che per un solo giorno vorrebbe fuggire via dalla noia di un matrimonio ordinario; nell’America degli anni cinquanta, anche grazie al libro della Woolf, troverà il coraggio di cambiare vita. Infine c’è Clarissa Vaughan, un editor newyorkese che dai tempi del college vive col nomignolo di Mrs. Dalloway per le sue somiglianze col personaggio creato da Virginia Woolf e che è rappresentata e descritta nel giorno in cui sta organizzando una festa per Richard, l’amico amatissimo che sta morendo di Aids. L’avvicinarsi della morte di Richard la porta a chiedersi se le scelte compiute fossero quelle giuste. Dall’episodio del suicidio di Virginia che si lasciò annegare nel fiume Ouse, dopo essersi riempito le tasche di sassi e dalla toccante lettera d’addio che lasciò al marito Lèonard, prende avvio la storia. Virginia vive le proprie giornate per scrivere, ogni giorno una pagina in più, cercando spunti per il suo romanzo. Nel pomeriggio narrato, riceve la visita della sorella e dei suoi tre figli; un bacio inaspettato, le offrirà diversi spunti per la sua Clarissa Dalloway. Per Laura invece, che sta preparando una torta per il compleanno del marito Dan, la lettura di un romanzo scritto un paio di decenni prima, un bacio lieve e inaspettato, la spiazzerà e le farà aprire gli occhi. Clarissa invece vive insieme alla compagna Sally, pur avendo una figlia diciannovenne. Alla fine della giornata però è triste, pensierosa, ma sempre innamorata della vita.

Il romanzo nasce proprio come un omaggio di Cunningham alla Woolf: a partire dal titolo, La signora Dalloway inizialmente doveva chiamarsi proprio The Hours, e fino alla scrittura, debitrice dello stile woolfiano, sempre attento alle caratterizzazioni dei  personaggi che a eventi veri e propri. Un romanzo costruito su una sola giornata, vissuta da tutte e tre le donne, una giornata formata da ore, che si susseguono una dietro l’altra, a volte portandoci ciò che desideravamo, a volte, nell’ora successiva, togliendocelo. Leggere diventa l’unico modo per sopportare la realtà e per non perdere se stessi. A salvarci, dunque, c’è solo la letteratura, unico e solo mezzo per difendersi e prendere coscienza di sè.

Deborah Mega

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Dalla santa

10 venerdì Nov 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Dalla santa, Lucio Mastronardi

Il racconto che segue, comparso per la prima volta sul “Corriere di Vigevano” nel 1956 e pubblicato nel 1963, è ambientato nell’omonima cittadina lombarda. Si tratta di un racconto realista scritto da Lucio Mastronardi (1930-1979), scrittore proveniente da una famiglia di origine abruzzese trapiantata a Vigevano, per molti anni maestro elementare nella sua città natale. Nel 1959 si segnala come scrittore appartenente al nascente filone della “letteratura industriale” con il romanzo Il calzolaio di Vigevano, a cui fa seguito Il maestro di Vigevano del 1962. Il testo riflette il boom economico che in quegli anni investe l’Italia settentrionale, epoca in cui Vigevano si trasforma da comune agricolo in centro industriale noto per la produzione di calzature.

Avevo un fastidio a un occhio. Mi hanno consigliato di farmelo vedere da una donna che fa miracoli. La santa di Vigevano. Ci andai un pomeriggio. La santa abita in un vecchio stabile, nella vallata San Martino, uno dei più vecchi rioni della città. Nella corte, una donna, senza che le chiedessi niente, m’indicò la scala dove la santa abitava. Salii. I baselli erano sconnessi e di legno. Ne mancava anche qualcuno. Arrivai su di un ballatoio con la ringhiera sempre di legno, che puzzava di marcio; ed entrai nell’unica porta che c’era. Mi sono trovato in una vecchia e grande stanza, piena di donne e donnette. Alle pareti erano appesi dei Cristi incorniciati in tutte le pose: mentre prega, col cuore in mano, mentre predica, mentre miracola, mentre sale il Calvario, mentre muore, mentre risuscita… Tutte le pareti erano così quarciate da quei quadri e quadretti, che non si vedevano nemmeno i colori dei muri. La gente sedeva su sedie scompagne, aspettando con pazienza il suo turno. Sul tavolo c’era una scatola di scarpe con un buco sul coperchio. La santa sedeva sull’orlo di una branda con un crocifisso in una mano e un rosario nell’altra. Portava una saia da frate. Aveva una faccia paffuta, e occhi neri e vivi. Capelli corti e brizzolati, divisi a metà dalla riga; e un vocione comunicativo, dalla parlata dialettale. Seduta davanti a lei, una donnetta le contava le sue croci. Suo figlio gliene sta per combinare una, proprio grossa. Si è innamorato di una… figlia dell’amore.

– Io gli ho detto: se tu sposi quella lì, me, ti rifiuto da figlio. Ma non c’è verso – diceva la donnetta panettandosi gli occhi. – Noi siamo gente per bene; io non mi voglio imparentare con una così! –. 

La santa si raccolse. Si prese la testa fra le mani. Una sua parente ci fece segno di tacere, è in rapporto con Gesù, disse. Per qualche minuto la santa rimase con lo sguardo per terra, fisso sui disegni del pavimento nuovo. Poi disse:

– Quella ragazza ci ha fatto il pignattino a suo figlio! –.

– No! – gridò la donnetta.

La santa gettò uno sguardo ai quadri del suo padrone, come disse.

– Passerò tutta la notte a pregare per voi e per vostro figlio. Vedrà che il mio padrone mi darà da trà; che il pignattino non funzionerà più –.

– Mi faccia questa grazia – disse la donnetta.

La santa le diede un santino, con una preghiera dietro, da dire quando suo figlio è in casa. La donna uscì un portafoglio. Mise l’immagine in una tasca, con cura. Introdusse nella scatola qualche biglietto da mille e uscì.

– Se mi fate la grazia, so il mio dovere – disse, sull’uscio.

– Non ho bisogno di niente, io. Ciò lui – disse la santa, fiera, alzando la croce.

Toccava a una donna. Come sedette davanti alla santa, scoppiò a piangere. Disse che suo marito ha una fabbrica di scarpe a socio con uno, che gliene fa da vendere.

– Sappiamo solo noi cosa ci fa passare quel socio; i dané che ci giuntiamo, il lavoro che va a male… Il mio uomo vuole spartirsi. Quello là non ci sta. Il mio uomo dà fuori, se non si spartisce, dà fuori da matto. Passa delle notti senza sarare su occhio; sempre con quel pensiero fisso nella mente –.

– Cosa vuole il socio per spartirsi? – domandò la santa.

– La fabbrica intera vuole. E dei danari insieme. Tutto il lavoro mio e del mio uomo darcelo tutto a lui… –.

La santa si alzò; andò dall’altra parte della branda; da un canterano prese una reliquia, e scomparve dietro la branda.

– Silenzio. È in crisi – mormorò la parente.

Per qualche minuto si sentirono solo i singhiozzi compressi della donna. La santa riapparve.

– Dategli tutto quello che vuole al socio. Quella fabbrica è maledetta. Sfatevene subito. Ripigliate da capo, voi e il vostro uomo, e nessun altro di mezzo. Pregherò che gli affari vi vadano bene! – disse la santa.

La donna se ne andò poco convinta. Ciula, borbottava, ciula, tuttavia la nostra roba in bocca al lupo. Me ne sogno neanche…Ora toccava a una donna giovane. Sedette imbarazzata davanti alla santa. Si guardava d’attorno. Doveva seccarle dire i fatti suoi davanti a tutti.

– Io so perché siete venuta – disse la santa, guardandola fissa; – non ce la fate a imbastire un figlio; vero? –.

La sposa assentì.

– È tre anni che lui mi mena da uno specialista all’altro – mormorò con voce stanca.

– Ma lui è affettuoso? –.

– Non mi dice più niente. Quando viene sua sorella con suo figlio, lui ci slingua vicino al nipote. Ci ha una fabbrica a socio con sua sorella. Ecco, dice, tanto da fare, tanto rabattarsi, per lasciargliela tutta al nipote la fabbrica… E quando si esce, c’è sempre qualcuno che dice: ma che bella coppia! Ma perché li mandate via?… che torniamo a casa che non ci abbiamo voglia di guardarci in faccia –.

La sposa parlava all’orecchio della santa, ma la voce le usciva forte. La santa la fece stendere sulla branda. Con le mani le premeva il ventre; ci faceva croci, mormorando preghiere.

– Aspettate il periodo della luna piena – disse. – Se non ci resta, dite al vostro uomo di andare lui a farsi curare! –.

– Davvero? – disse la sposina, raggiante.

La santa strizzò l’occhio con un sorriso furbo. In quella, sorretta da due donne, comparve una ragazza con le gambe sciancate. La santa le andò incontro e l’abbracciò. Disse che quella povera anima le era tanto cara. È in cura da me, disse. Il viso devastato della ragazza s’illuminò, mentre le mani della santa la sostenevano.

– Hai fatto quello che t’ho detto? – domandò la santa.

La ragazza accennò di sì. – Ho fatto solo un giro intorno al tavolo –disse.

La santa trasalì, e dopo un momento di silenzio, gridò:

– Fanne due subito di giri. Non toccatela. Avanti! –.

La poveretta si levò; a stento raggiunse il tavolo. Sta per appoggiarsi.

– No! – urlò la santa. La ragazza arrancava intorno, fermandosi dopo qualche passo; riprendendo. Dopo un giro cadde su una sedia.

– Ancora un altro, – gridò la santa. Si alzò. La ragazza riprese a camminare; la santa le andava dietro, vicino, e le diceva:

– Ci sono io. Abbia fede. Non toccare il tavolo. Ci sono io. Io ci sono. Avanti. Sono qui io. Senza paura. Vedi che ce la fai. Avanti… –.

La ragazza fece tre giri, e sedette sull’orlo della branda.

– Non ho fatto fatica! – diceva.

Una delle donne che l’accompagnava, disse: – Qui ce la fa. A casa no. Qui ci siete voi –.

– Non è vero, – disse la santa – io non sono niente. È il mio padrone. Che è dappertutto: anche a casa vostra –.

Baciò la ragazza, e disse alle donne di farle fare a casa tre giri intorno al tavolo; e di tornare da lei fra qualche giorno. Le donne promisero.

– Adesso vai fuori! – gridò alla ragazza, che sforzandosi di non appoggiarsi né al tavolo, né alle sedie, arrivò all’uscio.

La santa si sentiva stanca. Si fece dare una scodella d’acqua, e prima di berla ci fece dei segni di croce che parevano scongiuri. Toccò a una donna. Ha su un fabbrichino. Ha taccagnato con una operaia, che le ha detto: quando morirete farò suonare le campane.

– Quando suona una campana, ammà per me è una roba che podinò spiegare. Peggio che un supplizio, – disse la donna. – E le campane tacciono mai… –.

– L’avete licenziata l’operara? –.

– Sì. Ma quelle campane, madonna santa, quelle campane… –.

– Quando sentite le campane, – disse la santa – sforzatevi di pensare che suonano per quella là –.

La donna scosse la testa. – Ci ho già provato, – disse. – Prima non ci facevo mai caso, alle campane; adesso è un tormento che comincia la mattina bonora e continua fino la notte… –.

– Allora fatevi tre segni di croce a ogni scampanata, – disse la santa – con tre Requiem insieme! –.

Toccava a una vecchietta. Suo figlio fa il modellista. E vuole andare nel Sud Africa, a lavorare. Un padrone di Vigevano ci ha piantato un’azienda, là, e il mè balosso vuole andare a mostrarci il mestiere ai zulù. Vuole firmare il contratto per dieci anni. Dice che farà su tanti di quei soldi, che podrà tornare a Vigevano e mettersi in proprio e in grande: una bella fabbrica di scarpe. Che me lo faccia stare a casa!

– Mandatemelo qui; gli dirò solo quattro parole, e ci farò passare la voglia di partire! –disse la santa, sicura. – Lo aspetto domani! –.

Finalmente toccava a me. Mi sedetti davanti alla santa.

– Ho un occhio che mi lacrima – dissi, indicando l’occhio.

– Vi scarnebbia l’occhio? – disse la santa. Mi prese la testa, ci soffiò sulla palpebra, e ci fece delle croci. Da una scatola uscì una «fotografia» di Gesù, formato tessera, dall’aria terribile, e me la diede.

– Fissatela – disse.

Io la fissai.

– Ci vedete una croce sulla fronte? –.

– No –.

– Io sì. Seguitate a fissarla… –.

Donnette si fecero d’attorno, e poco dopo tutte vedevano la croce. Qualcuna ci sentiva anche un leggero profumo.

– La vedete la croce? – disse la santa.

– Sì, adesso la vedo –.

La santa mi guardò contenta.

– Vedete, io sono una povera donna, senza studi, senza niente. Ma c’è il mio padrone, a illuminarmi. Ci posso mostrare a tutti, io. Quando un qualcosa non vi va, o vi va per traverso, fate come avete fatto adesso: guardatelo fisso finché non avete visto la croce, che avete visto adesso –.

La scatola dei soldi era piena. I miei non ci entravano. La parente della santa la sostituì con un’altra vuota. Mentre uscivo entrava gente. E altra gente incontravo per le scale, e nella corte, e sul portone. Mentre tornavo a casa, l’occhio mi scarnebbiava ancora, ma poco. E fu l’ultima volta. Poi non mi scarnebbiò più.

(L. Mastronardi, Dalla santa, in Nuovi racconti italiani II, a cura di L. Silori, Nuova Accademia, Milano 1963)

Il narratore protagonista racconta i fatti, le “sedute” dalla santa guaritrice in prima persona. Si tratta di un narratore interno, autodiegetico, coinvolto nei fatti di cui è anche testimone. Anche la focalizzazione è interna, la storia, i dettagli vengono descritti attraverso la prospettiva di un unico personaggio. E’ presente anche qualche giudizio come La poveretta, riferito alla ragazza paralitica, o come Donnette, cioè le clienti della maga, che vuol mettere distanza culturale tra se stesso e gli altri personaggi del racconto immersi in un microcosmo pittoresco e superstizioso. L’ambiente descritto è ancora contadino e tradizionale, con qualche elemento di novità, a causa della rapida industrializzazione degli anni Sessanta del Novecento. La santa, emblema della civiltà rurale in dissoluzione, non si adegua ai cambiamenti sociali del suo tempo tanto da consigliare a una cliente di disfarsi della sua fabbrica maledetta. Davanti alla santa di Vigevano sfilano persone di tutte le età e di tutte le classi sociali, ciascuna ha la propria dolorosa storia da raccontare ed è disposta a farlo davanti a tutti, in una sorta di psicoterapia di gruppo. La maga, seduta su una branda e assistita da una parente che sostituisce la scatola di cartone piena di soldi con un’altra vuota, ascolta, consiglia, benedice, compie qualche gesto rituale dispensando immagini, reliquie, preghiere. Sono riportati anche i dialoghi popolari tra la santa e le donne che affollano la sua abitazione. Il linguaggio è poco articolato, basato su frasi coordinate o accostate le une alle altre.

Dal punto di vista lessicale prevalgono termini colloquiali e regionali (ci ha fatto il pignattino; ha taccagnato; il mè balosso.) Per esprimere le parole e i pensieri dei vari personaggi che giungono nella casa della santa, il narratore usa il discorso diretto oppure il discorso indiretto libero. Il narratore protagonista, giunto il proprio turno non si tira indietro, asseconda perfino la donna, forse fingendo di vedere la croce nella fronte del Cristo che gli viene mostrato in una immaginetta. Quando infine scende in strada, si trova costretto ad ammettere di essere guarito. Il finale a sorpresa, grazie all’espressione dialettale impiegata, il mio occhio non mi scarnebbiò più, rivela l’aspetto comico e grottesco di tutta la vicenda.

Deborah Mega

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Incipit 16: Il Gattopardo

30 lunedì Ott 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 16: Il Gattopardo

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Deborah Mega, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo

Maggio 1860

 “Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.”

La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre. Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l’alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle.

[…]

Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, 1958

Il Gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore sessant’anni fa. Scritto tra il 1954 e il 1957, costituì un vero e proprio caso letterario. Il manoscritto fu presentato agli editori Mondadori ed Einaudi e dato in lettura a Elio Vittorini, allora consulente letterario di entrambe le case editrici, che ne rifiutarono la pubblicazione. Solo dopo che divenne un caso letterario internazionale fu pubblicato da Feltrinelli con la prefazione di Giorgio Bassani che ne recuperò il manoscritto nella sua interezza. In realtà pare che Vittorini abbia rifiutato “Il Gattopardo” per la collana einaudiana I Gettoni, non ritenendo che avesse le caratteristiche per rientrarvi ma lo avesse consigliato alla Mondadori. Nella lettera che inviò allo scrittore pare che vi scorgesse elementi migliorabili, “seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina”, scriveva Vittorini, “il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d’un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca”.

Il romanzo, tuttavia, nel 1959 ricevette il premio Strega divenendo il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Nel 1963 fu riprodotto nel film omonimo da Luchino Visconti. Le pagine del manoscritto originale de Il Gattopardo sono custodite nel Museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice.  Dopo la pubblicazione nacque una vivace polemica tra i critici, divisi sul valore artistico e sull’importanza dell’opera mentre il successo di pubblico superava quello di ogni altra opera di narrativa pubblicata nel dopoguerra. ”Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. E’ questa la più celebre espressione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ”scrittore, ma di professione principe”, come si definì lui stesso.  Uomo taciturno e solitario,  Duca di Palma, Principe di Lampedusa, Barone della Torretta, ufficiale d’artiglieria catturato dagli Austriaci a Caporetto, Tomasi di Lampedusa rimase tutta la vita alla guida dell’azienda agricola di famiglia. Dopo l’incontro con Eugenio Montale iniziò a scrivere la grande opera della sua vita traendo ispirazione dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, nell’opera il principe Fabrizio Salina, vissuto durante il Risorgimento e noto anche per aver realizzato un osservatorio astronomico. Più che un romanzo storico si tratta di un’autobiografia che, attraverso la narrazione della storia di una famiglia e di una casta sociale tratta la decadenza di uomini e cose mentre si affermano nuovi ceti e nuovi valori.

Il romanzo prende il titolo dall’insegna araldica della famiglia Tomasi ed è così commentato nel romanzo stesso: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.» Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio abita con la moglie Stella e i loro sette figli. Egli è un  attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto mentre sta emergendo sempre di più il  ceto borghese, che il principe guarda con malcelato disprezzo. L’intraprendente e amato nipote Tancredi Falconeri combatte tra le file dei garibaldini e poi in quelle dell’esercito regolare del Re di Sardegna, cercando di compiere una gloriosa carriera e rassicurando allo stesso tempo lo zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà a vantaggio della loro classe; sembra poi essere interessato alla raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui. Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un uomo di umili origini che si è arricchito e ha fatto carriera nel campo politico e che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici grazie al fascino della figlia Angelica, cui Tancredi non tarderà a soccombere sia perché attratto dalla sua bellezza sia a causa del suo notevole patrimonio. Arriva il momento di votare l’annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, indecisi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe, suo malgrado, risponde in maniera affermativa. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime. Non ha fiducia nel nuovo stato dominato non più dai gattopardi ma dagli sciacalli, i nuovi dirigenti di cui nota solo l’arrivismo avido e meschino. Con cinismo e rassegnazione il principe spiega che i cambiamenti avvenuti nell’isola nel corso della storia, hanno spinto il popolo siciliano ad adattarsi ma non hanno apportato mutamenti all’essenza e al carattere dei siciliani. Così il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento destinato a non produrre effetti significativi. La sua vita continua monotona fino alla morte, che lo coglie all’improvviso. L’ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio, inasprite da un’esistenza triste e solitaria. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente la novella Libertà di Giovanni Verga, I Viceré di Federico De Roberto, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, tutte ispirate al fallimento risorgimentale. Non sono trattati molti eventi importanti, dunque è erroneamente ritenuto un romanzo storico mentre come scriveva Vittorini allo stesso Tomasi, vi prevale un interesse saggistico-sociologico, solo a tratti narrativo. Il romanzo è interessante per la novità della struttura, formata da diversi episodi conclusi ma collegati perché fanno capo al personaggio principale inoltre per la tesi che vi è affermata, del fallimento del Risorgimento italiano nella sua politica meridionalistica ma è anche testimonianza della crisi del nostro tempo.

Deborah Mega

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Il blog LIMINA MUNDI è stato fondato da Loredana Semantica e Deborah Mega il 21 marzo 2016. Limina mundi svolge un’opera di promozione e diffusione culturale, letteraria e artistica con spirito di liberalità. Con spirito altrettanto liberale è possibile contribuire alle spese di gestione con donazioni:
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