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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Consigli e percorsi di lettura

Ossessione e presente immobile in “LA GELOSIA” – Alain Robbe Grillet

12 mercoledì Gen 2022

Posted by maria allo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Alain Robbe Grillet, La gelosia, Maria Allo

alain R

Alain Robbe Grillet: Brest, 18 agosto 1922 – Caen, 18 febbraio 2008

L’attività letteraria è stata negli anni Cinquanta e Sessanta caratterizzata da alcuni movimenti d’avanguardia animati da un’elevata carica di contestazione sociale e morale al sistema borghese: un elemento, questo, nuovo rispetto alle avanguardie storiche di primo Novecento e che in qualche modo prelude al Sessantotto. Se l’avanguardia storica infatti, d’inizio secolo (Dadaismo, Futurismo, Surrealismo) sognava di creare un linguaggio nuovo, la Neoavanguardia si propone, di demistificare il linguaggio ordinario, distruggendo all’interno i modi del conoscere e del comunicare. La Francia è il paese in cui più intenso è stato il dibattito teorico, stimolato dalla vivacità delle ricerche culturali (Esistenzialismo, Neomarxismo) e dalle nuove scienze umane (soprattutto lo Strutturalismo e l’Antropologia), fiorite appunto nel clima culturale di quegli anni segnato dall’Esistenzialismo e dalla guerra fredda. A questo sfondo culturale si possono ricondurre le opere di autori diversi, quali Jean-Paul Sartre, Arthur Adamov, Eugène Ionesco, Samuel Beckett, Jean Genet, Ferdinand Arrabal. Le loro opere tendono a non trasmettere alcuna informazione diretta né valore esplicito e il palcoscenico, in cui questi autori mettono in scena il dramma dell’uomo contemporaneo e la sua ricerca di un significato per l’esistenza, diviene il riflesso di un mondo interiore scisso, disperato. Dopo la stagione del teatro dell’assurdo, (fenomeno sostanzialmente francese e parigino che negli anni Cinquanta ottenne un vivo successo in tutta Europa, anche se si sarebbe esaurito nell’arco di un quindicennio) è venuta quindi la messa in discussione, anche in narrativa, del romanzo tradizionale. Oltre alle esperienze trasgressive di Georges Bataille (1897-1962), scrittore e critico, che affronta temi estremi (erotismo e violenza) in forme eccessive, oltre alle teorizzazioni di Maurice Blanchot che definisce la letteratura uno spazio di “orientamento” e di “morte”, si afferma il Nouveau Roman[1] école du regard, (scuola dello sguardo).Si tratta in realtà del tema dell’alienazione dell’uomo nella società di massa, già al centro del teatro dell’assurdo, riproposto in forma narrativa, densamente sperimentale. Di fronte all’improvvisa fortuna editoriale dell’école du regard, la critica italiana inizia a interessarsi al Nouveau Roman e al soggettivismo radicale della scrittura, come espressione della reificazione indotta dalla società dei consumi. Il caposcuola riconosciuto del Nouveau Roman francese, (termine coniato da Emile Henriot) è Alain Robbe-Grillet che ne ha teorizzato le linee in Una via per il romanzo futuro (1956). Appartengono alla corrente del Nouveau Roman, coerente con la crisi del XX secolo, altri esponenti come Nathalie Sarraute, Michel Butor, Claude Simon e Marguerite Duras solo per citarne alcuni. Nel romanzo come “ricerca” (la definizione è di Butor), l’uso insistito del monologo interiore si affianca alla particolareggiata descrizione realistica per respingere ogni funzione rappresentativa. Il punto d’arrivo è una “creazione scritturale”, una rete di segni (parole, immagini) che producono senso di se stessi. Si tratta di un rovesciamento dell’impostazione tradizionale del romanzo, inteso come impassibile trascrizione di oggetti ed eventi, liberati da qualunque interpretazione che vi sovrapponga un senso preordinato. Negli anni Cinquanta-Sessanta, in Francia il movimento del Nouveau Roman ha fatto ricorso a tecniche narrative di avanguardia per negare la possibilità di dare un senso a una narrazione. Il primo e più celebre scrittore è l’argentino Borges, che in molte variazioni ha riproposto l’immagine del mondo come enigma e labirinto. Intorno a Borges si è raccolto un gruppo di scrittori argentini che condividono con il maestro le ardite sperimentazioni intellettuali. In anni più recenti una scrittrice ungherese di lingua francese, Agata Kristof, unisce originalmente il tema dell’inafferrabilità delle vicende umane a una visione lucidamente crudele e disperata della vita. Il Nouveau Roman si è espresso nel più vasto ambito di un’avanguardia attorno alla rivista Tel Quel, fondata nel 1960 da un gruppo di giovani intellettuali intenti a costruire una “scienza materialista delle pratiche significanti” fino a fare ricorso all’idea che la letteratura deve negarsi a ogni traduzione di senso per divenire uno strumento rivoluzionario. Alain Robbe-Grillet scrittore, saggista, regista e sceneggiatore, membro dell’Académie francaise nel 2004, alla presidenza di Maurice Rheims, nell’ultima fase, da Progetto per una rivoluzione a New York (1970), è passato da un’idea di romanzo come strumento conoscitivo dei meccanismi psichici, a un romanzo gioco, che sfrutta tutti i luoghi comuni più banali della tradizione romanzesca in una ludica combinazione e ha influenzato la letteratura europea tra cui anche gli italiani Edoardo Sanguineti e Ferdinando Camon. Notato e sostenuto in particolare da Maurice M. Blanchot, e Roland Barthes, ha pubblicato Le gomme (1953), La gelosia (1957), Nel labirinto (1959).la gelosia 978880614998GRA geipeg

Questa trilogia, una sorta di manifesto letterario della poetica lo rende celebre, ma se facciamo i conti della sua uscita, il libro La gelosia non è quello che chiamiamo un best-seller, che vende rapidamente, ma è un long-seller, che ha superato di gran lunga i best-seller del mondo (Les editions de Minuit). Il titolo gioca sul duplice significato di gelosia: un tipo di persiana a stecche, che permettono di osservare l’esterno dall’interno senza essere visti, e una passione che spinge a osservare ossessivamente i comportamenti della persona sospettata di tradimento. Il romanzo ha tre personaggi: una voce narrante che non dice mai “io”, la moglie di questo narratore innominato (chiamata “A”) e un comune amico che frequenta la loro casa, Frank. Si svolge ai tropici. La scena è un bungalow signorile situato in un paese coloniale, al centro di una piantagione di banani. In prima pagina si trova la planimetria di un’abitazione, designata a regola d’arte e la descrizione dell’edificio prosegue lungo tutto il libro, alternandosi alla descrizione morbosa delle piantagioni che lo circondano e alle ambigue allusioni di un probabile tradimento della moglie con l’amico della voce narrante che registra minutamente ogni particolare visivo. il vero protagonista, assente, onnipresente e onnisciente, è il narratore silenzioso che dà il titolo al libro “la gelosia” in quanto osservatore ossessivo e sospettoso della relazione fra sua moglie e il vicino di casa. I romanzi di Alain Robbe-Grillet propongono un restringimento del campo visivo per una più autentica ricreazione del reale. Bisogna dunque superare il racconto lineare, cronologico, incentrato sull’eroe protagonista, va abolita, come teorizza Robbe-Grillet, la psicologia tradizionale, per adottarne un’altra, in cui è l’uomo ad abitare le cose e i suoi sentimenti non sono dentro, bensì fuori di lui. Le circostanze esterne non sono dunque mai neutrali, ma si caricano delle segrete nevrosi e angosce dell’individuo. La narrativa di Robbe-Grillet in La gelosia vuole risalire al livello elementare della percezione, in cui gli oggetti del mondo incontrano uno sguardo. È un momento originario, anteriore alle interpretazioni concettuali con cui diamo abitualmente un senso al mondo. Scrive l’autore nel testo programmatico Una via per il romanzo futuro “aprendo gli occhi all’improvviso, abbiamo provato una volta di troppo, lo choc di quella realtà testarda di cui facevamo finta di essere venuti a capo. Attorno a noi, sfidando la muta dei nostri aggettivi animisti o sistematori, le cose sono là. Riporto in parte un passo centrale del romanzo:

V. “Ora la casa è vuota”

Ora la casa è vuota. A. è scesa in città con Franck, per fare alcune spese urgenti. Non ha precisato quali. Sono partiti di buonissima ora, per disporre del tempo necessario alle loro faccende e tornare tuttavia la sera stessa alla piantagione. Avendo lasciato la casa alle sei e mezzo del mattino, contano d’essere di ritorno poco dopo mezzanotte, il che rappresenta diciotto ore d’assenza, di cui otto al minimo di viaggio, se tutto va bene. Ma i ritardi sono sempre da temere, con queste cattive piste…. È facile far scomparire questa macchia, grazie ai difetti dei vetri molto grossolani della finestra: basta portare la superficie annerita, per approssimazioni successive, in un punto cieco della lastra.
L’idea è dunque di rappresentare una materialità dell’esistenza che precede i concetti, le spiegazioni, le storie che ci raccontiamo per dare un senso alle cose. Per questo il protagonista è ridotto a una voce anonima che registra impassibilmente pensieri e percezioni, e la trama è ridotta a una serie di stati di coscienza slegati
La macchia comincia con l’allagarsi. Uno dei suoi lati, gonfiandosi, forma una protuberanza tondeggiante: più grossa, da sola, dell’oggetto iniziale. Ma qualche millimetro più in là, questo ventre si trasforma in una serie di sottili mezzelune concentriche, che s’assottigliano ancora, si riducono a fili, mentre l’orlo opposto della macchia si ritrae, non lasciando dietro di sé che un’appendice peduncolata. Questa s’ ingrossa a sua volta, un istante, poi tutto si cancella di colpo. Dietro il vetro, nell’angolo determinato dall’asse centrale e dalla piccola traversa non c’è più che il colore grigiastro dello strato di polvere che ricopre il suolo sassoso del cortile. Sul muro di fronte il millepiedi è al suo posto, nel bel mezzo della parete.
Il tempo è un presente immobile (ogni capitolo comincia con la parola Ora), e non scorre in una sola direzione: il millepiedi che in questo brano sembra scacciato dal protagonista, in pagine precedenti è già una macchia sul muro, in pagine successive è ancora vivo. Comprendiamo che l’osservatore sta guardando l’esterno da dentro della casa, attraverso i vetri di una finestra, e (forse) attraverso le gelosie. La gelosia è evidente nei pensieri registrati all’inizio del brano, anche se l’atteggiamento resta ambiguo: l’innominato protagonista vuole convincere se stesso? O fa dell’ironia sulle giustificazioni che gli altri due accamperanno? Inoltre la registrazione di ogni minima percezione suggerisce un certo tipo psicologico: un individuo debole, incapace di azione, smarrito in un’ossessiva contemplazione delle cose intorno a sé. Oltre al tempo anche lo spazio è ambiguo e mutevole: l’immagine fotografata si sovrappone e quasi si confonde con la scena reale. In teoria dunque Robbe-Grillet abolisce i cardini della narrazione. Il personaggio e la trama; in realtà, fornisce al lettore tutti i dati per ricostruire una situazione (se non proprio una storia) e una psicologia. E dunque, se per molta narrativa la domanda portante è “chi vede i fatti riportati?”, qui la questione si fa più radicale diventando: “che cosa vede chi sta guardando (e narrando)?”. La sperimentazione stilistica che alla fine degli anni Cinquanta investe il romanzo trova una corrispondenza anche nel cinema, e dal momento che il Nouveau Roman nasce in Francia, è il cinema francese a recepirne per primo le innovazioni. [4] Il regista Alain Resnais più di altri si è trovato in sintonia con le proposte dell’avanguardia, e ha trasportato sullo schermo le tecniche letterarie del “flusso di coscienza” e avvalendosi della collaborazione dei due più importanti scrittori dell’avanguardia letteraria francese: Marguerite Duras e Alain Robbe-Grillet., sceneggiatore de L’anno scorso a Marienbad [5] (Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1961). Anche nel film inaugura una nuova drammaturgia che Gilles Deleuze definisce “una storia di magnetismo, di ipnotismo” Infatti anche qui lo spettatore rimane disorientato e non è in grado di sapere chi dei due protagonisti menta, mentre è trascinato all’interno delle atmosfere oniriche e sul filo di una memoria ingannevole che esplora i recessi oscuri della coscienza. Eletto nel 2004 all’Accademia di Francia, Robbe-Grillet, provocatore e polemista morì all’età di 85 anni dopo aver dato alle stampe un ultimo romanzo che, tra i critici d’oltralpe, scatena roventi anatemi.

© Maria Allo

[1]  3, Novecento-Il nouveau roman francese, B. Mondadori, pag.629

[2]  M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 219-226

[3] Alain Robbe-Grillet La gelosia, Ed. Einaudi (Uscito in Italia nel 1958 nella traduzione di Franco Lucentini)

[4] Un articolo di Andrea CHIURATO, «Un successo senza gloria.Splendori e miserie della ricezione  di Alain Robbe-Grillet in Italia», in Interférences littéraires/Literaire interferenties, 15, «Au risque du métatexte. Formes et enjeux de l’autocommentaire», a Cura di Karin SCHWERDTNER & Geneviève DEVIVEIROS, febbraio 2015, pp. 149-169

[5] Alain Robbe-Grillet, L’anno scorso a Marienbad Einaudi,1961 (https://core.ac.uk/download/pdf/225988932.pdf) Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, pag 139

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Marco Galvagni, “Le note dell’anima”, Transeuropa, 2020. Recensione di Rita Bompadre.

13 lunedì Set 2021

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Le note dell'anima, Marco Galvagni, Rita Bompadre

 

“Le note dell’anima” di Marco Galvagni (Transeuropa Edizioni, 2020) riecheggiano in ogni segno virtuoso dei versi tra le annotazioni poetiche sulla vita, interpretano il suono del cuore e affermano con la dedica amorosa in epigrafe, l’insinuante e persistente fiamma della passione. Il poeta si lascia incantare dalla soavità evocativa della memoria, concede alla fantasia la forma visibile delle immagini rappresentative della realtà, per accogliere la premurosa custodia delle riflessioni attraverso la mediazione estetica della bellezza. La determinazione carismatica dell’esistenza descritta da Marco Galvagni, compone la fiducia nell’elemento sensoriale, consegnando alla poesia la misteriosa e provocante corrispondenza della coscienza e muovendo in direzione spontanea le coincidenze significative dell’esperienza. La fluida continuità della sensualità ritrova la sua malia tentatrice tra le pagine, affina l’arte della seduzione inviando segnali colti e raffinati nell’elegia autobiografica, ridesta l’ispirazione, indica il dogma enigmatico del sortilegio emotivo e la ritualità  fatale della conquista. Marco Galvagni afferma il significato dell’eloquenza, adula la strategia della percezione, strumento di comprensione, rende l’irrazionale spinta delle illusioni motivo di sofisticata indagine esistenziale e archetipo universale. Il carattere poietico dell’opera mostra l’origine della centralità charmant dell’amabilità, idealizza l’attività nostalgica del pensiero, i simboli in equilibrio sulle stagioni, esplora la fenditura profonda del soffio vitale, rivestendo la dolcezza arcana della speranza oltre l’abisso dei moti spirituali e istintivi. Il profilo del poema traccia la sensazione sincera delle rivelazioni vissute e amplia la geometria della consapevolezza. I testi affidano alla sacralità del senso il legame con il tutto, interrogano la complicità dell’umanismo, confrontano l’intenso entusiasmo dell’immaginazione con il processo inarrestabile della conoscenza, combinando la meditazione e la sapienza indistinta dell’intelletto. “Le note dell’anima” scorrono nelle vene, misurano la cifra del palpito, congiungono le infinite occasioni, magiche e segrete, del tempo, orientano la certezza e la resistenza dei gesti, riconducono la forza pulsionale dell’amore all’energia primordiale delle intuizioni. La composizione dell’anima colloca la personificazione emblematica del linguaggio nell’incarnazione della donna amata ed evocata come illuminata epifania nella tensione tra aspirazione e utopia. Il poeta adotta uno stile che è sede della propria moralità, identificata nella corporeità dei ricordi, nella consistenza erotica delle espressioni, nello sfuggente e impalpabile dominio della contemplazione, nella maturità degli affetti. Nei testi di Marco Galvagni si comprende che la bellezza diffonde il suo passaggio oltre il momento e attraversa, come possibilità, tutti i corpi. Il poeta vive l’unicità del proprio destino, disponendo alla nobilitazione di ogni ardore il vagheggiamento dell’attrazione e unendo alla libertà del sublime l’intensificazione della assolutezza apollinea della poesia.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”

https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

 

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Filomena Gagliardi, “De viris Illustribus”, Nulla Die Edizioni, 2020. Recensione di Rita Bompadre.

08 martedì Giu 2021

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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De viris Illustribus, Filomena Gagliardi, Rita Bompadre

“De viris Illustribus” di Filomena Gagliardi (Nulla Die Edizioni, 2020) è un potente omaggio alla cultura classica, intesa nell’interpretazione filologica della formazione intellettuale, come patrimonio di conoscenza e di erudizione. I testi diffondono l’esperienza degli antichi ed illustri ideali, rivolgono l’origine del mondo alla mitologia dell’eternamente presente, seguono il luogo sacro della comunicazione, rischiarato dalla luce della bellezza. I versi abbracciano l’armonia infinita delle citazioni esemplari e le immagini primitive arricchiscono la grazia poetica e traducono i contenuti efficaci, i motivi d’ispirazione con inesauribile energia letteraria. La mirabile, sapiente, illuminata poesia di Filomena Gagliardi è pura riconoscenza di un’epoca, recupero consapevole di un modello da ritrovare, nella gioia della sensazione del valore morale. La contemplazione degli eventi e la scoperta rivelatrice delle sentenze, tracce lasciate dalla prospettiva storica del passato, incarnano l’influenza naturale della coscienza umana, animata dall’affinità con la profonda concordia di uno stato felice della vita, in accordo con la prosperità dell’immaginazione, con la visione rigeneratrice del mito. La poetessa ripercorre l’uguaglianza dei sentimenti, la necessità spontanea di ricordare l’autenticità del bene, il rapporto tra la vita dell’uomo e le compiute aspirazioni della sua natura. Nell’evoluzione della ragione, l’uomo, nel dominio dei propri impulsi sensibili, è simbolo della virtù. Gli uomini illustri di cui parla Filomena Gagliardi sono interpreti del comune desiderio di rigenerazione e di rinascita interiore, hanno la saggezza e la sapienza dei principi supremi della verità e della fermezza vitale. L’attività dello spirito educa l’intuizione e nella libera ricerca cognitiva riscatta il senso apollineo della riflessione, muove il dubbio, è causa dell’enigma. La liberazione estetica della poesia, genera un linguaggio capace di esprimere la democrazia dei valori condivisi e dare corpo all’universalità del coraggio etico. Il tempo, conosciuto dalla poetessa, è l’espressione della memoria collettiva, la destinazione compiuta con l’esperienza del vissuto, nella volontà di comprendere la spiegazione della storia, il luogo dell’autenticità, abitato dalla dottrina speculativa del comportamento umano. Leggere “De viris Illustribus” è scoprire il fascino inesauribile dell’antichità e la magnificenza dei classici, conoscere la concentrazione e la dilatazione dell’indagine in un mondo leggendario che ispira l’equilibrio sovrasensibile delle nobili imprese orientando l’arte della motivazione e la misura della creatività. L’autrice decifra l’epoca attuale, valuta il destino dell’umanità, sfida il prestigio dell’ars oratoria con la finalità di conoscere gli antichi per capire il presente. La cultura intesa come qualità autonoma, come esperienza delle idee, nell’inciso dei versi, in un lirismo rielaborato dalle figure eroiche e risolute, astute e fedeli metafore trasmesse nella guida di ogni insegnamento, protagoniste del desiderio di gloria e di immortalità.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”

 

Omero II

 

Poesia

tu stesso

fugace parola

il tuo nome

senza esistenza:

mito

senza parola scritta

logos,

parole colorate

reali

cangianti.

Tu

Omero

“il non vedente”

sei veggente

vate

rivelatore di alate parole.

 

———————-

 

Esiodo

 

Primo poeta reale

primo cimelio

dell’antica Beozia

abitata dai duri contadini.

 

Artefice poetico

del Cosmo

sostenitore

fervente

della dura legge del lavoro.

 

Tu,

visitato in sogno dalle Muse,

affidi alla tua parola

la Verità

la Saggezza

la Pace fraterna.

 

———————

 

Aristotele nel cuore

 

Ascoltandoti

ti ho amato:

parlavi di musica,

di emozioni,

di uomini.

 

———————

 

Cosa sei a distanza (Ulisse e dintorni)

 

Ripercorro il mare epico

narrando gli eventi

gli stessi.

 

E ci sei,

sempre,

come digressione

nella Narrazione.

 

Riaffiori

ad ogni passaggio,

ad ogni incrocio

ad ogni snodo

come tempietto perenne.

 

Lì stai

davanti a me

oltre il tempo

oltre lo spazio

al di là delle strade.

Superandoti

ti inglobo

come capitolo

archiviato

vissuto

non rinnegato

dal libro della mia Vita.

 

—————————

 

Uomini illustri

 

Talora nascono anche oggi

uomini illustri.

Sono persone semplici

che incontriamo per caso

magari in biblioteca.

E ci entrano

nella Vita.

Ci restano accanto

quando siamo peggiori

credono in noi

quando noi smettiamo di farlo.

Ci hanno colpito

fin dall’inizio

con il calore delle loro mani.

Per chi è ferito da sempre

queste persone

Sono uomini illustri:

danno Luce!

In modo discreto

 

Testi tratti da Filomena Gagliardi, “De viris Illustribus”, Nulla Die Edizioni, 2020.

 

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Cinque poesie di Nicola Romano tratte dalla sua nuova raccolta “Fra un niente e una menzogna”, Ed.Passigli, con la prefazione di Elio Pecora.

27 mercoledì Gen 2021

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA

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Nicola Romano, Tra un niente e una menzogna

Della poesia di Nicola Romano va sottolineato lo spessore della tematica che si accompagna alla forza evocativa della parola meditata, immediata e mediata, espressa in funzione significante. I nuclei tematici privilegiati sono essenzialmente contenuti nello sguardo verso la realtà che radicalizza l’uomo-poeta al mondo in cui vive e l’incontro con un nuovo tempo fisico e interiore che lo pone di fronte alla necessità di ri-considerare l’esistenza vissuta e da vivere. La disposizione strutturale dei temi non ha un inquadramento organico, i testi sono distribuiti per tematiche miste, pur mantenendo unità di stile. Il livello semantico è una fusione di termini, sia di carattere quotidiano che di uso ricercato, quando non specialistico e neologistico, fino a qualche invenzione lessicale in funzione  della resa metrica. I testi aprono un ventaglio di argomenti dove s’insediano i motivi e gli interrogativi del vivere quotidiano declinati attraverso uno sguardo che indaga e riflette non soltanto su ciò che è al suo esterno ma su quello che la ragione e lo spirito detta. Una poetica, quella di Romano, che si inserisce in quadro che definirei di “mitografia del quotidiano”, per lo sguardo acuto, ironico e talvolta compassionevole verso tutto ciò che viene percepito e vissuto.

Anna Maria Bonfiglio

  

RED CARPET

 

Non metteranno mai

tappeti rossi

sulle tue strade

sparse ed ineguali

o sui percorsi stretti ed allagati

come quel mare freddo

chiuso in gola

 

quindi

 

consacra il tempo

semplice e ordinario

del nuovo giorno

che ti nasce in bocca

allacciati le stringhe sul muretto

datti una sferza tra le cose mute

sorridi se ti taglia un gatto nero

stranisci a quel

che rutta un manifesto

e non turbarti

all’amnesia d’un nome

che scortica la mente

e poi di colpo

intero si rivela

 

 

ASSENZA

 

Tutto sta nel capire

dove mi sprofonda la tua assenza

se falsa noncuranza

o interna solitudine

è questo armeggiare

nel palmo d’un divano

tra un facile sudoku

e un po’ di vino

Con un sentore d’assurdo

risalgono canali a quel principio

che fa nascere il corso d’ogni storia

e le mani rovistano le sacche

di quei pensieri assorti ed intricati

come spighe di canne scarmigliate

 

ed un lamento scorre fino ai piedi

se tenera ferita è la tua assenza

 

 

QUEL VAGO

 

Le porte sbattute dal vento

ribattono un vento di mare:

oscilla nel sonno leggero

la cupa lanterna

tra i muri del cuore

dilaga la polvere e il muschio

continua a patire sui prati

la febbre del tempo peggiore

 

Chissà tutta intera una vita

se esclude quel tempo migliore

pensato tra ali di canto

e odori rapiti ai verzieri

D’inesauribile attesa

quel vago che trema negli occhi

e non sa che dispiace

 

 

MERAVIGLIA

 

È bello stare qui

non manca nulla

confabulo col sole

che scalda le finestre

le vie sono un teatro

dove tutto è palese

e quel che busco

è più del necessario

per mantenere lune

sempre accese

 

D’intorno strappo

cespi di parole

che poi sminuzzo

come vuole il cuore

e a compendio

di tanta meraviglia

accanto a me trattengo

corbezzoli ed aloe

 

e una valigia piena

per fuggire

 

 

VACUITÀ

 

Cosa rimane

dei numerosi giorni accatastati

come ordinate spighe nei covoni

e di tutto un continuo trafficare

sui marciapiedi lisi delle strade

delle risa scambiate a crepapelle

sul volto degli amici più vicini

o degli sparsi attimi straniati

tra portici in granito ed osterie

 

e cosa resta

delle fatiche spinte fino a sera

per lanciare le reti sul domani

o delle labbra offerte con tremore

dentro un’oscurità senza parole?

 

Rimane solo nebbia che s’imbianca

tra i pali dei lampioni alla marina

e d’una vita forse trasognata

solo un fondiglio erboso di ruscello

 

 

Giornalista pubblicista, Nicola Romano vive a Palermo, dove è nato nel 1946. Con opere edite ed inedite è risultato vincitore di diversi concorsi nazionali di poesia. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione in esperanto e su riviste spagnole, irlandesi e romene. Suoi testi sono presenti in “Fahrenheit” di Radio Rai3. Attualmente dirige la Collana di poesia dell’editrice “Spazio Cultura” di Palermo.

Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: I faraglioni della mente (1983), Amori con la luna (prefazione di Bent Parodi, 1985), Tonfi (1986), Visibilità discreta (prefazione di Lucio Zinna, 1989),  Estremo niente (con una nota di Melo Freni, 1992), Fescennino per Palermo (1993), Questioni d’anima (prefazione di Aldo Gerbino, 1995), Elogio de los labios (a cura di Carlos Vitale, Barcelona, 1995), Malva e Linosa – haiku (prefazione di Dante Maffìa, 1996), Bagagli smarriti (prefazione di Fabio Scotto, 2000), Tocchi e rintocchi (prefazione di Sebastiano Saglimbeni, 2003), Gobba a levante (prefazione di Paolo Ruffilli, 2011), Voragini ed appigli (prefazione di Giorgio Linguaglossa, 2016), Birilli (sei poesie con una incisione di Girolamo Russo, 2016), D’un continuo trambusto (prefazione di Roberto Deidier, 2018), Tra un niente e una menzogna (prefazione di Elio Pecora, 2020).

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Franca Alaimo legge “Al dio dei ritorni” di Maria Allo

29 domenica Nov 2020

Posted by Loredana Semantica in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Tag

Critica letteraria, Franca Alaimo, Il dio dei ritorni, Maria Allo, poesia

Nota di lettura di Franca Alaimo a “Al dio dei ritorni” di Maria Allo. Galassia Arte, 2013

“Un dolore ci sgretola la luce/ ovunque sulla terra”: sono i versi conclusivi di un testo della silloge. Al dio dei ritorni (Ed. Galassia Arte, 2013), che dichiarano il disincanto radicale dell’autrice di fronte ad una quotidianità stanca ed opaca, rischiarata soltanto dalla poesia che non si stanca di inseguire visioni di armonia, mentre si agglutina intorno a  ripetizioni dolenti, quali: “Non c’è riparo”, “Non c’è risposta”, “Non vi è luce”, che costellano un libro severo e vertiginoso come Solchi (L’arcolaio Ed, 2016), dove ogni parola assume il tono di una perentoria condanna della falsa mappa valoriale condivisa dall’uomo contemporaneo.

Ad essa, con la forza di un lessico corrosivo, la Allo oppone la passione di un’anima irrequieta, in cerca di assolutezza, e la tensione spasmodica verso una dimensione utopica, che la fanno oscillare continuamente fra la terra e un altrove (mistico per la sua purezza, ma non religioso) attraverso l’uso abbondante delle metafore che le facilitano l’accostamento a volte ardito, quasi bruciante, fra i frammenti dell’essere,

I suoi testi hanno molto a che fare con i quattro elementi fondanti dell’esistenza, ognuno dei quali affonda nella plurisignificanza dei simboli e dei miti, ma probabilmente è il fuoco (che influenza perfino la qualità del lessico) a predominare per quella segreta prossimità che si stabilisce fra ogni poeta e lo spazio geografico della sua quotidianità, ché del suo paese, nella provincia di Catania, molto affascina la presenza dell’Etna con i suoi rimbombi sonori e il suo inesausto ribollire, enigma e terrore, figura dell’inesauribile ossimoro vita-morte, metafora della stessa indole dell’autrice.

La morte viene assai più corteggiata della vita, in quanto possibilità di precipizio nel nulla purificante, nel silenzio a cui anela l’atto stesso dello scrivere, anche se ossimoricamente il poeta deve vestirlo di suoni. Fra l’altro la Allo possiede una sua fluviale poematicità, così che il discorso iniziato con la prima raccolta del 2011 Riflessi di rugiada (Albatros Ed.) trova una sua continuità nelle altre successive, delineando un mondo interiore coerente, anche se palpitante di rielaborazioni sempre nuove, all’interno di un’indagine che non sa e non può esaurirsi in risposte definitive, sebbene la meta sia sempre identica a se stessa: un possibile ritorno alla purezza, alla luce della gioia spesso intraviste nei paesaggi naturali, nei volti dei bambini, nei ricordi dei luoghi e degli affetti dell’infanzia: “La catena d’oro col il topazio bianco sul gilè/ Il grande pino la casa rossa “i Rosi”.

Spesso i testi hanno come soggetto o interlocutrice la Poesia stessa, così che, mettendo insieme le molte e sparse definizioni di essa, si possono dedurre i principi della poetica della Allo: “Opera di svelamento è la parola”, “Creare è dare una forma al proprio destino” (in Riflessi di rugiada); “bagliore/ che dissolve l’ombra”, “una realtà in un’altra realtà” (in Al dio dei ritorni); “Il macero segreto”, “luce che veglia” (in Solchi); “suono che ci tiene in vita”, “grappolo di luce in cui cadere” (in La terra che rimane).

La poesia della Allo, in sostanza, muove da una postura filosofico-esistenziale, nutrita di molte letture e riflessioni, che, mentre indaga il dolore (l’autrice esprime pienamente il tragico dell’anima siciliana), il senso dell’essere e il convulso apparire e sparire delle cose, non dimentica di introdurre nei versi squarci di bellezza paesaggistica tipicamente mediterranei (il mare, il sorbo, l’Etna, certe trasparenze di luci, il soffio del maestrale), e lampi emotivi (“la scintilla d’amore in mezzo al petto”), ma sempre avendo presente il destino dell’uomo, “la meta di umana compassione/ così vasta da non avere direzione”.

Franca Alaimo

26 ottobre 2020

Nota biobibliografica

Maria Allo, laureata in Lettere Classiche, poetessa e traduttrice siciliana. Vive tra Parigi e Catania. Scrive su numerosi blog letterari tra cui Solchi e i suoi testi sono apparsi anche su diverse riviste di studi letterari .  Ha al suo attivo diverse pubblicazioni antologiche e cinque sillogi di poesia: “I sentieri della speranza”, Gabrieli Editore marzo 1985;” Riflessi di rugiada. Cose sparse di me”, Gruppo Albatros 2011; “Al dio dei ritorni”, Galassia Arte Anno 2014; “Solchi. La parabola si compie nei risvegli “, Editore L’Arcolaio Anno 2016, “La terra che rimane” Edizioni di poesia Controluna Anno 2018 e “Talenti di donna “Onirica edizioni Anno 2013, come curatore. Ha scritto molte recensioni sulle opere dei poeti contemporanei. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo. Ha tradotto testi di autori greci contemporanei.

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“Cadere, volare” di Clelia Lombardo, Avagliano Editore, 2020. Nota critica di Anna Maria Bonfiglio.

18 mercoledì Nov 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Clelia Lombardo

 

Dopo la docustoria La ragazza che sognava la libertà, racconto di un femminicidio per decisione mafiosa, Clelia Lombardo, docente, poetessa e autrice di teatro, esce in libreria con il romanzo Cadere, volare, edito da Avagliano, storia di una giovane donna che si trova a dover affrontare le due realtà più importanti del proprio percorso di vita: l’inizio del viaggio nella concretezza del lavoro scelto e l’incontro con la possibilità di dare una svolta decisiva alla sua vita sentimentale. Nives insegna ai ragazzini di una scuola media di un piccolo paese dell’entroterra palermitano; giovani appena approdati alla prima adolescenza, figli di genitori impreparati alla propria genitorialità e perciò non in grado di indicare strade o trasmettere valori; madri vittime esse stesse di un’educazione retrograda e padri inesistenti, o violenti o invischiati nella minuta delinquenza locale. Un panorama scoraggiante per una giovane professoressa, Nives vorrebbe provare a scalfire l’indifferenza e il disinteresse dei suoi alunni, vorrebbe che potessero traghettare il guado verso l’età adulta consapevoli dell’importanza che può avere lo studio, dar loro la possibilità di vivere in modo migliore. Nella sua vita c’è Salvo, l’uomo di cui si è innamorata e che la ama, vive finalmente con fiducia il sentimento d’amore, dopo incontri vuoti e una prima giovinezza di solitudine affettiva. Poi Salvo le parla di matrimonio. Nell’incipit del romanzo ci troviamo in medias res, da questo punto inizia il racconto che, fra il presente vissuto con i suoi alunni e i loro problemi e gli incontri con l’amato, porterà Nives a ripercorrere la sua dolorosa storia di famiglia e a confrontarsi con un rapporto sentimentale che avverte come “una rete a maglie larghe da cui nella stessa misura l’amore entrava e usciva”.

Cadere, volare è un libro “onesto”, non fa l’occhiolino al lettore trattando questioni di carattere moralistico o pruriginoso, è una storia privata in cui la protagonista si mette in discussione e si pone a confronto con la realtà e con il proprio modo di intendere la vita. Ha creduto di avere trovato il suo ubi consistam nel lavoro e nell’amore, di aver superato la desolata solitudine dell’adolescenza e la morte prematura della madre, ma il passato che torna alla memoria ha perso il gusto amaro e ha portato una languida malinconia. Cosa vuole Nives? Non lo sa bene, sa però che se deve scegliere non deve essere una scelta di comodo o di opportunità, ma piuttosto “la sua scelta”. Sente l’urgenza di vivere in un mondo migliore di quello che le gira attorno, “questo non è il mondo che voglio”, pensa, e non pretende di poterlo cambiare ma di vivere come se ciò fosse possibile. Pensa che Salvo, nel corso di quell’anno in cui si sono amati, ha mostrato dei tratti caratteriali che la inquietano, è rigido, sfuggente, e lei ha paura, di sbagliare, di ritrovarsi sola. Nives ha paura di perdere coloro che ama.

Quello di Clelia Lombardo è uno stile netto, sempre in equilibrio nel tratteggiare il carattere dei personaggi che appartengono a sfere socio-culturali diverse e che tuttavia  si intersecano nel tessuto della storia; l’autrice adotta la forma narrativa della terza persona, mantenendo il giusto distacco nel definire il punto di vista delle varie figure del romanzo colte nei  momenti più significativi del racconto: gli alunni nella loro specificità di creature ancora spaesate in un mondo di cui conoscono solo il volto amaro, Nives nella fase in cui aveva sperato di trovare quel “qualcosa che nessuno può offrire all’altro”, e Salvo fra il desiderio di concretizzare il rapporto con lei e la difficoltà di comprenderne del tutto la sensibilità. Una storia peculiarmente psicologica, che tratteggia finemente i personaggi e si sofferma sulla delicata realtà degli adolescenti e sulle loro problematiche connesse all’ambito sociale cui appartengono. Un romanzo, questo della Lombardo, che la colloca fra le più promettenti narratrici del panorama contemporaneo.

 

Anna Maria Bonfiglio

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“Corpo di pane” di Elisa Ruotolo. Una lettura di Maria Allo

07 sabato Nov 2020

Posted by Loredana Semantica in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Corpo di pane, Critica letteraria, Elisa Ruotolo, Maria Allo, poesia contemporanea

Elisa Ruotolo, Corpo di pane, Nottetempo editrice 2019

Talvolta i poeti cercano una salvezza liberando l’anima dal fardello del corpo, la voce di Elisa Ruotolo in Corpo di pane, delinea un esodo, da un luogo per conquistarne un altro e migliore e la partenza( il termine italiano viaggio e il francese yoyage derivano dal latino viaticus, che indicava l’occorrente per mettersi in cammino) è una maniera per lasciarsi alle spalle il male, per abbandonare il luogo e le occasioni della colpa: il viaggio giunge come castigo e, insieme, come occasione di purificazione. Chi siamo? Da dove veniamo? si chiede Plotino, filosofo del III secolo d.C.

“Io sono quella mai nata
e che ancora può scegliersi un cuore
le mani giuste
un ventre senza ombre.” […] (pp. 33).

Un duplice sentire, pena e strazio, una catàbasi accompagnata da una successiva risalita per testimoniare la verità della sua esperienza, anche con le mutate condizioni di pienezza e apertura agli orizzonti della creatività in Corpo di pane

“…Ho avuto febbri e pesti e colera
Senza che nessuno ne prendessi nota…”

E ancora

“… faccio pace col tempo e le sciagure
del volar basso degli uccelli.” […] (pp.20)

La poesia è incontro, dono, scoperta per grazia. La conoscenza, quella profonda, non può prescindere dall’accesso al fondo poetico della mente, ed è appunto attraverso la poesia e l’amore che si può trasformare la bellezza in qualcosa che ritorna al mondo e lo arricchisce. Oggi l’uomo sente venir meno i legami con le certezze, con i valori forti che lo avevano fino a ieri sostenuto. Pharmakon, in greco, è una parola ambigua, che può designare sia un veleno sia una medicina. La voce di Elisa Ruotolo in “Corpo di pane “chiama a vivere anzitutto in dignità di fronte a se stessi.

“Usatelo bene, il vostro dolore
Ché non diventi mercanzia
Né attiri corvi al pasto della pietà.” […] (pp.11)

“C’è sempre un’ora esatta a scoprire d’avere un corpo
e sangue a bagnarlo. […] (pp.43)

“Vorrei essere pane
Perché l’unico dolore
Sarebbe quello del coltello
Che incide la crosta.” […] (pp.49)

Ecco. Connessa all’ idea del viaggio è anche l’idea della fatica, del lavoro. E poi al viaggio è associata l’idea della prova, dell’esperienza. La radice indoeuropea dei termini latini experior ed experimentum (da cui esperienza in italiano) è -per, e molti significati secondari di per si riferiscono appunto al movimento, all’attraversare uno spazio. Occorre prendere atto sì del dolore e di quel corpo vivo e vero che la vita ha gettato nel mondo, mai veramente visto e amato e diventato troppo triste e freddo per ospitare l’anima. E ora questo corpo senza più trascendenza urla il suo bisogno di pane e l’anima senza più dimora fa altrettanto, urla il suo bisogno d’amore. Ma amare, come dice Rilke, è una occasione per il singolo di maturare, di diventare un mondo per sé in grazia di un altro e posologia del dolore e dell’amore, le due sezioni che raccordano il volume, fungono da limen, metafora di un passaggio a un’altra di consapevolezza. Appare chiaro che corpo di pane non si proponga di trasmettere messaggi curativi ma un nuovo sguardo su se stessa e il mondo, lo sguardo che nasce dalla trasfigurazione riflessiva e immaginativa come capacità di accoglienza e di ascolto profondo.

“Voglio essere la pietà al momento giusto
La carezza che smonta ogni collera
Stupirvi col mio amore tardivo
Ingravidarmi del vostro cuore e poi
Ingrossarmi d’un niente.
Fino a perdere tutto, proprio tutto
anche la mia onnipotente verginità.” […] (pp.73)

L’autrice appartiene alla generazione che avverte di avere una frontiera innanzi a sé e di avere un futuro denso d‘ incertezza. Perciò Corpo di pane appare come una raccolta intima e sofferta e, grazie a tale esperienza, scavando dentro di sé, la poesia di Elisa Ruotolo, nella società moderna ammalata di nichilismo e di senso angoscioso della precarietà, porta alla luce una verità universale, che offre a noi lettori come contributo alla generale tensione verso il vero.

“Chiedo che passi tutto: il male e l’amore
ogni compromissione tentata e negata
con la vita.
Insegnami la gioia del niente
La lingua oscura della terra
Che parla del grano
Fammi essere antica come il fuoco
Vulnerabile come il legno
E senza anima.” […] (pp.76)

A livello formale, si può notare in quasi tutti i testi della raccolta, la predilezione per le strutture sintattiche ampie ma essenzialità di lessico senza alcuna concessione a registri alti e, frequenti ripetizioni, specialmente nella seconda sezione, di termini come amore, pane, verità, cuore che richiamano il legame con la vita, legame prossimo ad andare perduto per sempre.
© Maria Allo

Biografia
Elisa Ruotolo è nata nel 1975 a Santa Maria a Vico (Ce) dove vive tuttora. Insegna Italiano e storia in una scuola superiore. Ha esordito per nottetempo nel 2010, con la raccolta. Ho rubato la pioggia (vincitrice del Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito; tradotto in America e in Francia). Nel 2014, ancora per le edizioni nottetempo, esce il suo primo romanzo. Ovunque, proteggici (Selezione Premio Strega 2014 e finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane). Ha pubblicato racconti su varie riviste tra cui Nuovi Argomenti e The FLR. Ultima pubblicazione in prosa (aprile 2018) il volume intitolato: Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu). Nel 2019, per Interno Poesia, ha curato il volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi e, con l’editore nottetempo, la raccolta Corpo di pane (tradotta in spagnolo dall’Istituto Italiano di Cultura di Madrid).

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“Maternità marina” AA.VV. a cura di Silvia Rosa e Valeria Bianchi Mian, Ed. Terra d’ulivi, 2020. Nota critica di Francesco Palmieri.

03 martedì Nov 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Francesco Palmieri, Maternità marina, Silvia Rosa, Valeria Bianchi Mian

La raccolta poetica “Maternità marina”, frutto della sinergia corale delle poetesse in indice e curata da Silvia Rosa e Valeria Bianchi Mian, si inserisce nel panorama poetico dei nostri giorni come antologia tematica – la maternità – ma con un valore aggiunto che completa e al tempo stesso trascende la parola poetica, vale a dire la fotografia e l’illustrazione pittorica: Il complemento fotografico lo si deve all’esperienza inedita di Silvia Rosa mentre l’incursione grafica è frutto della creatività immaginifica di Valeria Bianchi Mian, curatrici che contemporaneamente contribuiscono alla raccolta con un testo ciascuna nel corso delle pagine di presentazione dell’opera. Il sincretismo formale del libro – sincronia e concorso di linguaggio, fotografia, pittura – potrebbe rimandare a un’intenzione didascalica non dichiarata, a un’opera illustrata dove le immagini giocano il ruolo di amplificatore della parola o viceversa, ma così non è poiché ogni medium specifico qui racconta una propria storia pur nella fedeltà e coerenza al tema della raccolta. Un tema lapalissianamente originario e ancestrale, così come è subito dichiarato fin dalla prima immagine della donna in nero che, tra le mani, reca quasi in offerta la conchiglia-utero, in un contesto per antonomasia millenario, cioè un uliveto. È un passaggio di testimone, da donna a donna, da femmina a femmina, da vecchia a giovane, secondo una successione ereditaria e filogenetica, un determinismo biologico indotto pulsionalmente da quell’istinto di sopravvivenza che spinge le creature naturali di carne e impulsi a procreare sempre e comunque. Ma si sa, nella filogenesi non c’è storia, non ci sono individui pensanti, non c’è l’Io con il suo vissuto, è fenomeno che replica se stesso senza lasciare traccia di quella che invece è l’epopea della maternità-filiazione, della connotazione psicologica ed emozionale del rapporto madre-figlia. Ed è di questo aspetto conscio ed inconscio che si occupa “Maternità marina”, delle implicazioni psichiche più profonde della relazione, sia nell’idillio che nella tragicità, nella corrispondenza empatica che nella conflittualità. Il pregio della coralità sta nel mettere in evidenza le diverse sfumature di vissuto individuale e personale, nel darci una versione polifonica di quel complesso fenomeno che è la maternità, un punto di vista denso di emozione e passione e spesso anche uno scambio di ruolo dove la figlia diventa a sua volta madre. Nelle parole e nelle immagini evocate dai testi si percepiscono le fasi primarie di simbiocità e fusionalità, si vede con evidenza lo sguardo mitologizzante degli occhi creaturali e infantili, si ascolta il racconto della faticosa costruzione del distacco e della ricerca di autonomia personale e soggettiva, si assiste all’uscita ora condivisa ed accettata ora drammatica e traumatica dal cerchio magico o cappio della relazione, e si percepisce infine la consapevolezza progressiva del senso di quelle rughe che si fanno sempre più profonde in volto e che preannunciano l’avvento di uno dei dolori più devastanti che si possano provare, il sigillo mortale che il tempo cinico appone ad una storia che era nata per non finire mai. Così come per i figli, le madri non dovrebbero morire mai.

Un tema così topico e sfaccettato non poteva non appoggiarsi all’evocavità potente di simboli, di metafore e immagini, in primis del mare quale correlato di utero immenso, di luogo amniotico e culla della creazione, di brodo primordiale da cui, dice la scienza, scaturirà il bios, la genesi del genere umano, perché se da un punto di vista creazionista è Dio il padre e la madre dell’uomo, è sicuramente la madre-mare la progenitrice dell’umanità tutta dal momento che, sia maschi che femmine, siamo tutti figli di donna. Una donna-mare, una donna-conchiglia, una donna-cavità di roccia che tesse le reti del futuro e dei destini a venire. Ma se è l’acqua uno dei quattro elementi della cosmogonia empedoclea e occidentale, principio primordiale di vita, non può sfuggire all’occhio l’evidenza fotografica di un altro principio antropogenetico strutturale, essenza e supporto  fondante di ogni esistenza corporea, vale a dire il sangue. Da pagina 63 a pagina 73 l’elemento ematico è il tratto cromatico dominante delle fotografie, la prova urlante di quel dolore decretato teologicamente (Genesi, “…con dolore partorirai figli.”) e di  un versamento liquido che sincronicamente significa perdita (emorragia) e acquisto (figli); di linfa-sangue è intrisa la veste linda della partoriente e rossa è la poltrona-alcova e luogo del miracolo della creazione. Ma è proprio in un tale contesto scenografico che emerge, una perplessità, un dubbio: qui si racconta un parto – come sembrerebbe suggerire il pesce deposto sul grembo della donna seduta e che ricorre in tanta iconografia cristiana (il pesce-Gesù) – o invece, in termini più inquietanti e drammatici, si testimonia l’esito tragico di una gestazione che si conclude con un aborto? E in questo secondo caso, cosa potrebbe significare fuor di metafora? Forse il rischio della maternità crudelmente frustrata o, ancora peggio dal punto di vista della continuazione della specie homo, il rifiuto di un ruolo procreativo non più possibile e in ogni caso una protesta antropologica, filosofica, culturale, cosmica? In fondo, alla luce della subordinazione storica del femminile al maschile, alla constatazione tragica, di una cronaca femminicida quasi quotidiana, all’orrore di un sistema globale grondante di ingiustizia e violenza, ai gemiti di un pianeta in agonia determinata da una distruttività famelica e ottusa, alla condizione dell’insuperabilità della condanna di nascere umani e mortali, chi se la sentirebbe di scagliare la prima pietra? Come non sentire un moto spontaneo di consenso? Ma direi di fermarci al primo termine del titolo del libro, “Maternità”, e affidiamoci alla convinzione che ogni grido di madre è un grido d’amore. Sempre. E comunque.

FRANCESCO PALMIERI

 

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Angelo Maria Ripellino – La buffoneria del dolore

16 mercoledì Set 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Angelo Maria Ripellino, Anna Maria Bonfiglio

Darling, lo so, il mio continuo lamento ti attedia,

questa eterna altalena tra ebbrezza e malore.

Il mio rammarico è forse volontà di commedia.

Grande è la buffoneria del dolore.

 

Angelo Maria Ripellino nasce a Palermo il 4 dicembre del 1923, da Carmelo, insegnante di Lettere, poeta e scrittore di drammi teatrali, e Vincenza Maria Trizzino, titolare di una farmacia. Ha appena sette anni quando la famiglia si trasferisce a Mazara del Vallo, dove il padre ha ottenuto un incarico presso il locale Liceo Parificato e dove Angelo frequenta le scuole fino al completamento delle classi ginnasiali. Nel 1937 a Carmelo viene assegnata una cattedra al liceo “Giulio Cesare” di Roma e la famiglia si sposta nella Capitale, che diverrà la città di adozione del poeta, quella dove continuerà gli studi e inizierà, ancora studente, la sua attività letteraria scrivendo per alcuni giornali e pubblicando poesie, racconti, recensioni e brevi saggi. Iscritto alla Facoltà di Lettere, sceglie di interessarsi dell’universo letterario slavo e diventa allievo di Ettore Lo Gatto, uno dei primi studiosi di letteratura russa in Italia. Ancora giovanissimo, viene aggredito da una infezione tubercolare che, sebbene curata con applicazioni di pneumotorace, in seguito lo costringerà a sottoporsi ad una pneumectomia. Continuerà tuttavia la sua attività letteraria e intensificherà il suo impegno per gli studi di slavistica soggiornando a Praga dove incontrerà Ela Hlochová che diverrà sua moglie e sua collaboratrice e gli darà due figli, Milena e Alessandro.

Dal 1948 al 1952 Ripellino insegna all’Università di Bologna Filologia slava e Lingua ceca; con l’incarico di Lingua e Letteratura russa al Magistero di Roma ritorna nella sua “città” dove inizia un felice percorso come traduttore di alcuni poeti russi, lavorando al contempo alla Storia della poesia ceca contemporanea. Pariteticamente si dedica al teatro e alle arti cosiddette “minori”: critica cinematografica, teatro delle marionette, musica, trasmissioni radiofoniche.  Il suo percorso erratico fra le varie tipologie di studi e di scritture ne fa trasparire il proposito di inseguire una sorta di sincretismo fra tutte le espressioni artistico-letterarie. Continua a scrivere poesia e nel 1960 pubblica la sua prima raccolta, Se non ora quando, ma, seppure accolti dalle migliori riviste letterarie, i suoi versi restano indietro rispetto a quella che si va configurando come figura di slavista, etichetta che prevarrà sempre sulla sua qualità di artista delle lettere. “Slavista! Mi gridano donne con  frappe sul capo./ (…) Slavista! Mi beffano da un carro funebre/ (…) Chiedo perdono. E’ deciso. La prossima volta/ farò un altro mestiere”, scrive nella poesia n.2 di Notizie dal diluvio.

Nel 1964 Ripellino viene aggredito da una recrudescenza tubercolare e ricoverato nel sanatorio di Dobříš, vicino Praga, sotto le cure del primario Petr Ostrý che lo recupera alla vita. Da questa esperienza nasce la raccolta di poesie La fortezza d’Alvernia, poematico diario della vita che fugge, declinato attraverso rimandi letterari e figurativi della sua multiculturalità, che egli definisce “teatro d’ombre” e “cartolina illustrata della speranza”. La silloge, proposta a Einaudi per la pubblicazione, viene rifiutata, presumibilmente per lo scarso interesse suscitato in Italo Calvino che definirà Ripellino “un poeta fuori del tempo” e “un futurista in ritardo”, e, dopo ulteriori rifiuti da parte di altri editori, sarà pubblicata da Rizzoli nel 1967.

 (…)  Sebbene io sia imbrattato delle fuliggini della Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di calderai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie radici. Penso talvolta che questo sradicamento sia la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico. Torno giù a precipizio sovente dal continente all’isola amara, irrorata di luci di agrumi, ai giorni lontani in cui sereno viaggiavo con una modesta famiglia nel caldo di una casetta domenicale, come nel ventre di un ciprino carpio. Poi si versò una giara di olio in soffitta. L’olio colava per gli scalini. Ebbero inizio le sciagure. Il letto si coprì di infausti cappelli. Ancor oggi essi ingombrano la mia poesia. Dell’infanzia insulare mi porto dietro un fagotto di emblemi: il ricordo di dolci comprati alla ruota del monastero, le stanze mortuarie con le salmodianti comari in nero, i presepi con arance e lumie, il basso continuo della tristezza, che pende dai nostri occhi come le cispe di un tracoma e una certa pagliacceria fanfarona.” Così il poeta Angelo Maria Ripellino, “imbrattato” di cultura mitteleuropea, rivendica la sua ascendenza isolana, in uno scritto ad apertura della pubblicazione di Sinfonietta. “Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto e i congegni, le «meraviglie» del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga.(…).

Nel 1969 Ripellino pubblica, questa volta sì con Einaudi, la raccolta di poesie Notizie dal diluvio, costituita da settantasette poesie divise in due parti, da lui stesso definita “diario di un anno calamitoso”, riferendosi sia alla sua salute che va sempre peggiorando che alla tragica conclusione di quel movimento politico e sociale che fu la Primavera di Praga e che egli aveva seguito come inviato de L’Espresso. Il libro è una specie di “arca” nella quale il poeta raccoglie persone, animali e fatti che hanno costituito il suo mondo per eternizzarli nella sua storia privata restituendoli in metafore, allegorie, analogismi e neologismi, in un rutilante universo semantico di strabiliante ricchezza. Tutta la poesia ripelliniana è un vortice di opulenza lessicale, una partitura di infinite significazioni nella quale vorticano la musica, la pittura e i pittori, il teatro e i teatranti, i mùsici e i pagliacci, gli animali di ogni specie, e i colori di un arcobaleno personale dove primeggia il giallo, il colore del sole.

“Ancora la giovinezza mi chiama, falòtica /come le cicogne dello Zwin./ Ancora mi affligge la sua effigie gotica./Non resisto agli occhi verdi che mi amano,/ io, principe carpatico in rovina”. Sono i versi della terza parte della poesia n.67 della raccolta Sinfonietta, uscita ancora per Einaudi nel 1972. Qui i testi assumono una coloritura plumbea, con chiari riferimenti alla salute che va aggravandosi, e tuttavia ancora accompagnata da metafore di “luce” nell’assunzione di lemmi quali fuoco, candele, angeli; una raccolta definita “ostica” per il lessico e la sintassi, e catalogata come risultato di “un oscuro barocchismo”. E’ quella che più mette l’accento sulla vicenda personale dell’autore, sulla sua consapevolezza di non aspettarsi più niente altro che sofferenza e tuttavia restando “in una grande allegria funebrina”. “Alla tua età si può ricominciare,/ma io, bambina, ormai devo raccogliere/ le somme del passato, ristoppare/ con giorni avventicci il mio destino,/ con spilorcia avarizia fare i conti, / io che giuoco sempre a rimpiattino/ col disfavore di Domineddìo.”  Egli stesso in un’intervista aveva dichiarato: “Gran parte della mia scrittura è diventata il vezzeggiamento di questo eterno malessere.”

Sempre da Einaudi nel 1976 viene pubblicato Lo splendido violino verde, raccolta ripartita in due sezioni: Das letzte Varieté (L’ultimo Varietà), e Don Pasquale (con riferimento all’opera di Donizetti); opera della piena maturità che assomma tutti i temi della poetica ripelliniana  rinominando personaggi, musiche, artisti, ora con vis ironica ora con clownesca malinconia. Pervade tutto il testo un andamento antitetico fra la gioia di vivere e la coscienza del male che lo opprime: “L’eterna altalena tra ebbrezza e malore(…)il miele del male”, dove il male accostato al miele rivela l’aggressione del sopravvenuto diabete, che in seguito lo costringerà all’amputazione delle dita di un piede. Come sempre il campo semantico usato da Ripellino è ad ampio spettro, aggomitola il contingente con la memoria del passato attraverso accostamenti incompatibili, metafore e paronomasie; all’oscuro barocchismo di Sinfonietta fa eco un tono di gioiosità malinconica, come di chi si appresti ad invecchiare per il processo naturale della vita. “Piano piano anche tu ti sfilerai dalla stretta/ cruna della rivolta/ per diventare un vecchietto benpensante che sgretola/ croste di massime ottuse (…) sarai raggricchiato, minuscolo, nano/ nella luce palustre della tua notte che avanza,/ avrai tanto freddo, come Varsavia a novembre.” Nell’acrobatico ordine linguistico di Ripellino vive tutta una folla di soggetti e contenuti che riemergono nuovi, liberati dalla cenere del vissuto.

Il 21 aprile del 1978 un collasso cardiocircolatorio, causato dall’aggravarsi delle patologie di cui era afflitto, spegne, ad appena cinquantaquattro anni, Angelo Maria Ripellino. La sua raccolta Autunnale barocco esce nel 1977 e vince il Premio Prati; è l’ultima sua presenza nel mondo delle lettere, ma in precedenza aveva pubblicato altri lavori in prosa: nel 1965 Il trucco e l’anima, sui grandi registi del teatro russo, che gli vale il Premio Viareggio; nel 1973 Praga magica, la sua opera più conosciuta; nel 1975 Storie del bosco boemo. Postumo, a cura di Giacinto Spagnoletti, viene stampato Scontraffatte chimere, che raccoglie tutti gli inediti, anche quelli giovanili, del grande poeta siciliano. Sebbene appassionato cultore, traduttore e saggista di opere della letteratura russa e boema, Angelo Maria Ripellino si ritenne sempre primariamente poeta e lo amareggiò che, nella società letteraria del tempo,  non venisse messo mai al primo posto questo suo ruolo. Solo all’inizio di questo nuovo secolo alcuni giovani studiosi hanno intrapreso un percorso di recupero e di studio dell’opera poetica ripelliniana e curato nuove edizioni delle sue raccolte edite e delle sue poesie inedite.

Anna Maria Bonfiglio

 

Poesie

 

Verrai ogni tanto a visitarmi sottoterra
come una bionda Persefone
in mezzo alle larve baritonali.
Ricordi: già ne parlammo a Wiesbaden.
mi promettesti che quando prenderò alloggio dall’orco
di tanto in tanto verrai
per un breve soggiorno
a consolare la mia malinconia,
il mio desiderio della terra,
a narrarmi degli amici.
E non importa se figli
ti prenderanno per matta, pensando
che ciò che è morto va dimenticato
e che è assurdo questo lugubre turismo.

* * *

Non si accorgeranno nemmeno
di quello che hai scritto.
Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi.
Resterai sguattero, guitto
in questa fiera di gattigrù delle lettere:
Sei un viluppo di piume, una balla di fieno,
carica di gorgheggianti uccellini.
Ma per chi cantano? Chi mai li ascolta?
Merda. Sarebbe meglio scrivere
novelle per pennivendoli, romanzi zuccherini,
storielle piovose, canzoni da balera.
Ma è tardi ormai. Scriverai ancora versi,
questa feccia di vino che nessuno vuole bere.

 

* * *

Tu pensi che, quando cresce il tuo male,

si spengano i fuochi, le barche non prendano il mare,

si proibisca ai cani di latrare,

i figli si incantino come sculture di sale.

 

Oh no, lascia perdere. Osserva

la ghiandaia azzurra che ruba

il suo ultimo cucchiaino d’argento.

Ferma lo sguardo sgomento

Sull’estranea bellezza di questa caraffa in cui luccica

tutto il ghiaccio del mondo.

 

 

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Italo Calvino: Un intellettuale “neoilluminista” tra i libri del mondo di Maria Allo

26 domenica Lug 2020

Posted by maria allo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Italo Calvino, Maria Allo

Arduo risulta definire uno scrittore anomalo e proteiforme come Calvino, sempre attento a tutte le idee, i dibattiti, le lotte del nostro tempo, avido di nuove sperimentazioni. Neoilluminista, diffida dei miti novecenteschi, (irrazionalismo, anticonformismo, avanguardismo), concludendo a un suo antimodernismo, sempre geloso di una propria irriducibile identità e diversità, che ne fa forse, come sostiene Berardinelli, precursore del Postmoderno.

“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento”

Del lungo lavoro di Italo Calvino alla Einaudi sono testimonianza interessante le lettere inviate a critici e scrittori, raccolte postume ne I libri degli altri (1991). “Quando mi trovo in un ambiente in cui posso illudermi d’essere invisibile, io mi trovo molto bene”. Una volta gli scrittori veramente popolari nessuno sapeva chi erano, di persona, erano solo un nome sulla copertina, e questo dava loro un fascino straordinario. “Io credo che la condizione ideale dello scrittore sia vicina all’anonimato; è allora che la massima autorità dello scrittore si sviluppa, quando lo scrittore non ha un volto, una presenza, ma il mondo che egli rappresenta, occupa tutto il quadro. Come Shakespeare”. Leggere i suoi libri è come seguire le tracce di qualcuno che cerca di capire il mondo senza mai essere soddisfatto delle risposte che trova e continua instancabilmente ad allargare il proprio orizzonte di osservazione.

“… questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere”.

In “Il visconte dimezzato – Cap. VII -”, di Italo Calvino

Il visconte dimezzato esce nel 1952 nella collana di narrativa “I gettoni”, che Vittorini dirige per l’Einaudi di Torino e il romanzo, anche per la consacrazione ufficiale del critico Emilio Cecchi, incontra un notevole successo. Il romanzo ha inaugurato un modo fiabesco e simbolico di rappresentare la realtà, molto lontano dal modello ufficiale del realismo e rientrerà insieme al Barone Rampante e al Cavaliere inesistente in una trilogia intitolata i nostri antenati. Il libro è accompagnato da una postfazione che illustra il senso e l’importanza che questi tre testi rivestono nel cammino creativo dell’autore. Caduti gli ideali della Resistenza, ormai venuta meno la spinta morale del primo dopoguerra, lo scrittore si trova a fronteggiare una realtà nuova, il più delle volte difficile e ostile: nuovi rapporti tra le classi sociali, nuove prospettive aperte dallo sviluppo urbano e industriale, che il canone neorealista si dimostra inadeguato a rappresentare. Al grigiore fiacco e placidamente rassegnato di questa nuova realtà, Calvino decide di opporre il vigore immaginifico di storie fantastiche, che però non rappresentano una fuga, ma una chiave di lettura del mondo, un metodo per aderire obliquamente alla storia, salvandone quel tanto di vitalità, purezza e idealismo che ancora è rimasto. L’intento di Calvino è dunque quello di allontanarsi dalla realtà per distinguerne meglio le linee essenziali, la direzione profonda. Il genere fiabesco è utilizzato dallo scrittore in chiave etica, poiché il suo fine, pur con la leggerezza di un racconto inventato, è scoprire e proporre nuovi modi di partecipazione al processo storico in atto. I protagonisti dei romanzi sono nostri antenati perché nella commistione tra storia e fantasia, essi hanno a che fare col nostro presente: le loro avventure mostrano allegoricamente la complessità del rapporto tra realtà e ragione, tra i numerosi aspetti del reale e il tentativo della ragione di afferrarli. In loro possiamo riconoscere la stessa ricerca assillante, le stesse domande, gli stessi dubbi che abitano la vita dell’uomo moderno; le loro storie, inverosimili ma così piene di verità, formano come dice Calvino, “un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso”.

Il visconte dimezzato allude a un’allegoria della scissione umana e alla lacerazione dell’uomo moderno,” dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso” secondo le parole di Calvino stesso e alla sua difficile ricerca di un’identità e di una “nuova completezza”. Racconta di Medardo di Terralba che, durante un combattimento, (siamo nel Seicento in una guerra tra russi e turchi) viene diviso da un colpo di cannone in due metà autonome una onesta e virtuosa (il Buono), l’altra assolutamente malvagia (il Gramo) e solo grazie a un’operazione miracolosa riuscirà a ricostituire quell’unità indissolubile di bene e male in cui consiste l’equilibrio dell’uomo.  Il Visconte dimezzato si riallaccia al topos letterario del doppio: dallo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert (1886) Louis Stevenson, al ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde, al Fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello. Tra le varie fonti di ispirazione per questo racconto c’è anche con ogni probabilità il decimo capitolo del capolavoro di Miguel Cervantes (1547-1616), in cui il protagonista illustra al suo fedele scudiero Sancho Panza le proprietà miracolose di un medicamento che intende preparare: “Che ampolla e che balsamo è questo? disse Sancio Pancia. — È un balsamo, replicò don Chisciotte, la cui ricetta ho a memoria; ed è tale che l’uomo non deve più temere che alcuna ferita lo conduce a morire, per grande che sia; perciò quando io n’abbia, e te lo dia, se tu mi vedessi in qualche battagliata tagliato a mezzo, come suole spesso avvenire, altro non hai da fare che prendere quella parte del corpo che fosse caduta per terra, e con molta diligenza, prima che il sangue si rapprenda, congiungerla all’altra rimasta sopra la sella; avvertendo però di commetterle ugualmente e al loro giusto punto: ciò fatto mi vedrai rimesso perfettamente in salute.”

Cifra peculiare di Calvino nel corso di tutta l’opera (se si eccettua l’ultimissima produzione e Palomar in particolare) è l’umorismo. Il ricorso a questo registro del pensiero e del linguaggio è naturale per lo scrittore, se è vero che, come sosteneva Pirandello, per umorismo s’intende il “sentimento del contrario”, ovvero l’immedesimazione amara e divertita nell’assurdo di una situazione o di un carattere. Questo assurdo che, istintivamente, provoca il riso, ma poi riflettendoci rivela il suo lato malinconico, nasce dalla scomposizione del reale, ovvero dall’accentuazione deformata del dettaglio. Per la sua natura strutturalistico-semiotica, l’opera di Calvino tende a fare proprio questo: scomporre il reale e ricomporlo secondo un gioco combinatorio che finisce per essere, inevitabilmente, umoristico. Lo stile e il tono de I nostri antenati si ispirano al modello del conte philosophique settecentesco del prediletto Voltaire e rivisita la tradizione epico-cavalleresca (sulle orme dell’amato Ariosto) per costruire una limpida, affascinante vicenda di avventure e di peripezie, una brillante fiaba in sé avvincente, compiuta e di grande forza comica dove alla narrazione piacevolmente avvincente e spesso ironica, si accompagna un evidente intento morale. In particolare, affiorano problematici temi attuali della parzialità e dell’ambiguità di ogni scelta e delle antitesi di bene e di male, reale e ideale, resi incandescenti dai contrasti tra Est e Ovest nel clima di guerra fredda. Se nella convivenza di modelli, di moventi e di intuizioni molteplici è la singolarità dello scrittore, nella consapevolezza critica della “sospensione di senso” sempre proiettata in avanti sta l’attualità fecondissima della sua ricerca.

 “Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra”: così Calvino scriveva nel 1964 a una studiosa che gli chiedeva informazioni sulla sua vita. Perciò i documenti più adatti a far luce sui tratti fondamentali della sua personalità sono le prese di posizione sul significato della letteratura e sul mestiere dello scrittore. Un po’ come uno dei tanti personaggi dei suoi racconti, Calvino presenta una fisionomia complessa, sospesa tra passato e futuro, talvolta indecifrabile, tuttavia profondamente affascinante perché imprevedibile e mutevole. Cittadino del mondo da Cuba a Sanremo, da Torino a Roma, da New York a Parigi, interessato a campi del sapere non proprio precipui della letteratura, almeno nella recente tradizione italiana, Calvino può essere definito un intellettuale neoilluminista, almeno per il gusto allo studio dei fenomeni della natura, in questo in sintonia con la personale tradizione scientifica della famiglia e per la sua prosa pulita e secca senza ripiegamenti introspettivi, per la precisione razionale del suo raccontare, anche quando il riferimento è il mondo della fantasia, campo indagato con felice assiduità perché unisce la  leggerezza a un impegno etico mai esibito, se non nella scelta delle parole, delle frasi. A ciò si aggiungano le riflessioni semiologiche sul fare letteratura, stimolate dalle frequentazioni parigine di studiosi e scrittori come Barthes e Queneau. Quando negli anni Settanta comincia a svilupparsi un”esasperato narcisismo” (Ferroni) tra gli intellettuali, Calvino fa valere la sua naturale riservatezza, sia nella vita privata sia nelle opzioni culturali. Noi abbiamo soprattutto amato il Calvino del libero narrare e inventare: ma sappiamo che non può esistere senza l’altro che trasforma la fantasia in curiosità e veste questa di panni intellettuali. Questo connubio costituisce il punto più alto e letterariamente più ambito della sua creazione, la cui tersa e misurata bellezza, sia nel raccontare che nell’indagare, non teme confronti. Come Palomar, ultima opera di Calvino (1983), è lo scrittore che, provate tutte le esperienze di scrittura, tutti i linguaggi possibili, deve tendere l’orecchio“ là dove le parole tacciono”; ma è anche l’uomo moderno che conosce tutti i meccanismi di rapporto con l’universo, e che, siccome “l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi “, egli deve cercare continuamente una strada, trovare una via per essere in pace con se stesso.

Maria Allo

Note

Italo Calvino, Il visconte dimezzato, Cap. VII, pag. 128 Mondadori

Italo Calvino, Palomar: “L’universo come specchio” Einaudi

  1. Ferroni, Italo Calvino, in Storia della letteratura italiana, vol. IV (Il Novecento),

Einaudi, Torino 1991.

La ricerca letteraria-Il tempo storico e le forme, Novecento 5, a cura di Parenti, Vegezzi e Viola

Romanzi e racconti di Italo Calvino nei Meridiani, pagg. 7 – 29, Mondadori, Milano 1991,

a cura di C. Milanini

Monografia

  1. Bonura, “Invito alla lettura di Italo Calvino”, Mursia, Milano 1972 (nuova edizione aggiornata, ivi 1985).

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“Lì un tempo fioriva il mio cuore” di Filippo D’Eliso, RPlibri. Nota di lettura di Marisa Papa Ruggiero

13 lunedì Lug 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Filippo D'Eliso, Marisa Papa Ruggiero

 

Far parlare l’essere con le parole della poesia

Artista dei suoni, Filippo D’Eliso ci offre, in questi giorni, una sinfonia poetica di cristallina purezza: “La vita fu / per un solo attimo / ciò che mai più sarebbe stata”; e ancora: “Qualcosa però si nasconde / nel sole. Presto sarà sera / e qualcuno andrà via”…

Quando apri un libro di poesia e il libro è: Lì un tempo fioriva il mio cuore del citato autore e t’imbatti in un verso  dove il pensiero taglia/ come ghiaccio secco, e percepisci  il senso di caduta a picco sul mistero della indecifrabilità del male, sai anche che quel libro, come ogni libro di versi contiene molte più cose di quante ne vedremmo noi che leggiamo. Un libro di poesia contiene, come si sa, una sua intrinseca compiutezza, è necessità fondante, autonoma, tanto che tentare di aggiungere, dall’esterno, parole di riflessione critica  a un libro di poesie, sarebbe da ritenere, a rigore, superfluo. Se poi l’autore, come s’è detto, è un musicista, la cui spinta creativa è una costante che risuona in consonanza con le forze vitali dell’universo, possiamo facilmente configurarci dove nasce quella necessità di affidarsi alla parola poetica come a un controcanto naturale che aspira a porsi in intima fusione con la sua grazia immaginosa e sorgiva.

E allora, sulla scia di questo controcanto che l’autore ha diffuso così intensamente intorno a noi per invitarci a un colloquio, a un incontro, non posso non sentirmi sollecitata a mia volta a prenderne parte con qualche breve, modesta riflessione. Dico subito che qui, davanti ai miei occhi,  gli elementi primari di musica e poesia appaiono come trasfigurazioni speculari che trovano slancio espansivo grazie alla autenticità della parola e, in virtù della stessa, tendono a saldarsi, a sovrapporsi.

Lo snodo tematico fondamentale è rappresentato dal rapporto magnetico tra le due curve asintotiche che ne disegna i contorni di spiritualità e materia: il rapporto, in definitiva di suono e senso. E possiamo anche spiegarci l’appartenenza ad una scelta linguistica ben radicata nel pentagramma tradizionale di matrice novecentesca, tuttavia molto al di là di una scontata  aderenza meramente lirica. Una poesia fatta, piuttosto, di interiorizzazioni, di forti tensioni morali, a tratti meditativa, a tratti evocativa, che trae rifugio e alimento direttamente in quelle forze interiori che compongono il nostro intenso sentire. Una poesia che accorda densità e leggerezza sui ritmi del respiro. Una modalità che, in un momento come quello attuale così poco favorevole alle interiorizzazioni, potrebbe apparire come una scelta trasgressiva, una provocazione, ma si presenta, invece, nel nostro autore, nella sua intima, genuina coerenza. Non c’è semplificazione, né alcuna concessione all’idilliaco in questi versi, ma una sobrietà d’espressione quasi severa, appena solcata da malinconia. L’io è diffuso ed espansivo, per nulla ripiegato su se stesso, un io interrogante e in ascolto di ciò che è la sostanza etica del mondo. Il sacro, in questi testi, entra per irradiazione, come richiamato, a tratti, sulle corde intense e potenti di una sinfonia tedesca.

Non trova posto alcuna sterile astrazione in questi versi, bensì una salda appartenenza a un sentimento di terrena, consapevole presenza con i suoi attriti, le sue disillusioni e sconfitte,  il suo pathos. Con le sue piccole fiale di saggezza. Più a monte del linguaggio c’è sempre una zona d’ombra che ha sede nella nostra Ferita ancestrale, la prima ad appartenerci, ed è ineludibile. Ecco, in quella fatale, remota consapevolezza ha sede il dramma. E il destino di solitudine esistenziale della creatura umana prende  inizio. É là che la parola attinge e si fa carne, oltre che suono. É per raggiungere questa  dimensione, non statica, ma in perenne vibrazione, che il poeta compie la sua ricerca, con gli strumenti che gli sono propri, con la devozione e l’umiltà che si devono alla poesia.

 

Marisa Papa Ruggiero

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Una brezza mediterranea tra poeti italiani e turchi /A Mediterranean Breeze among Italian and Turkish Poets / Türk ve İtalyan Şairlerin Akdeniz Esintisi

15 lunedì Giu 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, Recensioni

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Il volume, pubblicato nel maggio 2020 dalle Edizioni Il Cuscino di Stelle, è stato curato e tradotto da Claudia Piccinno e da Mesut Şenol e raccoglie testi di autori italiani e turchi: Annamaria Pecoraro, Bruna Cicala, Carmen Moscariello, Claudia Piccinno, Deniz Ayfer Tüzün, Deniz İnan, Dilek İşcen Akişik, Domenico Pisana, Elisabetta Bagli, Emanuele Aloisi, Emel İrtem, Emel Koşar, Enzo Bacca, Ester Cecere, Funda Aytüre, Gianpaolo Mastropasqua, Hilal Karahan, Kalgayhan Dönmez, Mesut Şenol, Nazario Pardini, Nuray Gök Aksamaz, Osman Öztürk, Sabahat Şahin, Valentina Meloni, Michela Zanarella, Volkan Hacioglu.

PREFAZIONE

A Mediterranean Breeze among Italian and Turkish Poets si configura come un’opera complessa e densa di contenuti, che ha visto la collaborazione, la ricerca, la traduzione da parte di più persone di nazionalità diversa, riflesso di una comunità plurima e dialogante. Nonostante sia un’europeista convinta, l’Europa attuale intesa come organismo sovranazionale, negli ultimi tempi, ha dimostrato di essere dominata da meccanismi finanziari e logiche di mercato che poco hanno a che vedere con i valori democratici e comunitari che ispirarono i Padri fondatori. Andrebbero invece valorizzate le legittime differenze e i patrimoni culturali di cui ciascuna nazione è depositaria. Il lavoro dei curatori Mesut Şenol e Claudia Piccinno risale a un progetto di diversi anni fa, quello di realizzare un’antologia trilingue che, attraverso l’inglese, utilizzato come lingua veicolare, sancisse il passaggio di testi poetici dalla lingua italiana alla lingua turca e viceversa, in una reciproca ottica di scambio, incrocio e collaborazione. L’iniziativa editoriale, originale e ambiziosa, è stata accolta dall’Associazione Culturale “Il Cuscino di Stelle” e ha previsto la selezione di tredici poeti e poetesse italiani e altrettanti poeti e poetesse turchi. Ventisei modi di declinare alfabeti, culture, esperienze, modi di intendere la poesia, sensibilità.

Ciascun testo è presentato in lingua originale, seguito dalla traduzione in inglese e infine da quella d’autore in lingua italiana o turca. I testi antologizzati, per un totale di trentasette, sono frutto del genio creativo di autori celebri, universalmente riconosciuti e di altri ugualmente validi che meritano di essere letti e apprezzati.

Le tematiche affrontate nell’antologia sono diverse: vi sono trattati, infatti, grandi temi come il desiderio di pace e di libertà, l’impegno civile, motivi classici come l’amore, le illusioni consolatrici, l’assenza, il ricordo, la nostalgia, il topos dei cicli stagionali, l’immedesimazione con gli elementi della natura in una sorta di nuovo panismo, il recupero di elementi mitologici, per dimostrare che tutti i poeti, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza, condividono archetipi, simbologie, metafore. Come affermava Erich Auerbach nella Philologie der Weltliteratur, a proposito dell’universalità della letteratura “Dobbiamo tornare in circostanze diverse, a ciò che già possedeva la cultura medioevale prima della formazione delle nazioni: al riconoscimento che il pensiero non ha nazionalità.” Va a questo punto ribadita, una volta di più, l’importanza e il rigore delle traduzioni, che non devono annientare le specificità di ciascuna lingua in modo tale da garantire il trasferimento di quello scrigno di segreti linguistici, tesoro di ogni lingua nazionale e fonte di arricchimento reciproco e di curiosità per le differenze. Ne deriva un clima interculturale che abbatte le barriere linguistiche e, aprendo nuovi orizzonti, crea visioni transnazionali, veri e propri ponti tra comunità solidali e dialoganti.

Deborah Mega

PREFACE

A Mediterranean Breeze among Italian and Turkish Poets is the exit of a complex and dense work of content, which has seen the collaboration, the research, and the translation of poets of different nationalities, a reflection of a plural and dialoguing community.
Despite being a convinced Europeanist, current Europe as a supranational body, in recent times, has proven to be dominated by financial and market logic mechanisms that have little to do with the democratic and community values that inspired the Founding
Fathers. Instead, the legitimate differences and cultural heritages of which each nation is the custodian should be valued.
The work of the curators Mesut Şenol and Claudia Piccinno dates back to a project of several years ago, the one of creating a trilingual anthology which, through English, used as a vehicular language, sanctioned the passage of poetic texts from the Italian language into the Turkish language and viceversa, in a mutual perspective of exchange, crossing and collaboration. The original and ambitious editorial initiative was accepted by the “Il Cuscino di Stelle” Cultural Association and involved the selection of thirteen Italian poets and thirteen Turkish poets. Twenty-six ways of alphabets, cultures, experiences, ways of understanding poetry, sensitivity.
Each text is presented in the original language, even though print order is first the Italian language followed by the English translation, and finally in Turkish language. The anthologized texts, for a total of thirty-seven, are the result of the creative genius of famous, universally recognized and other equally valid authors who deserve to be read and appreciated. The themes dealt with in the anthology are different: in fact, major themes such as the desire for peace and freedom, civil commitment, classic reasons including love, consoling illusions, absence, recollection, nostalgia, the topos of the seasonal cycles, the identification with the elements of nature in a sort of new panism, the recovery of mythological elements, seem to demonstrate that all poets, regardless of their nationality, share archetypes, symbols, and metaphors, have many things in common. As Erich Auerbach stated in the Philologie der Weltliteratur, regarding the universality of literature “We must return in different circumstances, to what medieval culture already possessed before the formation of nations: to the recognition that thought has no nationality.”
At this point, once again, the importance and rigor of translations must be reiterated, which must not destroy the specific features of each language in such a way as to guarantee the transfer of that casket of linguistic secrets, treasure of each national language and source of mutual enrichment and curiosity for differences. The result is an intercultural climate that breaks down language barriers and, opening new horizons, creating transnational visions, real bridges between solidarity and dialoguing communities.

Deborah Mega

ÖNSÖZ

Türk ve İtalyan şairlerin arasındaki Bir Akdeniz Esintisi, farklı uluslardan şairlerin işbirliği, araştırması ve çeviri ile oluşan karmaşık ve yoğun bir içerik çalışmasının sonucu, çoğulcu ve diyalog kuran bir topluluğun bir yansımasıdır.
İnanmış bir Avrupacı olmama karşın, uluslarüstü yapısıyla mevut Avrupa son yıllarda, Kurucu Babalara esin olan demokratik ve toplum değerleriyle pek ilgisi olmayan finansal ve piyasa mantığıyla çalışan mekanizmalar tarafından yönlendirildiğini kanıtlamıştır. Bu tablo yerine, her ülkenin koruyucusu olduğu meşru farkların ve kültürel mirasın değerli bulunması gereklidir.
Küratörler Mesut Şenol ve Claudia Piccinno’nun çalışmaları, birkaç yıl öncesine ait bir projeye dayanmaktadır. Bu projede, aracı dil olarak İngilizce kullanılarak üç dilde bir antolojinin, ortak bir değişim perspektifi, geçiş ve işbirliği içinde İtalyancadan Türkçeye, Türkçeden İtalyancaya şiirsel metinleri sunması öngörülmüştür. Bu orijinal ve iddialı editörlük girişimi, “Il Cuscino di Stelle” Kültür Derneği tarafından kabul edilmiş ve on üç İtalyan ve on üç Tük şairin eserlerinin seçiminin yapılması kararlaştırılmıştır. Alfabelerin, kültürlerin, deneyimlerin, şiir anlayışının ve duyarlılığın 26 farklı yöntemi.
Her bir metin kendi orijinal dilinde sunulmuştur. Sıralamada önce İtalyanca, sonra onun İngilizce çevirisi ve sonunda Türkçe yer almıştır. Antolojiye giren toplam otuz yedi şiir, ünlü, yaygın olarak tanınan ve benzer biçimde birer değer olan, okunmayı ve takdir edilmeyi hak eden şairlerin yeteneklerini, yaratıcılıklarını yansıtmaktadır.
Antolojide işlenen konular farklıdır: aslında, barış ve özgürlük arzusu, topluma hizmet ile aşk, yanılsamaların avuntusu, ayrılık, anımsama, nostalji, mevsim dönümleri konuları, yeni bir panizm türündeki unsurlarla özdeşleşme, mitolojik unsurların yeniden ortaya konması gibi klasik temalar, milliyetleri, ortak modelleri, sembolleri ve metaforları ne olursa olsun, ortak birçok yönlerinin olduğunu göstermektedir. Erich Auerbach’ın Philologie der Weltliteratur adlı eserinde belirttiği gibi, edebiyatın evrenselliği konusundaki ifadesinde işaret edildiği üzere, “Ulusların oluşmasından önce ortaçağ kültürünün sahip olduğu şeye – düşüncenin bir milliyetinin olmadığının kabulüne –, farklı koşullarda geri dönmek zorundayız.”
Bu noktada tekrar belirtmek gerekirse, çevirilerin önemini ve titizliğini yeniden belirtilmek zorundayız. Çeviriler her bir dilin kendi özgün özelliklerine zarar vermemek, dilsel incelikleri ve her bir ulusal dilin hazinesini, farklılıklarda karşılıklı zenginleştirme ve merak kaynağı olma özelliklerini diğer dile geçirmeyi başarmak zorundadır. Ortaya çıkan sonuç, dil engellerini yıkan, yeni ufuklar açan, ulusaşırı vizyonların, topluluklar arasındaki dayanışma ve diyalogda yeni köprüler kuran kültürler arası bir iklimin yaratılması olmuştur.

Deborah Mega

I curatori

CLAUDIA PICCINNO

Cattura1

Direttrice per l’Europa del WFP (World Festival Poetry, continental director for Europe) e ambasciatrice in Italia per Ist Sanat Art, opera per promuovere la poesia basata sul rispetto e la valorizzazione delle diversità, che previene ogni tipo di pregiudizio, tra cui quelli di genere.

She is the official WFP (World Festival Poetry, continental director for Europe), Ist Sanat Art ambassador for Istanbul culture in Italy; she works to promote poetry based on respect and appreciation of differences, she fights to prevent any sort of prejudices.

Claudia Piccinno, WFP (World Festival Poetry, continental director for Europe) Avrupa Kıtası Direktörü, Ist-Art İstanbul’un İtalya’daki Kültür Elçisidir.
Saygı ve farklılıklara anlayış gösterilmesi temelinde şiirin desteklenmesi için çalışmakta, cinsiyet önyargılarının önlenmesi için mücadele etmektedir.

 

MESUT ŞENOL

Cattura2

 

Poeta, scrittore, traduttore, editore, giornalista e accademico. Organizzatore di eventi culturali-artistici-letterari, Mesut Şenol ha pubblicato ormai 9 raccolte di poesie ed è membro di alcune organizzazioni internazionali di letteratura e traduzione.
Le sue poesie sono state tradotte in varie lingue, premiate e pubblicate in antologie.

Poet, writer, translator, editor, journalist, and academician. Being an organizer of cultural-artistic-literary events, Mesut Şenol published 9 poetry collections by now, and he is a member of some organizations of international literature and translators. His poems have been translated into various languages, awarded and appeared in anthologies.

Şair, yazar, çevirmen, editör, gazeteci, akademisyen. Kültürsanat-edebiyat etkinlikleri düzenleyicisi. 9 şiir kitabı yayımlanan Mesut Şenol bazı uluslararası edebiyat ve çevirmenler kuruluşlarının üyesi. Şiirleri çeşitli dillere çevrildi, ödüllendirildi ve antolojilerde yayımlandı.

*

Di seguito un testo di una delle autrici dell’antologia con l’augurio che possa presto riprendere a scrivere e a recensire poesia.

BRUNA CICALA

Cattura3

 

     Presagi

Presagio di tempesta

sul lungomare scuro

Nettuno rumoreggia:

credeva di trovare l’infinito

nei giorni avari di Venere e di sale.

S’alza, s’impenna, esplode

cavalca ogni onda su note discordanti,

è folle la sua danza

a inseguir saetta.

L’amore insano brucia,

si perde nei fondali

degli occhi suoi distratti,

rapiti da un baleno

di effimera bellezza.

Omens

Storm omen

on the dark waterfront

Neptune roars:

believed to find infinity

on the stingy days of Venus and salt.

It rises, rears, explodes

rides every wave on discordant notes,

his dance is insane

chasing lightning.

Insane love burns,

it gets lost in the seabed

of his distracted eyes,

kidnapped by a flash

of ephemeral beauty.

İşaretler

Karanlık su kenarında

fırtına işareti

Neptün kükrüyor:

Venüs’ün eli sıkı gününde ve tuzda

sonsuzluğu bulduğuna inandı.

Yükseliyor, şahlanıyor, patlıyor

Akortsuz notalarda her dalgaya biniyor,

dans edişi çılgın

şimşeğin peşinde.

Çılgın aşk yakar,

onun şaşkına dönmüş gözlerindeki

deniz yatağında kaybolur,

çok kısa ömürlü güzelliğin

kısa bir anında kaçırılır.

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Nota critica dedicata a “Tutto è uno” di Sergio Sichenze, Terra d’ulivi Edizioni, 2020

08 lunedì Giu 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Sergio Sichenze, Tutto è uno

 

“Tutto è uno” di Sergio Sichenze, edita per i tipi Terra d’ulivi nel gennaio 2020, nella collana di poesia Quindici per Quindici, comprende una trentina di componimenti puri, essenziali, espressi attraverso scarne ma suggestive parole di intensa efficacia simbolica e allusiva. L’epigrafe iniziale di Rainer Maria Rilke è tratta da Dir zur Feier del 1897: anche in quest’opera, ad una prima lettura, la prospettiva dell’autore sembrerebbe essere introspettiva e soggettiva. Fin dai primi versi la forma espressiva appare condensata ed enigmatica, tanto da far pensare ad una scrittura aforistica e ad uno stile solenne. Le risonanze contenutistiche però hanno senso solo se collocate in un testo continuo, a formare un canto coeso che abbia come oggetto il divenire incessante delle cose. La scrittura si collega a modelli di comunicazione come la sentenza morale, l’oracolo, appare dunque enigmatica, simile e aderente alla forma in cui la natura si manifesta. Occorre infatti riuscire a interpretare e a decrittare le indicazioni di natura forniteci dai sensi per cogliere il principio di armonia che è sottoposto alla trasformazione incessante della realtà fenomenica. I concetti fin qui esposti rimandano alle speculazioni del filosofo Eraclito secondo il quale “tutto scorre” (pànta rhéi). La Natura è allegorizzata, enfatizzata, ricorda la misteriosa foresta di simboli di baudelairiana memoria in cui scompaiono i limiti tra realtà e sogno e la separazione tra esperienza etica ed esperienza estetica o anche lo spazio interno del mondo, il Weltinnenraum di cui parlava Rilke. In Tutto è uno l’osservazione attenta della natura ha attivato un silenzioso percorso di conoscenza della propria realtà interiore, di introspezione che, risuonando dal fondo, si è aperto alla percezione sensoriale di cose, eventi, fenomeni e ramificandosi, è venuto allo scoperto come magma incandescente rivelando tempi e luoghi fortemente evocativi perché colorandosi delle nostre esperienze, acquisiscono senso ed esprimono un significato diverso per ciascuno di noi. Ogni parola, ogni verso conduce al successivo in modo inevitabile e coerente come passi su un sentiero nonostante tutto questo emerga solo dopo una lettura più accurata ed approfondita. La sintassi è semplificata, la punteggiatura ridotta al necessario, l’aggettivazione, frequentemente usata nei titoli (Rosa mistica, Verginale incanto, Incandescente dimora, Giovane folgore, Fortissimo grido, Antica pietra e l’elenco potrebbe continuare), è fluida e suggestiva. Dal punto di vista lessicale ho colto alcune forzature linguistiche dovute ad accostamenti arditi, a neologismi, a frasi nominali, a verbi intransitivi usati transitivamente.

Lo sguardo di Sichenze però si conferma terrestre. Coglie l’universo come un tutto riunificato e ricomposto: chi è in grado di contemplare in questo modo supera la frammentazione della realtà, la interiorizza acquisendo echi e richiami della natura  e si immerge nelle cose terrestri con sentimento panico e con mani plasmatrici, ricche di energia e di calore umano e vitale. In una visione di questo tipo crollano le pareti tra Dentro e Fuori, tra Vita e Morte, tra tempo passato, presente e futuro. Il processo circolare di ritorno alle origini si è compiuto, non a caso l’ultimo testo della raccolta si intitola Origine.  La morte stessa diviene premessa di ogni vita e della metamorfosi del divenire mentre avviene il ricongiungimento al mistero dell’esistenza.

Deborah Mega

*

Rosa mistica

 

Rosa

mistica tra le pieghe

di settembre l’ora

tradisce.

 

Sole

nel viola la notte

inganna: occhi nella bufera

guazzano.

 

Nera

stagione della pupilla

albeggia.

 

Respiro: le tue spalle

copro.

 

La scintilla

del frumento rinuncia

ricaccia.

 

Mare

dai grandi occhi

nella parabola del cielo

sconfina.

 

Ho appreso la riproduzione

dell’inatteso.

 

A Lecce

 

Sonno

ti sopravanza: sulla terra

tra due mari

dormi.

 

Nero fermo

del cielo ricolora. S’inazzurra

il fianco lunare.

 

S’assottiglia

l’aria: giovane

tempo folgora.

 

Tanto

Sfoggio la nostra

accumulata cecità

abbaglia.

 

Il tuo

respiro è un profilo

che ci ricalca.

 

Pensai questo tempo

d’avvenire.

 

Luce di neve

cadde.

 

 

Origine

 

Dio

è dentro l’Uomo

dicevano: vivere

è intimo corpo

che s’offre.

 

Fulmineo

scatto tra due vuoti: dubbio

da sventare.

 

Non dimenticare: il deserto

è ciò che ti farà

bere.

 

Incenso esistenza

cura.

 

Alcuna legge ha luogo in sé.

 

Essere noi, adesso,

è origine.

 

 

Testi tratti da Tutto è uno di Sergio Sichenze, Terra d’ulivi Edizioni, 2020

 

 

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BYE (Chapbook) di Giorgio Brunelli

01 lunedì Giu 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Bye, Giorgio Brunelli

 

Gentile narratario,
questo squarcio di vita reale o immaginaria, vede come primattore l’uomo contemporaneo, cui l´io narrante ne ha amaramente edulcorato le gesta.
Un eroe disilluso, esacerbato dalla consapevolezza filosofica e pragmatica di una sconfitta infinita, di uno scacco esistenziale inevitabile; una riedizione aggiornata del topos letterario e, antropologico, della figura del “vinto”. L´attitudine ad assumere un protocollo narrativo decisamente grottesco, drammatizzando parodicamente gli assunti ripescati dal mondo del “banale”, collude con una provocatoria ricercatezza verbale la quale, coniugata a una tendenza dissacratoria del linguaggio stesso, ne sottolinea l’ontologica inadeguatezza a sostenere fino in fondo la tragedia del vivere.

Giorgio Brunelli

*

 

Francesca, in quell’infuocato occaso di maggio, tornava con un Intercity da un convegno sull´arte a Milano. Terminai di guardare la centocinquantesima puntata di Un posto al sole e mi avviai a recuperarla in stazione con la mia automobile nuova: una Saxo immatricolata sedici anni addietro, acquistata per cento euro e salvata dalle capziose rottamazioni con gli incentivi statali. Per eludere reità cagionate da eventuali ritardi, arrivai in anticipo e ne approfittai per recarmi alla toilette di Trenitalia, ma non disponendo di un soldo per il piattino della migrante alla reception, dovetti trattenere nella vescica il giro di shottini consumati al brunch. Frustrato per l’insoluta minzione, mi affrancai verso l’angolo fissato per l’appuntamento.

Mi venne incontro con una falcata da virago e sensuali fianchi basculanti poggiati su dei cuissardes violacei da troia, martellati e inchiodati da un certo Manolo, un illustre calzolaro spagnolo. Il volto, aniconico dalla stanchezza, le sviliva il perfetto maquillage. La minigonna, disegnata per lei in esclusiva da un amico sartino angloturco, le slanciava ancor più il corpo segaligno e flessuoso da patinata gazzella contemporanea. Stringeva sotto al braccio una cartella minimal in pelle primo fiore e, con atavico appeal, indossava sontuosamente, calato sulla fronte, in ossequio ai diktat modaioli, un Borsalino avorio a larga tesa con vezzosa piuma di pavone, che le dissimulava – eccetto le cascate elicoidali dei tirabaci – la mole ondulata e abbacinante della chioma Terra di Siena.

Mi baciò distrattamente le labbra e interpretai al volo la sinossi di quel bacio; un horror vacui a venire non più rilevante di altri passati. La dottoressa Francesca Cinotti, Frenci per tutti, la conobbi in un falansterio dell´arte di firma archistar, all’inaugurazione della mostra
personale di Manlio Cattani, un mediocre e velleitario performer da lei fortemente sostenuto. Titolata esegeta della critica d´arte, Frenci era precipuamente marcata da una prezzolata congerie d’imprenditoria salottiera e smargiassa, e da galleristi parafiliaci d´ordine sagristico. Era peraltro accerchiata da un´organigramma di platidattili di giunta comunale, da propalatori calunniosi, dagli usuali prezzemolisti della gauche caviar, da artisti di scuderia campioni di dressage, e da una fumisteria di checche orbitanti nei dipartimenti modaioli. Infine, concatenati al filo rosso, vi si appellavano pivotanti art advisor sguinzagliati da lungimiranti istituti di credito, demiurghi tassidermizzati da café chantant con ascot al collo, e cuccioli criptociarlieri di critici d´arte, attitudinalmente inclini all´alpinismo curatoriale. Sostanzialmente, in questa vaudeville “coprosociale”, s´infingeva il meglio del portaborsame antropofagico del settore. Tutti peones di un sistema dell´arte divenuto inverecondo, correamente adunato in un anamorfico habitus di perfidi ciangottii.

L´ipertrofica mostra del pupillo di Frenci, così come in ogni altra sponsorizzata esposizione con menù gratuito alla carta, in realtà fungeva per tutti i presenti – me stesso in primis – da sputtanevole alibi per degustare la raffinata nouvelle cuisine proposta dal fastoso catering nel suo immaginifico buffet. Le ambite vettovaglie venivano ineccepibilmente glorificate su una striscia avorio di fine cotone broccato. Nel parapiglia collettivo, scatenato dalla corsa all´approvvigionamento per le dispense domestiche, oltre all’ordito prezioso della tovaglia, venivano pure sbranate le gambe della chilometrica tavola e i sottopiedi in acciaio temperato. E appunto, in questa schizoide temperie, fra il “c’era questo e c’era quello,” c’era anche lei: la storica dell’arte charmant. Nei sibilanti milieu dei gangli artistici nazionali, era arcinoto il suo scrivere d’arte salacemente percettivo e profondamente colto.
Ella, una bobo (Crasi linguistica di bourgeois-boheme. Giovane e colto professionista, dalla vita sociale brillante caratterizzata da comportamenti anticonformistici) dell’high-class lombarda, si era meritocraticamente guadagnata il girocollo d’alloro al DAMS di Bologna, assieme all’altro in smeraldi di Bulgari, prodigioso cadeau di laurea regalatole dall’ inorgoglito padre.

Dopo quel mattino giocondo, per lei fu un pontificato continuum di tripudi professionali. A unanime parere, era per giunta una donna squisitamente esteta e chic, amante di conversazioni ad alto nitore intellettuale, che sosteneva con tonalità di voce incolori. Poteva risultare oscenamente snob e, pur essendolo profondamente, riusciva a declinare la caterva di critiche al vetriolo adottando una verve lemmatica argutamente eresiarca. Comunque, dopo una bottiglia condivisa di prosecco, un cesto di moine picaresche e un paio di intuizioni azzeccate in merito all’opera del suo delfino ammaestrato, vinsi la sua F nella rubrica del cellulare. Seguì l’omologato corteggiamento a ruota di pavone e, al trigesimo della nostra conoscenza, già appendevo la mia gruccia di vita nel sei ante wengé di Frenci.

Gli esordi del rapporto furono intellettualmente vivaci e compulsivamente scoperecci. Ciò mi faceva evincere che, diversamente dalle mie precedenti rovinose convivenze, Frenci fosse la Musa perfetta, da me sempre agognata. Ella, tuttavia, era opportunamente mia moglie per il “do ut des” con l’establishment curiale col quale era reprensibilmente ammanicata, e mia libera compagna con gli estranei e tutta la sua sfera amicale, mia indefessa delatrice. In sintesi, Francesca Cinotti, detto all’ americana, incarnava il perfetto prototipo della “career woman”. Diversamente da me che, grazie alla Legge 180/78 Basaglia, potei scansare una ciclicitá di TSO manicomiali e che, per un singolare gap metempsicotico, nacqui coevo all´inconsolabile trapasso di Marylin. Ero un misantropo patologico e pennivendolo dopolavorista che gravitava nell´iniquo mondo dell´arte figurativa. In sostanza, all´impianto sociale apparivo come umbratile e schivo, avvolto da un´ostica nube anedonica che non di rado precipitava in stati di cupezza a dirotto. Ero peraltro stremato dall’essere strattonato in stereotipati inviti su répondez s’il vous plaît, frivoli happy hour o altre scoglionanti didascalie assoggettate al territorio speculativo del demanio ricreativo.

La Cinotti era bene informata sul fatto di quanto detestassi e demolissi con ferocia talune nomenclature professionali. Saccenti categorie costituite nelle quali vi individuavo, in un cospicuo numero di funtori ad esse accorpate, indizi di caratteri autoencomiastici altamente glicemici. Un nugolo di urticanti fragilitá ascrivibili al paradigma “primi della classe”, cui questa boriosa selezione di narcisismo overt, ne sventolava surrettiziamente il proprio sfilacciato gonfalone da caserma abbandonata. Forse, l´ostracismo connaturato in questo mio rifiuto oltranzista, si fulcra in un retropensiero afferente al mio frottage di un padre, il quale portava in dote una cifra artistica potente di cui egli con modestia, tendeva ad ascondere per un commovente senso di colpa impietosamente addossatogli dalla sua naturale perizia. Era peraltro pienamente conscio dell´innatismo del suo talento, che tuttavia ne adombrava la contezza, grazie a una forma indulgente di rispetto, di cui inconsciamente se ne avvaleva al fine di preservare la dignità della sua falange amicale artisticamente normodotata.

Pertanto, archiviata questa digressione paterna innervante sottotraccia, non potevo altro che desumere che tutto questo sottobosco “barnumizzato”, era il cachettico architrave che sosteneva l´intero mondo cinottiano; un meltin´ pot di opportunistiche relazioni, congiunte a un dopolavorismo tautologico impastato di cardio-frequenzimetri, assaggi di veganismi e bilance al quarzo alla senna, noto estratto di foglia dal devastante effetto waterrea. Come un logoro refrain, il tempus fugit arrivò a rarefare tutti i nostri ardori e candori. Così, ineluttabilmente puntuali, si presentarono al nostro cospetto i primi scazzi preventivati di norma, causati da una sommatoria di mutuali coazioni a ripetere, ormai largamente divenute intollerabili a entrambi. Una sera, speculare di altre, l’automobile rifiutó l´accensione. Frenci sussultò sul sedile e vomitò un´erotica interiezione che un tempo le avrei persino lambito con infinito amore. Poi, impostando la dizione, sbraitó un estetico “diocane!” maledendo l´infausto giorno in cui iniziò a darmi credito. Con la bizzarra alchimia dell´afflizione, convertì il senso di colpa in furore e, come in un ciak di Romero, scatenò l’amok rimastole imploso da mesi. Insorse strillando, invasata come non mai, che avrei dovuto rottamarlo quel fottuto trabiccolo da scalzacani, e che solo a un interdetto come me avrebbero potuto rifilarlo. Cercai anche sotto il tappetino poggiapiedi dell’utilitaria, dove mai poteva essersi imbucata la stupenda apparizione goduta al trasognante incontro all´orribile vernissage.

Con la mente a zonzo per i cazzi suoi, le braccia poggiate di peso sulle razze del volante crocchiando una caramella Rossana, tacqui, rimesso al suo solipsismo giaculatorio. A fine pistolotto il rottame tornò a rombare. Dopo un’ora di sordidi silenzi, segnalatori acustici di bilanci passivi e nebulosi ricordi, giungemmo a casa oramai arrendevolmente fagocitata da entrambi la riottosa querelle. Frenci si riempì la Vuitton di se e di sé e, scaraventandomi addosso le ultime scorie di contumelie, pigiò lo stop sulla nostra animata storia d’amore, lasciandomi con un ammosciante “Bye”.

Ferito a morte dal congedo tranchant, mi defibrillai l´anima segandomi selvaggiamente, finché l’ansia abbandonica si dissolse assieme al nostro paragrafo di ficcante chimica sentimentale.
Oggettivamente, era solo l´equa ripartizione di erotomachie licenziose, il volano che aveva graziato il nostro antinomico rapporto, tuttavia condotto per forza d´inerzia fino a quel topico addio. Riempii tre scatoloni del Billa con le mie suppellettili, e le lasciai le chiavi di casa sopra la consolle shabby chic. Sotto il vaso inflatable di design contenente le sue risibili petunie in feltro, infilai un’ultima succinta missiva che scrissi a mano sul retro di una bolletta del gas, imitando calligraficamente la font Vivaldi:

Oh mia Frenci, ma quanto che ti ho amato, cazzo!

Chissà, forse doveva andar così…o forse boh.

Beh, allora ciao.

 

 

Bye di Giorgio Brunelli, tratto da Inqlatio, Polluzioni patafisiche e non, di un pollo apolide al palo

 

 

Nato a Verona nel 1962, mi formo in Scultura all´Accademia di Belle Arti nella stessa cittá. Artista situazionista, mi occupo di scultura, digital art e grafica industriale. In merito lo scrivere, la mia penna vola notturna, saldamente sorretta da un´insonne passione antispeculativa. Dal 2012 vivo in Brasile fra macumbe, anaconde e, talora, saltuarie gioie minimali.

 

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Nota di lettura di Anna Maria Bonfiglio su “Nei giorni per versi” di Anna Maria Curci, Ed. ArcipelagoItaca, 2019

20 mercoledì Mag 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Anna Maria Curci

Ci sono libri che leggi per interesse, libri che leggi per piacere, libri che leggi per imparare. Poi ci sono libri che non smetti mai di leggere, libri che ti accompagnano per tutta la vita e che ogni volta che li leggi ti trasmettono qualcosa di nuovo e di diverso. E’ a questa categoria, che per comodità definirei evergreen, che appartiene Nei giorni per versi della poetessa, scrittrice e traduttrice Anna Maria Curci. Ho incontrato la scrittura di Anna Maria leggendo delle pagine di prosa nelle quali, attraverso i colori degli abiti indossati, venivano ricordati figure e fatti della vita dell’autrice e ne sono rimasta affascinata. E’ passato qualche anno ma ricordo ancora l’emozione che quella lettura mi ha trasmesso, rinviandomi ad un tempo che anche io avevo vissuto e ricordandomi nella figura della madre la mia stessa madre. Così ho iniziato a seguirla, ammirando lo stile della sua scrittura, la professionalità nell’espansione del proprio “sapere”, sempre misurata e profonda, e la generosità nella promozione della poesia degli altri. Tutto ciò ha trovato ulteriore compimento nella lettura della sua silloge poetica di cui affettuosamente mi ha fatto prezioso dono.

Nei giorni per versi  mi ha catturato subito ma mi ha anche messo un po’ di soggezione: cosa potevo dire io di una così perfetta operazione di stile, dove significato e significante si intersecavano e la parola poetica, tanto criptica quanto suggestiva, apriva un mondo infinito di interpretazioni? E più leggevo più mi sentivo immersa in un universo di significazioni. La voce poetica di Anna Maria Curci “netta la parola come sfogliando un cespo fino al suo cuore tenero”, scrive nella accurata e illuminante prefazione Patrizia Sardisco, sottolineando proprio la capacità dell’autrice di fulminare con il verso l’attimo cogente che spetta al lettore decodificare. Già il titolo della silloge si pone come primo nucleo generativo di indagine: nei giorni per versi, anaforico e musicale; trascorrere i giorni inseguendo i versi, dedicando tempo ai versi; ma anche nei giorni per-versi, laddove il tempo si manifesta nella sua valenza persecutoria. Le centosettantatré quartine di endecasillabi che compongono la raccolta si snodano senza soluzione di continuità riferendoci un quadro diaristico che fulmina riflessioni, ricordi, squarci di ironia e fustigazioni di costume in un ensamble (e uso questo termine a ragion veduta per l’intrinseco innesto musicale dei versi) di risonanze che coniugano motivi di cronaca quotidiana e colti riferimenti letterari. Il genere letterario che Anna Maria Curci declina in questa raccolta è l’epigramma, canone dominante per l’espressione poetica che traduca in rapida sintesi un’arguta e mordace critica:

 

“Quei rondinotti rannicchiati all’Elba

sono cresciuti, si son fatti corvi.

Non gracchiano, starnazzano eleganti,

librano versi telecomandati”.

 

Metafora del proliferare versificatorio, la quartina ricorda le novecentesche schermaglie di poeti quali, solo per citarne alcuni, Caproni, Montale e Flaiano che se le mandavano a dire tanto in maniera manifesta quanto in metafora. E ancora Curci:

 

“Si affanneranno nuove schiere d’api

a degustare (già mutato il gene)

sputando il seme, trattenendo il vago.

Il festone chiassoso empie le gote.”

 

Garbo ed eleganza accompagnano l’ironia e il rammarico per l’uso-abuso del genere poesia, parola che può ritorcersi contro:

 

“Quando mi troverai già sfilacciata

dalla tua attesa inerte, mio poeta,

bollandoti la fronte penserai

che mai io sono innocua, io parola.”

 

Sferzante monito al doveroso riguardo che  esige l’espressione poetica. Ma l’obiettivo della nostra poetessa zooma anche su altre realtà, indaga la contemporaneità, gli affetti, l’arte, ha sguardi di tenerezza per il passato:

 

“A fine luglio, nei giorni di pioggia,

giocavamo a Monopoli o a Carriere.

Meteo e tempo ci erano propizi.

Mai più sarebbe stato come allora.”

 

Andando avanti nella lettura incontriamo quartine di carattere intimo, la poetessa a confronto con se stessa, un’eva versus eva, donna, figlia, moglie, madre, docente, che si ritrovano infine in un unicum.

“Mi cullo in quello che di me dicevi;

          metà e metà, formica e poi cicala,

          un ibrido che ascolta, stipa e canta.

          Ti cerco nella sera sopraggiunta.”

 

E allora i versi si abbandonano  all’umbratile malinconia, alla tentazione di una resa dei conti, ai fatali distacchi, “oggetti smarriti alla dogana”. La lettura ci aggancia alle pagine e una dopo l’altra non sai più quale quartina scegliere da citare per chiudere questa mia breve nota di lettura:

“Man mano che si accende lume a lume

           Sostiamo nel silenzio che rapprende

           Lo squarcio all’improvviso rivelato.

           Noi che veniamo al mondo lacerando.”

 

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

 

 

 

 

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VITE ORDINARIE di Franca Alaimo (Ladolfi Editore)

22 mercoledì Apr 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Franca Alaimo

Il romanzo di formazione di una donna che voleva spezzare le catene del perbenismo

Questo denso romanzo è la storia di un rapporto di affetto e di complicità fra due donne, due cugine, attorno alle quali s’intrecciano le vite di molti altri personaggi, sia dell’ambito affettivo-familiare sia di carattere occasionale, che hanno in qualche modo contiguità con le protagoniste principali. La narrazione inizia con l’attesa di una fine: Giovanna aspetta una notizia che sa essere funesta e l’attende prendendosi cura delle sue rose e divagando con la mente su alcuni ricordi. Comincia così a delinearsi la natura di questo rapporto parentale, che non si spezzerà mai se non con la perdita fisica di una delle due parti. Giovanna è stata una bambina vivace, intelligente e creativa, dotata di grande volontà e di acuta sensibilità; ha conosciuto molto presto la verità sulla sua condizione di figlia adottiva, ma ha taciuto, macerandosi nel desiderio di conoscere le sue reali origini e manifestando talvolta insofferenza verso i propri genitori adottivi. Ha un rapporto di affettuosa intimità con il padre, non così con Luisa, la madre, con la quale entra ben presto in conflitto. In questo triangolo familiare si configura il legame con la cugina Nina, di alcuni anni maggiore di lei, che con il tempo diverrà di reciproco scambio anche intellettuale. Iniziamo così ad entrare nell’apparato parentale di Giovanna, costituito da nonni, zii, cugini e affini, che cominciamo a conoscere man mano che sfilano davanti al corpo senza vita di Nina, riportando alla memoria di Giovanna tutto il passato. Rivedere la signora Cannella, amica della madre, apre il primo spaccato di ricordi: Giovanna, che è appena una ragazzina, accompagna la madre dall’amica e, non vista, ascolta le loro conversazione; scopre così che la mamma mette in discussione il suo aspetto fisico che ritiene affatto attraente. La giovane entra in conflitto con la madre, il suo carattere si fa indipendente e determinato, ribelle all’educazione repressiva che le si vuole imporre. E’ Nina, la cugina più grande, che la protegge e  le permette di vivere con lei le esperienze di donna adulta. In queste pagine, come in molte altre, l’autrice mostra una notevole vocazione  per la descrizione dei particolari: luoghi, figure fisiche, natura, tutto viene filtrato dal suo occhio attento ai minimi dettagli e questo definisce il codice stilistico del romanzo.

Il libro è suddiviso in venticinque capitoli, ognuno dei quali rilascia una tessera del mosaico che andrà a costituire il percorso di Giovanna dalla fase preadolescenziale alla maturità, e in questo senso uno snodo importante è il capitolo sette che descrive l’incontro della protagonista con la coetanea Costanza. Sono pagine particolarmente intense, che raccontano di un’amicizia vissuta come un’iniziazione in un’atmosfera di rigore mistico. Siamo nella settimana santa e Giovanna si trova con i genitori ad assistere alla processione del Venerdì Santo dai balconi della casa di Costanza. Chi ha avuto modo di conoscere e seguire almeno una volta questa pratica religiosa ritroverà in queste pagine la stessa emozione e la stessa contrizione che essa induce nell’anima di chi la segue. L’autrice ne fa una descrizione così dettagliata e partecipata, così figurativamente esatta da far sentire il lettore emotivamente presente. Tutto è rappresentato in forma minuziosa e realistica: i cestini con i petali di rose, il balcone adornato da una tovaglia di lino ricamata, la processione che esce dalla Cattedrale e sfila per il corso, il Cristo e l’Addolorata. Finita la processione, le due ragazzine si allontanano dai grandi per rifugiarsi nella camera di Costanza e scambiarsi le proprie confidenze. Qui si consuma metaforicamente il passaggio di Giovanna dalla condizione infantile allo stato dell’adolescenza; con l’acquisizione del drammatico segreto che Costanza confida all’amica e con la scoperta dei loro corpi nudi le due giovinette si avviano al loro destino di adulte.

Giovanna e Nina, pur amandosi, si scontrano sulle questioni dei principi morali e religiosi e sulla condotta di vita. La prima avverte fin dall’adolescenza l’esigenza di scavalcare l’educazione piccolo-borghese dell’entourage familiare, di affrancarsi dalla famiglia e di vivere nella libertà l’amore per l’arte; la seconda, pur avvertendo il cambiamento sociale in atto, non possiede l’energia intellettuale della cugina e resta imprigionata nei pregiudizi e nei tabù che le sono stati trasmessi. Il loro rapporto resta comunque integro e insieme attraversano la temperie del ’68, seppure con aperture diverse. Nina rimane permeata dal suo involucro convenzionale, Giovanna, ormai studentessa universitaria, frequenta i colleghi della contestazione e condivide i loro programmi, più per una forma di provocazione verso l’educazione ricevuta che per vero impegno politico. Il romanzo è anche la rappresentazione di una fetta di società piccolo borghese attraverso la cui esistenza è possibile conoscere, e per alcuni lettori ri-conoscere, usi e costumi di un tempo ormai superato ma anche la rete di affetti e di complicità che univa i componenti di una famiglia e i loro piccoli espedienti per la sopravvivenza e per il mantenimento dell’immagine sociale. La struttura formale di Vite ordinarie è organizzata in modo che ogni capitolo risulti una narrazione a se stante che, se estrapolata dal contesto, può essere letta come un racconto concluso. Costanza, La signora Cannella, La storia di Sebastian, Il giorno delle lumache, solo per fare degli esempi, vivono autonomamente pur essendo parte integrante del quadro d’insieme. Franca Alaimo compie con questo romanzo un percorso nel tempo, la sua Giovanna non fa bilanci, non si arroga nessun diritto di giudizio, prende atto del corso che ha avuto la sua esistenza e va avanti consapevole della ricchezza e delle perdite che la vita ha in serbo per ogni creatura e, alla fine, vince la scommessa.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

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Nota critica su “Fiori estinti” di Mattia Tarantino, Terra d’ulivi Edizioni, 2019

30 lunedì Mar 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Fiori estinti, Mattia Tarantino

Fin dalla lettura dei primi versi, incisivi e visionari, ci si rende conto della qualità della scrittura, della veemenza tutta giovanile e della intertestualità delle liriche di Fiori estinti, seconda silloge di Mattia Tarantino per i tipi di Terra d’ulivi edizioni. Già il primo verso di Renè Char, riportato come epigrafe, assimila i fiori alle parole, che sbocciano, fioriscono, sfregiano, si estinguono. Il titolo della raccolta riporta alla mente un’altra celebre opera, Les Fleurs du mal di Baudelaire, anche qui, come in quella, affiora frequentemente un’atmosfera surreale, visionaria e vagamente sinistra.

La critica, a volte in modo frettoloso e banale, non manca di indicare percorsi e riferimenti della formazione: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Thomas citato dallo stesso autore come suo maestro di riferimento. Al di là del rischio, in questo caso calcolato e sapientemente aggirato, di incorrere nell’epigonismo, la visione del mondo appare sofferta e dolorosa, la poesia è per l’autore un modo per cogliere l’essenza profonda delle cose. L’approccio appare quasi mistico con il ricorrente richiamo di termini come terra santa, genesi, croce, benedire, comunione, ostia, vino, salvezza, grazia, stella, epifania, preghiera, cilicio, perfino azzimo, riferito non al pane ma al fiore.

Poesia aulica, ricca di figure criptiche e di commistioni, immaginifica, ai bordi dell’onirismo, poesia caratterizzata da una tecnica compositiva ammirevole per un giovanissimo autore per la fusione di registri, stili, sottocodici diversi. Eppure appare inquieta, insoddisfatta, ossessiva, a tratti dissacrante e irriverente. Ci sono delle parole chiave che ricorrono molto frequentemente nella raccolta, angelo (ricorrente per un’ottantina di volte con il suo plurale), fiore/fiori (67), cielo (58), luce (53), nome (40), lingua (33), verbo (17). C’è anche un altro aspetto da approfondire. Procedendo nella lettura di ogni poesia è come se da ciascuna emergessero in controluce immagini, dipinti antichi e moderni, secondo una vocazione, neanche troppo celata, a concepire pittoricamente la scrittura. Viene spontaneo il confronto con Campana e il suo rapporto con le arti visive, quando annotava nel Taccuinetto faentino  “Ad ogni poesia fare il quadro”. Nella poesia di Tarantino il colore ha valore onirico, emblematico, allusivo, come è possibile notare nei versi “tutta la distanza è capovolta / nell’origine del bianco”, “c’è sempre / una fune fra luce e precipizio”, non v’è trama / che scomponga tutto il bianco della sfera o ancora Venga un volo bianco / in quest’acqua che collassa”, “troppa luce / squarcia il nero e lo redime”, “tacerò per sempre la sillaba / che ci lega al colore e ci strappa / alla terra promessa: qui è altrove”, “Questo verso è patire tutto il cielo, / discordia rosa che fa luce nel mio Sud.” L’aggettivo nerissimo, ad es., di volta in volta, è accostato a talento, oracolo, Cristo, amico, fiocco, astro. Allo stesso modo il silenzio e il suo ascolto iniziatico permette di cogliere e riscoprire religioni dell’antichità, miti pagani, tutto ciò che è sospeso fra il mondo degli uomini e quello soprannaturale, quest’erba ci accoglie, rimette / al silenzio il verbo / obliquo, la traccia / che resiste alla voce.

Fra i temi più ricorrenti occorre ricordare il potere salvifico della parola, “la parola è una percossa / al vento, la parola / ci salva e ci deride, ci trattiene”, “risorga / da Ponente la vocale e sia salvezza”, la sua ricerca fino al parossismo, “Cerco un distico che chiuda / i miei versi o li sbaragli.” Poi il presagio, il viaggio iniziatico e di purificazione, “Sarò il verbo custode / di ogni avvenire, la fiamma / che purifica il fiore /, il dolore “indago la violenza / del verbo, il dolore / delle sillabe compiute.” La figura della madre, non proprio esaltata, ricorre molto frequentemente assumendo connotazioni negative:

“vorrei / morire nel cuore di una madre / orfana, sapere / come ridere dei versi e scompigliarli”, “Ero sbronzo del sangue / di mia madre”, “credevo all’inganno / che ha nome di madre”,” C’è una luce per scavare il grembo / di ogni madre / che divora sangue e ossa del fanciullo: ricorda alla madre / quel canto lontano, perché / il fanciullo è orfanello, e mai / che abbia una voce”. “Ma mia madre è un temporale: lei conosce / il mistero che si scorge / in bocca al cielo, scaraventa / una bufera sulla casa e tutto trema”, “mia madre inghiotte cento fiori, / poi rimette dalle vene”.

Il poeta, nonostante le difficoltà e il desiderio di autodistruzione, “ora inverto questi versi e mi impicco alle vocali”, resta il depositario di verità assolute, un’anima alla Rimbaud, che vorrebbe inebriarsi d’assoluto, è il poète maudit, il veggente custode di arcane verità e, come tale, il solo in grado di rivelare realtà sconosciute. È come se le parole scaturissero dal ritmo incessante della mente, dal suo percorso fatto di lacerazioni, gioie improvvise, cadute rovinose, tentazioni, trasfigurazioni. In definitiva è una poesia criptica, misteriosa, esoterica, divinatoria, nel suo esplorare la natura più antica e pura delle cose.

© Deborah Mega

 

Fiorire 

Dolore di fiorire questo cardo

che collassa nella luce.

 

Nella torre 

Nella torre la lingua mi respinge

al precipizio della sillaba e fa polvere

del nome, sbriciolando

l’inverno che abitò la terra santa.

 

Ora le vie del canto sono aperte:

vengano i fiori e tutte le creature

a sputare sui miei versi; accorrano

alla soglia innominabile che al buio

 

dal buio accede e sta sventrando.

 

La terra del verme

Allora donatemi

il cerchio e la croce. Non temete

questa parola che nasce

in altri mondi, dove nerissimi

gigli affliggono e azzannano.

 

Amate anche il canto

finale del passero; le astuzie

che nutrono i morti. Altrove

è la terra del verme, ma solo

al di qua può regnare col cuore.

 

Prima che carne nient’altro

che carne nutrì il fiore ossuto.

Prima che acqua nient’altro

che acqua devastò la mancanza

di forma: tutta loro è la colpa.

 

Ecco, amate

ostinati la grazia, le impervie

vie della sorte e mai, mai

la sciagura dello stare.

 

Testi di Mattia Tarantino, Fiori estinti, Terra d’ulivi Edizioni, 2019

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Nota critica di Carlo Di Legge su “La venatura della viola” di Rita Pacilio, Ladolfi, 2019

23 lunedì Mar 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Carlo Di Legge, La venatura della viola, Rita Pacilio

Cara Rita, riesco, in questi giorni di calma un po’ irreale, a rileggere il tuo ultimo libro La venatura della viola – Ladolfi, 2019: un bel titolo, tanto per cominciare, inventato nel contesto di quell’infinito immaginario che tutti ci muove, facendo sì che troviamo senso alla vita. Comincio a leggere, e vengo diretto in modo assai favorevole e anche a me congeniale dalla tua Lettera introduttiva. Vi si avverte un tono pacato, rasserenato e rasserenante, che forse non c’era in molti tuoi lavori visti.

Le prime poesie, per la verità, sembrano contraddire ciò che ho appena scritto. E avviene che, nonostante la presenza, sovente, del senso compiuto – ricordo bene la tua scrittura precedente, che certamente corrispondeva a una visione del mondo – , s’incontri il tu : tu, “che mi vuoi archiviare” e lo fai “interrompendo il nostro discorso”, “nella nebbia rancorosa e scura” (p. 10). Non sto a domandarmi il chi; ma subito, a p. 11, prosegui con menzione dell’ “ultimo litigio/uscito dalla bile” e accenni alla “fossa” e “al timore di saperci morti”; eppoi  (per un esempio), “Mani agitate sconvolgono ricordi/il nome; la data di nascita schiamazza/per terra” (p. 14) – efficace, certo – in un mondo in cui “tutte le persone … muoiono senza compassione,/come se il peccato fosse l’amore” (p. 16): allora non resta che “l’alloggio della rassegnazione” ma, a un mondo del genere, scomposto, non certo allegro, non felice, si adegua solo il linguaggio spezzato, lacerato, il mutamento non proprio gradevole al/del soggetto. Messo in dubbio anche il soggetto? Non so. Ma “Il mondo è un corpo devastato” (p. 17) e questo incipit è davvero un simbolo per i tuoi libri, quelli che avevo già letto, e pare che anche la tua poesia non possa risultare diversa, se la visione del mondo sarà questa: così “Qualcuno dice che non puoi farci niente”. Ma qui, proprio qui nel cuore dell’immagine della tua Waste Land, cominci a tener fede alla Lettera introduttiva, perché quel “qualcuno dice …” sottintende anche “ma …”: l’eccezione dell’ottimismo, la presenza di un alcunché di positivo, che arriva, con le linee dell’ “allora coglierò tutte le viole/le terrò insieme …/abbandonata alla saggezza del necessario” (p. 17). Ed è la saggezza che parla, con la viola. Da questo momento, il mondo e il libro, è vero, non sono affatto pacificati – già a fine p. 18 s’affaccia l’assurdo (da sotto terra guardare la luna e fare una piroetta “per vederti sorridere”?); tuttavia, nei momenti che ritieni di sutura, affacci questa immagine gentile, che giova al libro e alle cose, fin dal titolo: l’essenza (di violetta?) nel fazzoletto e di nuovo, con il ricordo della nonna, la narrazione dell’infanzia; certo che anche un’essenza – si direbbe, figura metonimica –  oppure consuetudine per “spirito” – si apparenta strettamente con la trasparenza della venatura e, volendo, di lì alle “albe e l’universo” intero, se in ogni monade si raccoglie il caos ordinato; ed è vero, questa gentile venatura-per-violetta-per-kosmos dice, o è come dicesse, “manca sempre una parola se mi nascondi” (p. 19); violetta è figura associata al perdono e all’ancora una volta (p. 20); le immagini di pacificazione (p. 21) sono collegate, suppongo, a quelle della natura; e così alla natura “del poco” (p. 22) che può essere tutto ciò che serve, alle “venature della viola” (p. 26) che occorrerà ringraziare di tutto ciò che si trova, e d’essersi lasciate trovare; al “vorrei essere un albero” ai piedi del quale “le violette” (p. 28).

Un altro cuore del libro, credo, a p. 23: “Ci si ammala. Per eccesso di fiducia”. Ma poi, meglio, “Ci si ammala per avidità”. Ancora saggezza.

Credo si tratti qui di un libro importante, dove, alla visione-diagnosi del male del mondo e dell’anima, si presenta spessissimo un simbolo d’infanzia, o più simboli della natura ritrovata (ancora bella, nitida, “Ho tre alberi in cima agli occhi” p. 40); uno o più promettenti ritorni.

Ed ecco un incontro in cui diventa estraneo una persona che ben si conosce, e sarà meglio così, forse? O no? (p. 26); ancora i pensieri tristi “Se dovessi scriverti da morta” aggiustarsi come pacate “parole dette/risposte giuste, cortesi” (p. 33):; “viola” sarà ultima parola del libro (p. 44), e, nel silenzio, da cui infine sappiamo “di essere sorretti” (p. 36), campeggia il “batticuore che guarda in alto/guizzo estremo e gentile/senza disperazione”, ancora “Quella venatura della viola/… già compiuta nella sua totalità”. In fondo, nulla. Ma, volendo, si trova che sia tutto.

Grazie per il regalo, hai trovato un bel simbolo grazioso e potente.

Carlo Di Legge

 

***

Vorrei essere un albero

raspato nelle croste dai fulmini

contare le formiche sul ceppo

al vento sbattere la mia testa matta.

Se hai paura non tornare indietro:

vedi la confidenza dell’inverno?

Lungo il tronco si appuntisce il bosco

si piega a terra con le violette in mano.

***

Come noi, i pomeriggi di marzo assottigliano

continuiamo a non saperci dire che ci amiamo.

Nessuno, te compreso, ha visto in controluce

la combinazione per consolare le cellule perse

tra un atto e l’aria blu. Le parole, una dopo l’altra

mentre spaiamo calzini e prudenti teorie.

Se unissimo i punti

troveremmo l’infinito lasciato incompiuto

il bacio a tradurre il reale e l’altra faccia.

***

Qualcosa di troppo accresce

l’orgoglio e la colpa di essere nati qui

in questo garbuglio di allarmi profondi

dove porti in rovina e chiusi come porte

rendono l’acqua inutile e il tramonto povero

se esistesse l’origine di una parola

dovremmo baciare la sabbia e le conchiglie

farlo in segreto, silenziosamente

tracciare una virgola dopo l’apparenza

allargarci sul gambo come fa la viola.

 

Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di saggistica, di letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio. Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra, Quel grido raggrumato, Il suono per obbedienza, Prima di andare, Al polso porto catene, La venatura della viola.

Per la narrativa: Non camminare scalzo, L’amore casomai.

Pubblicazioni di letteratura per l’infanzia: La principessa con i baffi,Cantami una filastrocca, La favola dell’Abete, La vecchina brutta e cattiva.

È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in georgiano, in napoletano.

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Il mito del tango nella poesia di Borges

18 mercoledì Mar 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura

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Anna Maria Bonfiglio, argentina, buenos aires, gaucho, Jorge Luis Borges, tango

Colin Staples 1959 – Argentine Figurative and Portrait painter

 

Nell’universo letterario borghesiano il tango è lo specchio della popolazione argentina, un simbolo che la identifica. “Identità” è infatti la parola chiave nei testi che il poeta argentino compone per il tango. Egli ha vissuto nel periodo in cui la popolazione del suo Paese era costituita da un coacervo di etnie e di culture e dunque alla ricerca di un’unità costituita; il tango, in quanto espressione di una tradizione secolare che univa molti popoli, era il mito che poteva identificarli. Il tango e il sainete, un componimento teatrale di origine spagnola che in un solo atto rappresentava in modo giocoso aspetti e costumi della vita popolare, sono le due voci a cui Borges assegnerà la valenza archetipa degli abitanti di Buenos Aires. La figura dell’eroe che iniziò il mito del tango è secondo Borges il Gaucho. Così egli lo descrive in una sua poesia:

“Figlio di qualche confine della pianura

Aperta, elementare, quasi segreta,

gettava il saldo laccio che trattiene

il saldo toro dalla cervice scura.

Si battè con l’indiano e lo spagnolo,

morì in alterchi di taverna e di gioco;

diede alla patria, che ignorava, la vita,

finché a forza di perdere, perse tutto.

Nomi non restano, ma il nome è rimasto.”

Da questa poesia, di cui ho citato solo l’incipit, comprendiamo che il gaucho era un elemento marginale della società, viveva nelle pampas, era allevatore o mandriano e, avendo combattuto su vari fronti, il coraggio e l’onore erano la sua fede. Gli elementi distintivi del carattere gauchesco che vengono citate nelle poesie del tango sono l’orgoglio dell’uomo che vive libero e fiero in mezzo alla natura e la sua abilità magistrale di maneggiare i coltelli. Il gaucho non riesce a riconoscersi con e nella città che cambia e si industrializza e perciò vive isolato, anche a costo di rimanere emarginato o di essere sfruttato.

La seconda figura-mito di questa tranche di poesie borghesiane è il compadre e più ancora il compadrito. Il compadre, che abita nei sobborghi della capitale, è il capo del quartiere, simbolo di autorità e coraggio, ricco d’orgoglio e pronto alla vendetta,  vive una gerarchia dove lui è il massimo esponente, sotto di lui vi sono i compadritos. Evoluzione del gaucho che va mutando veste per inserirsi nella nuova società urbana, egli è un soggetto ribelle, alla ricerca di libertà e di una terra senza leggi, l’unico valore a cui si attiene è l’amicizia e per essa è disposto a combattere fino ad uccidere o ad essere ucciso. Il compadrito è colui che trasforma in passi di danza il gioco di coltelli di cui è maestro e con cui esprime la propria virilità. L’immagine del coltello assieme al tema della morte si trova in tutte le milonghe scritte da Borges e pubblicate nella raccolta “Poesie per le sei corde”, ciascuna di esse è un documento di fatti di cronaca nera, di eventi storici o di vicende realmente accadute, “Dietro le pareti sospettose il Sud custodisce un pugnale e una chitarra”, scrive nel poemetto Il tango.

Nella poesia “Milonga de dos hermanos” è raccontata la tragica storia dei fratelli Iberra: entrambi maestri nel gioco del duello si sfidano coi coltelli ma uno dei due tradisce l’etica della competizione uccidendo l’altro con la pistola. Metafora delle lotte fratricide iniziate con la vicenda biblica di Caino e Abele, nel testo è sottesa l’accusa di tradimento e di vigliaccheria, perché nel codice morale del barrìo è il coltello l’unica arma prescritta per i duelli. Nella “Milonga di Don Nicanor Parades” viene tracciato il ritratto di un compadrito del rione Palermo, suo feudo, dove egli brilla per il suo aspetto elegante e per l’uso dei modi duri con cui risolve i contrasti, ucciso nell’anno ‘90 dell’Ottocento per mano di un altro capo. Così lo descrive Borges:

“Lisci e duri i capelli

E quell’aspetto da toro;

mantellina sulla spalla

e sfarzoso anello d’oro”.

Tutti i personaggi cantati nelle milonghe di Borges hanno in comune la lotta e la morte, la chitarra e il coltello. I testi sono racconti di storie individuali che si tramandano nel tempo, leggende a cui l’autore assegna un codice epico per caratterizzare la natura dell’uomo argentino. Il teatro in cui prendono vita i fatti narrati sono i luoghi più nascosti di Buenos Aires, l’arrabal, i suburbi, i luoghi della memoria, unici e straordinari, scaturigine dell’opera borghesiana.

Raccontando in poesia i miti e le leggende di una terra il cui popolo si è costituito dall’amalgama di civiltà e culture diverse fra loro, Borges ha creato un epos, una teoria sulla quale appoggiarsi per identificare nell’eroe del tango la figura che porta la matrice genetica degli argentini. Alcuni studiosi negano che Borges abbia creduto veramente a questa idea di identificazione, mentre altre voci sostengono che egli stesso, sentendo dentro di sé la necessità di trovare una radice comune con il suo popolo, si sia autoconvinto che all’origine della nuova popolazione argentina ci fosse questo eroe del tango, ruvido, smargiasso e sentimentale, pronto ad amare e a uccidere ma sempre fedele ai valori dell’onore e della solidarietà. La Buenos Aires dell’arrabal e del quartiere Palermo sarà sempre per lo scrittore il fulcro creatore dei miti leggendari del suo Paese e del suo popolo.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

 

 

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8 MARZO, UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE

08 domenica Mar 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, COSTUME E SOCIETA'

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Anna Maria Bonfiglio

by Elif Sanem Karacoc

by Elif Sanem Karacoc

Succede a volte che seguendo le informazioni diffuse dai mass media, tv, giornali, internet, sentiamo pronunciare una parola tanto ripetutamente che finiamo per assuefarci al suo suono e a svuotarla del suo vero e profondo significato. Diventa improvvisamente un topos, un luogo comune che tutti, per strada, nei salotti, nelle conversazioni fra amici, usiamo senza soffermarci più di tanto sul valore e il peso che può avere. Credo che tutto questo possa essere applicato al termine femminicidio, che sentiamo pronunciare ogniqualvolta accade che venga uccisa una donna per mano dell’uomo che le è affettivamente e sentimentalmente più vicino. Femminicidio è espressione dal significato terribile che definisce l’uccisione di un essere umano in quanto appartenente al genere femminile, quello che la filosofa De Beauvoire, chiamò provocatoriamente Secondo sesso. La donna è l’Altro, afferma nel suo famoso saggio la scrittrice, è quello che l’uomo, nel suo considerarsi Soggetto, colloca nella posizione di Oggetto. Su questa situazione di non riconoscimento si è fondato e si perpetua il concetto di subordinazione del genere femminile. A distanza di tanto tempo la riflessione della filosofa francese rimane attuale ed è ancora legittimo porsi la questione della gerarchia dei sessi e domandarsi se sia finalmente possibile accogliere in maniera definitiva nel contesto intellettuale e sociale l’idea di “genere” inteso come categoria che raggruppa la specie umana. Perché malgrado la conquista sul piano formale e ideologico dell’uguaglianza resta il problema dell’impostazione dei rapporti fra i sessi, problema perpetuato nel corso dei secoli ed ereditato dalla concezione biblica di Eva nata da un osso in soprannumero di Adamo, e cioè di un “essere occasionale”, come lo definisce San Tommaso. Nel n.28 del Bollettino Archivio Pace Diritti Umani del 2004 è riportato testualmente: “Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa violenza su donne significa mettere in luce la dimensione “sessuata” del fenomeno in quanto […] manifestazione di un rapporto tra uomini e donne, storicamente diseguali, che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne”. A questa sorta di “scellerata categoria” vanno ascritti crimini di varie specie: stupri, stalking, percosse, omicidi, vessazioni, abusi sessuali, maltrattamenti fisici e psicologici, prostituzione coatta; e possiamo anche aggiungere escissione ed infibulazione, pratiche ancora in uso in alcune popolazioni. In paesi come India e Cina il femminicidio si è concretizzato addirittura con gli aborti selettivi, impedendo alle donne di partorire figlie femmine. E’ una violenza che intacca i diritti umani, un impressionante segno patologico della civiltà contemporanea che si manifesta tanto nei paesi industrializzati  che nelle zone in via di sviluppo e che investe tutte le classi sociali e culturali e tutti i ceti economici. E nonostante il problema sia stato ed è affrontato attraverso interventi di varia natura, la società e la cultura si trovano ancora davanti ad un lungo cammino i cui esiti sono ancora molto deboli. Tuttavia bisogna perseverare a parlarne e a scriverne, per continuare ad incidere sulla società e sulle istituzioni, perché la violenza maschile sulle donne non è solo una questione privata ma anche sociale e politica, un fenomeno pericoloso in quanto espressione estrema di potere e di prevaricazione. A tutta la società civile è dunque demandato il compito di intervenire per non rischiare di abbassare la soglia di attenzione verso una piaga che sta diventando sempre più virulenta. Nella politica, nell’economia, nella cultura, nella scuola, metta ciascuno anche un piccolo mattoncino perché possa crescere e radicarsi l’idea di un Genere Umano svincolato dalle differenze. Cosa possono fare i poeti, retoricamente definiti esseri avulsi dalla realtà? Siamo consapevoli che un libro di poesia non fermerà  lo scempio che si compie sulle donne, né basteranno gli spettacoli, i documentari, le inchieste. Pure, tutto questo qualcosa fa: aiuta a capire. E capire significa prendere coscienza che quei fatti di cronaca che ci turbano fuggevolmente, fra una notizia e l’altra, sono vicini a noi più di quanto crediamo, significa smuovere le acque ancora stagnanti di una cultura arroccata su concetti resistenti a morire. E significa anche aiutare le donne vittime di violenza a rendersi consapevoli che dall’oscurità del tunnel in cui sono cadute si può fuggire superando la paura e la vergogna, ribellandosi, accusando, denunciando. Noi, donne e uomini, abbiamo il dovere e il diritto di prendere posizione, ciascuno con le proprie competenze. I poeti hanno la parola e di questa si servono per fare sentire la voce del loro dissenso. Ascoltiamoli. L’antologia Cuore di preda,  nata per volontà di Gianmario Lucini, poeta, critico e editore, intellettuale impegnato civilmente a denunciare e combattere l’ingiustizia e il decadimento morale, scomparso purtroppo prematuramente, raccoglie i testi di ottantasei poetesse che declinano il tema del femminicidio e della violenza di genere dando voce al silenzio che accompagna il dolore delle vittime. Scorrendo i testi di questa raccolta percepiamo i nuclei tematici più forti e più pervasivi dell’argomento violenza, legati da un filo rosso che attraversa vicende dolorose e traumatizzanti mutuate da fatti reali di cui quasi giornalmente veniamo a conoscenza. E non è fuori luogo o esagerato parlare al riguardo di una forma di “olocausto”, in ragione del fatto che si tratta di una violenza dettata dalla volontà di esercitare un potere che annulli, cancelli, estingua il genere femminile, non come esistenza fisica, ma come esistenza sociale e psicologica, come volontà di esprimere se stesso, come autoaffermazione di entità non omologabile. Cuore di preda è il genere femminile, ancora raccolto “in un mondo di buio, nucleo di resistenza sacro, eredità lasciata dalla madre”, come lo definisce la poesia di Anna Elisa De Gregorio, una delle poetesse inserite nell’antologia. Perché è già dalle madri che si va configurando l’esistenza delle figlie, madri che subiscono percosse e tacciono per vergogna e dichiarano, per obbligo verso se stesse, di amare ancora il loro uomo anche se confessano, come leggiamo nei versi di Marinella Polidori,  “il dovere coniugale fu la vera sofferenza, accettata con devota ripugnanza”. Di donne destinate a subire parla la poesia di Nunzia Binetti: “Io merce in tuo possesso, io cosa per editto maledetta, finto monile, silenzio indotto, resa, mai altro che utero o marsupio, che zagara sfiorita nel giardino…” E di una detenzione volontaria, determinata dall’impossibilità del corpo a ricercare un senso nuovo dopo il deturpamento, dopo l’oscurità di un abisso di cui ci si sente complici, parla il testo di Maria Teresa Ciammaruconi: L’uomo che ha vessato ha perso vigore, è ormai incapace di prendere e di dare, sarebbe facile fuggire, ma la violenza ha generato assuefazione, la paura ha svilito ogni desiderio di libertà, il danno è irreversibile. La donna confessa: “La tua rinuncia è la mia prigione senza sbarre, violenza non codificata per detenzione a vita. Incapace di cattura il predatore muore e condanna la preda alla solitudine della sicurezza.” E’ proprio dalle madri e dalla famiglia che inizia il percorso verso l’annientamento di sé; con il silenzio, con le giustificazioni, lasciando al più forte il potere di tenere sotto scacco la parte debole del nucleo affettivo si permette che si radicalizzi una condotta immorale e corrotta. “Come un ragno le teneva otto zampe sul suo corpo di bambina (…) Chiuse gli occhi che luce non vedesse la vergogna della tenera carne…” Così scrive Narda Fattori. Della crudeltà esercitata sulle donne bambine nei paesi arabi leggiamo nella poesia di Paola Turroni: “Quasi quindici anni e la stanchezza di essere già stata donna (…) bambina una volta…mia nonna mi ha preso di nascosto…mi portava dall’altra parte del villaggio. Mi ha tagliato con un vetro di bottiglia dice che ora sono aggiustata…” Aggiustata con la violenza per essere consegnata al marito, per diventare “vecchia senza pietà e rabbia, il tempo di fare un bambino se hai spazio per un feto”. “Lo so tu vuoi farmi affondare e temi la mia forza mi spingi giù per la china con i tuoi pregiudizi non ascolti non vedi non sopporti i miei NO”, sono i versi di Anna Zoli che sintetizzano ogni realtà di violenza, la verità ultima della questione: l’affermazione del potere maschile.

Anna Maria Bonfiglio

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