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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Consigli e percorsi di lettura

8 MARZO, UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE

08 domenica Mar 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, COSTUME E SOCIETA'

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Anna Maria Bonfiglio

by Elif Sanem Karacoc

by Elif Sanem Karacoc

Succede a volte che seguendo le informazioni diffuse dai mass media, tv, giornali, internet, sentiamo pronunciare una parola tanto ripetutamente che finiamo per assuefarci al suo suono e a svuotarla del suo vero e profondo significato. Diventa improvvisamente un topos, un luogo comune che tutti, per strada, nei salotti, nelle conversazioni fra amici, usiamo senza soffermarci più di tanto sul valore e il peso che può avere. Credo che tutto questo possa essere applicato al termine femminicidio, che sentiamo pronunciare ogniqualvolta accade che venga uccisa una donna per mano dell’uomo che le è affettivamente e sentimentalmente più vicino. Femminicidio è espressione dal significato terribile che definisce l’uccisione di un essere umano in quanto appartenente al genere femminile, quello che la filosofa De Beauvoire, chiamò provocatoriamente Secondo sesso. La donna è l’Altro, afferma nel suo famoso saggio la scrittrice, è quello che l’uomo, nel suo considerarsi Soggetto, colloca nella posizione di Oggetto. Su questa situazione di non riconoscimento si è fondato e si perpetua il concetto di subordinazione del genere femminile. A distanza di tanto tempo la riflessione della filosofa francese rimane attuale ed è ancora legittimo porsi la questione della gerarchia dei sessi e domandarsi se sia finalmente possibile accogliere in maniera definitiva nel contesto intellettuale e sociale l’idea di “genere” inteso come categoria che raggruppa la specie umana. Perché malgrado la conquista sul piano formale e ideologico dell’uguaglianza resta il problema dell’impostazione dei rapporti fra i sessi, problema perpetuato nel corso dei secoli ed ereditato dalla concezione biblica di Eva nata da un osso in soprannumero di Adamo, e cioè di un “essere occasionale”, come lo definisce San Tommaso. Nel n.28 del Bollettino Archivio Pace Diritti Umani del 2004 è riportato testualmente: “Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa violenza su donne significa mettere in luce la dimensione “sessuata” del fenomeno in quanto […] manifestazione di un rapporto tra uomini e donne, storicamente diseguali, che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne”. A questa sorta di “scellerata categoria” vanno ascritti crimini di varie specie: stupri, stalking, percosse, omicidi, vessazioni, abusi sessuali, maltrattamenti fisici e psicologici, prostituzione coatta; e possiamo anche aggiungere escissione ed infibulazione, pratiche ancora in uso in alcune popolazioni. In paesi come India e Cina il femminicidio si è concretizzato addirittura con gli aborti selettivi, impedendo alle donne di partorire figlie femmine. E’ una violenza che intacca i diritti umani, un impressionante segno patologico della civiltà contemporanea che si manifesta tanto nei paesi industrializzati  che nelle zone in via di sviluppo e che investe tutte le classi sociali e culturali e tutti i ceti economici. E nonostante il problema sia stato ed è affrontato attraverso interventi di varia natura, la società e la cultura si trovano ancora davanti ad un lungo cammino i cui esiti sono ancora molto deboli. Tuttavia bisogna perseverare a parlarne e a scriverne, per continuare ad incidere sulla società e sulle istituzioni, perché la violenza maschile sulle donne non è solo una questione privata ma anche sociale e politica, un fenomeno pericoloso in quanto espressione estrema di potere e di prevaricazione. A tutta la società civile è dunque demandato il compito di intervenire per non rischiare di abbassare la soglia di attenzione verso una piaga che sta diventando sempre più virulenta. Nella politica, nell’economia, nella cultura, nella scuola, metta ciascuno anche un piccolo mattoncino perché possa crescere e radicarsi l’idea di un Genere Umano svincolato dalle differenze. Cosa possono fare i poeti, retoricamente definiti esseri avulsi dalla realtà? Siamo consapevoli che un libro di poesia non fermerà  lo scempio che si compie sulle donne, né basteranno gli spettacoli, i documentari, le inchieste. Pure, tutto questo qualcosa fa: aiuta a capire. E capire significa prendere coscienza che quei fatti di cronaca che ci turbano fuggevolmente, fra una notizia e l’altra, sono vicini a noi più di quanto crediamo, significa smuovere le acque ancora stagnanti di una cultura arroccata su concetti resistenti a morire. E significa anche aiutare le donne vittime di violenza a rendersi consapevoli che dall’oscurità del tunnel in cui sono cadute si può fuggire superando la paura e la vergogna, ribellandosi, accusando, denunciando. Noi, donne e uomini, abbiamo il dovere e il diritto di prendere posizione, ciascuno con le proprie competenze. I poeti hanno la parola e di questa si servono per fare sentire la voce del loro dissenso. Ascoltiamoli. L’antologia Cuore di preda,  nata per volontà di Gianmario Lucini, poeta, critico e editore, intellettuale impegnato civilmente a denunciare e combattere l’ingiustizia e il decadimento morale, scomparso purtroppo prematuramente, raccoglie i testi di ottantasei poetesse che declinano il tema del femminicidio e della violenza di genere dando voce al silenzio che accompagna il dolore delle vittime. Scorrendo i testi di questa raccolta percepiamo i nuclei tematici più forti e più pervasivi dell’argomento violenza, legati da un filo rosso che attraversa vicende dolorose e traumatizzanti mutuate da fatti reali di cui quasi giornalmente veniamo a conoscenza. E non è fuori luogo o esagerato parlare al riguardo di una forma di “olocausto”, in ragione del fatto che si tratta di una violenza dettata dalla volontà di esercitare un potere che annulli, cancelli, estingua il genere femminile, non come esistenza fisica, ma come esistenza sociale e psicologica, come volontà di esprimere se stesso, come autoaffermazione di entità non omologabile. Cuore di preda è il genere femminile, ancora raccolto “in un mondo di buio, nucleo di resistenza sacro, eredità lasciata dalla madre”, come lo definisce la poesia di Anna Elisa De Gregorio, una delle poetesse inserite nell’antologia. Perché è già dalle madri che si va configurando l’esistenza delle figlie, madri che subiscono percosse e tacciono per vergogna e dichiarano, per obbligo verso se stesse, di amare ancora il loro uomo anche se confessano, come leggiamo nei versi di Marinella Polidori,  “il dovere coniugale fu la vera sofferenza, accettata con devota ripugnanza”. Di donne destinate a subire parla la poesia di Nunzia Binetti: “Io merce in tuo possesso, io cosa per editto maledetta, finto monile, silenzio indotto, resa, mai altro che utero o marsupio, che zagara sfiorita nel giardino…” E di una detenzione volontaria, determinata dall’impossibilità del corpo a ricercare un senso nuovo dopo il deturpamento, dopo l’oscurità di un abisso di cui ci si sente complici, parla il testo di Maria Teresa Ciammaruconi: L’uomo che ha vessato ha perso vigore, è ormai incapace di prendere e di dare, sarebbe facile fuggire, ma la violenza ha generato assuefazione, la paura ha svilito ogni desiderio di libertà, il danno è irreversibile. La donna confessa: “La tua rinuncia è la mia prigione senza sbarre, violenza non codificata per detenzione a vita. Incapace di cattura il predatore muore e condanna la preda alla solitudine della sicurezza.” E’ proprio dalle madri e dalla famiglia che inizia il percorso verso l’annientamento di sé; con il silenzio, con le giustificazioni, lasciando al più forte il potere di tenere sotto scacco la parte debole del nucleo affettivo si permette che si radicalizzi una condotta immorale e corrotta. “Come un ragno le teneva otto zampe sul suo corpo di bambina (…) Chiuse gli occhi che luce non vedesse la vergogna della tenera carne…” Così scrive Narda Fattori. Della crudeltà esercitata sulle donne bambine nei paesi arabi leggiamo nella poesia di Paola Turroni: “Quasi quindici anni e la stanchezza di essere già stata donna (…) bambina una volta…mia nonna mi ha preso di nascosto…mi portava dall’altra parte del villaggio. Mi ha tagliato con un vetro di bottiglia dice che ora sono aggiustata…” Aggiustata con la violenza per essere consegnata al marito, per diventare “vecchia senza pietà e rabbia, il tempo di fare un bambino se hai spazio per un feto”. “Lo so tu vuoi farmi affondare e temi la mia forza mi spingi giù per la china con i tuoi pregiudizi non ascolti non vedi non sopporti i miei NO”, sono i versi di Anna Zoli che sintetizzano ogni realtà di violenza, la verità ultima della questione: l’affermazione del potere maschile.

Anna Maria Bonfiglio

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Nota critica di Anna Maria Bonfiglio su “La ragazza che sognava la libertà” di Clelia Lombardo, Gruppo Editoriale Raffaello, 2020

10 lunedì Feb 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Clelia Lombardo

È il pomeriggio del 23 settembre del 1983 quando una giovane donna entra in un negozio di articoli sanitari di Palermo e chiede di fare una telefonata; sta componendo un numero telefonico quando un colpo di pistola la colpisce alle spalle, ferita e trasportata in ospedale muore dopo poche ore. L’assassinio viene rubricato come “omicidio a scopo di rapina”, la vittima viene seppellita nel silenzio e i colpevoli restano impuniti. Venti anni dopo il figlio di Lia Pipitone, questo il nome della giovane, riesce, con l’aiuto di un giornalista, a fare riaprire il caso e a portare alla luce la verità di quel crimine che alla fine risulta essere stato ordinato da una cosca mafiosa di borgata e autorizzato dal padre stesso della vittima.

Clelia Lombardo, scrittrice, docente in un liceo di Palermo e da lungo tempo impegnata socialmente per i diritti delle donne, raccontando la storia di Lia mette un tassello importante nel quadro di quelle operazioni che hanno mirato e mirano a liberare le menti giovani da quei lacci patriarcali e mafioseggianti in cui molte famiglie sono ancora impastoiate. La ragazza che sognava la libertà, recentemente premiato al Festival Itinerante Kaos 2019, risulta essere, oltre che un racconto di grande equilibrio narrativo, un testo che molte scuole dovrebbero adottare per far conoscere agli studenti la persistente realtà di chiusura mentale nei confronti delle giovani donne alle quali ancora non si perdona la libera scelta e l’autodeterminazione. Clelia Lombardo sfiora l’argomento con delicatezza, affidando alla storia di Lia il compito di trasmettere il giusto livello di comportamento per l’acquisizione della propria coscienza. Senza volere impartire “lezioni”, l’autrice conduce i lettori verso la riflessione e le deduzioni producendo un effetto didattico di ritorno.

L’io narrante del libro è Caterina, un’adolescente che vive, come tutti gli adolescenti, la realtà del suo tempo, è intelligente, curiosa di conoscere, ma anche timida, e insicura su quelli che vengono definiti “affari di cuore”. Un giorno ascolta casualmente una trasmissione televisiva in cui si parla dell’uccisione di una donna avvenuta venti anni prima e da quel momento inizia a fare pressione sui genitori per sapere di più su quel fatto di sangue che la inquieta. Si mette in moto, allora, un percorso di narrazione costituito sia dai fatti che dai percorsi fisici dei luoghi in cui essi sono accaduti, in modo da avvicinare la ragazzina alla comprensione di una vicenda orribile senza che ne sia totalmente sconvolta. È il primo atto di un’azione “educativa” svolta da due genitori maturi e consapevoli, disegnati dall’autrice con completezza e competenza psicologica, personaggi esemplari anche nella loro debolezza di ex-giovani a cui è mancata l’azione risolutiva dei problemi sociali e civili del loro tempo. Caterina viene un po’ per volta immessa nella realtà vissuta dai propri genitori, comincia a conoscerne il passato, le lotte e le delusioni, prende visione di una parte di mondo costituita da violenza e sopraffazione, in breve viene catapultata emotivamente “nella storia”. Allo stesso tempo si definisce in lei il rapporto con la sua città, Palermo, territorio problematico, ricco di arte e cultura ma depredato e invischiato in trame di sangue.

Ne La ragazza che sognava la libertà Clelia Lombardo narra in prima persona, una scelta impegnativa che potrebbe portare a focalizzare essenzialmente il punto di vista del narratore ma che l’autrice scansa con scaltrezza affidando alle considerazioni di Caterina l’emergere delle due personalità genitoriali, coprotagonisti del racconto. Una scrittura limpida e diretta, dialoghi essenziali, prosa asciutta, una cifra stilistica che conferisce al personaggio di Caterina autenticità e rigore. Correda il libro un report in cui vengono tracciate le storie di alcune figure siciliane, istituzionali e non, vittime di delitti di mafia, un testo d’informazione che aggiunge valore all’opera.

Anna Maria Bonfiglio

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Nota critica su “Dedica” di Lucia Triolo, Edizioni DrawUp, 2019

16 lunedì Set 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Deborah Mega, Lucia Triolo

In “Dedica”, ultima fatica letteraria di Lucia Triolo, per i tipi Edizioni DrawUp,  opera vincitrice della IV edizione 2018 del Premio letterario Internazionale Città di Latina per la sezione Silloge inedita e finalista nel Concorso letterario  “Città di Conza della Campania”, la scelta del titolo rappresenta di per sé una dichiarazione d’intenti: l’azione del dedicare riflette la destinazione a un fine determinato, il manifestare e offrire, tramite la parola, la propria visione della realtà, contrapposta e differente da quella altrui. In senso figurato “dedica” significa volgere l’animo a qualcuno o qualcosa con intensità. Questo qualcuno è l’altro da sé, che si avverte diverso da noi ma che comunque si rivela necessario per la nostra realizzazione. Cerbino, nella prefazione, giustamente richiama Luhmann e il concetto di comunicazione come base dei sistemi sociali. L’atto comunicativo, finalizzato a fornire un’informazione, è un’azione necessariamente ed intrinsecamente sociale e va interpretato dopo un’adeguata osservazione. Lucia Triolo, da grande osservatrice qual è, percepisce, rileva, ricerca, denuncia una mancanza, un venir meno, proprio e altrui, ci si accosta all’altro quando si scrive Ho prestato al mio corpo / la tua sete e / la tua fame o E non abbiamo mai saputo / di quanti cuori altrui abbiamo bisogno / perché il nostro batta.

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Il logos e la follia in Ostinato – Suite in versi di Cinzia Della Ciana, Edizioni Helicon, 2019

05 giovedì Set 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Cinzia Della Ciana

Ostinato – Suite in versi, Edizioni Helicon, 2019, è la seconda silloge poetica di Cinzia Della Ciana: segue, in un tempo piuttosto breve, la raccolta di esordio Passi sui sassi con la quale la poetessa toscana ha subito dato dimostrazione di chiara disposizione a intessere con la parola della poesia un rapporto sia sonoro sia metaforico, poiché la scelta lessicale densa di sonorità coincide con elementi strutturali, archetipici, mediatori di logos. Ritengo, in relazione alla lettura di Ostinato – libro che presenta complessità concettuale proprio per l’ispirazione e la genesi che intendono correlare, meglio, legare parola e musica come analizza nell’ottima postfazione Franco Di Carlo – necessario prendere in considerazione il termine ‘logos’ nella sua declinazione non solo di sostantivo, ma anche di verbo: in questa accezione ‘leghein’ –  in greco antico significa «conservare, raccogliere, accogliere ciò che viene detto e quindi ascoltare» – ci pone in relazione con tutta la sequenza della silloge pensata come la materializzazione di una suite – composizione musicale già di per sé concepita come espressione architettonica di quadri musicali  – in versi, dimostrando che ciò che urge metacreativamente nella scrittura dell’Autrice non è tanto la liberazione o l’annientamento della damnatio di vissuti feriti o irrisolti, quanto compire, coronare il disegno arduo e in certo modo aristocratico e fiero di un progetto di ricerca poetica e – a ogni modo – rispondente alle istanze del Sé, che mai si esonera dall’essere fautore del sogno e suo puntuale regista.

Nelle intenzioni della poetessa di Ostinato – Suite in versi, che si rivolge alla musica come mediatrice di pensiero e sentimento e alla parola come orchestrazione del segno formale che ha – per costituzione – perso in gran parte l’astrazione della musica e ha assunto l’ambiguità tipica della parola fin dal segno grafico, avviene quanto Martin Heidegger scrive in un passaggio in Saggi e Discorsi: «L’udire autentico appartiene al logos. Perciò questo udire stesso è un leghein. In quanto tale, l’udire autentico dei mortali è in certo senso lo stesso logos» certificando in tal modo l’esistenza di un legame che però, a mio avviso,  presenta un qualche specifico sfolgorìo per poter porre in correlazione l’udire autentico – che non è solo ascrivibile all’udito, ma anche al ‘sentire’ –, poiché ciò che avviene negli strati del pensiero ha rilevanza negli strati della psiche in un sistema di reciprocità, in quella zona dove avviene il processo cognitivo-affettivo.

Che cosa è mai, dunque, lo specifico sfolgorìo che consente il nesso tra poesia e musica? Lo psicanalista di formazione lacaniana Giovanni Sias, in La follia ritrovata, analizzando il rapporto tra musica e poesia individua l’elemento della correlazione nella follia «costitutiva dell’umano, è l’uomo stesso sul piano del suo desiderio, della sua più intima verità. […] La musica è l’emblema della follia. E non solo, o non tanto, perché è stata oggetto di molte composizioni (e anche di molte danze), ma perché è la musica stessa a essere follia nell’uomo. Anzi, è forse il momento più inequivocabile in cui l’uomo la incarna, la porta in scena, la sostiene. […] Ma mentre la poesia, perdendo il senso comune, introduce una pluralità di significati che sconvolge ogni significato determinato a priori aprendo un senso che si fa nel lettore, e a lui solo si dà, nella musica scompare e si rende impossibile ogni significato dato o da darsi, e il suono, il puro suono, scardina ogni possibile senso precostituito o da costituirsi, così che la parola non solo diventa inutile alla comprensione del mondo, ma la rende assolutamente insignificante all’esistenza di un mondo predefinito e del delirio di onnipotenza degli uomini sul mondo stesso».

Cinzia Della Ciana, in Ostinato – Suite in versi compie il grande tentativo di far dialogare la follia del linguaggio della musica «attraverso il quale si esperisce un mondo “puro”, (…) vi fa entrare la verità» con la follia del linguaggio della poesia che, fatto di parole, «non può e non sa esprimere perché falsa (la verità) e la confonde per via della doxa, la rende ordinaria, luogo comune, metro sociale di tutte le cose».

 

Adriana Gloria Marigo

Luino, 29 luglio 2019

 

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Nota critica su “La finestra dei mirtilli” di Fernando Lena e Daìta Martinez

22 lunedì Apr 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Poesie, Recensioni

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Daìta Martinez, Fernando Lena, La finestra dei mirtilli

 

Da una finestra si assorbe sole e aria, si osserva il mondo, il cielo azzurro o plumbeo, l’orizzonte caratterizzato da un paesaggio collinare o portuale. Immagino che questa sia la visuale consueta per i due autori Lena e Martinez, dal loro punto di osservazione. Comiso e Palermo, tratti geografici che, insieme alla sperimentazione espressiva, li accomunano più di quanto faccia la loro scrittura, almeno ad una prima lettura. E da una finestra di mirtilli, punto di osservazione sul mondo, scrivono i due autori.

I testi di Lena e Martinez, contrassegnati solo da un orario, si alternano attraverso la raccolta in modo differente anche dal punto di vista tipografico tanto da richiamare aspetti e contenuti terreni, nel caso di Lena, flussi di coscienza e flashback nel caso di Martinez. Procedendo nella lettura però trapelano flashback anche dai versi di Fernando e attività concrete e quotidiane dai versi di Daìta. Emergono i temi ricorrenti nella poetica dei due autori: la dipendenza, l’irrequietezza, la paura, l’illusione, la mediocrità, l’amore mancato, l’euforia, il viaggio, il dolore, il tempo, la morte, la solitudine nel caso di Lena; la memoria, l’attesa, l’assenza, la nostalgia, la religione, la libertà nel caso di Martinez. Ne viene fuori un’atmosfera realistica descritta nei suoi aspetti più crudi, veri e oggettivi in un caso, nonostante i pensieri, le emozioni e i giudizi siano percepibili, un’atmosfera quasi crepuscolare e malinconica che mira a rappresentare le piccole azioni e cose di ogni giorno, gli affetti, le abitudini e l’intimità di un’esistenza semplice confortata dai valori della tradizione nell’altro. Lena sogna alla finestra pensando ad un arcobaleno in due e a tutti i colori in un sogno solo, Martinez invece il ritorno all’ingenuità dell’infanzia mentre considera con ironia il desiderio di una felicità quieta e modesta.

Martinez utilizza il dialetto come lingua originaria che dà vita ad una poesia immaginifica e allegorica in cui confluiscono profumi, tradizioni, suggestioni tipiche dell’isola. La sperimentazione, che Martinez persegue, la porta a costruire quasi architettonicamente ogni parola, ogni posizione e spaziatura tra le parole in un modo che corrisponde all’afflato della lingua, al suo naturale intercalare. Demolisce la sintassi tradizionale perché i versi sono privi di punteggiatura, tuttavia catturano il lettore per il loro aspetto visivo. Si ricorre spesso al dialogo, con il suo alternarsi di interrogativi e di risposte a volte sussurrate, altre volte pronunciate con decisione e fermezza. Ad entrambi è comune la grande sensibilità, il sentire e vivere la vita con intensità e un senso di accoglienza e appartenenza al proprio mondo.

Anche Lena è poeta dalla grande sensibilità, che avverte di avere soltanto parole nella sua povertà di talento oltre a quello di perdere le coincidenze con la morte, analizza il suo rapporto con il luogo natìo, mitico e allo stesso tempo limitante e lo sublima attraverso il ricordo che conferisce ai pensieri il sapore della testimonianza. Per entrambi, la finestra è angolo di osservazione, che consente un diverso approccio e una differente lettura della realtà dovuti a esperienze di vita completamente differenti. Da quanto detto, “La finestra dei mirtilli” merita di essere letta e approfondita perché rappresenta lo stesso mondo visto da due diverse prospettive, in cui è avvincente perdersi.

© Deborah Mega

*

f:
00.00

Vorrei un giorno
dicevo a quella tossica di Adele
mentre lei mi metteva fretta nel prendergli la vena.
Un giorno avrei voluto amarla, con una fede
consegnargli il mio batticuore e tutte le epatiti.
Davanti a Dio ci saremmo scambiati le allucinazioni
promettendo metadone anzichè aghi ingestibili.
E così avrei detto amore e nei cessi poi vomitato
una delle mie tante personalità.
Ho pensato in grammi per chissà quanto tempo
immaginando che fosse lì il peso della mia volontà.
Essere con il respiro dentro l’abitudine di peccare
se ciò fosse una espiazione metodica dei polmoni
direi che ho vissuto brancolando per necessità
d’assomigliare più a una bestia che a un santo.
Vorrei un giorno che la finestra apparisse lucida
e baciandomi tra i passanti, dalle loro bocche
tu ascoltassi almeno una parola dolce di mirtilli.

(ora non lo sai, ma forse il dolore ci sorprenderà)

*

d:
23.23

accade ciurato dal grembo un merletto melanconica sutura
a mia assenza la notte arrotondata tra il catino e la maniera
chi c’hannu li manuzze mentri pigghianu l’aria frisca sutta
chiddu ca nun torna d’un orlo alla paura degli specchi
o un rovinio di latte quando è piana la fontana dentro agli attimi
primitivo il sapore a dietro un gesto dal respiro e ha cenere
                                                                                               guarda
la collana
della sposa
imperfetta movenza]

quest’ancestrale solitudine dalle braccia che morbide mi
asciugo candore del rimpianto sulla riva del cielo lassatu
a li lampare cunsacrate d’ogni dèi la spiranza vagnata di
nuddu ca nuddu sapi li dogghie ammucciate nta la vucca
assittata d’insonnia e collina discendente silenzio questa
ebbrezza spugghiata ‘n mezzu ciatu na fogghia crolla lei

*

f:
17.10

«Ora puoi fare da solo dicevi
come se io avessi imparato chissà cosa di così geniale
era una questione di paure
e per alcuni quelle paure li condusse alla luce».
Ma noi eravamo quelli davanti ai pub chiusi
convinti di mirare la luna con le bottiglie vuote
eravamo una specie non protetta
causa le molteplici bestemmie e l’amore
per una sola fede appuntita, maleducata.
Poi il cielo è cambiato e i colori
hanno iniziato a moltiplicare il rosso sulle camicie,
sul cruscotto: dove c’era follia quel colore
ci battezzava le cadute e mai nessuna rivincita.
Ora potresti convincermi che la vista ci ha illusi
perchè le nuvole non le abbiamo mai avute sotto i piedi
o forse sono ancora messe lì nel dipinto ispirato da Dio,
e anche se ti cerco nei dettagli appena una croce,
una foto, indicano l’evoluzione del caos:
ogni minuto dell’aria adesso è eternità,
forse non so respirare ma scrivere della mediocrità
che spinge i cancelli non lascia
nuove storie alla voce arrugginita, e ormai
varcata l’intenzione quei bambini sull’altalena
non siamo noi, capisci ?
noi abbiamo tutte le periferie in gola, ed è impossibile
gridare la bellezza all’infuori del diritto d’essere
muti fino alla resurrezione.
«Finalmente puoi fare da solo – dicevi soddisfatta –
come se avessi imparato la formula dell’accoglienza:
diluirmi nel sangue aspirando la tua dolcezza mancata
da una fiala… fu quello l’amore… tutto in percentuali
tra un collasso e un’aurora».

a volte imparo dalla saliva
l’affinità dei vomiti
sarà un’intuizione epatica,
ma vivere quello non ci riesco
è una febbre alle ossa
inestirpabile senza un’idea.

*

d:
19.43

come posso
a un nocciolo
di piede

m’inchina silenzio
o liberazione sia

velatura le unghia
dal sonno un dopo
lasciato

hai battito tempo ?

e il vuoto in un canto di cicale
affonda la notte ai nostri passi
smarrita resistenza poi     ferita

l’eclissi blasfema

                   cavallucciu marinu
                  ‘u mari mi scinni da
                  chisti occhiuzzi ccà

l’avissi pinzatu r’accussì ‘u juocu mentri unn’era jucu
[caminari all’incuntrariu unni attummuliava la

grasta e tuttu ‘u firmamentu di la vistina i centrini
[all’uncinetto la grazia di li mennule ‘u lettu in
un ramuzzu di misericordia cielo sbavato all’odore del
[mosto: l’avissi pinzatu r’accussì ‘u jocu ma
unn’era jocu iu ca nun sacciu parrari e m’ammucciu
[sutta na scorza d’aranci ché la pioggia ha il
senso del contatto mancato o mancato al contatto il giorno
[dei giorni in un casteddu di rina

appizzatu
a la vintura
dello spacco

si tramonta dalle mani il torpore
comu pozzu
arriminari li paroli
prijate

nel sangue degli apostoli
ho

libertà?

statti mutu
‘a prucissiuni sta passannu

 

La finestra dei mirtilli, Daìta Martinez/Fernando Lena, Salarchi Immagini, Ragusa, 2019

 

 

 

 

 

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Nota critica di Adriana Gloria Marigo a “I masticatori di stagnola” di Guglielmo Aprile, LietoColle, 2018

28 lunedì Gen 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Guglielmo Aprile

 

Da tempo, forse per una sorta di suggestiva deformazione professionale, vedo il libro – in particolare la silloge di poesia – come la materializzazione del tempio greco: la copertina è simbolo del pronao; pertanto la relazione che intercorre tra il titolo e l’immagine non è tanto malia sul lettore eventuale, quanto indicazione, presentazione, elementi che suggeriscono a livello immaginativo l’interno, il naos dove è collocata la statua del dio. Presenza oppure no dell’immagine, colore, titolo sono – in molti casi – suggerimento di ciò che si tratterà nelle pagine: che sia vicenda, rito o liturgia il corpo di un libro è quanto l’autore officia derivandolo dal Sé in rapporto con l’Io in una dinamica che M. Heidegger così connota  «(…) La parola del poeta non è mai la sua propria parola e non è mai sua proprietà. Il poeta ha capito che solo la parola fa sì che una cosa appaia, e sia pertanto presente, come quella cosa che è. La parola poetante nomina qualcosa che va oltre il poeta e lo spinge in un’appartenenza che non ha stabilito egli stesso, un’appartenenza che può solo accettare. La parola del poeta, e quel che in tale parola è poetato, superano, poetando, il poeta e il suo dire. Quando attribuiamo alla poesia questo carattere, ci limitiamo sempre alla poesia essenziale. Essa soltanto compone poeticamente cose iniziali, essa soltanto svincola cose originarie in vista del loro proprio avvento. L’arte – di cui fa parte anche la poesia – è sorella della filosofia. Ma solo la poesia è la custode privilegiata della verità dell’essere. (…) La natura poetica del pensiero è ancora avvolta nell’ombra. Ora essa si manifesta, assomiglia per lungo tempo all’utopia di un intelletto semipoetico. Ma il poetare pensante è, in verità, la topologia dell’essere.» Continua a leggere →

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Nota critica di Adriana Gloria Marigo a “La vita che si vede” di Antonello Sollai, Controluna Edizioni di Poesia, 2018

14 lunedì Gen 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Antonello Sollai

Maurizio Zani, filosofo della storia, nell’accuratissimo intervento critico Antropologia filosofica: scarso affetto per le emozioni approntato per il volume di saggi Psicoanalisi, ideologia ed epistemologia, Aracne Editrice, 2014 si avvale per ex ergo di «Noi siamo le nostre emozioni» (Antonio Damasio), frase dal tono definitivo che non ammette repliche se non la ricerca delle neuroscienze cognitive che lo scienziato portoghese Antonio Damasio ha arricchito di contributi numerosi e notevoli, tali da apportare un dettato nuovo e acclarante del ruolo delle emozioni nelle nostre decisioni, scelte morali, e della funzione delle sensazioni corporee per l’affiorare della coscienza e della complessità dell’io. Nel saggio, il filosofo chiarisce come il pensiero filosofico, fin dal suo apparire, dimostri “scarso affetto” verso le espressioni umane che si avvalgono delle emozioni e del sentimento, sottolineando come l’oggetto di quella disaffezione sia principalmente l’attività creatrice le immagini emozionali, dunque il pensiero analogico e ciò che da esso discende, la poesia in particolare: filosofia non riconosce che poesia sia un’importante sorgente di conoscenza, una raffinata e sofisticata rappresentazione del mondo, la discesa empatica entro le parti della realtà che si mostrano affrancate, essenti in sé e gravanti sull’uomo unicamente per la problematizzazione che l’individuo compie nella relazione con esse. Filosofia, incastellata nella sua primigenia dedizione alla ragione per cui attribuisce valore di conoscenza esclusivamente a ciò che deriva dall’applicazione della logica, costruendo un’ontologia strettamente connessa con il mondo delle idee platoniche o con ciò che si esperisce empiricamente, nutre disprezzo per la conoscenza derivante dai modi del pensiero analogico, dell’immaginazione attiva: vi è tutto un mondo collegato alle espressioni artistiche dell’uomo da cui ha preso distanza, almeno fino ad ora in cui mostra un’attenzione  particolare, un allontanamento apprezzabile dall’orgoglio del suo sapere, se non altro perché mossa dall’istinto incoercibile di conoscenza.

Nel primo paragrafo del saggio sopracitato si può leggere: «Siamo dei soggetti dotati di una storia personale proiettata su un orizzonte in cui si intersecano variamente, talora in maniera inestricabile, le esperienze del passato, del presente o del futuro: un orizzonte con cui intratteniamo un rapporto emotivo poiché ci sta a cuore e che costituisce una fonte illimitata di apprendimento emotivo. Un orizzonte nel quale non sempre sappiamo distinguere una linea che separa la parte adulta da quella infantile; un orizzonte nel quale sentiamo non di rado la compresenza di persone diverse che si condensano nella nostra unità personale. È in fondo il nostro orizzonte di vita. E in quel “nostro” si racchiude la “nostra” biografia, colorata dalle emozioni del ricordo, dell’attenzione, delle attese normalmente esperite in un contesto variabile di relazioni con altre persone.»: questo lungo preambolo per specificare che in tale scenario – che evidenzia il rapporto problematico tra i due saperi – ritengo che l’opera prima La vita che si vede di  Antonello Sollai si inserisca a pieno titolo per indicare che filosofia e poesia percorrono con modi differenti la stessa via, che è quella dell’essere su cui si può rivolgere lo sguardo che interroga e rappresenta o lo sguardo che osserva e accompagna l’intuizione oltre ciò che è visibile: la silloge, attraversata da felice musicalità di verso, è sostenuta e permeata da accenti, indici di problematiche esistenzialiste, dimostrando così che laddove esiste una scrittura che formalmente risponde ai modi della poesia, i contenuti consistono senza dubbio in pensiero, in quelle che sono tematiche della vita e che si inscrivono nell’orizzonte della riflessione filosofica. In prossimità di libri come quello di Sollai filosofia non può esimersi dall’accostarsi, poiché abbandonare il campo significherebbe non riconoscersi capace di individuare altre modalità di indagine per giungere o avvicinarsi alla natura intrinseca delle cose.

Il titolo La vita che si vede assume quasi i connotati di un teorema da dimostrare e che potrebbe anche restare indimostrato, poiché si tratta della vita: di essa vi è sempre qualcosa che sfugge allo sguardo logico, qualcosa che si sottrae o rimanda alle intuizioni che sorgono dai territori del Sé: è la perfettibilità, il dato inarrendevole alle strategie ordinanti l’essere  che spazia e trova manifestazione nella poesia di Antonello Sollai, che la connota di immagini impressive – poiché sono vibrazioni connotative che la poesia annuncia, non descrittive anche se felici, ma di pertinenza della prosa – come richiami alla discesa nel segreto personale o universale senza mai svelarlo del tutto, lasciandolo nella sospensione che genera la partecipazione costante alla vita, ai suoi richiami, alle sue chiamate, alle immagini fantasmatiche, poiché sono da considerarsi «… le passioni umane, quali l’amore, l’odio, l’invidia, la vanagloria, la misericordia e tutti gli altri sentimenti, non come vizi, ma come proprietà dell’umana natura (…) mentre la nostra mente gode della loro schietta contemplazione non meno che della percezione delle cose gradite ai sensi». (Baruch Spinoza).

In La vita che si vede il poeta non si sottrae alla tirannia delle passioni; non disinveste in emozione, in partecipazione; non rinuncia alla quotidianità che sente la conoscenza come campo in cui si manifesta “affetto umano” e «Tutto il resto è ingannarsi o volere ingannare gli altri. E volere ingannare gli altri per ingannare se stessi. (…)… è il sentimento tragico della vita» (Miguel de Unamuno). Il poeta di Cagliari ha ben presente questa dimensione e la frequenta onorandola con una squisita ricerca lessicale per cui la parola assume connotazione magica o simbolica, cerca la condensazione nel nome quale attestazione, sentire raffinato della natura senza mai sottoporla a dissezione per coglierne i gangli vitali che specchiano i gangli vitali della vita personale, sapendo – leopardianamente – che la natura non può essere piegata alla conoscenza ultima, che tra essa e noi esiste un varco incolmabile, una sporgenza che mostra inquieta presenza: « … E non ti reggerà il corrimano / del ponte e sotto quello, se ti sporgi, / un’acqua insonne balugina in tumulto. » p. 25

È necessario sottolineare che in Sollai la devozione alla parola che possa esprimere il massimo ontologico discende da una condizione che in lui è strutturale, ovvero è la coscienza per cui «La cultura è un linguaggio che unisce l’umanità (…) » (Pavel Florenskij). Ed è per questa ragione che in La vita che si vede si possono avvertire echi di ascendenze importanti, montaliane, e che sono non tanto manifestazioni di devozione al poeta ligure, quanto onere e offerta di una prossimità che scorge e testimonia, nell’affinamento della parola–simbolo, il valore altissimo del nome che ogni volta che si pronuncia «… sei già dentro ogni cosa…» p. 31; nella struttura musicale del verso l’urgenza di una misura aurea che discende da istanza classica «Le amate mani / più non baceranno le mie labbra.» p. 55 e rinnova i ritmi di Foscolo in A Zacinto, poiché il fine di Antonello Sollai è realizzare l’armonia più tersa tra forma e contenuto, la coniugazione del tu con l’io che tuttavia non è nell’ordine esistenziale realizzabile.

Lungo tutta la silloge si ha l’impressione di essere alla presenza di un «pensiero nobile e regale» (James Hillman) –  «Rompe, un canto, il silenzio tra le palme / e cave più non sono le distanze.» p. 18; «E la tua voce chiara sale, alta / sopra l’incendio, là, oltre il miraggio» p. 41, «Ti aspetto / e mi basta del sole / la luce che ricevo sul viso.» p. 61 –; dell’habitus che indulge alla scrittura, una facoltà metacreativa che si pone tra cuore e mente e assomiglia alla himma di Ibn ‘Arabī – «… Come due rami addossati perdemmo libertà / piegandoci insieme sulla stessa fuga. / Non ti rapì il volteggio di falena / sull’orlo del bicchiere ancora vuoto. / E mi lasciasti solo al pensile giardino / con la tua rosa in ascolto tra le dita / che appassirà incolpevole e negata.» p. 35 –: un pensiero del cuore potente, creatore, che dà nascita alle figure dell’immaginazione che non sono invenzioni personali dell’autore, ma «… creature autentiche (che dimorano)… tra le sottigliezze della coscienza e i livelli dell’essere. (…). Questa intelligenza dell’immaginazione risiede nel cuore: l’espressione “intelligenza del cuore” connota l’atto di conoscere e amare simultaneamente per mezzo dell’atto immaginativo.» (James Hillman) esattamente come accade a p. 59

 

La sera forza il passo alle finestre

che ti videro andar via

nei fumi ottobrini tra i castagni.

Sul tavolo ti attendono due versi

marini, confidenti

di quell’avvento chiaro, liturgico

del tuo ritorno.

Sull’orlo smemorato del cristallo

altro tempo è passato,

altre cose sono accadute

sopra le tue labbra.

Sei ombra che dilata il tempo,

colomba che la volpe addenta.

Sei il mio parlare su vetri indifferenti,

sul chiudersi di un giorno che trabocca

nell’afasia degli aceri là fuori.

 

 

Adriana Gloria Marigo

Luino, 5 gennaio 2019

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STEFANO D’ARRIGO: CREATIVITÀ LINGUISTICA IN HORCYNUS ORCA

15 lunedì Gen 2018

Posted by maria allo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Filologia, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI, SINE LIMINE, Uomini eccellenti

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scrittori siciliani

 

Horcynus-Orca-840x420

Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme in provincia di Messina, è  venuto a mancare nel ’92. La storia personale di Stefano D’Arrigo è strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca, romanzo di quasi 1300 pagine di sperimentalismi linguistici,  una delle pubblicazioni più importanti e, allo stesso tempo, meno lette dell’intero Novecento italiano. Un lavoro che ha impegnato l’autore per quasi vent’anni in continue riscritture e aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, regionalismi segnici mono rematici e polirematici, rimandi all’epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del ‘900. Un impegno costante ,dicevo,  che ha contribuito a trasformare I fatti della fera (questo il titolo originario) in un mitico ed epico poema della metamorfosi. Horcynus Orca è una lettura che manifesta l’immensa ricchezza tematica con cui Stefano D’Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l’Odissea e l’Eneide, l’Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano o a Moby Dick, sono tutti elementi che affascinano e costringono il lettore ad addentrarsi nella grandiosa costruzione su cui D’Arrigo ha trascorso una vita .” Si tratta di un romanzo sfrontato che mira niente di meno che a gettare un ponte tra Storia e Mito (ponte bombardato, come si vedrà), la cui mole, densità e qualità finiscono per intimidire, per tenere un po’ ai margini il lettore comune” dice  Paolo Mantioni. L’espressione “Horcynus Orca” ci riporta però anche al mondo latino, in cui il termine “orca”, fra altre cose, indica proprio l’orca assassina, come si può vedere nel celebre passo di Plinio il Vecchio che suona quasi darrighiano ante litteram («…cuius imago nulla repraesentatione exprimi potest alia quam carnis inmensae dentibus truculentae», Nat. Hist., IX, 12), e rimanda naturalmente a “Orcus”, che è il nome del regno dei morti, del suo custode e, in senso figurato, della morte stessa. La pubblicazione del romanzo nel 1975, tuttavia, non ha interrotto il labor limae di D’Arrigo, il quale è tornato sul testo fino alla morte con ulteriori modifiche, seppur lievi, tant’è vero che la riedizione del 2003 reca nell’aletta di copertina la dicitura nuova edizione con le ultime inedite correzioni d’autore.

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Stefano D’Arrigo

Stefano D’Arrigo (Alì Marina, Messina, 1919 – Roma, 1992), laureatosi in Lettere a Messina con una tesi su Hölderlin, svolse servizio come sottotenente a Palermo durante la seconda Guerra Mondiale fino allo sbarco alleato. Dopo un’altra parentesi a Messina, si stabilì a Roma nel 1946, dove si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte, frequentando pittori e mercanti d’arte. Intorno alla metà degli anni ’50, D’Arrigo passa all’attività letteraria scrivendo un libro di versi (Codice siciliano) e cimentandosi con un’opera di narrativa di ampio respiro, La testa del delfino, scritta di getto in quindici mesi tra il 1956 e il 1957. Quest’opera, ancora inedita, è il primo abbozzo di quel romanzo che poi, dopo infinite riscritture e ampliamenti protrattosi per quasi vent’anni, diventerà Horcynus Orca. La prima questione da affrontare riguardo all’Orca e al suo significato nel romanzo concerne la particolare denominazione scelta da Stefano D’Arrigo nel titolo, perché il grande mistero che circonda l’animale comincia proprio da lì. Se è abbastanza noto che il nome zoologico dell’Orca è “Orcinus Orca” (o “Orcynus Orca”), meno noto è il fatto che l’espressione “Horcynus Orca” non ricorre mai nel romanzo (per essere più precisi non ricorrono mai per esteso neppure le espressioni “Orcinus Orca” e “Orcynus Orca”). Per i “pellisquadre” di Cariddi (vale a dire i pescatori, cosiddetti perché hanno la pelle ruvida come quella dello “squadro”, cioè lo squalo, che a sua volta prende il nome da “squadrare”, ovvero lisciare e pareggiare il legno ruvido con la cartavetrata: «pelli, insomma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri», p. 254), l’Orca è il “ferone”, cioè la ‘grossa fera’, perché con la fera essa condivide una caratteristica fisica ben precisa (oltre naturalmente a quella ‘comportamentale’ della ferocia): «la coda piatta invece che di taglio» (p. 618). Quando però il navigato signor Cama, basandosi sul suo inseparabile manuale di cetologia illustrata, spiega loro che l’animale arrivato nello “scill’e cariddi” è un’Orca, dice via via che essa è l’”orcinusa”, l’”orca orcinusa”, l’”orcynus” (quest’ultima espressione ricorre solo una volta, mentre le altre verranno poi ripetute spesso), per far capire che già nel suo nome (omen nomen…) è scritto il suo destino di animale assassino, creato da Dio solo per ammazzare gli altri e impersonare così la stessa Morte (cfr. pp. 657). Per il resto, l’Orca, quando non è detta semplicemente “orcinusa”, è connotata nei modi più svariati nell’inesauribile suppurazione linguistico-morfologica del romanzo, ogni volta per sottolinearne una sfumatura diversa, ma comunque legata alla ferocia, alla morte e alla putrefazione: oltre ai frequentissimi “orcaferone” (da orca + ferone) e “orcagna” (da orca + carogna), troviamo anche, occasionalmente, “porca” (cfr. p. 801), “orcarogna” (da orca + carogna + rogna: cfr. p. 801), “orcassa” (da orca + carcassa: cfr. p. 955), “orcassale” (da orca + carcassa + sale: cfr. 967), “orcarca”. Ma allora, perché quell’H nella denominazione dell’animale che compare nel titolo? Secondo Walter Pedullà (cfr. la sua “Introduzione” a I fatti della fera), uno dei massimi esperti su D’Arrigo, poiché quell’H fa sì che leggendo solo le iniziali (HO) si ha quasi la formula chimica dell’acqua, D’Arrigo ha voluto segnalare un’identificazione dell’Orca col mare sulla base del binomio vita/morte. Questa ipotesi è ampiamente giustificata dal testo, perché D’Arrigo insiste spesso non solo sull’Orca come fonte di vita e di morte (pur essendo per definizione la Morte, essa è anche donatrice di cibo vitale per gli affamati pescatori, sia perché da viva porta loro la “cicirella”, cioè i banchi di anguille appena nate, sollevandola dal fondo del mare, sia perché da morta offre tutta se stessa come cibo e materia prima per la fabbricazione di oggetti d’uso quotidiano, come pettini, posate, scarpe, ecc.), ma anche sul mare come luogo in cui i pescatori svolgono il loro eterno ciclo di vita (la pesca, il lavoro) e di morte (la carestia, la ‘morte per acqua’ come nella Terra desolata di Eliot, ecc.). In un passo-chiave, l’”animalone” è proprio definito «un essere dell’altro mondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due» (p. 668), ed è, questa, una caratterizzazione che si può benissimo adattare al mare, inteso come elemento originario, principio e fine di tutte le cose, sin dall’alba del pensiero occidentale. Per non dire che nella serie di visioni apocalittiche che ha sullo sperone, ‘Ndrja prima vede lo Stretto ridotto a un deserto di sale, dal quale i pescatori tirano a riva l’”orcassale” (cioè la carcassa di sale dell’Orca), e poi vede l’Orca stessa ricostituirsi, riprendere l’antico aspetto, agitarsi furiosamente, rigenerare da sé il mare liquefacendosi dalla coda e infine fondersi in esso, tornando ad essere «una goccia d’acqua nel mare», come se «il mare rivivesse dalla morte di quell’essere orcinuso, rivivesse, cioè a dire, dalla morte della Morte». Altro discorso va fatto per la scelta della forma con la y nella denominazione latina dell’Orca, che, come visto, non solo è attestata nell’uso, ma ricorre una volta anche nel corpo del romanzo. Rispetto alla spiegazione dell’H, quella della y è molto più congetturale, proprio perché non è un’invenzione di D’Arrigo. Pedullà propone una spiegazione molto complessa e affascinante. Intanto la y è il simbolo matematico di un’incognita, e poiché cade al centro della parola “orcynus”, sembra alludere alla piaga dell’animale (la sua sezione trasversale avrebbe proprio quella forma), la cui origine è e resta misteriosa in tutto il romanzo. In biologia essa è anche il simbolo del cromosoma maschile, e ciò rimanda all’origine della vita, intimamente connessa con la malattia e la morte, dei cui segreti l’Orca è depositaria. Infine, la y è una lettera greca (Y) passata al latino, e dallo stesso padre fondatore della cultura greca proviene l’idea mitopoietica, poi ereditata e consolidata dai poeti latini, di popolare di creature di inaudita ferocia la Sicilia e il mare dello Stretto (Scilla e Cariddi, il Ciclope, ecc.).L’Orca, dunque, in quanto ‘Orco’ e ‘Leviatano’ nello stesso tempo (da un pescatore è paragonata a un drago favoloso che chiederà tributi di pesce spada che finiranno per ridurre alla fame la popolazione: cfr. p. 657), si presenta come il luogo d’incontro di due tradizioni generalmente alternative nella cultura europea, ovvero quella classica, omerica, greco-romana, e quella ebraico-cristiana, assumendo così l’aspetto di un ‘segno’ simbolico mostruosamente (è il caso di dirlo) significante. Sui legami di Horcynus Orca con l’Odissea, col suo eroe, con le sue creature femminili e coi suoi mostri, non è il caso di dilungarsi troppo, perché sono di una evidenza palmare e si ha avuto modo di esplicitarli, sebbene in parte (‘Ndrja/Ulisse; Caitanello/Laerte; Cata/Nausicaa; Marosa/Penelope; Ciccina Circè/Circe e Calipso; femminote/sirene; e poi Scilla e Cariddi, al punto che D’Arrigo chiama il mare dello Stretto «lo scill’e cariddi» sin dall’incipit del romanzo, ecc.). Basti qui sottolineare soltanto che la rivisitazione del mito in Horcynus Orca è però fortemente critica e demistificante, e in tal senso, a un livello più profondo, ‘Ndrja è più lontano da Ulisse di quanto non lo sia Leopold Bloom: mentre infatti l’eroe omerico, dopo un’assenza di venti anni, torna dalla guerra da vincitore e persino da maggiore artefice della vittoria (si pensi al Cavallo di Troia), trova la moglie che è stata ad aspettarlo pazientemente e riporta l’ordine nel suo piccolo regno facendo strage delle “fere” che infestano la sua casa, il povero “nocchiero” della Marina Italiana torna dopo soli  due anni da una guerra persa dopo essere stato mandato allo sbando dal suo comandante auto affondatosi, trova la sua promessa “zita” Marosa astiosa e sessualmente affamata come fosse sua moglie da anni (e invece è solo una “muccusa”, appena sbocciata durante la sua assenza) e, nel tentativo di restituire al suo mondo infestato da un “ferone” i valori perduti di dignità e lavoro onesto, muore appena quattro giorni dopo il suo arrivo mentre si sta allenando per una competizione sportiva, colpito in fronte da una pallottola sparata quasi per caso dalla sentinella di una portaerei un po’ troppo nervosa. Ma è Virgilio che, in occasione della discesa agli inferi di Enea (Eneide, VI, 273-281), descrive le fauci dell’Orco in un passo che contiene in nuce, personificate (Luctus, ultrices Curae,  Morbi, tristis Senectus, Metus, malesuada Fames, turpis Egestas, Letum, Labos, Sopor, mala mentis Gaudia, mortiferum Bellum, Discordia demens), praticamente tutte le nefaste conseguenze che comporta per i cariddoti la presenza dell’Orca nel loro mare (terrore, sterilità, fame, inattività soporifera per lo spirito, discordia, sconcia esaltazione per lo sciacallaggio, ecc.). Da questo punto di vista, Horcynus Orca è il romanzo della disperazione, il romanzo di una catastrofe esistenziale, storica, antropologica e cosmica senza rimedio, in cui il mondo è abbandonato da tutte le divinità celesti ed è lasciato in balia solo di quelle ctonie e dei loro emissari più feroci: i dittatori che scatenano le guerre, le fere e, soprattutto, a “riesumo” simbolico di ogni forza del male, l’Orca/Orco. Tutto muore in esso, inghiottito dallo sbadiglio delle fauci dell’Orco: muore la forma di vita secolare dei cariddoti, il quali, se non scelgono il suicidio (come ha fatto Ferdinando Currò, l’eroico salvatore di donne e bambini nel corso del disastroso “terremaremoto” del 1908), possono sopravvivere solo adeguandosi a scendere a patti con i bassifondi del nuovo ordine del “dollaro” e con i suoi metodi cinici e utilitaristici, i cui profeti al livello più basso sono figure equivoche e parassitarie come lo scagnozzo e il Maltese; muore ‘Ndrja, nel tentativo donchisciottesco di arrestare la storia nell’attimo i cui essa stritola con somma indifferenza i più umili; e infine, a suggellare il Trionfo della Morte sulla sua stessa manifestazione fisica più emblematica, muore l’Orca, dopo aver dato l’illusione beffarda di essere una divinità benigna apportatrice di “manna”, quando invece, come ripete Luigi Orioles, la verità bruta è che l’apparizione in superficie della “cicirella” è un effetto casuale degli inabissamenti del mostro marino, e se mai essa è segno di qualcosa, è segno solo dell’inutile tentativo di quest’ultimo di andare a distruggere la vita stessa alla radice (cfr. p. 663 e p. 667). Che il grande romanzo di Melville (molto amato da Stefano D’Arrigo) sia echeggiato in Horcynus Orca è un fatto assolutamente ovvio (si pensi solo al fatto che il signor Cama ha un manuale di cetologia illustrata che sembra proprio quello ipotizzato da Melville nel famoso capitolo 32 di Moby Dick), ma qui ci interessa soprattutto vedere come il contatto con esso conduca l’Orca darrighiana verso il mostro biblico. Le varie credenze sull’Orca come animale unico, onnipresente, immortale e contiguo alla Morte per destino intrinseco, sulle quali D’Arrigo insiste moltissimo, si ritrovano tutte quasi alla lettera nel giro dei celebri capitoli 41 e 42 di Moby Dick, intitolati rispettivamente Moby Dick e La bianchezza della Balena. Nel primo Melville riferisce due “superstizioni” da balenieri che riguardano il carattere soprannaturale della balena, ovvero la sua ubiquità nello spazio e la sua immortalità (che poi è l’”ubiquità nel tempo”). Nel secondo fa esibire Ismaele in una dottissima dissertazione storico-antropologica sul rapporto che nelle varie culture umane sussiste tra il colore bianco, il terrore e la Morte. Abbiamo qui elementi sufficienti per ricondurre l’Orca di D’Arrigo, tramite Melville, entro l’alveo della cultura ebraico-cristiana, perché un animale unico, ubiquo e immortale può essere stato creato solo da Dio e direttamente, e questo il signor Cama non si stanca mai di ripeterlo ai pelli squadre. Ma queste caratteristiche della sua balena, Melville, più esplicitamente ancora di D’Arrigo, le riconduceva direttamente al mitico mostro biblico, come si vede già a partire dal fatto che l’ampio catalogo di citazioni cetologiche posto a vestibolo del romanzo comincia con ben cinque passi biblici: Genesi, I, 21; Giobbe, XLI, 24; Giona, I, 17; Salmi, CIV, 26 e Isaia, XXVII, 1, tre dei quali, cioè il secondo, il quarto e il quinto, menzionano esplicitamente il leviatano. Tutto ciò, com’è evidente, apre la strada a un’interpretazione in chiave messianica, sacrificale ed escatologica dell’intero romanzo, che lo stesso D’Arrigo suggerisce a più riprese anche in contesti che non riguardano direttamente l’identificazione dell’Orca con il leviatano ebraico. Una lettura del genere, comunque, deve passare attraverso un parallelismo tra ‘Ndrja, eroe-messia sacrificale e redentore, e l’Orca, mostro redento e pertanto destinato al pasto totemico con cui la comunità dei ‘giusti’ celebra la ritrovata comunione con Dio. E su questo parallelismo il testo lascia pochi dubbi. Inoltre, nel suo addio alla “zita” Marosa, egli offre alla ragazza, che sta ricamando il suo cuore in nero su uno sfondo bianco, il petto nudo per farselo ricamare sulla pelle sopra quello vero (in una posa «che fatalmente ricordava … la posa dell’Ecce Homo», p. 1023), e quando la stringe al petto le sue lacrime gli scendono sul petto «come gli lacrimasse il costato a lui» (p. 1024). Con questo D’Arrigo crea un rapporto diretto con l’Orca, la quale, quando è trainata verso la riva legata per i denti, mostra agli sbigottiti pellisquadre il suo ultimo mistero: una macchia bianca a forma di cuore sul petto nero, «come un gigantesco neo di desio, una gigantesca insoddisfatta voglia d’orca incinta, stampata sulla pelle del figlio» (p. 1015). Infine, come l’Orca, che, oltre a donare ai pescatori la cicirella, vitale per la loro alimentazione fino a quel momento quasi esclusivamente a base di fave secche (è il cibo per cavalli abbandonato dai fascisti in fuga dalla Sicilia dopo lo sbarco degli alleati), finisce per offrire loro in pasto tutto il suo corpo, ‘Ndrja dà tutto se stesso e poi anche la sua stessa vita per guadagnare quelle mille lire utili all’acquisto della barca, arca di salvezza per l’economia della comunità, dopo essersi prodigato per ottenere, con l’intercessione del Maltese, che gli inglesi arenassero l’animale morto, e il romanzo si chiude con lui morto nella sua barca-bara portata come un’arca dell’alleanza ai cariddoti, che nel frattempo stanno consumando il banchetto dei ‘giusti’ attorno al corpo dell’Orca.

Maria Allo

Fonti

Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, introduzione di Giuseppe Pontiggia, Mondadori, 1982 (1975)

Carmen Micalizzi, “L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea – A.A. 2002-2003

http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma-puntate/mare-nostrum-stretto-di-messina/39232/default.aspx

http://www.gazzettadelsud.it/news/spettacoli—cultura/17492/Quei-mostri-letterari–di-Stefano-D-Arrigo-.html

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PRELUDIO Nota critica di Adriana Gloria Marigo

15 venerdì Dic 2017

Posted by LiminaMundi in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Adriana Gloria Marigo, Francesca Diano, Patrizia Da Re

 

Chi siete voi, animali, psychai che ci visitate in sogno?

James Hillman, Presenze animali

 

Nella ricca e dettagliata Introduzione a Bestiario, Francesca Diano illustra con attenzione appassionata – potremmo dire con dedizione di calda, devota e gentile familiarità, proprio come accade quando si partecipa con sentimento intimo a vicende che ci riguardano – l’origine, la gestazione, la nascita e infine il lascito culturale ed emozionale di sedici poesie il cui argomento sono gli animali. Dalle pagine necessarie ad accompagnare il lettore nel viaggio dedicato alle “bestie”, Francesca ci immette entro testi che appartengono a quella speciale categoria di libri che nel Medioevo raccontavano di animali reali e immaginari in manoscritti di grande bellezza per le miniature che cesellavano l’opera calligrafica realizzando un’alta significanza estetica e simbolica in quanto il contenuto di ordine morale dei racconti in prosa o in poesia si coniugava con la pazienza amanuense e l’opera pittorica dei miniaturisti. In questa raffinata tradizione che assume in sé archetipi, simboli, metafore, allegorie, che si radica in espressioni artistiche molto lontane dai secoli del Medioevo per cui l’origine remota ci raggiunge carica di fascinazione come un richiamo cui non si può non rispondere, si inserisce il lavoro poetico dell’autrice che ha specchiatura nelle forme e nel colore del lavoro artistico di Patrizia Da Re: animali carichi di pathos – forza contrapposta a logos – connotano tra apollineo e dionisiaco i racconti mitologici della poetessa secondo una tecnica pittorica che elabora il monotipo con pennellate di colore realizzanti un’armonia perfetta tra la parola della poesia e l’immagine della pittura. Possiamo affermare senza tema di smentita che in Bestiario si realizza il concetto oraziano di Ut pictura poësis: tra la parola scritta di Francesca Diano e la visività del dettato pittorico di Patrizia Da Re si manifesta lo speciale matrimonio alchemico di due pensieri immaginali che si riconoscono d’affinità immediata e complementare, e in questo numinoso incontro si avvera l’oggetto concreto del “libro bello” nato dal ponte misterico gettato negli spazi liminari tra conscio e inconscio accogliendo nei modi dell’anima le figure archetipali nella loro vibrazione fortemente eidetica e creativa.

Il mondo, la natura, e nel caso specifico Bestiario con cui la poetessa ci porge la postura mitica degli animali – quelli che dalle profondità del metapensiero dove senza tempo né spazio vivono gli dei, l’hanno raggiunta empaticamente sorgendo da epoche sacre a consegnare messaggi da decriptare, comprensibili a chi conosce il cifrario simbolico e si muove tra gli archetipi riconoscendoli nella loro eternità vivi, pulsanti essenza di creato, di multiverso, e capaci di accendere parole in cui riconoscere la sacralità al contempo chiara e oscura, pervasa da “timor sacro” –, vengono incontro a chi è in relazione analogica con la parola, e in generale con l’altro da sé, nei modi per i quali Jacques Bénigne Bossuet,  in Elevation à Dieux, scrive «Les anges conversaient avec l’homme, en telle forme que Dieu permettait, et sous la figure des animaux. Eve donc, ne fut point surprise d’entendre parler le serpent». (Gli angeli conversavano con l’uomo, nella forma che Dio consentiva, e sotto l’aspetto degli animali. Eva dunque, non fu affatto sorpresa di sentir parlare il serpente).

Tra gli animali carichi di mito, tra la loro presenza pregna, perturbante, evocatrice, suggeritrice e la poetessa, si stabilisce dunque un rapporto privato, una sorta di appartenenza degli uni all’altra secondo un richiamo, un ascolto e infine una risposta che si materializzano nella parola: esattamente come una irrinunciabile e improrogabile necessità, poiché in essa è l’affermazione dell’essenza della realtà che è sempre oltre il visibile, e dunque metafisica. Francesca Diano compie una restituzione: ricevuto il dono eidetico, assunti in sé i fondamentali eterni, li elabora secondo la parola della poesia, la musica che al contempo le è intrinseca ed estrinseca, e costruisce un’opera sapienziale: l’Axis Mundi, ossia la linea che collega ciò che sta al di qua con ciò che sta al di là dell’immaginale e che nella storia delle religioni e delle mitologie è ravvisabile nell’albero cosmico – ma non solo, poiché anche un animale lo simboleggia, come qui testimoniano i versi de Il Serpente dove espressamente è scritto «Sensuale Signore arrotolato/ Lungo l’asse del mondo/ Quetzalcoatl di piume ornato» – sottaciuto, ma implicito in Bestiario, è attorniato dalle ierofanie degli animali che ci collegano al Cielo, alla Terra e agli Inferi.

Le sedici poesie di Bestiario riconoscono il molteplice che gli animali incarnano a livello intellettuale, la presenza dell’ “animale interno”, l’urgenza e l’importanza psicologica di viverlo e integrarlo, poiché nel piano psichico esso è una figura numinosa, dalla quale è vano fuggire come testimoniano i versi de Il Ragno: come un mantra di grazia aerea, giocosa, dichiarano l’impossibilità di esimersi dal legame con gli archetipi, in particolare il Tempo in cui si è immersi e incombe su ciascuno ineffabile:

 

Ragna stellata ragna bigotta

Tessi piviali ma soffri di gotta.

Trova l’incauto in mezzo ai tuoi fili

La fine giusta compenso dei vili.

Ragna lenta, ragna paziente

Il tempo lavora e mai non ti mente.

Sei machiavellica, tu non hai fretta

Vince pur sempre chi tempo aspetta.

Ragna bigotta, ragna stellata

Sei un insettino in vesti di fata

 

Il Tempo è in gran parte il filo conduttore dell’opera: l’autrice sa molto bene che la dimensione eterna è la circolarità sulla quale tutti i momenti inscritti sono congiunti da un innato bisogno di continuità, che la Storia, pur nelle sue incomprensibili sconnessioni o eventi illogici ha corso ineluttabile e che tutto è simbolo e proiezione e che anche gli animali incarnano il dettato simbolico. Ecco dunque che in Bestiario si celebra ciò che Matilde Morrone Mozzi scrive nelle pagine introduttive a Bestiario. Libro degli animali simbolici in C. G. Jung « Nelle mitologie, nei riti, nelle religioni, così come in letteratura e nelle fiabe e nelle leggende, gli animali sono portatori di contenuti che hanno accompagnato l’uomo nel corso della sua storia, formando il massimo sistema simbolico della coscienza umana, dal tempo della preistoria. Da sempre sono stati investiti delle dimensioni affettive, estetiche, poetiche ed oniriche; anche per la psicologia arcaica delle culture di tutto il mondo il divino è in parte animale, e l’animale è in parte divino. (…) Se la nostra vita dipende anche dalla continuità con quanto ci ha preceduto, allora lo sguardo retrospettivo sugli animali ci aiuta a disvelare quelle configurazioni che compaiono ripetutamente e che rimandano a realtà archetipiche », e – in particolare – nei versi de Il Falco dedicati all’assolato mito egizio l’ambiguità delle vicende umane, l’inscindibile compresenza della luce e dell’ombra, la necessaria impossibilità di uscire dalla polarità, poiché questa è tensione propulsiva al superamento di ciò che è immanente.

 

Dalle sabbie ardenti

Horus Potente per il suo Cuore

Dio falco dalle pietre venerato

Artiglia i secoli roventi.

Cavaliere solerte dell’aria

Anima doppia dell’Inca – Inti

Forte potente nobile bello

Figlio del Sole in forma d’uccello.

Alla tua immagine si riconduce

Colui che dalle tenebre invoca la luce

 

I versi della prima poesia L’Ape, ma anche i già citati de Il Ragno, si collocano – per la loro sonorità in stretto rapporto con il contenuto simbolico – entro ciò che Elémire Zolla esprime in Le potenze dell’anima. « La catena metaforica del respiro si avverte dunque al suono stesso delle parole, essa vive anche nella loro etimologia. Ed è a questa catena che si connette quell’insieme di movimenti interiori e invisibili dell’uomo il quale costituisce l’anima e l’animo e lo spirito. (…) Oltre a questa catena l’interiorità si può connettere a quella, appunto, di “ciò che sta all’interno” e designarsi come intimità, appunto, o nocciolo, o cuore».

La particolarità dei bestiari, fin dai più antichi, come l’opera  greca Physiologus, che degli animali e delle loro caratteristiche dava una interpretazione di ordine simbolico e religioso, testimonia «l’idea che gli animali simbolici stabiliscano un duplice accostamento: l’uno con le nostre radici, aprendo uno spiraglio sulla prospettiva mitica; l’altro con noi stessi, perché essi sono della stessa natura del sogno» (Matilde Morrone Mozzi). A questo carattere composito di presenza accompagnante e onirica, sono dedicati i versi de Il Cane: « Custode dei morti, compagno di veglie», ma tutte le poesie attestano la valenza di animali custodi investiti dal genius ora benefico, ora malefico così che transitiamo nella scena diurna  e notturna dove agiscono destino e custode.

Il dettato di Bestiario ha valenza poetica e concettuale sapienziale: gli animali che hanno ispirato come insufflando il loro spirito entro quello della poetessa sono le immagini che popolano la psiche e agiscono nell’anima producendo le azioni che costruiscono la vita e l’acquisizione del sapere nella complessità del volto con cui si mostra il visibile e l’invisibile, la loro coesistenza, come è scritto ne Il Cavallo

 

Nel mito Poseidon ti diede la vita

E Demetra fu una giumenta screziata.

Re Marco, possente stallone

Galoppava sulla spiaggia iridata.

Cavallo pallido, cavallo nero

Fantasmi voraci e tremendi

Col demone Kelpie la notte tracciate

Archi selvaggi a falcate roventi.

Potente signore che regna la notte

Dall’occhio umido, dal pelo caldo

Simbolo orfico di conoscenza

E di rinascita dal cuore saldo

 

La bellezza complessa del contenuto, che rivela la natura orfica del mito, lo spettro luminoso dei suoi numerosi corollari è la riva in cui confluiscono le assonanze dell’elegante fattura del verso che nella leggerezza ora aerea, ora terrestre, ora equorea, ora ignea, segue la flessuosità del mondo immaginifico germogliando ritmi e suggestioni capaci di ricordare ora l’invocazione – Lo Scarabeo –, ora la salmodia  – La Lumaca, Il Ragno – per cui potremmo ricordare con Ippolito Nievo che «le salmodie sacre con quel loro tenore mesto e solenne hanno sempre commossa l’anima mia», ora  l’inno – L’Ape, Il Cane, Il Gallo –, ora il semplice e icastico ritratto en plein air de Il Corvo

 

A novembre, sui prati secchi

Saltellano torme di corvi

Neri principi dell’inverno

Sotterranei signori torvi.

Demiurghi oscuri della rinascita

Sottili signori dell’aria

Formule alchemiche della materia

Che dal mondo dei morti s’irradia

 

 

                                                                                                                          Adriana Gloria Marigo

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La gallina

11 lunedì Dic 2017

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Clarice Lispector, Legami famigliari

La protagonista di questo racconto di Clarice Lispector, tratto da Legami famigliari (Laços de Família), è una gallina. Il pennuto, nel corso della vicenda, non solo dimostra di avere una grande personalità ma, nonostante sia stata acquistata per essere cucinata, riesce anche a sfuggire ad una morte certa.

C’era una volta una gallina, di domenica. Ancora viva perché non erano ancora le nove del mattino. Pareva tranquilla. Da sabato si era rannicchiata in un angolo della cucina. Non guardava nessuno, nessuno la guardava. Anche quando l’avevano scelta, palpando la sua intimità con indifferenza, non avevano saputo dire se era grassa o magra. Era impossibile avvertire in lei una qualsiasi ansietà. Fu perciò una sorpresa quando la videro aprire le ali dal corto volo, gonfiare il petto e, con due o tre balzi, raggiungere la rete del terrazzo. Vacillò ancora un attimo – il tempo necessario perché la cuoca lanciasse un grido – ed eccola già sul terrazzo del vicino, da dove, con un altro goffo volo, raggiunse un tetto. Lí rimase, insolita decorazione, esitando ora sull’una ora sull’altra zampa. La famiglia venne convocata d’urgenza e con costernazione vide il proprio pranzo accanto a un comignolo. Il padrone di casa, ricordandosi della duplice necessità di fare saltuariamente dello sport e di pranzare, indossò raggiante un paio di calzoncini da bagno e decise di seguire l’itinerario della gallina: a cauti salti raggiunse il tetto dove questa, incerta e vacillante, scelse d’urgenza una diversa direzione. L’inseguimento si fece sempre piú pressante. Di tetto in tetto fu percorso piú di un isolato. Poco avvezza a una lotta selvaggia per la vita, la gallina doveva scegliere da sola il percorso senza l’aiuto di una risorsa istintiva. Il giovane era però un cacciatore mediocre. Ma per quanto esigua fosse la posta in gioco, era stato ormai lanciato il grido di battaglia. Sola al mondo, senza padre né madre, lei correva, ansimava, muta, concentrata. Di quando in quando, nella fuga, si posava ansante sulla gronda di un tetto e mentre il giovane si arrampicava con difficoltà su su per altre gronde, aveva il tempo di riprendersi un momento. E allora sembrava del tutto libera. Stupida, timida e libera. Non vittoriosa come sarebbe stato un gallo in fuga. Cosa c’era nelle sue viscere che faceva di lei un essere? La gallina è un essere. È pur vero che su di lei non si può minimamente contare. Neppure lei contava su se stessa come invece un gallo crede nella sua cresta. Il suo unico vantaggio era che essendoci tante galline, se ne muore una, immediatamente al suo posto ne nasce un’altra cosí simile da sembrare la stessa. Alla fine, durante una pausa in cui si era fermata per godersi la fuga, il giovane la raggiunse. Tra penne e schiamazzi, venne catturata. E subito, presa per un’ala, fu portata in trionfo attraverso i tetti e buttata con una certa violenza sul pavimento della cucina. Ancora frastornata, la gallina si scrollò chiocciando rauca e indecisa. Fu allora che accadde. Semplicemente, per l’eccitazione, la gallina depose un uovo. Sorpresa, esausta. Forse era prematuro. E subito dopo, nata com’era per la maternità, pareva una vecchia madre esperta. Si accovacciò sull’uovo e rimase lí a respirare, aprendo e chiudendo gli occhi. Il suo cuore, cosí piccolo a vederlo in un piatto, sollevava e abbassava le penne riempiendo di tepore quello che altro non sarebbe mai stato se non un uovo. Solo la bambina le stava accanto e aveva assistito esterrefatta alla scena. Non appena riuscí a riprendersi dallo sbigottimento si alzò da terra e uscí gridando:

– Mamma, mamma, non ammazzare piú la gallina, ha fatto un uovo! Ci vuole bene, lei!

Tutti tornarono a precipizio in cucina e circondarono in silenzio la giovane puerpera. Riscaldando suo figlio la gallina non era né amabile né scontrosa, né allegra né triste, non era nulla, era una gallina. Cosa che non suscitava nessun particolare sentimento. Il padre, la madre e la figlia la stavano ormai guardando da un po’ senza pensare a niente di preciso. Nessuno mai aveva accarezzato una testa di gallina. Infine il padre con piglio brusco prese una decisione:

– Se fai ammazzare questa gallina, non mangerò piú galline in vita mia!

– Neanch’io! – giurò la bambina con ardore. La madre, infastidita, scrollò le spalle.

Ignara della vita che le era stata donata, la gallina prese a vivere con la famiglia. La bambina, di ritorno da scuola, gettava lontano la cartella senza interrompere la sua corsa verso la cucina. Il padre ogni tanto si ricordava ancora: «E dire che l’ho obbligata a correre in quello stato!» La gallina era diventata la regina della casa. Tutti, tranne lei, lo sapevano. E continuò a vivere cosí, tra la cucina e il terrazzo di servizio. Valendosi delle sue due facoltà: quella dell’apatia e quella del trasalimento. Ma quando tutti in casa erano tranquilli e sembravano averla dimenticata, si armava di un modesto coraggio, vestigio della sua grande fuga – e circolava sull’ammattonato con il corpo che avanzava cadenzato dietro la testa, come se si trovasse su un campo di battaglia, malgrado la sua piccola testa la tradisse, muovendosi rapida e tremante, con l’antico spavento della sua specie ormai divenuto meccanico. Di quando in quando, sempre piú di rado, si ricordava ancora della gallina che si era stagliata nell’aria sull’orlo del tetto come per annunciare qualcosa. In quei momenti riempiva i polmoni dell’aria poco pulita della cucina e, se alle galline fosse concesso di cantare, lei non avrebbe cantato, ma sarebbe stata alquanto piú felice. Anche se, neppure in quei momenti, l’espressione della sua testa vuota si alterava. Quando fuggiva o nei momenti di riposo, mentre faceva l’uovo o becchettava il grano – era una testa di gallina, la stessa che era stata disegnata all’inizio dei secoli. Finché un giorno l’ammazzarono, la mangiarono, e gli anni passarono.

Clarice Lispector, Legami famigliari, Feltrinelli, trad. di Adelina Aletti

Laços de Família è una raccolta  pubblicata nel 1960 e costituita da tredici racconti, alcuni dei quali erano stati pubblicati nella rivista Senhor. In questo racconto si ha la scrittura semplice e lineare di una cronaca familiare. La Lispector racconta dei cappi, dei legami che nascono spontaneamente nella vita di tutti i giorni. Qui il cappio è rappresentato dall’uovo di una gallina che non va più ammazzata, Mamma, mamma, non ammazzare piú la gallina, ha fatto un uovo! Ci vuole bene, lei!

Le storie racchiuse in Legami famigliari contengono messaggi semplici ma significativi. La Lispector avverte il lettore affinchè non esageri, non perda di vista la realtà perché l’equilibrio è sempre qualcosa di delicatissimo e precario. Sosteneva infatti che «quando c’è umorismo, è umorismo triste», che «amava il mondo, ma con repulsione», e che «quella bellezza estrema la disturbava». Le sue storie sono costruite attorno ad una continua tensione emotiva e a pochi elementi narrativi, a intime ribellioni, a pensieri aggrovigliati, tanto che la stessa autrice, in postfazione, confessa che certi suoi racconti le sono incomprensibili ma sono pur sempre accattivanti e piacevolissimi, c’è da aggiungere.

Deborah Mega

 

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Dalla santa

10 venerdì Nov 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Dalla santa, Lucio Mastronardi

Il racconto che segue, comparso per la prima volta sul “Corriere di Vigevano” nel 1956 e pubblicato nel 1963, è ambientato nell’omonima cittadina lombarda. Si tratta di un racconto realista scritto da Lucio Mastronardi (1930-1979), scrittore proveniente da una famiglia di origine abruzzese trapiantata a Vigevano, per molti anni maestro elementare nella sua città natale. Nel 1959 si segnala come scrittore appartenente al nascente filone della “letteratura industriale” con il romanzo Il calzolaio di Vigevano, a cui fa seguito Il maestro di Vigevano del 1962. Il testo riflette il boom economico che in quegli anni investe l’Italia settentrionale, epoca in cui Vigevano si trasforma da comune agricolo in centro industriale noto per la produzione di calzature.

Avevo un fastidio a un occhio. Mi hanno consigliato di farmelo vedere da una donna che fa miracoli. La santa di Vigevano. Ci andai un pomeriggio. La santa abita in un vecchio stabile, nella vallata San Martino, uno dei più vecchi rioni della città. Nella corte, una donna, senza che le chiedessi niente, m’indicò la scala dove la santa abitava. Salii. I baselli erano sconnessi e di legno. Ne mancava anche qualcuno. Arrivai su di un ballatoio con la ringhiera sempre di legno, che puzzava di marcio; ed entrai nell’unica porta che c’era. Mi sono trovato in una vecchia e grande stanza, piena di donne e donnette. Alle pareti erano appesi dei Cristi incorniciati in tutte le pose: mentre prega, col cuore in mano, mentre predica, mentre miracola, mentre sale il Calvario, mentre muore, mentre risuscita… Tutte le pareti erano così quarciate da quei quadri e quadretti, che non si vedevano nemmeno i colori dei muri. La gente sedeva su sedie scompagne, aspettando con pazienza il suo turno. Sul tavolo c’era una scatola di scarpe con un buco sul coperchio. La santa sedeva sull’orlo di una branda con un crocifisso in una mano e un rosario nell’altra. Portava una saia da frate. Aveva una faccia paffuta, e occhi neri e vivi. Capelli corti e brizzolati, divisi a metà dalla riga; e un vocione comunicativo, dalla parlata dialettale. Seduta davanti a lei, una donnetta le contava le sue croci. Suo figlio gliene sta per combinare una, proprio grossa. Si è innamorato di una… figlia dell’amore.

– Io gli ho detto: se tu sposi quella lì, me, ti rifiuto da figlio. Ma non c’è verso – diceva la donnetta panettandosi gli occhi. – Noi siamo gente per bene; io non mi voglio imparentare con una così! –. 

La santa si raccolse. Si prese la testa fra le mani. Una sua parente ci fece segno di tacere, è in rapporto con Gesù, disse. Per qualche minuto la santa rimase con lo sguardo per terra, fisso sui disegni del pavimento nuovo. Poi disse:

– Quella ragazza ci ha fatto il pignattino a suo figlio! –.

– No! – gridò la donnetta.

La santa gettò uno sguardo ai quadri del suo padrone, come disse.

– Passerò tutta la notte a pregare per voi e per vostro figlio. Vedrà che il mio padrone mi darà da trà; che il pignattino non funzionerà più –.

– Mi faccia questa grazia – disse la donnetta.

La santa le diede un santino, con una preghiera dietro, da dire quando suo figlio è in casa. La donna uscì un portafoglio. Mise l’immagine in una tasca, con cura. Introdusse nella scatola qualche biglietto da mille e uscì.

– Se mi fate la grazia, so il mio dovere – disse, sull’uscio.

– Non ho bisogno di niente, io. Ciò lui – disse la santa, fiera, alzando la croce.

Toccava a una donna. Come sedette davanti alla santa, scoppiò a piangere. Disse che suo marito ha una fabbrica di scarpe a socio con uno, che gliene fa da vendere.

– Sappiamo solo noi cosa ci fa passare quel socio; i dané che ci giuntiamo, il lavoro che va a male… Il mio uomo vuole spartirsi. Quello là non ci sta. Il mio uomo dà fuori, se non si spartisce, dà fuori da matto. Passa delle notti senza sarare su occhio; sempre con quel pensiero fisso nella mente –.

– Cosa vuole il socio per spartirsi? – domandò la santa.

– La fabbrica intera vuole. E dei danari insieme. Tutto il lavoro mio e del mio uomo darcelo tutto a lui… –.

La santa si alzò; andò dall’altra parte della branda; da un canterano prese una reliquia, e scomparve dietro la branda.

– Silenzio. È in crisi – mormorò la parente.

Per qualche minuto si sentirono solo i singhiozzi compressi della donna. La santa riapparve.

– Dategli tutto quello che vuole al socio. Quella fabbrica è maledetta. Sfatevene subito. Ripigliate da capo, voi e il vostro uomo, e nessun altro di mezzo. Pregherò che gli affari vi vadano bene! – disse la santa.

La donna se ne andò poco convinta. Ciula, borbottava, ciula, tuttavia la nostra roba in bocca al lupo. Me ne sogno neanche…Ora toccava a una donna giovane. Sedette imbarazzata davanti alla santa. Si guardava d’attorno. Doveva seccarle dire i fatti suoi davanti a tutti.

– Io so perché siete venuta – disse la santa, guardandola fissa; – non ce la fate a imbastire un figlio; vero? –.

La sposa assentì.

– È tre anni che lui mi mena da uno specialista all’altro – mormorò con voce stanca.

– Ma lui è affettuoso? –.

– Non mi dice più niente. Quando viene sua sorella con suo figlio, lui ci slingua vicino al nipote. Ci ha una fabbrica a socio con sua sorella. Ecco, dice, tanto da fare, tanto rabattarsi, per lasciargliela tutta al nipote la fabbrica… E quando si esce, c’è sempre qualcuno che dice: ma che bella coppia! Ma perché li mandate via?… che torniamo a casa che non ci abbiamo voglia di guardarci in faccia –.

La sposa parlava all’orecchio della santa, ma la voce le usciva forte. La santa la fece stendere sulla branda. Con le mani le premeva il ventre; ci faceva croci, mormorando preghiere.

– Aspettate il periodo della luna piena – disse. – Se non ci resta, dite al vostro uomo di andare lui a farsi curare! –.

– Davvero? – disse la sposina, raggiante.

La santa strizzò l’occhio con un sorriso furbo. In quella, sorretta da due donne, comparve una ragazza con le gambe sciancate. La santa le andò incontro e l’abbracciò. Disse che quella povera anima le era tanto cara. È in cura da me, disse. Il viso devastato della ragazza s’illuminò, mentre le mani della santa la sostenevano.

– Hai fatto quello che t’ho detto? – domandò la santa.

La ragazza accennò di sì. – Ho fatto solo un giro intorno al tavolo –disse.

La santa trasalì, e dopo un momento di silenzio, gridò:

– Fanne due subito di giri. Non toccatela. Avanti! –.

La poveretta si levò; a stento raggiunse il tavolo. Sta per appoggiarsi.

– No! – urlò la santa. La ragazza arrancava intorno, fermandosi dopo qualche passo; riprendendo. Dopo un giro cadde su una sedia.

– Ancora un altro, – gridò la santa. Si alzò. La ragazza riprese a camminare; la santa le andava dietro, vicino, e le diceva:

– Ci sono io. Abbia fede. Non toccare il tavolo. Ci sono io. Io ci sono. Avanti. Sono qui io. Senza paura. Vedi che ce la fai. Avanti… –.

La ragazza fece tre giri, e sedette sull’orlo della branda.

– Non ho fatto fatica! – diceva.

Una delle donne che l’accompagnava, disse: – Qui ce la fa. A casa no. Qui ci siete voi –.

– Non è vero, – disse la santa – io non sono niente. È il mio padrone. Che è dappertutto: anche a casa vostra –.

Baciò la ragazza, e disse alle donne di farle fare a casa tre giri intorno al tavolo; e di tornare da lei fra qualche giorno. Le donne promisero.

– Adesso vai fuori! – gridò alla ragazza, che sforzandosi di non appoggiarsi né al tavolo, né alle sedie, arrivò all’uscio.

La santa si sentiva stanca. Si fece dare una scodella d’acqua, e prima di berla ci fece dei segni di croce che parevano scongiuri. Toccò a una donna. Ha su un fabbrichino. Ha taccagnato con una operaia, che le ha detto: quando morirete farò suonare le campane.

– Quando suona una campana, ammà per me è una roba che podinò spiegare. Peggio che un supplizio, – disse la donna. – E le campane tacciono mai… –.

– L’avete licenziata l’operara? –.

– Sì. Ma quelle campane, madonna santa, quelle campane… –.

– Quando sentite le campane, – disse la santa – sforzatevi di pensare che suonano per quella là –.

La donna scosse la testa. – Ci ho già provato, – disse. – Prima non ci facevo mai caso, alle campane; adesso è un tormento che comincia la mattina bonora e continua fino la notte… –.

– Allora fatevi tre segni di croce a ogni scampanata, – disse la santa – con tre Requiem insieme! –.

Toccava a una vecchietta. Suo figlio fa il modellista. E vuole andare nel Sud Africa, a lavorare. Un padrone di Vigevano ci ha piantato un’azienda, là, e il mè balosso vuole andare a mostrarci il mestiere ai zulù. Vuole firmare il contratto per dieci anni. Dice che farà su tanti di quei soldi, che podrà tornare a Vigevano e mettersi in proprio e in grande: una bella fabbrica di scarpe. Che me lo faccia stare a casa!

– Mandatemelo qui; gli dirò solo quattro parole, e ci farò passare la voglia di partire! –disse la santa, sicura. – Lo aspetto domani! –.

Finalmente toccava a me. Mi sedetti davanti alla santa.

– Ho un occhio che mi lacrima – dissi, indicando l’occhio.

– Vi scarnebbia l’occhio? – disse la santa. Mi prese la testa, ci soffiò sulla palpebra, e ci fece delle croci. Da una scatola uscì una «fotografia» di Gesù, formato tessera, dall’aria terribile, e me la diede.

– Fissatela – disse.

Io la fissai.

– Ci vedete una croce sulla fronte? –.

– No –.

– Io sì. Seguitate a fissarla… –.

Donnette si fecero d’attorno, e poco dopo tutte vedevano la croce. Qualcuna ci sentiva anche un leggero profumo.

– La vedete la croce? – disse la santa.

– Sì, adesso la vedo –.

La santa mi guardò contenta.

– Vedete, io sono una povera donna, senza studi, senza niente. Ma c’è il mio padrone, a illuminarmi. Ci posso mostrare a tutti, io. Quando un qualcosa non vi va, o vi va per traverso, fate come avete fatto adesso: guardatelo fisso finché non avete visto la croce, che avete visto adesso –.

La scatola dei soldi era piena. I miei non ci entravano. La parente della santa la sostituì con un’altra vuota. Mentre uscivo entrava gente. E altra gente incontravo per le scale, e nella corte, e sul portone. Mentre tornavo a casa, l’occhio mi scarnebbiava ancora, ma poco. E fu l’ultima volta. Poi non mi scarnebbiò più.

(L. Mastronardi, Dalla santa, in Nuovi racconti italiani II, a cura di L. Silori, Nuova Accademia, Milano 1963)

Il narratore protagonista racconta i fatti, le “sedute” dalla santa guaritrice in prima persona. Si tratta di un narratore interno, autodiegetico, coinvolto nei fatti di cui è anche testimone. Anche la focalizzazione è interna, la storia, i dettagli vengono descritti attraverso la prospettiva di un unico personaggio. E’ presente anche qualche giudizio come La poveretta, riferito alla ragazza paralitica, o come Donnette, cioè le clienti della maga, che vuol mettere distanza culturale tra se stesso e gli altri personaggi del racconto immersi in un microcosmo pittoresco e superstizioso. L’ambiente descritto è ancora contadino e tradizionale, con qualche elemento di novità, a causa della rapida industrializzazione degli anni Sessanta del Novecento. La santa, emblema della civiltà rurale in dissoluzione, non si adegua ai cambiamenti sociali del suo tempo tanto da consigliare a una cliente di disfarsi della sua fabbrica maledetta. Davanti alla santa di Vigevano sfilano persone di tutte le età e di tutte le classi sociali, ciascuna ha la propria dolorosa storia da raccontare ed è disposta a farlo davanti a tutti, in una sorta di psicoterapia di gruppo. La maga, seduta su una branda e assistita da una parente che sostituisce la scatola di cartone piena di soldi con un’altra vuota, ascolta, consiglia, benedice, compie qualche gesto rituale dispensando immagini, reliquie, preghiere. Sono riportati anche i dialoghi popolari tra la santa e le donne che affollano la sua abitazione. Il linguaggio è poco articolato, basato su frasi coordinate o accostate le une alle altre.

Dal punto di vista lessicale prevalgono termini colloquiali e regionali (ci ha fatto il pignattino; ha taccagnato; il mè balosso.) Per esprimere le parole e i pensieri dei vari personaggi che giungono nella casa della santa, il narratore usa il discorso diretto oppure il discorso indiretto libero. Il narratore protagonista, giunto il proprio turno non si tira indietro, asseconda perfino la donna, forse fingendo di vedere la croce nella fronte del Cristo che gli viene mostrato in una immaginetta. Quando infine scende in strada, si trova costretto ad ammettere di essere guarito. Il finale a sorpresa, grazie all’espressione dialettale impiegata, il mio occhio non mi scarnebbiò più, rivela l’aspetto comico e grottesco di tutta la vicenda.

Deborah Mega

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Insonnia

13 venerdì Ott 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Cesare Pavese, Feria d'agosto

Il protagonista di questo racconto, tratto dalla raccolta Feria d’agosto di Cesare Pavese è uno dei tanti giovani che nel secondo dopoguerra lasciarono la campagna perchè non si rassegnavano a condurre la vita di fatica e sacrificio dei loro padri e dei loro nonni.

Quando rientravo avanti l’alba sull’aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l’aia (avrei potuto passare dal portico e non esser veduto), ma era meglio se capiva subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già ch’ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo il cielo, ma un gran tratto dell’aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra. Attraversavo quel bianco senza guardare dalla parte del noce, perché se avessi guardato avrei dovuto fermarmi e mio padre mi avrebbe chiamato dicendo qualcosa e uscendo fuori. Mio padre non dormiva di notte perché era vecchio e gli pareva di perdere il tempo. Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato. Nel cuore della notte scendeva dal letto (ci saliva che non era ancor buio), e cominciava a girare, entrava nella stalla vuota, raddrizzava un tridente, raccoglieva una paglia. Da quando le mie sorelle si erano sposate non ci restava che una vigna: due giornate di costa che lui di giorno zappava e di notte sorvegliava dall’aia. Un tempo (quand’eravamo bambini), già mezzo addormentati nel letto lo sentivamo toccare la corda nella stalla e spalancare la porticina che strideva raschiando. Allora quel rugghio ci pareva una minaccia, la voce vera di nostro padre, che insonne vegliava e nella notte esponeva la casa ai tremendi pericoli che un rumore improvviso può suscitare nel buio. Avremmo voluto che la porticina gli si richiudesse alle spalle, per sentirci più sicuri in fondo ai letti, dove il nostro cuore batteva. Eravamo sempre vissuti in quella casa dove un rumore voleva dire un estraneo. Adesso sbucavo sull’aia ridendo, e sapevo che mio padre mi aspettava sotto il noce. A volte mi accompagnava qualcuno fin sulla strada sotto la vigna: discorrevamo dell’ultima bottiglia, di quel che s’era fatto e si doveva fare.

– A domani, – dicevo.

– A domani, – e quell’altro si allontanava a passi lunghi, sotto le piante, anche lui verso casa. In tre passi salivo il sentiero e vedevo il gran noce e mi ritrovavo sull’aia di tutte le notti. Passavo senza fermarmi, davanti all’ombra di mio padre. Sentivo che mi guardava e voleva parlarmi. Non mi voltavo, arrivavo alla porta, e l’incontro era rimandato a un’altra volta. Di giorno mio padre aveva le sue idee e si sfogava con la mamma e gridava con me. C’erano sempre dei lavori inutili e bisognava farli per amore della pace: si legavano fascine e si vangava. Mio padre chiedeva non tanto che noi ci chinassimo a faticare, quanto che gli fossimo intorno e girassimo sull’aia a fargli credere che c’era lavoro per tutti. Da quando le mie sorelle si erano sposate e gli affittavano la vigna, a casa nostra era una morte, non si vedeva più nessuno, anche la stalla era vuota. Certi giorni mi annoiavo come quando ero ragazzo e nessuno veniva a giocare. Pigliavo nei campi bruscamente e dicevo che andavo in paese; andavo invece da mia sorella e le chiedevo di darmi un lavoro purchessia: non mi dava lavoro, ma di là passava sempre qualcuno e si discorreva a sazietà.

– Cos’avete fatto? – mi chiedeva a cena mio padre, e non bisognava rispondergli che avevamo chiacchierato, perché cominciava a gridare e a prendersela con la mamma che ci aveva messi al mondo così. Non con me. Venendo notte, non se la prendeva più con me, non osava affrontarmi. Era sempre sul punto di uscire dall’ombra, ma ogni volta io passavo, con la giacchetta sotto braccio, divagato e deciso, tendendo l’orecchio alle voci dei grilli, e nulla succedeva. Succedeva soltanto che, una volta entrato in casa, la mamma mi chiamava, con la sua voce soffocata, dal letto (neanche lei non dormiva più molto, alla sua età) e voleva sapere se mio padre era sempre sull’aia, sapere che cosa faceva, se aveva detto che rientrava. La tranquillavo borbottando, le dicevo che ero io e che faceva sereno. Rispondevo così spazientito, che sembravo mio padre. Era il mese di agosto e non c’era da pigliarsela se un vecchio non voleva dormire. La mamma a poco a poco taceva, ma neanch’io riuscivo a prender sonno (mi agitavano il vino e i discorsi della notte). Fuori c’era la campagna, c’eran le strade deserte, l’indomani col sole sarebbe stata un’altra cosa; ma intanto la smania di finirla, di prendere un treno, di andare in città e fare una vita più da uomo, non mi lasciava dormire. Anche mio padre era scappato giovanotto, e lui se n’era andato a piedi perché ai suoi tempi non c’era ancora la ferrovia. Ma dopo un anno era tornato. Io non volevo tornare mai più. La notte della Madonna rincasai ch’era mattino, e una volta tanto il sentiero del prato mi parve diverso dal solito. Mio padre uscì dalla stalla mentre facevo colazione sulla porta.

– Com’è andata la festa? –.

– Ho trovato il Nanni, – dissi masticando, – Abbiamo parlato –.

– Che cosa può dire quel vagabondo…

– Niente. Mi prende insieme a lavorare quando voglio –.

Mio padre si fermò irresoluto; aveva in mano una cavezza e la posò sulla finestra. Ancora un anno prima me l’avrebbe appioppata sulla schiena. Ma adesso era inutile, e si voltò verso la stalla di dove usciva la mamma passandosi una mano sugli occhi. Io lasciai che gridassero e intanto guardavo l’ombra lunga del noce.

Cesare Pavese, Feria d’agosto, Einaudi, Torino 1971

***

Il racconto è condotto in prima persona dal protagonista, che rievoca episodi della propria giovinezza trascorsa in campagna sulle colline delle Langhe, in particolare quelli riferiti all’estate in cui maturò la decisione di lasciare la famiglia e di trasferirsi in città per lavorare e divenire completamente autonomo. Del narratore-protagonista non si conoscono le caratteristiche fisiche né la sua identità che però si delinea sempre di più nel corso del racconto. E’ evidente fin da subito il contrasto generazionale tra padre e figlio: da un lato l’anziano genitore che rappresenta una generazione il cui obiettivo è conservare i propri beni, Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato, fino all’insonnia notturna; dall’altro il giovane, che teme la figura autoritaria del padre e sogna di fuggire dalla solitudine della sua casa in mezzo alla collina, di prendere un treno e di andare in città. Egli manifesta il suo disagio attraverso le notti insonni, trascorse a chiacchierare e a divertirsi, proprio per il bisogno di stare e interagire con gli altri. L’intero racconto è caratterizzato dal silenzio tra i due personaggi: il padre è come un’ombra nell’oscurità della notte che il figlio evita di incontrare,  Passavo senza fermarmi, davanti all’ombra di mio padre. Sentivo che mi guardava e voleva parlarmi. Non mi voltavo, arrivavo alla porta, e l’incontro era rimandato a un’altra volta. Nella sequenza finale, diversa dalle precedenti per la presenza di una precisa indicazione temporale, La notte della Madonna, per il passaggio dal tempo imperfetto al passato remoto e per l’andamento dialogico, si verifica l’incontro sempre rimandato tra padre e figlio. Il ragazzo, dopo essere rientrato tardi da una festa, comunica al padre la decisione di voler andare via dopo aver accettato un’offerta di lavoro. Al padre non resta altro che arrendersi alla decisione del figlio e sfogarsi, come è solito fare, con la moglie. Al contrasto padre-figlio corrisponde il contrasto città-campagna. I due luoghi si caricano di una forte valenza simbolica, tra la città, luogo d’evasione, e la campagna, luogo chiuso e solitario, in cui anche la comunicazione avviene con difficoltà.

Considerato un maestro del “neorealismo”, Pavese non solo descrisse la realtà del Piemonte appena uscito dalla guerra ma ritrasse anche i ricordi d’infanzia e la nostalgia per un mondo rurale incontaminato, basato sui ritmi della natura e su tradizioni arcaiche, che si stava rapidamente spopolando per effetto dell’inurbamento.

Deborah Mega

 

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DINO CAMPANA, VISIONARIO ALLA RIMBAUD

03 venerdì Feb 2017

Posted by maria allo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Fotografia, I meandri della psiche, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Dino Campana

La poesia di Dino Campana costituisce un unicum nel panorama letterario del primo Novecento. Anche se al fondo della psicologia e dell’arte c’è un sentimento lacerante di esclusione e di disarmonia vicino a molti altri poeti della sua generazione, nel disadattamento e nello sradicamento di Campana viene perseguito con insistenza un ideale di reintegrazione dell’io nell’armonia profonda delle cose.

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Fantasticheria

16 venerdì Dic 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Fantasticheria, Giovanni Verga

In questa novella tratta da Vita dei campi del 1880, Giovanni Verga fingendo di rivolgersi ad una raffinata donna cittadina di cui è innamorato, spiega le ragioni che lo spingono all’osservazione e al racconto delle vicende delle classi sociali più umili e disagiate. La loro filosofia di vita viene definita “ideale dell’ostrica” per il tenace attaccamento nei confronti della propria terra e delle proprie radici.

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Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci—Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: — Vorrei starci un mese laggiù! —

Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci—Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l’alba ci sorprese in cima al fariglione — un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. — Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. — Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: — Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita —.

Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così — per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano — quando ne mangiano — giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti… Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.

Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché. Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamentte il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. — Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; — ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà. Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant’è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l’elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il panchettino non c’è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio Posto della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com’è, vi aveva vista passare, bianca e superba.

Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove — forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti — e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante — sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro. Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un’altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, — o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri — oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro! Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro. Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole» accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche. La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra — un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria — «nei guai!» come dicono laggiù.

Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano; l’altro, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio. Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re», come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell’altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio — una grazia assai magra ad Aci—Trezza.

Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.

Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d’arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci—Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.

— Insomma l’ideale dell’ostrica! — direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi —.

Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. — Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente. Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: — che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. — E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.  

***

Il titolo sembra alludere ad una rêverie nostalgica e fiabesca in cui Verga anticipa la trama, i temi e i personaggi dei Malavoglia inoltre riflette sulla sua arte e fornisce alcune importanti indicazioni di poetica. L’autore ricorda un viaggio immaginario in Sicilia ad Aci Trezza e il dialogo ideale con una nobildonna francese, forse identificabile con Paolina Greppi, cui si rivolge direttamente e con cui Verga ebbe una relazione. Le coordinate spazio-temporali e il contrasto tra la città e le aree rurali, nel corso della novella, assumono grande rilevanza. All’inizio tutto appare romantico, la descrizione dei faraglioni, dell’alba pallida, delle casucce, mentre ci si sofferma ad osservare le bellezze del mare e del paesaggio. Gli ambienti descritti presentano un cromatismo simbolico: il verde, l’azzurro, il viola trasmettono l’idea del paesaggio romantico; il nero del paese è segno di vita misera, di difficoltà e di morte.

La donna all’inizio vorrebbe fermarvisi un mese ma dopo soli due giorni, si rende conto della monotonia della vita di paese da cui subito riparte. L’autore cerca di spiegarle le caratteristiche della vita di Aci Trezza, le difficoltà quotidiane degli abitanti, la miseria, la necessità di avere l’appoggio dei compaesani per sopravvivere. La società del paese è organizzata secondo regole e ruoli precisi e definiti, le stesse che governano la vita sociale delle formiche. Ecco la necessità di farsi piccoli come le formiche, di immedesimarsi per capire la realtà plebea alludendo così all’artificio della regressione. Si tratta del principio dell’impersonalità secondo cui il narratore deve eclissarsi e divenire un personaggio interno al mondo rappresentato. Di contro la donna, che proviene da una realtà cittadina completamente diversa, sazia di tutto e inebriata di feste e di fiori, é impossibilitata a comprendere. Com’è nello stile di Verga, spesso si utilizzano espressioni popolari o proverbiali. La gente di Aci Trezza viene spiegata con l’uso di metafore e similitudini come quelle dell’ostrica e della formica. Come le ostriche i paesani si aggrappano caparbiamente allo scoglio e resistono alla violenza delle onde anche grazie al loro attaccamento e alla solidarietà reciproca. A volte alcuni personaggi si staccano dallo “scoglio” del loro paese di loro spontanea volontà, alla ricerca di un miglioramento, di un’evoluzione che non riusciranno ad ottenere, il mondo infatti per loro, i vinti,  si trasformerà in un pesce vorace. I personaggi non hanno ancora né volto né nome ma in quelli abbozzati qui sono da ravvisare Maruzza mentre vende arance sull’uscio e guarda la donna bianca e superba, Padron ‘Ntoni vicino al cantuccio nero del focolare, Mena, rappresentata dietro i vasi di basilico e così via. Come gli animali, sono rappresentati in perpetua lotta con la natura per la sopravvivenza. Verga però è dalla loro parte, mentre osserva il reale e lo descrive, ci dona, come disse Sciascia, «la più vera e profonda dichiarazione di poetica che abbia mai scritto».

Deborah Mega

 

 

 

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Una rosa rossa

02 venerdì Dic 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, La grammatica di Dio, racconto psicologico, Stefano Benni

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Uno dei grandi meriti della scrittura in genere é fungere da strumento di impietosa e indiscussa critica dei costumi. Nella raccolta di racconti La grammatica di Dio del 2007, lo scrittore Stefano Benni rappresenta la realtà italiana dei nostri giorni, riflette sull’egoismo e sul cinismo di affaristi privi di scrupoli per i quali predominano le leggi di mercato e nulla contano gli altri.

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Notturno

18 venerdì Nov 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Deborah Mega, Gabriele D'Annunzio, Notturno

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E’ tempo che ogni falsa imagine di me cada.

Aegri somnia. 

Ho gli occhi bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi. Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata. Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. 

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Continuità dei parchi

23 venerdì Set 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Deborah Mega, Julio Cortazàr, racconto

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Giuseppe Migneco, Uomo che legge il giornale (1940)

Continuità dei parchi, tratto da “Final del juego” del 1954, è un racconto breve, ma a dir poco ingegnoso dello scrittore argentino Julio Cortazàr, il quale rivela ancora una volta la sua predilezione per la narrativa fantastica che presenta finalità conoscitive e che risulta dominante nella sua opera. L’unico personaggio del racconto é un uomo di cui si sa poco: vive in una casa di campagna adiacente ad un bosco di roveri e ama leggere nel suo studio dotato di una grande vetrata, che si affaccia sul parco circostante. Il protagonista sta ultimando la lettura di un romanzo che lo sta prendendo molto: tratta di una coppia di amanti che sta progettando di eliminare il marito di lei, unico ostacolo alla libera espressione del loro amore. L’uomo si assume il compito di uccidere il marito della donna che ama, la quale gli fornisce informazioni su come raggiungere la casa e come muoversi al suo interno.

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L’albatro

20 venerdì Mag 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Charles Baudelaire, Deborah Mega, Edgar Allan Poe, Samuel Taylor Coleridge

Albatros sul Mediterraneo di Salvatore Fratantonio

Albatros sul Mediterraneo di Salvatore Fratantonio

L’Albatros

Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!

Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher. Continua a leggere →

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Essere matita é segreta ambizione

06 venerdì Mag 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Ispirazioni e divagazioni, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Deborah Mega, Paulo Coelho, Valerio Magrelli

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disegno di Maria Cristina Costa

 

Essere matita è segreta ambizione.
Bruciare sulla carta lentamente
e nella carta restare
in altra nuova forma suscitato.
Diventare così da carne segno,
da strumento ossatura
esile del pensiero.
Ma questa dolce
eclissi della materia
non sempre è concessa.
C’è chi tramonta solo col suo corpo:
allora più doloroso ne è il distacco.

[Valerio Magrelli, da Ora serrata retinae, 1980]

 

Sarebbe bello potersi trasformare in una forma desiderata, chi sceglierebbe però un oggetto inanimato, comune e di scarso valore come una matita? Per di più essa si consuma anche se non completamente. Di lei però resta il segno, ossatura del pensiero. Continua a leggere →

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“Sono momenti belli: c’è silenzio” ELIO PAGLIARANI

05 giovedì Mag 2016

Posted by maria allo in Appunti letterari, ARTI VISIVE, Cinema, Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, PERSONAGGI, Poesie, SPETTACOLO, Uomini eccellenti

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Cetta Petrollo Pagliarani, Dino Ignani, Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Maria Allo

Elio Pagliarani ( photo di Dino Ignani)

elio_pagliarani2

La ragazza Carla è un poemetto narrativo di Elio Pagliarani che apparve per la prima volta sulla rivista “Il Menabò” nel 1960.
E’ diviso in tre parti, ulteriormente suddivise al loro interno in sottoparti. Definito dall’autore “racconto in versi”, il testo ripercorre in modi prosastici e narrativi la vicenda di Carla Dondi, giovane stenodattilografa che trova impiego in una ditta milanese. Continua a leggere →

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