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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Recensioni

“L’amore e tutto il resto” di Andrea Temporelli. Una lettura di Loredana Semantica

17 mercoledì Mag 2023

Posted by Loredana Semantica in CRITICA LETTERARIA, Recensioni

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Andrea Temporelli, L'amore e tutto il resto, Loredana Semantica

C’è analogia tra Andrea Temporelli e – a puro titolo d’ esempio – Cristina Campo, oppure Umberto Saba, Pablo Neruda, Italo Svevo, nel  senso che sono tutti autori che hanno adottato uno pseudonimo.  Gli pseudonimi separano mondi. Di qua il nome, di là gli altri. Da un lato l’essere dall’altro l’invenzione. Si opera la diversificazione, si celebra lo smarrimento,  pulsa la repulsa del limite, mescendo lo scoramento del vivere si varca il transito nell’impossibile. Si travalica la nominazione imposta che opprime e aliena, come un battesimo all’esistenza che incarta e squarta. Nello schermo il  pronunciamento, scevro da condizionamenti, si fa purezza d’inesistenza. L’impresa resta agganciare l’eterno allo scarto, partorire il trapasso, comprendersi fino alle scapole, ai polmoni in un’assurda, mai sazia, impagata ricerca di se stessi. Dentro uno pseudonimo si possono estrarre con l’uncino le ali dalle scapole e volare oltre i mondi. Edificare a parole un monumento d’amore e dolore. Non è poi così difficile per alcuni, nel senso che è simile alla vita. Eminentemente scrivere è un gesto antropico, gli animali non lo fanno, ma non è un gesto naturale, eppure per qualcuno scrivere è un atto di estrema naturalezza. Libera e conduce slancio e impulso,  come guidare una vettura nelle strade deserte senza che gli altri siano d’intralcio: passanti, veicoli, conducenti. Il dolore invece è diverso, spina o croce, è all’opposto gravoso, difficile da reggere, impregna l’essere, lo attraversa e viverlo il dolore dà alla scrittura una consistenza e una compostezza che flette le arterie, le irrora allo spasimo.

I poeti in definitiva non scrivono che d’amore, di dolore e di morte. I poeti degni di questo nome. Se un poeta non scrive di questi temi ha scritto sul ghiaccio.

La silloge di Temporelli edita da interlinea, s’intitola L’amore e tutto il resto, il titolo è sintomatico di un’ordine. Messo l’amore al primo posto cosa resta? Echeggia un anelito dickinsoniano

I argue thee
That love is life –
And life hath Immortality –

Io ti dimostro
che l’amore è vita
e la vita ha l’immortalità

Oppure come non ricordare l’ancor più famoso distico

That Love is all there is,
Is all we know of Love

Che l’amore è tutto
È tutto ciò che sappiamo dell’amore
.

Persino la morte svanisce a confronto dell’amore. Temuta, sfuggita, implacabile, irrimediabile, invocata nell’agonia per sollievo di sofferenza, la morte, nella lettura di Temporelli, è un “resto” insieme a tutto quanto d’altro c’è. L’amore domina su tutto. O meglio tutto si muove per amore, anche ciò che apparentemente non collega. Esso solo resta, ci sostiene, sopravvive. Quello ricevuto, quello donato, la sua memoria, è come un sigillo sull’anima, la forgia e la modella nella forma che essa ha nel momento in cui la eplichiamo sul foglio, tutta la memoria della nostra storia soccorre a tentare il travaso.

Alcuni dicono che si scriva dopo tante e tante letture, invece dopo tante e tante letture non scrivi, hai sulle spalle un tale peso che sprofondi, si scrive perché devi. E se devi lo fai anche prima di tante e tante letture, lo fai anche dopo, ma dopo i dubbi sono talmente tanti che dell’atto avverti tutta la responsabilità. Ti rendi conto che è un azzardo, che rischi il peccato di presunzione. Cosa puoi dire oltre ciò che è stato detto più e meglio da altri?  Questa consapevolezza, se iniziale, può darsi che paralizzi o inaridisca. Invece quando “devi” non ti fai domande e non hai risposte, continui nel flusso che trascina oltre i dubbi, in una sorta di chiamata necessaria, nostalgica, disperata. A volte filo di voce finissimo altre strido, pianto, volo bianco.

L’amore e tutto il resto è un libretto formato 10 x 15 per centotrenta pagine circa, copertina in carta goffrata color avorio. Il sommario ci informa che il libro si compone di nove sezioni indicate coi numeri romani, ognuna contiene da 5 a 10 poesie, eccetto le sezioni IV e IX, la prima costituita dal poemetto “Terramadre”, l’altra da “Postilla per l’alieno”, da ascoltare qui.

Ciò che trovo impressionante da sempre della scrittura poetica è come essa “ci” scrive, come coliamo filati parola per parola nello stampo della poesia, vi alberghiamo nudi,  per come siamo, spellati sulla pagina, buccia dopo buccia, incolliamo sul foglio le squame, le penne, le piume, ci spogliamo, lettera dopo lettera, verbo dopo verbo e in questo trapasso, evochiamo studi, memorie, attiviamo il nostro “genio”  per vestire il dire di senso, per sostanziare quel denudarsi, in tutta la nostra dolcezza, sdegno, asprezza, razionalità, nel ventaglio amplissimo degli “stati” del nostro essere qui ora e vivi.  Per trasferire al lettore uno scritto che sia denso di pensiero, corpo e non vacuità. Questo processo avviene chiaramente anche nella scrittura di Temporelli. Del resto è autore e critico di ampia esperienza, oltre che specialista della materia letteraria, cioè insegnante.

Il libro ha ricchezza di temi e compiutezza di pensiero. Vi si  legge l’uomo, la storia, le amicizie,  gli avvenimenti, patemi e patologie, la scrittura, l’infanzia, l’insegnamento, la religione, il collegio, gli amici, il calcio, lo studio, la morte e i tortuosi camminamenti riferiti con semplicità perché nodi affrontati e sciolti. Vi si leggono i molti interrogativi, perché, si tratta, lo dice l’autore, di un libro che si sviluppa in un arco temporale ampio di ben 27 anni, che ci sono tutti, si spazia da una A a una Z passando da molte porte, altrettante svolte. Un distillato di tanta vita.

Tutta la raccolta ha un suo tempo metrico percepibile sin dai primi componimenti, brilla in versi di felici illuminazioni, accostamenti originali su un apparecchiamento lessicale piano, scorrevole, appropriato. Il versificare è corredato da segni di interpunzione e talvolta da spaziature e a capo ad arte. E’ presente un sottofondo di sobrietà e vivacità, due fili conduttori dell’opera, per cui mai dire nulla più di quanto è necessario, in omaggio all’esigenza di sfrondare fino all’essenziale, e in secondo luogo non annoiare il lettore. Diversi testi hanno la solennità e l’accoratezza della preghiera. In tutto il libro non è tanto la ricercatezza dei termini che restituisce cultura, ma citazioni e riferimenti. Tra questi spicca l’incipit del commovente omaggio a Simone Cattaneo che riprende il dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io che diventa Ricky, io vorrei che tu, Davide, Massimo, Flavio, Alessandro ed io. L’amicizia è già tutta nella nominazione del consesso.

Lucenti i testi che raccontano la natura  e le memorie, gli smarrimenti, ve ne sono disseminati, belli e limpidi anche i canti d’amore,  intessuti a volte da tensioni sotterranee, sentori d’abbandoni o separazioni. Di altri testi la lettura è meno trasparente, si chiudono nell’ermetismo, talvolta l’oscurità vorrebbe un ausilio a dipanare il senso, ma forse è solo umana curiostà di intromettersi nel ventre ispiratore, aprire squarci di indiscrezione. Così nel poemetto Terramadre, dove si affronta il tema della morte con sviluppo drammatico – teatrale, racconti esperenziali, com-partecipazioni attoriali, essi concorrono al referto dell’ essenza dell’oscura signora, alla narrazione dell’impatto che l’agonia o l’evento producono e le ramificazioni interiori conseguenti alla perdita. E’ un fatto che giunti ad età avanzata abbiamo la vita costellata da mancanze dolorose, tanto più quanto più traumaticamente e precocemente è avvenuto questo invevitabile incontro e per le tante volte che avviene successivamente. Se ne parla qui con la consapevolezza che permea chi sa e può dirne senza apparire un balbettio d’esercizio letterario. Si direbbe che il poeta ha il piglio di chi fronteggia, non arretra e non cede, resiste, come in un corpo a corpo, in una sfida.

Postilla per l’alieno, che chiude il libro, ha un sentore del viaggio di Ulisse, appello rivolto a profani o a viaggiatori d’altri mondi, un messaggio d’onde radio verso porti astrali. Coniuga l’esotico e la citazione, propone destinazioni, ma non si tratta di luoghi qualunque: la Baia di Halong in Vietnam, il palazzo di Taj Mahal in India, il Cristo Redentore di Rio de Janeiro, la cascate del Diablo nell’Iguazù in Argentina, la Grande Muraglia Cinese e infine la quadriga della Basilica di San Marco a Venezia, sono tutti accomunati dall’essere di una stupefacente bellezza, tant’è che sono inseriti nell’elenco delle sette meraviglie del mondo oppure dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Temporelli cita poi l’affresco michelangiolesco de “La creazione di Adamo” nella Cappella Sistina, i poemi epici di Omero, gli angeli de “Il cielo sopra Berlino”, ed è nella chiusa che chiarisce come rifiutare tutta questa bellezza significa chiudersi  all’ amore, gesto che darà forse pace, ma svuota.

A cogliere la sostanza di tutta l’opera possiamo dire con Etty Hillesum  “Credo che il senso della vita sia nell’amore, nell’amore per gli altri, nell’amore per la natura, nell’amore per la bellezza, nell’amore per la verità. Credo che l’amore sia la forza più grande che ci sia, la forza che ci fa andare avanti, che ci fa sperare, che ci fa credere che la vita ha un senso.”

Preghiera

Angelo di Dio

                              nell’angolo di gelo

che sei il mio custode

                              e sai chi ci uccide

illumina e custodisci

                              nascondi e ripulisci

reggi e governa me

                              la lama dei perchè

che ti fui affidato

                             e Gesù ha affilato

dalla pietà celeste

                           nel cruore terrestre

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TITANiO di Loredana Semantica, Terra d’ulivi 2023. Una lettura di Antonella Pizzo

18 martedì Apr 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA E POESIA, Note critiche e note di lettura, POESIA, Poesie, Recensioni

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Antonella Pizzo, Loredana Semantica, POESIA, poesia contemporanea, Terra d'ulivi, titanio

TITANiO

Dopo L’informe amniotico [appunti numerati e qualchepoesia]  edito da Limina Mentis edizioni, 2015, opera prima di Loredana Semantica,  con prefazioni di Giorgio Bonacini e Rosa Pierno segnalato al premio Lorenzo Montano, esce la nuova raccolta di Loredana Semantica TITANiO edita da Terra d’Ulivi 2023.  Il titanio è un elemento metallico conosciuto per la sua resistenza alla corrosione, quasi pari a quella del platino, nonché per il suo alto rapporto tra resistenza e peso. È un metallo leggero, duro ma con bassa densità. Allo stato puro è molto duttile, lucido, di colore bianco metallico.

Il Titanio è il metallo ideale perché porta in sé due qualità opposte e ugualmente importanti, rappresenta l’equilibrio fra due proprietà intrinseche, la leggerezza e la resistenza.

La parola Titano deriva dal latino Titanus. I Titani vengono considerati come le forze primordiali del cosmo, che imperversavano sul mondo prima dell’intervento regolatore e ordinatore degli dei olimpici. C’è anche un IO graficamente inserito con la i in minuscolo a formare la parola che dà il titolo alla raccolta, suggerendo probabilmente che l’io poetico dell’autrice si qualifica,  si colloca, si identifica con la leggerezza e la durezza.

Le poesie sono sotto datate e seguono un ordine cronologico preciso,  sono in ordine progressivo cronologico dalla più vecchia alla più recente all’interno di ogni sezione,  ordinata per senso e omogeneità di stile e ispirazione. TITANiO raccoglie settanta poesie ripartite in 4 sezioni: 12 in Je est un autre, 21 in Biografia, 12 in Calligrafia, infine 25 in Sacrario. Esse scaturiscono da un lavoro, durato un anno, di riordino della produzione poetica dell’autrice degli anni che vanno dal 2010 al 2021, lavoro iniziato con la raccolta inedita In absentia vocis che è stata segnalata al Premio Lorenzo Montano del 2022.

Riporta l’autrice in prima pagina un breve testo tratto dalle Memorie di Adriano di Margherita Yourcenar    “Sono giunto a quell’età per cui la vita è, per ogni uomo una sconfitta accettata…  Ritrovavo in quel mito, (dei Titani n.d.r)  ambientato ai confini del mondo, le teorie dei filosofi di cui mi ero nutrito: ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia ad ogni speranza, tra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, tra il Titano e l’Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi l’armonia.”  Ciò ci induce a credere che questo lavoro di riordino sia scaturito dal  bisogno di Loredana Semantica di riuscire a comporre un’armonia, un equilibrio, fra la sua vita quotidiana ordinata e regolare e le bruttezze del vivere, fra le forze irrequiete dell’inconscio generatrici di metafore e sogni, fra il sonno  e la veglia,  fra il suo bisogno di bellezza che salva e la necessità dell’amaro pane, quell’armonia necessaria che non porta alla rinuncia della speranza e che consente piuttosto di bilanciare le due  parti contrastanti.

Da questo equilibrio di forze, proprio quando dall’incontro delle due parti potrebbero scaturire lampi e saette,  dall’attrito delle due, fluisce piuttosto precisa e misurata la sua poesia, quasi un lento ritmare,  a tratti nostalgica, velata di ironia, non cinica ma disincantata, rassegnata ma non troppo, che osserva con freddezza la  nuda e cruda realtà sperando però che le sue parole siano come semi dai quali un giorno nasceranno  fiori. Spargo semi nel mondo/non appariscenti/gli occhi profondi/chissà se ne sbocceranno fiori. Una poesia che ha una sua musica interna come una musica da camera che sembrerebbe tranquillizzare Io vorrei dormire/di più e più a lungo/il sonno dovrebbe coprire/ogni pensiero con la sua/coltre bianca di silenzi e neve.// in realtà provoca un vago senso di malessere, il suo sguardo disincantato si ferma sulle cose inanimate, su un fantomatico  direttore, che rappresenta il potere, sul lavoro che aliena e che spesso ci è alieno, negli immensi bla bla, sapessi come tutto gira intorno/senza senso/c’è un bla bla immenso/ nel quale non mi riconosco/quattro fessi al tavolo di fronte/ parlano e ridono/con la bocca ripiena di cibo. La casa e gli affetti familiari che sono il suo porto sicuro e la ripagano di quel senso di non appartenenza e ostilità avvertito nel quotidiano andare. Scrivo una dopo l’altra/cose elementari/quasi uno scavare dentro/ fino all’essenza//,  appartenenza che ritrova però nelle sue radici e nella loro ricerca delle quale lei sente d’essere la foglia terminale.

Non se questa sia ricerca spirituale/o piuttosto di radici.  C’è un acclamare alla parola salvifica che può essere occasione di riscatto e di ritrovamento del sé più autentico. Lo calpesto  se posso e l’odio/lo danneggio e rivendico/ inneggio alla parola/mio unico luogo labirintico. Oppure ancora Io starei immota al caldo/beata in un respiro lieve/aperto ai movimenti del corpo/e del torace lenti e morbidi/come una schiuma soffice. Bisogna comunque leggerla questa raccolta e farsi un’idea propria perché nessuna nota può essere esaustiva perché è vasta la materia trattata, trattandosi di vita.

Di certo si può dire che l’autrice sa scrivere bene, che la sua scrittura è matura, che scrive e frequenta il web poetico da vent’anni, che ha fatto bene a riordinare la sua significativa produzione poetica, affinché non venga perduta nei meandri di una memoria volatile di un pc, come quelle foto, spesso importanti e belle, che non facciamo stampare mai e che ci dimentichiamo di aver fatto, negandoci il piacere della vicinanza, ma che dovremmo trasformare in concretezza cartacea affinché si squarci la siepe della dimenticanza che oscura i ricordi e il sole. (Antonella Pizzo)

Testi

Abbiatemi per lontanissima
così lontana che tremano i cieli
nella mia bocca d’amianto
costretta da un solo cunicolo
abbiatemi per rarefatta
così sperduta molecola
che nello spazio non piove
neanche un raggio di luce
a forare coltre maledetta
la piracanta spinosa.

10.02.2017

Io sono qui
e qui è la mia casa
i miei profumi la crema
per il viso le borse le ciabatte
i miei vestiti e arredi
qui il mio cane il frigo ricco
di cose buone il mio lavoro
gravoso e senza sole
atomica che sfianca e fagocita
l’uranio impoverito dei miei giorni
qui il mio centro e debolezza
mia forza e sicurezza la sagoma
del tuo corpo confortevole
il capo bianco dei tuoi capelli corti
qui i miei figli quando capita talvolta
a ristorare l’attesa ostinata
tra un’uscita e l’altra
con gli amici.

5.4.2017

Dentro di me un romanzo
dalla nascita brulicante di cortili
alle gebbie d’acqua fredda e anguille
sperdute tra rovi cicale e frinire
oltre le cancellate in cima alle scale
nei posti della memoria
dimenticati dalla storia spariti dalla terra
arati dalle ruspe al suolo
che compaiono solamente
in flash incerti dei ricordi
quasi fossero dei sogni.
In un altro capitolo il presente
arroccato a qualcosa che si sgretola
mentre avanza il tempo inesorabile
senza fretta con la calma sicurezza
di chi non ha precisi appuntamenti
dagli ostacoli si vede
che franano i punti fermi
gli stessi che sul foglio con la penna
erano uniti in progressione
in forme di una certa consistenza
a cui appuntare piedi medaglie o certezze
d’essere un preciso essere
un puntino esatto sulla terra.
Adesso il finale ad effetto
sui palmi le stimmate rosse
nel costato lo squarcio incrostato
dell’eremita.

10.01.2020

biografia

Siti dell’autrice

https://liminamundi.com 

https://lunacentrale.wordpress.com/

Loredana Semantica

Nata a Catania, laureata in giurisprudenza, sposata, ha due figli, vive e lavora a Siracusa. Si interessa da molti anni di poesia, fotografia e lavorazione digitale di immagini. Proviene dall’esperienza  di partecipazione e/o collaborazione a gruppi poetici, di fotografia, arte digitale, litblog, associazioni culturali nel web e su facebook. Ha pubblicato in rete all’indirizzo http://issuu.com/loredanasemantica le seguenti raccolte visuali e/o poetiche: 

Silloge minima (7/11/2009) 

Metamorfosi semantica (3.2.2010), 

Ora pro nomi(s) (27.3.2010) 

Parole e cicale (13.8.2010) 

L’informe amniotico (27.2.2011), quest’ultima raccolta  opera selezionata al premio Opera Prima 2012 e finalista al premio Lorenzo Montano 2012” è stata pubblicata nel 2015 da Liminamentis.

Il 4 agosto 2012 ha pubblicato, sempre su issuu, la raccolta di riflessioni e racconti “I sette vizi capitali” e da ultimo una Trilogia poetica, formata dalle tre seguenti raccolte: “Apologia del silenzio“, “Nulla Parola” di 30 poesie ciascuna, e “Poesia delle feste” .

Con Feltrinelli/ilmiolibro, insieme a Deborah Mega e Maria Rita Orlando nel 2015 ha pubblicato La prima rosa antologia di 160 poesie e 28 immagini d’autore sul tema della rosa. Gestisce il blog personale  “Di poche foglie” all’indirizzo https://lunacentrale.wordpress.com/.

antonella pizzo

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Appunti di lettura: Angela Caccia, “L’alveare assopito”, Fara Editore, 2022.

14 venerdì Apr 2023

Posted by Francesco Palmieri in CRITICA LETTERARIA, Recensioni

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Angela Caccia, L'alveare assopito

 

Angela Caccia

“L’alveare assopito”

Fara Editore 2022

 

Appunti di lettura

 

Credo che non possa fare meraviglia, l’affermare che la poesia si faccia presente, a chi la scrive, come uno spostamento di tonalità della voce interiore o, ancora di più, come l’insorgere inaspettato di una voce seconda, del dire di un doppio io la cui dimensione esistenziale sembra assumere i contorni di un luogo sacro dalla volta in cui risuonano e rimbombano parole colme di echi, formule portatrici di suoni e significati densi di rimandi a cognizioni e sentimenti che dimoravano in un sottofondo psichico dove i paradigmi dello spazio-tempo non riescono a far valere l’imperatività delle loro regole ferree, ineludibili. Questa è l’impressione subito suscitata dalla lettura della prima lirica de “L’alveare assopito” di Angela Caccia:

 

Lei – io –

mi guarda vispa da una foto

non so chi delle due

sia più curiosa dell’incontro

lei punta le rughe

io tratti di tenerume

e qualcosa fra noi si spariglia

 

Accanto la sua ombra è lei la luce

che si staglia nel tempo che non c’è

verrebbe di voltarla

quella foto da cui sciamano presenze

le voci che da qui non si odono più

[…]

 

Il corsivo è mio, ma solo per sottolineare quanto scritto sopra circa lo sdoppiamento dell’io (“qualcosa fra noi si spariglia”), l’annullamento della dimensione spazio-tempo (“la luce/che si staglia nel tempo che non c’è”) e le suggestioni altre della voce poetante (“quella foto da cui sciamano presenze/le voci che da qui non si odono più”). E ancora più in là, l’evocazione non fraintendibile di quel luogo nascosto dove si va a depositare la memoria personale che, unitamente all’esperire emozionalmente l’esistenza, diventa il fattore generativo del verso (o l’alveare nascosto), il segno indelebile che il trascorrere fecondo dei giorni lascia permanentemente nella nostra anima senziente: “i ricordi non muoiono/s’addormentano vigili”.

Se la poesia rappresenta, così come credo, lo zenit espressivo della nostra comune umanità, quell’insorgere di un linguaggio verticale che riesce a dare profondità, spessore, evocazione, a un dire che altrimenti sarebbe semplicemente strumentale, si può affermare che Angela Caccia riesce a confermarlo, non solo per l’accuratezza della sua scrittura mai oscura, genuinamente metaforica, che si concede prevalentemente  frequenti enjambement e dislocazioni grafiche del verso e della parola, ma soprattutto per quella sua tensione umanissima (“chiamati a non perdere la vocazione/all’umano”) a sottolineare la grazia e la dannazione di essere nati e vivi, di non lasciare al tempo che ci oltrepassa, il piacere di nullificarci nel silenzio dello scorrere di anni ed ere (“…quale tempo/s’accorgerà che ce ne siamo andati?”). Si avverte netta una pretesa di valore, un diritto inviolabile ad esistere e ad esserci, pur nei confini inappellabili di una “condanna del colore”, nella consapevolezza della “fatica di essere rosa”, nella coesistenza di vita/morte, gioia/dolore, ricordo/oblio. Tutto ciò, unitamente ad altro che si potrebbe aggiungere, fa dire che la poesia di Angela Caccia è una poesia che riesce ad abbracciare i momenti apicali dell’accadere individuale o anche di quelle esperienze che si incidono profondamente e fatalmente nel destino di ciascuno di noi, partendo dalla convinzione che ogni soggetto umano nasce col nome di rosa, con la natura di un fiore, ma che sarà proprio quella genesi a costituire la sua stessa condanna:

 

E dopo la neve

l’aria rassodò sui rami

e ascoltammo l’ombra

cadere dagli alberi

mutilati del bordo sicuro

Il po’ di verde sconsolato

annusava ovunque luce

rovistava in sacche di grigio

ed abbandono

la condanna del colore

fu la fatica di nascere rosa

 

Momento apicale fra gli altri, è la cognizione del dolore, non come esito di un’esperienza infausta, elettivamente traumatica, ma come presa di coscienza dell’universale condizione di quel ‘male del vivere’ che la Poesia (da Leopardi a Montale, da Ungaretti a Quasimodo e, prima di loro e dopo di loro, altri ancora) non ha mai smesso di denunciare impotentemente al cospetto della Storia o, più arditamente, alle orecchie di un’entità superiore e nascosta (“all’Angelo colpevole dei veleni di ciò che passa”), dimostrando ancora una volta, e di più, il coraggio della protesta, della resistenza umana, l’ostinazione di uno slancio vitale immanente verso le meraviglie estatiche della vita: “Guardavo il buio impolverare/lenta la campagna quando/una dopo l’altra fiorirono le lucciole/ e fu come uno sconto di pena” e più ampiamente:

La rondine è viaggio

altezze

l’ampio i canti delle terre

che la speziano

le schiarite i tramonti le tempeste

l’immacolato che la contagia

e la chiama a tornare – io che

conosco da sempre il sogno di tutte

le rondini: la casa

col tetto rosso e

le finestre giallo sole che

disegnano i bambini

 

Rondine tra le rondini è Angela Caccia che ne conosce i sogni di tutte, metaforizzati in immagini di un’innocenza antonomastica, quella dei bambini (“…la casa/col tetto rosso e/le finestre giallo sole che/disegnano i bambini), che sa far vibrare la sua interiorità di quella tenerezza cui si fa riferimento in una delle motivazioni del premio Faraexcelsior 2022 (quella di Antonella Giacon) o nelle liriche di Lei madre ai figli, a pag. 33 e a pag. 36, una tenerezza che sembra estendersi all’Umanità intera e a tutto il Creato con occhi sapienti e perciò immancabilmente indulgenti. E tutto ciò nonostante la consapevolezza lucida che il cuore dell’uomo deve imparare a guardare anche a sorella pietra, a sopportare la visione di ciò che non avverrà mai (“Poesia/è ciò che non è accaduto”) e che infine sarà il silenzio l’eloquenza estrema e terminale di chi, dell’essere al mondo, ha cantato la gloria e l’orrore, la meraviglia e il disincanto, la luce smagliante e l’oscurità profonda:

 

n.3

 

Lascia che la parola torni insonne

che il cuore si riconcili alla pietra

 

 

Poesia

è ciò che non è accaduto

e calò il silenzio

come unica forma di eloquenza

 

 

FRANCESCO PALMIERI

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Il secondo piano di Ritanna Armeni

13 giovedì Apr 2023

Posted by Antonella Pizzo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Recensioni

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Antonella Pizzo, conventi, il secondo piano, Rastrellamenti, Ritanna Armeni, romanzo

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Il secondo piano, di Ritanna Armeni, edito da Ponte delle Grazie, 2023, p. 288

Dopo l’otto settembre del 1943, giorno in cui si comunicò che era stato firmato a Cassibile, in Sicilia, l’armistizio con il quale l’Italia si era arresa senza condizioni alle forze alleate, la speranza di essere liberati crebbe degli abitanti di Roma. In attesa che venisse finalmente sfondata la linea Gustav, i  partigiani lottarono  e resistettero cercando di contrastare i tedeschi con attentati e imboscate.  I   tedeschi però continuarono a occupare la città in un clima di terrore e violenza, facendo pagare ogni atto di ribellione con l’uccisione di civili inermi, aumentando le attività di ricerca e di cattura degli ebrei da deportare e sterminare.  ll 26 settembre il comandante della Gestapo, Herbert Kappler, pena l’arresto di 200 capi di famiglia, chiese agli ebrei 50 chilogrammi d’oro. La comunità ebrea con grande sforzo li raccolse  e li consegnò ai tedeschi sperando così di rabbonirli per un certo periodo. Le loro speranze furono presto deluse, il 16 ottobre del 1943 venne  dato l’ordine di arrestare e deportare gli 8.00 ebrei censiti. Le operazioni di rastrellamento  iniziarono già all’alba, i reparti delle SS  coordinati da Theodor Dannecker arrestarono in poche ore 1259 persone degli 8.000 previste, compresi anziani  e  bambini, il resto con enorme rabbia del comando tedesco sfuggì alla cattura. Il vaticano scelse la  via diplomatica e non prese posizione ufficiale anche se probabilmente agiva all’interno e in silenzio per contrastare gli abusi e le violenze perpetrati dai tedeschi.  Le chiese e i conventi furono perquisiti senza autorizzazione alla ricerca di partigiani, politici ed ebrei che si erano nascosti fra le mura Vaticane.

Il romanzo di Ritanna Armeni inizia proprio il giorno del rastrellamento degli ebrei nel ghetto romano. Continua a leggere →

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La malnata di Beatrice Salvioli

30 giovedì Mar 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

≈ Commenti disabilitati su La malnata di Beatrice Salvioli

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Antonella Pizzo, Beatrice Salvioli, einaudi, La malnata, romanzo

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La malnata edito da Einaudi stile libero è uscito il 21 marzo in Italia e subito dopo in Francia, Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Turchia, Bulgaria. Uscirà a breve anche negli Stati Uniti e in Germania, inoltre è in corso di traduzione in 32 lingue; pare che il romanzo abbia incantato gli editori di tutto il mondo. L’autrice è la giovanissima Beatrice Salvioni, un’esordiente uscita dalla Scuola Holden, così si presenta sul sito della suddetta: https://thewall.scuolaholden.it/allievi/beatrice-salvioni/  Volevo che la mia vita fosse un’avventura. A nove anni ho messo calze e succo di mela in uno zaino e sono scappata. È durata fino al cancello di casa. Ma da allora ho cominciato a scrivere storie. Classe 1995, ho conseguito una laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi sulle dinamiche della scelta nello storytelling interattivo. Frequento il secondo anno del college “Scrivere” presso la Scuola Holden di Torino. Ho vinto l’edizione 2021 del concorso per racconti inediti del premio Calvino con “Il volo notturno delle lingue mozzate”. Ho praticato scherma medioevale e ho scalato il Monte Rosa. Ho sempre pensato che la cosa peggiore della vita sia la sua assenza di senso narrativo. Per questo ho deciso di dedicarmi alle storie, qualsiasi forma decidano di assumere.

Il romanzo ha un inizio forte che inchioda alle pagine il lettore. L’ambientazione è  la riva del fiume Lambro. Tre sono i protagonisti della scena. Due ragazzine, Francesca e Maddalena. Il cadavere di un uomo riverso sopra il corpo di una delle due, è difficile scrollarsi di dosso un morto. Le due con molta fatica ce la fanno, infine cercano di nascondere il cadavere sotto una rete di tronchi  e rami, l’uomo ha sulla camicia una spilla con il fascio e il tricolore.

La storia è ambientata a Monza durante il periodo fascista, fra il 1935  e il 1936, nel periodo della conquista dell’Abissinia. Il romanzo racconta, per  voce di Francesca, l’amicizia indissolubile esistente fra lei e Maddalena Merlini detta la Malnata.  Francesca è un’adolescente di dodici anni  appartenente a una famiglia borghese e conformista, il padre produce berretti di feltro per l’esercito grazie all’interessamento sottaciuto della madre che ha una relazione extraconiugale con un fascista, il signor Colombo.  Maddalena è una ragazzina dal padre assente, appena più grande di Francesca, appartenente  a una famiglia indigente. La Malnata ha altri due fratelli, Edoardo, che per lei è come un padre, e Donatella, fidanzata con il figlio maggiore dei Colombo. Maddalena si sente responsabile delle sciagure occorse alla sua famiglia, come la morte del fratellino Dario, caduto dalla finestra di casa; l’incidente del padre, che ha perso una gamba in un ingranaggio della fabbrica.

Rosario Chiàrchiaro, personaggio nato dalla penna di Luigi Pirandello, è stato scacciato dal banco dei pegni perché era considerato uno Jettatore, al suo passaggio, tutti fanno i più svariati segni scaramantici: toccano il ferro, fanno le corna. Così dato che è considerato tale vuole  un riconoscimento ufficiale, al giudice D’Andrea chiede di volere una patente di iettatore. Rosario Chiàrchiaro era un malnato come Maddalena, come la cooprotagonista,  infatti quando la incontravano le donne dicevano diocenescampi e si facevano un frenetico segno della croce, gli uomini sputavano a terra. La malnata non aveva richiesto a nessuno la patente ma indossava quel soprannome come una corazza. Le accuse della gente diventano il suo senso di colpa ma anche la sua forza.

Francesca passando ogni giorno dal ponte del fiume Lambro vede questa ragazzina che gioca sulla riva del fiume con i maschi che si diverte, e ne è conquistata. I maschi che la seguono sono Matteo e Federico, il figlio della influente famiglia fascista dei Colombo, che con lei giocano sul Lambro e pendono dalle sue labbra.

Maddalena la affascina, vuole diventare sua amica, nonostante la Malnata sia disprezzata da tutti. Grazie alla complicità nata in seguito a un furto di ciliegie, finalmente le due lo diventano.  Tra i personaggi che gravitano attorno a Maddalena e a Francesca, oltre a Matteo e Federico, ci sono anche Tiziano, il fidanzato di Donatella, e Noè, il leale figlio del fruttivendolo. Francesca scoprirà grazie a  Maddalena l’importanza della libertà di opinione e la non sottomissione, l’importanza della verità. Imparerà a combattere gli abusi, il sessismo, l’oppressione,  a far sentire la sua voce. Imparerà a  ribellarsi alle piccole e grandi ingiustizie con cui convive.

La Malnata diventa il suo esempio di vita, il punto di riferimento. Sarà lei a raccontarle quello che accade al quando si diventa donne “ Noi femmine non ci dobbiamo schifare del sangue”. Le due si aiutano reciprocamente, Maddalena grazie a Francesca torna a scuola, sostenuta anche dal fratello Edoardo che ci tiene alla sua istruzione. La famiglia della Malnata avrà anche altre disgrazie oltre a quelle che già hanno l’hanno colpita, ma di tutto ciò la Malnata non ha colpa.

La storia di Maddalena e Francesca è una storia senza tempo. Ricorda per certi versi L’amica geniale di Elena Ferrante.  L’amicizia fra due ragazzine diverse per ceto e carattere, ma in generale anche il sentimento di amicizia e la lealtà di Noè, che supera ogni ostacolo ed è più forte di ogni interesse materiale in confronto a certi  rapporti  malati narrati nel romanzo. Il disagio delle ragazze nei confronti del proprio corpo che cambia con l’arrivo del mestruo, gli sguardi degli uomini che fanno sentire in colpa e che mettono in imbarazzo. Il fascismo sembra preso come spunto per via dell’ideologie  sessiste, la considerazione delle donne pari a zero, buone solo per fare figli, e l’ipocrisia imperante. Dopo l’inizio che fulmina, il romanzo procede pigramente, sembra che non accada nulla, e  quello che accade si svolge  con estrema lentezza. Poi il romanzo ha un balzo, prende il via, come se la parte centrale sia stata scritta in quel modo, affinché Francesca potesse avere la forza per arrivare più velocemente. Insomma il romanzo è un romanzo storico e di formazione, è  bello, avvincente,  veicola un messaggio importante,  mi è molto piaciuto, in pratica l’ho divorato, però, mio limite, non riesco ad afferrarne l’unicità nella storia e nell’impianto narrativo o in altri ambiti, tanto da fare sgomitare le case editrici per accaparrarselo (così almeno si legge in giro vedi ansa),  in libreria ce ne sono tanti di altrettanto ben scritti, ma ben venga anche questo, consiglio di leggerlo.  Antonella Pizzo

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Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone

16 giovedì Mar 2023

Posted by Antonella Pizzo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Recensioni

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Antonella Pizzo, Maria Grazia Calandrone, romanzo, splendi come vita

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E le parole vanno via da noi, dalla cera impassibile dei nostri volti, e attivano le leve submarine di altri esseri umani, uguali a noi. Che splendono, talvolta, come noi splendiamo. Senza saperlo. (p. 13)

Maria Grazia Calandrone orfana due volte, privata dei genitori biologici, poi di quelli adottivi, nel romanzo Dove non mi hai portata edito da Einaudi nel 2022, proposto da Franco Buffoni al premio strega 2023 “per la tenuta stilistica e la capacità dell’autrice di coinvolgere il lettore in una vicenda storica e umana al calor bianco”, indaga sugli avvenimenti riguardanti la vita e la morte dei suoi genitori biologici. Oltre al succitato Dove non mi hai portata la Calandrone ha scritto nel 2021, edito da Ponte alle Grazie, il romanzo Splendi come vita, che riguarda la sua vita vissuta accanto alla madre adottiva.

Maria Grazia Calandrone, poetessa notevole, ha scritto sotto forma di romanzo una storia autobiografica, da lei definita lettera d’amore alla madre, narrata in prima persona dove racconta, tramite frammenti, immagini e inquadrature, rievocazioni, nel linguaggio poetico a lei congeniale, il complicato e difficile rapporto fra lei e la madre adottiva: Consolazione, detta Ione. Nata nel 1916, era moglie di un parlamentare comunista, insegnante di lettere, colta ed elegante, bionda e bella, così come appare nelle foto e nella copertina del romanzo con la piccola Maria Grazia in braccio. Non ho ancora letto Dove non mi hai portata e, per chi non avesse letto nessuno dei due romanzi, probabilmente è preferibile leggerli entrambi iniziando da Splendi come vita in modo da aderire al tempo della storia e alla stesura della Calandrone.
Un ritaglio di un famoso giornale dell’epoca datato 10 luglio 1965 riporta la notizia che, dopo aver abbandonato nel Parco di Villa Borghese la propria figlia Maria Grazia di 8 mesi, una donna si era tolta la vita buttandosi nelle acque del Tevere assieme al padre naturale della bambina, anche lui annegato. Lei è Lucia, bruna Mamma biologica. Maria Grazia è figlia dell’amore quindi per la società di allora figlia della colpa. La notizia del ritrovamento nel parco della piccola e indifesa Maria Grazia fa scalpore ed emoziona la gente, il giornale di cui sopra scrive in neretto che la bimba NON HA PIU’ NESSUNO. Continua a leggere →

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Appunti di lettura: Francesca Innocenzi, “Formulario per la presenza”, Edizioni Progetto Cultura.

10 venerdì Mar 2023

Posted by Francesco Palmieri in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Formulario per la presenza, Francesca Innocenzi

 

 

Francesca Innocenzi

“Formulario per la presenza”

Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2022

Appunti di lettura

Come dichiara l’Autrice nella Postfazione, questa plaquette di venticinque testi (se ho contato con precisione) è un’antologia di versi da lei stessa curata, comprendente poesie comparse nelle tre sillogi pubblicate prima dei quarant’anni e fino al 2019; operazione, questa, non certo dettata da una forma di autocompiacimento narcisistico (o “autocelebrativa” come precisa Lei stessa) bensì come “esigenza di riunire quelle poche liriche” ancora in grado di essere risonanti, ancora rispecchianti e vivide nel loro portato di senso, contesto e causalità. Liriche quindi come recupero del vissuto significante, come permanenza e persistenza di una presenza mai estinta, attimi di esserci che la memoria attualizzante recupera intatti, quasi fossero paradigmi esistenziali, lezioni imprescindibili apprese come epifanie di conoscenza essenziale, pur avvenute nella dominanza di un dolore incancellabile che ancora richiede di essere trasceso, purificato dalla parola poetica conservandone tuttavia integro, testardamente e programmaticamente, il suo valore pedagogico, il marchio a fuoco e indelebile di vita attraversata e vissuta. Ci troviamo quindi nella dimensione del ricordo, di un memorare che non vuole essere una forma di ripetizione mentale e automatica di climax esperienziali ormai depotenziati dal trascorrere del tempo e dalla ormai acquisita distanza emozionale che offre la progressione biografica, bensì nel suo esatto contrario: nel pieno di un flusso di coscienza che sembra aver incastonato in se stesso il miracolo della resurrezione, della ri-comparsa vitale delle atmosfere, dei colori, della luce e delle relazioni da cui sono poi scaturite le parole vive, ora gioiose ora invece, come dice Ungaretti, scavate in un abisso. E, come per darne subito la consistenza e il senso, ecco che il volumetto si apre con una lirica che sembra riferirne subito la peculiarità testuale e tematica:

Un ricordo

 

ombre di gatti

sono strisce di bisce

serpeggianti verso gli orti.

Tutto è passato

ma sento ancora il profumo del sole

su quei drappi abbandonati al vento

(estate 1995)

 

Proprio qui è visibile la chiave ermeneutica della poetica sottesa al memorare della Innocenzi, quando dal quarto verso scrive: “[…] Tutto è passato/ma sento ancora […]”, dove l’espressione passato/ancora assume l’aspetto semantico di un iperossimoro, una conciliazione di opposti, una tesi/antitesi che confluisce con naturalezza nella sintesi del termine indicato già nel secondo nome del titolo dell’opera, “Formulario per la presenza”, ossia un prontuario di poesia presente, un vademecum dell’anima, di quel luogo astratto (avrei potuto dire spirituale) dove le categorie dello spazio-tempo vengono annullate dalla macroscopia del dappertutto e del per sempre. A voler solo accennare ai temi fondanti e fondativi della poetica della Innocenzi, si può sinteticamente dire che essi esprimono una volta ancora – e mai di troppo – quelli che possono essere considerati gli assi portanti, strutturali, dell’antropologia universale, i lasciti sensibili dell’inconscio collettivo e della coscienza comune filtrati ontogeneticamente dalla complessità e profondità dell’anima individuale: essi vanno dall’esperienza della gioia (sempre troppo breve) ai morsi acuti del dolore (sempre troppo lungo), dall’euforia di stare al mondo e nel mondo alla caduta nel baratro della disintegrazione interiore, dalla innocente presunzione di onniscienza – tipica dell’età ingenua che non è solo l’infanzia – fino al sentirsi a posteriori “frodati di risposte”,  in un “dopo [che] è un codice a barre sul nulla”. Un dire poetico in fondo incastonato nei temi e nei motivi della classicità di quel percorso individuale e personale che chiamiamo esistenza ma, del resto, come si potrebbe presumere e pretendere di non essere ciò che ontologicamente e immanentemente siamo: fragili fibre di questo immenso universo. Esseri umani.

………..

è un agosto strano

l’erba del prato non ingiallisce

il fogliame persiste sui toni del verde.

sbirci in altre vite, fai il conto del tempo

ti trovi indietro.

torni a guardare il prato, lui sa da sé

quel che deve diventare

…………

 

cosa tu sei

se non la foglia del gelso appena appesa

se non la mela morsa, triturata

se non la spugna intrisa

d’acqua fatta nera.

sei insieme tutto questo

e ogni cosa insieme è in te divisa.

tu sai il dolore che ti taglia

via dal mondo

come sulla pelle madida ferita.

…………..

 

a te che hai ispessito la pelle del cuore

 

a te che hai ispessito la pelle del cuore

con blasfemie irte d’olio bollente

darei le primizie del bianco

mattino.

detergerei di te l’amaro

come questo panno liso il pavimento

se non ti scorgessi volto multiforme

strati di vuoto e di veleno

su scempi di ferite senza sangue.

 

 

FRANCESCO PALMIERI

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Pedro Eiras, “Bach”, Il ramo e la foglia edizioni, 2022. Nota di lettura di Deborah Mega

06 lunedì Mar 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Bach, Pedro Eiras

 

Pedro Eiras, “Bach”

Il ramo e la foglia edizioni, 2022

Note al testo e alla traduzione di Michela Graziani, Università degli Studi di Firenze

Postfazione di Claudio Trognoni, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

 

Che cos’hanno in comune personaggi come Anna Magdalena Bach, Esther Meynell, Glenn Gould, John Cage, Gottfried Wilhelm Leibniz, solo per citarne alcuni, dal momento che non sono neanche coevi o della stessa nazionalità? Nulla sembrerebbe eppure i rimandi esistono se soltanto ci si lascia coinvolgere dall’appassionante lettura e analisi di un romanzo inconsueto e originale. Attraverso la pubblicazione di “Bach” di Pedro Eiras da parte de Il ramo e la foglia edizioni abbiamo modo di conoscere in Italia, nella traduzione di Michela Graziani, l’autore portoghese e allo stesso tempo di approfondire le connessioni esistenti tra diversi personaggi tutti legati alla figura sapientemente evocata, del grande Johann Sebastian Bach. Si tratta di un’opera a metà tra realtà documentata e finzione che, com’è precisato nella postfazione di Claudio Trognoni, “non è un insieme di racconti, non è un trattato musicale, non è un diario né una biografia” bensì un’opera narrativa composta da quattordici testi, apparentemente disomogenei per genere eppure collegati e connessi tra di loro. Non si tratta di un libro per eruditi, certamente è un libro interdisciplinare, in cui è garantita la compenetrazione tra le arti, non esclude il lettore che non abbia competenze musicali anche perché consente diversi livelli di lettura del testo: letterario, musicologico e filosofico. Ogni testo è connesso in qualche modo al precedente o al successivo, in un sapiente gioco a metà tra il documentarismo erudito e la riscrittura fittizia. Eiras ha fatto riferimento anche al sistema di catalogazione BWV o Bach-Werke, che permette di riferirsi con certezza a una precisa composizione di Bach fra le oltre mille censite da Wolfgang Schmieder, autore del catalogo. Il primo documento, risultato di una mistificazione letteraria riuscita tanto è verosimile e intensa, è una lettera scritta da Anna Magdalena Bach-Wilcke, musicista ella stessa e seconda moglie di Bach. La donna si presenta come vedova del direttore di Musica della città e Kantor della Scuola di San Tommaso, per garantirsi protezione per i figli più piccoli e per quello dall’intelletto rimasto semplice e il diritto sancito dalla tradizione che prevedeva che le vedove dei Kantori godessero per sei mesi del trattamento economico che i mariti ricevevano, come già avvenuto alle vedove di Kuhnau e di Schelle. Anna Magdalena e Johann Sebastian ebbero insieme tredici figli, di cui sette morirono in giovane età. Dopo la morte del compositore, nel 1750, i figli entrarono in contrasto tra loro e ognuno di loro intraprese la propria strada. Anna Magdalena, infatti, visse con le sue due figlie più giovani, Johanna Carolina e Regina Susanna e con Catharina Dorothea, figlia di primo letto del coniuge. Nessun altro familiare la aiutò economicamente, fatta eccezione per le figlie. Con dovizia di particolari biografici, Anna Magdalena informa che i figli sarebbero stati accolti dal loro fratellastro Carl Philipp Emanuel Bach, figlio del suo compianto marito e della sua prima moglie, Maria Barbara Bach, il quale risiedeva a Berlino ed era clavicembalista  al servizio di Federico di Prussia, per il quale aveva composto l’Offerta Musicale, composta “da un ricercare a sei voci e un altro a tre, dieci canoni, e una sonata”. Il genero Altnickol e sua moglie, si sarebbero occupati di Gottfried Heinrich. La ricerca di Pedro Eiras ha consentito di annotare dettagli relativi all’inventario e alla ripartizione dei beni del compositore tra la vedova e i nove figli rimasti in vita. Anna Magdalena, in particolare, lamenta il fatto che i figli Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel si fossero impadroniti degli strumenti e delle partiture inoltre che con il passare del tempo, neanche poi tanto, fossero cambiati la musica e i gusti del pubblico. Contrappunto, fughe e corali per organo, un tempo tanto apprezzati erano ormai considerati pesanti e oscuri. La vedova fa riferimento anche alla querelle intercorsa tra il suo compianto marito e Johann Adolf Scheibe che riteneva le opere troppo abbellite e in contrasto con la semplicità della natura. Rievoca anche i posti in cui il celebre compositore aveva ricoperto ruoli di grande importanza anche se modesti rispetto a quelli rivestiti da Händel. La donna conclude la lettera dicendo di avere quarantanove anni dunque di essere invecchiata e di essere prossima alla morte. Avendo perduto sette dei suoi tredici figli, le sembra di sentirli nella casa vuota così come continua a sentire dei passi e a vedere un’ombra tra le scale, quella di suo marito, il vecchio incorreggibile Johann Sebastian Bach. Il secondo testo è dedicato a Esther Meynell, autrice di The Little Chronicle of Anna Magdalena Bach, pubblicata nel 1925 dalla casa editrice Chatto & Windus, in forma anonima e di cui Eiras possiede l’edizione edita da Chapman & Hall Ltd a Londra nel 1954. Si tratta di una narrazione in prima persona, attribuita alla vedova di Bach, che avrebbe deciso di scrivere le sue memorie dopo la visita di un vecchio alunno del compianto marito. Eiras cita anche altre edizioni oggetto di ricerca come quella portoghese con traduzione di Maria Osswald, edita a Lisbona nel 1945, per la casa editrice Aviz e afferma che certamente tra le fonti delle informazioni va ricordato lo studio dello storico Philipp Spitta, edito a Lipsia tra il 1873 e il 1880. Nel terzo saggio si presentano due cineasti francesi contemporanei, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, creatori di film sperimentali che hanno permesso loro di essere annoverati tra gli autori più originali del cinema del XX secolo. Furono creatori di un lungometraggio dal titolo Cronaca di Anna Magdalena Bach, realizzato nel 1968 ma la cui gestazione risaliva agli anni Cinquanta. Si procede poi con Gustav Leonhardt, clavicembalista, organista e direttore d’orchestra olandese, interprete delle opere di Bach. Partecipò al film di Jean-Marie Straub, sopra menzionato, in qualità di musicista e di attore nel ruolo di Bach. Nell’opera, nel 1973, scrive una lettera all’austriaco Nikolaus Harnoncourt, clavicembalista e direttore d’orchestra anch’egli, con il quale incise tutte le cantate di Bach. Nella lettera descrive lo stato dei lavori di restauro della sua casa, circostanza che lo pone in una condizione di preoccupazione per il fatto che i clavicembali fossero stati trasferiti nelle varie stanze. Informa poi il suo interlocutore di aver completato l’incisione dei ventiquattro preludi e fughe del primo libro e di essere consapevole che potrebbe averli interpretati in modo diverso dalle intenzioni del compositore, anche perché Bach aveva fornito pochissime indicazioni di tempo. Glenn Gould è l’altro musicista a cui è dedicato un saggio, annoverato tra i più grandi pianisti mai vissuti, qui è ricordato per le registrazioni di musiche di Bach. Si parla anche di John Cage e del suo esperimento nella camera anecoica dell’università di Harvard, una stanza insonorizzata e acusticamente trattata, in cui poter “ascoltare il silenzio”, da cui ricava la consapevolezza dell’impossibilità di ottenere il silenzio assoluto. Il saggio successivo ritrae il filosofo Leibniz, sofferente per la gotta e i dolori articolari, mentre si sofferma a pensare al suono infinitesimale di un fiocco di neve. I suoi pensieri lo conducono al ricordo dell’ascolto di una passacaglia e fuga, eseguite con un organo di Arnstadt tre anni prima da un giovane musicista (Bach?), che “sdoppiava un tema semplice in un gioco di figure così inaspettate, in così profonda armonia”.

Maria Gabriela Llansol invece è una scrittrice e traduttrice portoghese contemporanea che, nel 1977 ha scritto O Livro das Comunidades (Il Libro delle Comunità), libro molto caro ad Eiras, dedicato a incontri, dialoghi e reinterpretazioni del pensiero di scrittori, artisti, pensatori e mistici. La potenza della musica è affermata anche da Martin Lutero. Siamo a Wittemberg nel 1528. Lutero, poco prima della dipartita della figlia Elizabeth che ha contratto la peste, riceve la visita di Philipp Melanchton, teologo tedesco e suo amico, protagonista con lui della Riforma protestante. Dopo varie considerazioni sul concetto che un uomo diventi vulnerabile nel momento stesso in cui sia divenuto padre, afferma che “la musica è la nostra seconda scienza, subito dopo la teologia. È un dono di Dio. Allontana le tentazioni e i cattivi pensieri.” È per questo motivo che scrive inni, perché la musica è l’unica consolazione degli uomini. Non dimentichiamo che nella Chiesa di San Tommaso, dove Bach lavorò come direttore musicale per ventisette anni, Martin Lutero vi discusse i meriti della Riforma. Nel saggio dedicato a Jeshua Ben-Josef, cioè all’uomo- rabbino ( Gesù?) che visse e fu crocifisso intorno al 33 d.c. sotto Ponzio Pilato, Eiras ricerca tutte le occorrenze e le citazioni dedicate alla musica e contenute nella Bibbia e i vari riferimenti a molti canti di adorazione e a molti strumenti come flauti, trombette, trombe, corni, cetre, salteri, arpe, lire da dieci corde, tamburelli, cimbali; non va dimenticato che alcuni chiameranno Bach “quinto evangelista” come se l’ultima buona novella fosse stata scritta in musica. Gli ultimi saggi sono dedicati a Esther Hillesum, scrittrice olandese ebrea, vittima dell’Olocausto, che descrive il suo viaggio senza ritorno passando per Lipsia. Lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, ebbe la possibilità di salvarsi, ma forte delle sue convinzioni umane e religiose, decise di condividere la sorte del suo popolo. Le pagine dedicate a Ich habe genug BWV 82, (in tedesco, “Ho abbastanza”), cantata di  Bach, scritta a Lipsia per la ricorrenza del 2 febbraio 1727, per basso solista, oboe, archi e basso continuo, sono volutamente bianche come a voler far parlare la musica. Si tratta probabilmente di un silenzio metaforico, ulteriore rimando a Cage o al silenzio della musica durante i viaggi della deportazione e al dramma della Shoah che ancora oggi nessuno è riuscito a spiegare. Il silenzio diviene anche reazione al perenne rumore/inquinamento acustico di fondo della contemporaneità. Si cita a questo proposito José Tolentino de Mendonça, che afferma la necessità di un’iniziazione al silenzio cioè all’ascolto. L’ultimo saggio è dedicato ad Albert Schweitzer, Premio Nobel per la Pace, medico, filantropo, musicologo, organista franco-tedesco, appassionato di musica classica e in particolare di quella bachiana. Non a caso pubblicò J. S. Bach, il musicista poeta, in cui raccontò la storia della musica del compositore e dei suoi predecessori e analizzò le sue opere più importanti. Si fece promotore fino alla sua morte di missioni umanitarie in Gabon, dove aveva fondato l’ospedale di Lambaréné e dove curava la popolazione del luogo. In quest’opera monumentale Eiras attraverso l’approccio filologico e gli intrecci intertestuali e di contenuto coinvolge il lettore, lo appassiona e lo trasporta in coordinate spazio-temporali lontane dall’uomo contemporaneo. Viene esaltata la funzione catartica e totalizzante della musica di tutti i tempi e il tema universale della vita e della morte.  Oltre al silenzio di cui si è già ampiamente parlato, l’altro fil rouge che è quello di maggior interesse per me, è quello della genitorialità, già messo in evidenza da Trognoni in Postfazione e ricorrente frequentemente nel libro, quella di Bach e Anna Magdalena, di Martin Lutero, nella parabola del figliol prodigo a cui si fa riferimento nel testo Jeshua Ben-Josef, unico episodio del Nuovo Testamento in cui sia presente la musica. Anche nell’ultimo testo del libro, intitolato 2002, il narratore si rivolge a una bambina che culla sulle note di “Mache dich, mein Herze, rein”, aria tratta dalla Passione secondo Matteo. Concludo questa lunga nota con una significativa citazione dell’autore che ancora una volta spinge il lettore a riflettere e a resistere: “Non si può risuscitare il XVIII secolo, ma inventare il passato in base al nostro desiderio.[…]In ogni parola di questi documenti settecenteschi leggo il passato, il presente e ciò che persiste del passato nel presente.”

© Deborah Mega

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Mi limitavo ad amare te

02 giovedì Mar 2023

Posted by Antonella Pizzo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Recensioni

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Antonella Pizzo, Narrativa, romanzo, Rosella Postorino

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Il nuovo romanzo di Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te, edito da Feltrinelli nel 2023 p.352, proposto per il Premio Strega 2023 da Nicola Lagioia, è un romanzo ispirato a vicende realmente accadute, così come il precedente e bellissimo Le assaggiatrici  ambientato in Germania durante la seconda guerra mondiale, che trae ispirazione dal racconto di Margot Wölk la quale a 96 anni confessò di essere stata una delle assaggiatrici del cibo di Hitler nella caserma di Karusendorf. Le assaggiatrici edito nel 2018 da Feltrinelli ha venduto, fra l’Italia e l’estero, 300.000 mila copie e ha vinto il Premio Campiello 2018.
Le vicende narrate dal romanzo Mi limitavo ad amare te partono da Sarajevo durante il conflitto della Bosnia – Erzegovina degli anni ‘90. Il racconto inizia nel 1992 e prosegue fino al 2011, durante una guerra combattuta vicino casa nostra ma che forse buona parte degli italiani ha vissuto con un certo distacco, come se gli orrori accadessero  lontano anni luce da noi e non nell’altra sponda dell’Adriatico. I protagonisti del romanzo, Omar, Senadin, Ivo, Danilo e Nada, non sono realmente esistiti ma le loro vicende romanzate sono alquanto verosimili. Nel 1992 Sarajevo era stata posta sotto assedio e veniva bombardata da mesi, mancavano luce, acqua e cibo. Gli educatori e i responsabili dell’orfanotrofio  Ljubica Ivezić dopo lo scoppio di una bomba nell’istituto, che aveva causato il ferimento di due bambini, decisero che i minori ospitati venissero portati in salvo in Italia. Così gli orfani e bambini disagiati, che vivevano nella struttura, furono fatti salire su un pullman per Spalato per essere condotti in un luogo sicuro lontano dalla guerra. Da Spalato furono trasferiti in aereo a Milano e quindi divisi fra Rimini e Monza per trascorrervi le vacanze estive. Continua a leggere →

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“Dappertutto stando fermi” di Luca Masala. Una lettura di Rita Bompadre.

24 venerdì Feb 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Dappertutto stando fermi, Luca Masala, Rita Bompadre

 

“Dappertutto stando fermi” di Luca Masala (L’Erudita, 2022 pp. 113 € 16.00) è un libro caratterizzato da una combattente espressività e da un’ampia intensità di significato. L’autore inscrive l’intuizione profonda dell’inquietudine attuale, attraversa l’abissale superficie del vuoto spirituale, comprende l’assenza di un principio solido di riferimento, sfida il conflitto ordinario contro l’estraneità emotiva, conosce il disorientamento esistenziale. La poesia di Luca Masala dichiara l’indefinibile disagio nei confronti della frammentata condizione vitale, lacera la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, rilegge la frenetica, contrastante, realistica spinta introspettiva. I testi evidenziano la crisi dei valori, aggiungono il suggestivo incedere dei sentimenti lungo il cammino imprevedibile della vita, confermano la propria autonomia stilistica, continuano a sostenere la spietatezza delle difficoltà e l’accusa dell’incomunicabilità. Il poeta accorda l’impulsiva necessità di orientare un senso poetico alle relazioni umane, alla concezione del mondo, ritrova nel passaggio elegiaco l’interpretazione della memoria e del tempo. “Dappertutto stando fermi” è un suggerimento felice che arriva a destinazione, oltrepassa l’accelerazione delle umane distrazioni istintive, promuove un percorso lungo il senso contemplativo del ritmo interiore, in viaggio intorno alla consapevolezza. Il libro ospita il luogo immutabile dei ricordi, racchiude la fragilità delle illusioni, scopre i frammenti della quiete. Luca Masala cerca la poesia in ogni ispirazione quotidiana, coglie l’essenza della qualità evocativa delle parole, ascolta la rivelazione del sentiero incontaminato dell’anima. Concentra la luce infinita della meraviglia scolpita nella sensazione dell’appartenenza, disegna la prospettiva indistinta della solitudine con immagini offerte al confronto con la realtà, nel precipizio di una distorsione temporale, nella metafora di una visione catartica. Rivolge lo sguardo all’entità romantica e dolorosa della misura etica della lontananza, tenta di ridurre la dilatazione della distanza e della vacuità. “Dappertutto stando fermi” raggiunge la sensibilità del cuore, il territorio stabilito della reciprocità affettiva, regola la frequenza viscerale, tocca il termine di una permanenza dentro la dimora significativa del sentire, nel riflesso contraddittorio tra la continuità e la dimenticanza. I versi circondano la cognizione invisibile del disincanto, l’impulso malinconico e amaro del sogno fatalmente perduto. La corrispondenza della natura umana, in ostinata lotta tra equilibrio e stabilità, orienta l’armonia della poesia, indirizza la simmetria costante della staticità sospesa verso una dinamica empatica delle esperienze, filtra il percorso della semplicità. La sostanza autentica di Luca Masala riflette l’autenticità e la purezza dell’arte poetica, compone l’estratto di ogni promessa di speranza, include la capacità profonda e coraggiosa dell’ascolto, l’efficacia confortante e sorprendente del pensiero. Luca Masala dichiara l’affabile sincerità, apre il solco tracciato della scrittura sulla strada della conoscenza, sulla complessità della dimensione percettiva, avvia la protezione della saggezza nelle tendenze innate dell’uomo.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

Arianima

 

Soffocare e guardare indietro

gli occhi negli occhi

a immaginare altezze

mai toccate

e scivolare

lungo la lama del vento

fiato di cristallo

un unico respiro

fino in fondo

nella parte visibile

dell’anima

 

Primavera

 

Alba di vita

piccolo sole che esplode negli occhi

ogni volta che vi guardo, figli miei,

un giorno di musica e luce

da vivere per sempre

mentre la bella giostra del mondo

compie ancora il suo giro

e solo per noi

 

Commiato

 

Passano, queste anime

rapide e terse

nello spazio di una vita

curvilinee e perse

illusorie di una meta

sulle immense strade del tempo.

 

Passano, senza fermarsi

amici e nemici

questi corpi convulsi

ignari del dolore

di non poter restare a lungo

nel miracolo della storia,

a guardarne il bagliore

a viverne il sogno.

 

Nel breve istante,

io con loro

andrò via

a fianco del rimpianto

solerte come un faro

che, indolente,

illumina da lontano

la metà sconosciuta

del niente

 

Frammento IV

 

“…E poi corro.

Per sentire il ritmo dei sogni

per abbracciare la mia solitudine

e tornare a respirare

con l’illusione fugace

che si può vivere per sempre.”

 

 

Frammento VIII

 

“…E nell’ombra

che odora di fresco

il tuo ricordo ritorna

per mescolarsi furtivo

con la notte”.

 

 

Frammento LXX

 

“…Toglierò dai tuoi occhi

i veli spietati del tempo

e tutto ti sarà chiaro.

…

Quel giorno scorgerai

immobile

il mio volto tra le stelle.”

 

 

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Bly di Melania Soriani

23 giovedì Feb 2023

Posted by Antonella Pizzo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Recensioni

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Antonella Pizzo, bly, disparitadigenere, disparità, femminismo, giornalismo, inchiesta, melaniasoriani, mondadori, romanzo

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Il romanzo Bly di Melania Soriani,  uscito nel 2022 ed edito da Mondadori, narra le vicende della giornalista statunitense Nellie Bly, pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran, vissuta tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, in un periodo in cui alle donne non era consentito esercitare quelle professioni considerate prettamente maschili, secondo la mentalità dell’epoca, ma solo quelle attinenti al cosiddetto “universo femminile”. Pizzi, merletti, ricamo, cura della casa e della famiglia, erano attività alle quali dovevano dedicarsi le donne dei ceti agiati. Operaie in fabbrica, sarte, serve, contadine, braccianti, erano attività proprie delle donne del ceto popolare. Le altre professioni, l’avvocatura, la medicina, il giornalismo, la partecipazione ad attività politiche e molte altre ancora, erano riservate esclusivamente agli  uomini, in quanto le donne erano ritenute incapaci per natura di svolgere compiti intellettivi. Elizabeth Jane, tredicesima dei quindici figli del giudice Michael Cochran, dei quali una diecina nati dall’unione con la precedente e defunta moglie,  nacque a Cochran’s Mill in Pennsylvania nel  maggio del 1864.

Quando la bimba nacque il padre si mostrò  molto orgoglioso di presentare alla famiglia quel fagottino rosa, così  tanto rosa che la bimba fu soprannominata Pink. La famiglia  all’apparenza era benestante, infatti il padre, oltre ad essere un giudice, era anche un discreto uomo d’affari. La piccola Pink cominciò a essere interessata ai libri  ancor prima di saper leggere, disdegnava i giochi  delle bambine e voleva giocare con i fratelli. Ribelle e testarda nascondeva i volumi della biblioteca del giudice per poterli guardare di nascosto. Alla morte improvvisa del capofamiglia i  Cochran caddero in disgrazia, furono costretti  a lasciare la casa dove avevano vissuto fino ad allora. Elizabeth dovette  interrompere gli studi, la madre fu costretta a risposarsi perché serviva lo  stipendio di un marito. L’uomo che sposò però si rivelò essere violento e ubriacone,  la sfruttava, la picchiava costantemente.  In  seguito, grazie alla determinazione della figlia Elizabeth, la madre ebbe il coraggio di divorziare. A seguito della lettura di un articolo di un giornale locale, il Pittsburgh Dispatch, dal titolo A cosa servono le ragazze,  nel quale si invitavano le donne a non lavorare ma a stare  chiuse in casa a badare alla famiglia, Elizabeth presa dall’indignazione e dal furore femminista, dal senso di giustizia che la caratterizzava, secondo il quale tutti gli esseri umani sono uguali e hanno uguali doveri e diritti, siamo essi uomini o donne, inviò una vibrante lettera di protesta al giornale  firmandosi  come Lonely Orphan Girl. Dopo vari abboccamenti e traversie, il direttore riconobbe l’indubbio valore intellettuale e il coraggio di Elizabeth, anche perché il giornale aveva aumentato la tiratura, e  assunse la ragazza. Si decise che Elizabeth avrebbe utilizzato lo pseudonimo di Nellie Bly. Così iniziò la sua fortunata carriera di giornalista investigativa. Coraggiosa e intelligente, fingendosi operaia e facendosi ingaggiare da una fabbrica,  scoprì  e denunciò sul giornale per il quale scriveva gli atti di violenza, gli  abusi e le  condizioni inumane del lavoro a cui erano costrette le operaie delle fabbriche. Questa nuova forma di giornalismo investigativo, inesistente prima di lei, divenne  presto  un modello di riferimento nel mondo del giornalismo che ancora oggi viene praticato. In seguito si trasferì a New York e fu assunta dal New York World di Joseph Pulitzer,  col patto che  conducesse un’inchiesta sulle condizioni del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico City Mental Health Hospital di Manhattan. Questa volta Bly si finse una povera donna smemorata. La donna venne internata in manicomio per parecchi giorni, e si rese testimone diretta delle terribili e inumane  condizioni in cui venivano trattate le pazienti recluse. Bly nonostante pensasse di essere indenne da romanticismi e avesse deciso che il matrimonio, così come era considerato all’epoca, non era adatto a lei, si innamorò  di un uomo affascinante che diceva di amarla.  Quando scoprì che era un uomo sposato e con figli, lei ne soffrì molto. Intraprese da sola un viaggio che la portò a visitare il mondo in 72 giorni emulando  Fogg  del giro del mondo in 80 giorni di Giulio Verne, il quale, incuriosito e ammirato,  la volle conoscere durante una tappa del suo  viaggio.

Il libro è molto scorrevole e si legge con piacere, con una scrittura chiara e leggera nonostante la tematica importante, la scrittrice fa parlare Bly in prima persona. Milena Soriani ci racconta la storia di questa donna speciale e moderna, anche se vissuta un secolo fa.  Nellie Bly si racconta e non parla solo del suo coraggio  e la sua determinazione, ma anche  delle sue tante fragilità e delle sue debolezze e delle sue paure.  Nellie non è una wonder woman che indossa un costume sfavillante e sbaraglia in men che non si dica gli avversari, è una donna comune, con pregi  e difetti, ma che ha avuto volontà ferrea.  Indomita e combattiva non è mai arretrata davanti agli ostacoli che inevitabilmente si incontrano nel perseguire le proprie passioni, non  lasciandosi mai sopraffare dallo scoramento. Con intelligenza, con serietà, con fermezza, ha perseguito i propri scopi credendo nella giustizia e nell’uguaglianza. A Nellie Bly noi donne dobbiamo essere  grate, così come a Melania Soriani che ci ha raccontato la sua storia con amore e il rispetto che questa figura merita. Le donne hanno combattuto per decenni per la libertà e per il riconoscimento dei propri diritti, con convinzione, con passione, lottando per l’affermazione. Ma la libertà delle donne viene costantemente  minacciata,  e il pensiero va alle donne iraniane, prigioniere e vittime, e a tutte le donne che subiscono abusi e violenze. Ci sono tante Bly che combattono per la disparità di genere, per la libertà e per i diritti con coraggio, senza arrendersi, pagando spesso con la vita.

Melania Soriani è nata a Roma nel 1965 e vive a Carrara. Ha pubblicato diversi racconti in antologie e riviste. Con il romanzo per ragazzi In viaggio con Amir si è aggiudicata il premio Selezione Bancarellino 2019.

Antonella Pizzo Letture e scritture e noticine di una finta critica 

mpluchi@yahoo.it

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“Un fecondo gioco” – Marco Furia legge “Eliodoro” di Mario Fresa

22 mercoledì Feb 2023

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Eliodoro, Marco Furia, Mario Fresa

Come un gioco verbale sospeso sul suo medesimo linguaggio, “Eliodoro”, romanzo di Mario Fresa, si presenta al lettore quale specchio capace di riflettere non una singola immagine ma una precisa, grottesca, serie di frammentate sequenze.
Del resto, l’autore, nel capitoletto d’appendice “a. Che cos’è Eliodoro. Caratteristiche e posologia”, tiene a dire:

“Eliodoro è un romanzo-gioco di pannelli e di schegge mobili che possono essere letti in successione o in modo più rapsodico, per esempio aiutandosi con l’aiuto di un dado e di una seconda voce femminile o maschile […]”.

Schegge e pannelli, dunque?
A prima vista sì, tuttavia …
Tuttavia, pagina dopo pagina, ci si accorge di come una ben poco lineare trama non si limiti a far emergere personaggi e circostanze, ma, nel farsi acrobatica parola, suggerisca una sua originale visione del mondo.
Non mi riferisco a una sorta di senso della storia che lo stesso Fresa propone, per esempio, indicando i titoli dei singoli capitoli, né ai più o meno ampi funambolici tratti, penso piuttosto a un dinamico quid che sembra superare-costituire il concetto di racconto.
Si tratta, a mio avviso, di un desiderio di vicenda che non s’intende ignorare, di un originale persistere quale espressivo narrante nel suo nemmeno troppo mascherato confessarsi: il Nostro non entra nel romanzo nelle usuali maniere perché è ben cosciente di farne parte, in ogni modo.
Affermazione banale, si dirà: chiunque si esprime per via di scrittura è presente nella scrittura stessa.
Qui, però, qualcosa di diverso si aggiunge, qualcosa in grado di chiamare contemporaneamente dentro e fuori.
Togliere il nome dell’autore dalla copertina o, al contrario, renderlo incancellabile?
Ambedue le cose.
Atteggiamento dalla valenza assai creativa proposto, almeno in apparenza, con noncurante naturalezza: atteggiamento nel cui àmbito il lettore si viene a trovare come per caso, passando da un brano all’altro, da una visione all’altra.
Simile a una roulette che sembra non fermarsi mai, questa scrittura non si preoccupa né di arrestarsi né di proseguire: il suo è moto perpetuo, ma è pure continua fine
d’isolati attimi-tratti, di singole particelle di spazio-tempo-parola.
Si legge, ad esempio, a pagina 71

“E poi, sorpresa amara, soltanto per fregare il destino, Ruggeri che sta per fare, in un momento, il salto salutare vede tutto con un certo anticipo allarmato: vede vicino a quello sbarco, con l’aiuto gentile del principe alato, mosca-radente, comparso sul labbro della tazzina lasciata lì […]”

e a pagina 105

“Il maestro Denise è in bilico solenne, adesso, col suo equilibrio in pezzi, con quel suo piangere ridere, con quel suo tipico urto di potenza, insomma; come un bimbo che non dorme ma che s’incanta mentre sente la TV-giovinezza […]”.

Come si vede, lo sguardo dell’autore nel suo essere acuto, attento al particolare, partecipa d’un non consolante senso del favolistico che porta lontano pur essendo vicino, proprio lì, negli accostamenti di un probabile che evoca realtà anche quotidiane.
Davvero, ci si trova di fronte a uno specchio verbale preciso nel suo rendere evidenti vividi tratteggi di un non racconto che, tuttavia, è anche racconto: mettere in discussione certi nostri schemi significa promuovere feconde riflessioni sugli schemi medesimi e, alla fine, su noi stessi?

                                                                                               Marco Furia

Mario Fresa, “Eliodoro”, Fallone Editore, 2022, pp. 150, euro 22,00

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Un omaggio a Puccini nel cuore di Rapolano 

20 lunedì Feb 2023

Posted by Deborah Mega in Recensioni, Segnalazioni ed eventi, Teatro

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Kris B. Writer, L'altro Giacomo, Renato Raimo, Sabatina Napolitano

La sera di sabato 18 febbraio sono stata al Teatro del Popolo di Rapolano per lo spettacolo “L’altro Giacomo”, diretto e sceneggiato da Renato Raimo. Puccini è un uomo appassionante e appassionato, sul palco incarnato nel regista che ne ha curato la biografia ricalcando i momenti più frizzanti come gli snodi passionali. Elvira, Corinna, Josephine, Rose: le donne protagoniste della vita del compositore lucchese di cui ricorre il centenario nel 2024. “L’altro Giacomo” scritto a quattro mani da Renato Raimo e Kris B. Writer è uno spettacolo intenso non solo per gli amanti della lirica, attraverso le arie pucciniane il racconto tra narrazione e musica diventa una magia possibile grazie a Carlo Bernini, già direttore musicale di Andrea Bocelli (che però nel nostro caso non c’era perché a New York). Col patrocinio della fondazione Puccini di Lucca, lo spettacolo è una attrattiva interessante e adrenalinica per il pubblico pucciniano. Se quindi la poesia italiana e la storia italiana nell’Opera raggiungono una compiutezza esotica quasi alchemica, è impossibile non considerare che l’Opera con La Boheme, La Tosca, Madame Butterfly, e la Turandot si veste di abiti che non possono essere pensati senza un brivido di inquietudine e di nostalgia. Le dodici opere pucciniane hanno segnato un alone di profondità psicologica e drammaticità tutta italiana nel panorama internazionale, pur richiamando l’opera wagneriana. Lo spettacolo “L’altro Giacomo” restituisce alla storia la memoria dell’uomo Puccini, introverso, solitario, sensibile e profondamente innamorato.

Giampaolo Rugarli autore de “La divina Elvira. L’ideale femminile nella vita e nell’opera di Puccini” (Marsilio, 1999) sostiene che in ogni donna di Puccini c’è in realtà nascosta la figura di Elvira. Il loro è un amore forte e scandaloso nella Lucca di fine Ottocento. Per quasi vent’anni Elvira resta compagna di Puccini e alla morte del marito Narciso, ne diventa la moglie. Elvira non è solo compagna quindi, e poi sposa, ma è anche e soprattutto la musa sotterranea per le ancelle devote e le fate cattive dell’operista, come se tutta la drammatica tensione dell’arte pucciniana non fosse possibile senza il traino e lo slancio di Elvira. Nonostante questo Puccini ama molte donne, ed ogni volta le sue passioni richiamano come una forma di violenza, e probabilmente il pubblico non si sarebbe aspettato diversamente da un genio malinconico e passionale, inevitabilmente mito e simbolo.

Sabatina Napolitano

 

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Appunti di lettura: Sabatina Napolitano,“Nelle sue braccia”, Gian Giacomo Della Porta Edizioni.

17 venerdì Feb 2023

Posted by Francesco Palmieri in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Nelle sue braccia, Sabatina Napolitano

 

Sabatina Napolitano

“Nelle sue braccia” – Gian Giacomo Della Porta Edizioni

Appunti di lettura

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Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi

09 giovedì Feb 2023

Posted by Antonella Pizzo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Recensioni

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Antonella Pizzo, ferroviedelmessico, Gianmarcogriffi, Narrativa

R

Gian Marco Griffi è nato in Piemonte  e ha studiato filosofia all’Università di Torino. Ha  pubblicato Più segreti degli angeli sono i suicidi (bookabook, 2017) e Inciampi (Arkadia, 2019).

Ferrovie del Messico è il suo nuovo romanzo, edito nel 2022 da Laurana Editore con le illustrazioni di Silvia Perosino e la post-fazione di Marco Drago, inserito nella collana Fremen diretta da Giulio Mozzi, il quale ha speso molte energie  per la promozione nei social, nonché per la distribuzione del romanzo nelle librerie nelle quali mancava. Mozzi ha avuto ragione nel farlo, il romanzo meritava di essere letto. Ha già vinto il premio Augusto Monti, Città di Leonforte, si è aggiudicato il primo posto classifica di qualità L’indiscreto, ha vinto il premio Libro dell’anno di Fahrenheit Rai 3, il premio Zeno,  il Premio Mastercard 2022 per il quale allo scrittore è andato un riconoscimento di 10 mila euro, ha poi devoluto il premio in solidarietà  di 100 mila euro a Busajo, onlus che opera in Etiopia per il recupero delle bambine e dei bambini di strada, Caritas Italiana, Save the Children e Progetto Rwanda. Fa parte dei primi 15 romanzi candidati al Premio Strega 2023, è stato presentato da  Alessandro Barbero, e ha buone possibilità di essere il vincitore  di quest’anno, perché il romanzo sta ricevendo molte critiche favorevoli da parte dei lettori e dagli addetti ai lavori.

Ferrovie del Messico è un tomo di oltre 800 pagine in carta sottile, è alto quasi 5 centimetri, pesa di 603 grammi. Quando l’ho acquistato, incuriosita   dal tamtàm  dei social, pensavo potesse avere le caratteriste giuste per andare a fare compagnia agli altri miei due tomi di quasi ugual peso e misura che da decenni mi riprometto di finire di leggere, e cioè i cominciati e mai finiti: Ulisse di Joyce  e Orcynus Orca di Stefano D’arrigo. Invece così non è stato, il romanzo l’ho iniziato e finito. Griffi è una penna eccezionale, capace di scrivere un capolavoro di amara ironia ma nel contempo dolce e che  fa sorridere, pagine ricche di divertimento ma anche di profondità. Apparentemente prolisso ma non lo è, infatti non è mai noioso, anzi la scrittura è avvincente e coinvolgente.

Questa la trama del romanzo:

Ad Asti, nel 1944, Francesco Magetti, detto Cesco, soldatino figlio di tabaccai,  giovane  milite nella Guardia Nazionale repubblicana ferroviaria della Repubblica di Salò, soldato ma dentro il suo cuore idealista illuso e  antifascista, arruolato  per necessità e per paura, eroe sfigato, viene incaricato dal suo aiutante capo di redigere, nel termine di una settimana, la mappa delle ferrovie del Messico. Lo strano incarico proviene dalle alte istituzioni naziste e riveste carattere, oltre che di urgenza, anche di rilevante importanza per la Germania. Tutto nasce a Berlino da uno stupido equivoco e sciocca convinzione. Un libro, che racconta delle mirabolanti avventure accadute a Santa Brígida de la Ciénaga, una cittadina del Messico,  nonché lungo le ferrovie messicane, viene donato in cambio della sua gentilezza, da una nobildonna ebrea, a Bardolf, un umile addetto ai suicidi assistiti. Il libro assume un’importanza enorme per le istituzioni naziste, così come la ricerca della mappa delle ferrovie messicane di cui il libro era dotato ma che manca fisicamente. Secondo i nazisti in quella cittadina si nasconde l’arma risolutiva, un’arma diabolica e terrificante, spettrale, una bestia selvaggia e leggendaria. La ricerca di questa mappa è il nodo principale del romanzo e da cui si diramano le altre storie che a loro volta si diramano in altre storie, come il giardino dei sentieri che si biforcano del racconto di Borges, citato nel romanzo più volte. Cesco, che soffre di un forte mal di denti, non ha idea di come procurarsi questa mappa e inoltre ha una paura matta dei dentisti (l’unico dentista di cui non aveva paura era stato arrestato dai fascisti)  il mal di denti lo accompagnerà per tutta la sua avventura, mal di denti che a detta dell’autore in un’intervista alla Gazzetta d’Asti indica un male oltre che fisico anche interiore “…ho provato a trasporre così, con un dolore fisico, il suo male oscuro, il male interiore di Magetti e dell’uomo che non riesce a decidere, che non riesce a trovare la forza per affrontare il male circostante e neppure i problemi, anche piccoli, che gli si presentano. È anche l’emblema dell’uomo di oggi, gettato nel mondo in balia di guerre e tragedie climatiche, paralizzato e incapace di fare anche solo un piccolo gesto in grado di migliorare le cose”. Gazzetta D’Asti 16/09/2022

Quindi un bel mal di denti interiore che, in modo più o meno evidente e consapevole, forse tutti noi abbiamo.  In biblioteca, durante le sue ricerche, conosce Tilde Giordano bella, strana,   folle bibliotecaria, con la passione della fotografia,  della  quale Cesco Magetti, eroe per caso, si innamorerà perdutamente. Cesco scopre tramite Tilde che esiste un’opera dello scrittore messicano Gustavo Adolfo Baz, dal titolo “Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México” con illustrazioni di Edoardo Gallo. Il libro però non si trova in biblioteca, è stato dato in prestito. Comincia così la caccia a  questo fantomatico volume che dovrebbe risolvere i problemi di Cesco  e dei nazisti.

I personaggi descritti  sono personaggi concreti  e vivi, tragici, mangiano, soffrono, amano, ruttano e bestemmiano con bestemmie inventate,  usano termini dialettali desueti e neologismi, ma nel contempo sembrano immaginari, immaginifici, magici, sembrano spettri, delle presenze vaganti, variegate e misteriose: sono poeti frenatori, partigiani, fascisti, viaggiatori, agenti segreti, prostitute, preti, cartografi, becchini e  costruttori di ferrovie.

Si chiamano Epa, cartografo samoano che compila mappe per trovare chiavi, per fare l’amore, per cercare un gelso al cui interno è cresciuto un ciliegio. Angelo Zanon, detto Angelito, detto Lito, che assieme al suo compagno muto e poeta Mario Emilio Camillo Bertone, detto Mec, nel cimitero di San Rocco fanno i becchini addetti alla bollitura dei cadaveri, perlopiù provenienti dalla Germania, con i quali si forma una polvere di ossa che i nazisti in Germania usano per produrre dei colori per dominare il mondo e le masse, inducendo alla felicità, alla disperazione, a seconda del colore si costringe il popolo a comportarsi in un certo modo. Possiedono molti libri,  un distributore di caffè, un organizzatore, un automa, una sorta di computer antesignano, entrambi sono ex costruttori di ferrovie nel Sudamerica e la sanno lunga su Gustavo Baz e Santa Brígida. Ettore e Nicolao, alle costole di Cesco Magetti, Edmondo Bo, poeta frenatore, alcolista e oppiomane, il senza cuore e cinico SS-Obestrumbannführer  Hugo Kraas, giocatore di golf,  che possiede un samovar trovato in una dacia nei pressi di Mosca. Bardolf Graf, collega che Cesco non incontrerà mai. E come non ricordare il bambino Feliciano ucciso e abbandonato sul ciglio di una strada a Saucillo de Guadalupe, il primo cadavere sotterrato dal poeta muto Mec Bertone che con infinito amore gli scava la fossa con le mani e lo adotta come  figlio dopo morto.

Cesco è costretto a darsi da fare per questa fatidica mappa e dopo varie vicissitudini e avventure varie,  su indicazione dell’aiutante capo, colloca casualmente Santa Brígida, cittadina probabilmente mai esistita, in un punto qualsiasi della mappa.

Ferrovie del Messico è un romanzo d’avventura, ironico, epico, idilliaco, orrifico, assurdo, a tratti fantasioso e fantastico, iperrealistico e fantascientifico, comico e drammatico, antico e moderno, utilizza tanti registri, i capitoli sono brevi, si passa da un luogo all’altro, da un personaggio all’altro, da un tempo all’altro, in modo da non annoiarsi mai, ma senza mai perdersi nelle varie diramazioni della storia e nei vari sentieri.   Griffi è un  autore che  non assomiglia  a nessuno degli scrittori italiani, almeno a nessuno di quelli che ho letto. Si dice negli ambienti letterari  che si sia ispirato allo scrittore cileno Roberto Bolaño Ávalos, a Pynchon, Joyce, Borges, ma ogni scrittore che si rispetti porta nella sua scrittura tracce delle letture, che vengono poi elaborate dal proprio sentire  assumendo autonomia e originalità,  diventando altro. La sua scrittura è moderna, libera,  si discosta dal piattume e dall’ordinario a cui ci stiamo assuefacendo. Con le dovute eccezioni e per la maggioranza,  ci sono parecchi scrittori bravi, tutti bravi ma anche tutti simili, così come i poeti e così come i cantanti, quindi, quando si legge una scrittura che si discosta, una voce che emerge e il cui timbro è riconoscibile, per un  lettore comune è una festa.

Griffi attacca i poteri,  nazista e fascista,  lo fa rendendoli ridicoli, facendone una caricatura. L’autore è capace anche di disegnare non solo i tratti grotteschi dei personaggi ma rappresentare anche i loro sentimenti più nobili, quando questi esistono. Mi piace riportare queste due pagine che riguardano il bambino Feliciano. E’ il becchino poeta Mec che parla dopo aver seppellito quel cadavere del bambino abbandonato sul ciglio di una strada. Griffi non è solo ironia, ma è anche poesia. Come egli scrive e come è  riportato sul retro della copertina del romanzo: “Essere lirici e ironici è la solo cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta”.

(da pag 331 e 332)

Sugli appunti per una poesia che intendo scrivere annoterò che il tre giugno millenovecentoventinove ho sollevato il capo di un bambino morto sul ciglio di una strada; annoterò di aver pensato che se esiste un Dio dei poveracci, e se l’anima di Feliciano è in sua compagnia da qualche parte, insomma se Feliciano è ancora qualcosa, in un’altra forma, si stupirebbe se qualcuno si sia preso cura della sua forma precedente, quella corporea. Annoterò che Feliciano non è più, senza forma come le nubi della tempesta; annoterò che Feliciano è vissuto sette anni su questo mondo senza altra ragione se non quella di devastare il mio cuore un giorno di primavera del millenovecentoventinove, in un villaggio sperduto del Messico.

(cut)

Annoterò  che ho scavato fino a farmi sanguinare le mani, e che l’ho fatto per potermi ascrivere al genere umano. Giacché voglio credere che il genere umano non sia ciò di cui parla Lito, quella cieca indifferenza dell’uno per l’altro, quell’odio che sfocia in battaglia e in guerra.  Annoterò che ho scavato una fossa per seppellire tutti i bambini del mondo vissuti senza una ragione, quelli per cui ogni giorno è semplicemente un giorno di agonia in più; che ho scavato una fossa per far sì che contenesse tutti i corpi affamati, annegati, torturati, dimenticati, profanati.

Annoterò che quel giorno avevo le lacrime agli occhi e le parole mi uscivano di bocca come sputi; Annoterò che la terra odorava di piscio, violette e polvere, di merda di mulo e sterpaglie bruciate, annoterò che ho udito il vento tra le colline e ho immaginato che fosse la voce di Feliciano frammentata in mille brevi mormorii; annoterò che quel giorno ho seppellito mio figlio: per questo sulla croce che commemora il luogo della sua sepoltura ho inciso il suo nome, Feliciano, e il mio cognome, Bertone.

Antonella Pizzo letture e scritture e noticine di una finta critica

 

 

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“Atlante delle inquietudini” di Francesco Enia

26 giovedì Gen 2023

Posted by Antonella Pizzo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, NarЯrativa, Recensioni

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enia

Pubblicato nel 2022 per le edizioni Ares, “Atlante delle inquietudini” è opera di Francesco Enia, cardiologo palermitano con la passione per la fotografia e la scrittura.
Fotografia e scrittura sono arti sorelle,  entrambe raccontano storie, intendono rappresentare la realtà, la vita, la morte, la sofferenza, la gioia, a volte mostrando ciò che non si vede e nascondendo ciò che si vede, facendosi luce e oscurità, essendo esse negativo e positivo contemporaneamente. Il fotografo Tony Gentile, che ha curato la prefazione del romanzo, cita Luigi Ghirri:

“…nella fotografia c’è il negativo e il positivo. È il rapporto tra luce buio. È un giusto equilibrio tra quello che c’è vedere e quello che non deve essere visto.”
Gentile è famoso per lo scatto cult che rappresenta, vicini, complici e sorridenti, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fotografati appena un paio di mesi prima della strage di Capaci. Continua a leggere →

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Emilio Capaccio legge “Formulario per la presenza” di Francesca Innocenzi

25 mercoledì Gen 2023

Posted by emiliocapaccio in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Emilio Capaccio, Francesca Innocenzi

Ci troviamo a un certo punto della scaletta a dover presentare un medley dei nostri quarant’anni: non un revival di nostalgiche serate di qualche esistenza fa: la poesia che abbiamo asperso nel passato non è mai solo il ballo di un madrigale in un lontano “rinascimento”, ma è sempre pure un’inesauribile e ininterrotta danza del momento. Può essere assoggettata a una corrente, non alle sferraglianti meccaniche dell’età.

Ecco allora qualche volta declamarsi un medley di noi stessi: una scelta antologica di versi, il sunto artistico di una donna in costruzione, un’autrice, un’intellettuale, una sempiterna dottoranda delle alchimie poetiche. 

Formulario per la presenza, Edizioni Progetto Cultura, 2022, presentato nella collana “Gemme”, diretta da Cinzia Marulli Ramadori, è un editto con il quale la Innocenzi proclama il suo ideale, uno stato di avanzamento dei lavori con cui dichiara di essere qui, intrisa nell’esistenza, in transito, ma presente, odierna, in trasfigurazione. La metrica è precisa nella costruzione del verso, lo stile, nudo, essenziale, senza fronzoli linguistici, ma oltremodo musicale, esito di continua ricerca e di un’attenta analisi lessicale, come ha imparato da papà Luciano, poeta anch’egli, storico e insegnante, il quale, come dice la Innocenzi, ogni volta, non vede l’ora di farle leggere un nuovo verso; puro amore di padre!

Ed ecco la sequenza, la progressione, la parata, con cui si presenta al lettore, la Innocenzi. 

Penna, un po’gioco d’ombra un po’ colorata, sorriso impercettibilmente malinconico, parola educata ma non edulcorata, vestitino leggero di logli di campi marchigiani. 

Guardandola così, come attraverso una foto, come all’apice di una premonizione, viene da bisbigliarle: 

“Il fiore è dentro di te, Francesca, noi cogliamo i tuoi frutti”.

Emilio Capaccio

il tempo anelato istante eterno

il tempo anelato istante eterno

è caduto come miele sul selciato

il tempo, profumo di pruneto

rifugio e scampo al tuo corpo voluto

la ferrea leggerezza che in te ho accarezzato

stasera serbo

               scherzo di brezza su salice muto

dispersione

ovunque e in ogni tempo il taciuto

imperversa.

scosti lo sguardo dal vacuo della stanza

e chiosi che ogni esistente ha fine.

è sgombro di parole il corridoio

                                     altrove traslate.

giugno senza attese le disperde

come oracolo di foglie indecifrato.

delucidazione

ma io ti dissi solo di voler dormire

quando il tuo silenzio pesava come piombo.

nell’aria si infittiva un tanfo di sciagura

un nuvolo di mosche in me tornava.

ho preso il diazepam, ti scrissi allora.

da sinistra ogni uccello infido

                                  sfrecciava.

un tuono di menzogna mi sfece come pazza

nei gorghi da complotto della sera.

Francesca Innocenzi è nata a Jesi (Ancona). È laureata in lettere classiche e dottore di ricerca in poesia e cultura greca e latina di età tardoantica. Ha pubblicato la raccolta di prose liriche Il viaggio dello scorpione (Il Filo 2005); la raccolta di racconti Un applauso per l’attore (Manni 2007); le sillogi poetiche Giocosamente il nulla (Edizioni Progetto Cultura 2007), Cerimonia del commiato (Edizioni Progetto Cultura 2012), Non chiedere parola (Edizioni Progetto Cultura 2019), Canto del vuoto cavo (Transeuropa 2021); il saggio Il daimon in Giamblico e la demonologia greco-romana (Eum 2011); il romanzo Sole di stagione (Prospettiva 2018). Per Edizioni Progetto Cultura ha diretto collane di poesia e curato alcune pubblicazioni antologiche, tra cui Versi dal silenzio. La poesia dei Rom (2007); L’identità sommersa. Antologia di poeti Rom (2010); Il rifugio dell’aria. Poeti delle Marche (2010). È redattrice del trimestrale di poesia «Il Mangiaparole» e collabora con vari siti letterari. Ha ideato e dirige il Premio letterario Paesaggio interiore.

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“Nei giorni” di Enza Sanna. Recensione di Enzo Concardi.

20 venerdì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Enza Sanna, Enzo Concardi, Nei giorni

 

Dopo aver letto le pagine della raccolta Nei giorni, della poetessa genovese Enza Sanna, si scopre che la citazione in esergo di Sandra Reberschak – autrice nativa di Venezia – è paradigmatica anche per taluni percorsi esistenziali, psicologici e spirituali che emergono nel libro che stiamo recensendo. Eccola: «Tanti anni sono passati / e io non ho smesso mai / veramente di provare / il vuoto incolmabile / che mi dilaniava bambina, / ma ho dovuto imparare / a cercare altri rifugi, / come quello della gratificante / certezza delle parole». Forse per la nostra poetessa quel “vuoto” non è così radicale, ma esso esiste nonostante che la memoria degli affetti familiari perduri nel suo animo senza fine: «Stempera il tempo il dolore della perdita /…/ ma la famiglia d’origine è per sempre / non ti lascia mai nel tuo cammino / è parte di te, rivive nei gesti e nei pensieri / è assenza fisica mutata in spirituale presenza / fortissima, ma non ti assolve / dall’incolmabile vuoto che abita il tuo cuore» (La perdita e l’assenza). E così la figura materna suscita in lei sentimenti dolcissimi di gratitudine per il dono della vita e per esserci sempre nei giorni solitari della sua parabola terrestre, nel senso di amarezza che copre anche esperienze e ricchezze esistenziali (Dodici maggio), mentre il ricordo del Natale in famiglia la riporta nel cuore autentico dei legami di sangue. Del resto, in altre liriche, Enza Sanna si fa trasportare nella dimensione memoriale, ricostruendo attimi e momenti del passato nella sua terra d’infanzia con quella forte oniricità e, allo stesso tempo con senso di concretezza, che si rivelano tra le cifre più importanti della sua poetica: e vede la quotidianità nei casolari collinari, il danzare agreste nelle aie contadine, assapora il profumo del pane croccante appena sfornato, ascolta il fruscio del vento fra mandorli, mirti e ginestre e il maestrale che turba la risacca marina.  I “rifugi” della Reberschak potrebbero essere quei quieti angoli di mondo, quelle zone tranquille dello spirito, quel ripiegarsi in sé tipici del crepuscolarismo gozzaniano, così come si possono anche, talvolta, riscontrare nella Sanna che, d’altro canto, possiede inoltre interessanti introspezioni in cui, se il referente di partenza è individuale, indi diviene metamorfosi e sublimazione nell’universale e nel metafisico. Ne è testimonianza – tra le altre – la lirica Certezza di cose vere, dove l’aurora, la luce, la speranza, l’eternità appaiono essenziali per la vita, come necessari sono quei bipolarismi filosofici e comportamentali anch’essi parte importante della sua visione del mondo: qui si tratta dell’incontro fra «mente e cuore», «passione e cautela», «trascendenza e ragione» … e l’immaginazione colma «un vuoto d’amore». Ed anche Sopraggiunge il crepuscolo, dove gli oggetti di casa si trasformano in attaccamento verghiano alla ‘roba’. Il motivo della luce, in tutte le sue valenze e dimensioni, mi sembra tuttavia prevalente e signoreggiante su ogni altro. E non potrebbe esserci testo più esplicito de L’allegria della scrittura per significare la funzione della poesia secondo la poetessa. Di fronte all’inesorabile ‘panta rei’ eracliteo e all’incertezza della condizione umana, i versi finali non lasciano dubbi sul valore catartico della letteratura: «…Soccorre il canto / la parola che può esser pietra o farfalla / ma l’allegria della scrittura è atto di speranza / per l’anima che anela l’infinto / ha fame del mito, voglia d’oceano / a nutrire impalpabili emozioni / come bianche meduse in cresta all’onda».  Lo stile predilige un andamento pieno e corposo, ricco d’immagini sia paesaggistiche (albe, tramonti, terra ligure, atmosfere suggestive) che figurazioni di categorie filosofiche, con presenze di metafore, ossimori, sinestesie ed altre figure retoriche. Il linguaggio è al servizio di quel senso del mistero («l’occulto regista») che aleggia spesso nelle sue dimensioni pneumatiche. I toni sono sempre elevati, sostenuti, essenziali senza cadute di sorta. Diverse liriche sono riedizioni dell’idillio leopardiano tramite contemplazioni della natura associate a riflessioni che sono uno sguardo sul mondo e sulla vita, e un alternarsi di amarezze e speranze, illusioni e delusioni, vanità del tutto e fiducia nel futuro. Ma l’ancora di salvezza ai silenzi, alle solitudini, all’inadeguatezza esistenziale, al vuoto e al nulla del consumismo e della tecnologia… è sempre Dio (Tu che accendi le mie vie) poiché l’uomo non basta a se stesso.

Enzo Concardi

Enza Sanna, Nei giorni, pref. di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 100, isbn 978-88-31497-89-3, mianoposta@gmail.com.

 

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La sensibilità decadente di “Ballate nere”. Nota di lettura di Deborah Mega

16 lunedì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Ballate nere, Deborah Mega, Diego Riccobene

Diego Riccobene

Ballate nere

Italic, 2021

Prefazione di Carlo Ragliani

Postfazione di Mario Famularo

 

Ballate nere è il libro di esordio di Diego Riccobene, una preziosa silloge di poesie edita da Italic nel 2021. Il titolo, che accosta qualcosa di positivo e rasserenante come possono essere delle ballate, è associato al nero, ricorrente più e più volte nel corso dell’intera opera anche nelle diverse accezioni di sera, tenebra, ombra quando l’autore scrive Io credo nell’iniqua malasorte, / nel taccuino nero; Laonde appresi il morto magistero / dello sprezzo paziente contro il fermo / giudizio senza appello, il guado nero, / quando menziona il libro del nero Arimane oppure Un solo punto nero / nel lungo imperio sfibrante d’agosto; Prosciolti da ogni vincolo, li vedo / quegli incubi pennati nero notte e ancora L’esilio deve consumarsi adesso, / nel dolio vaporante d’acque nere. Procedendo nella lettura, in esergo compare una citazione tratta dal Faust di Goethe, Nulla c’è che nasca e non meriti di finire disfatto, che sancisce una condizione esistenziale di assoluto disincanto, mentre si vorrebbe a tutti costi raggiungere un infinito che ci è precluso dall’imperfezione della nostra natura umana. Continua a leggere →

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“Cronache dalla terra di nessuno” di Maria Giovanna Massironi. Una lettura di Rita Bompadre.

13 venerdì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Cronache dalla terra di nessuno, Maria Giovanna Massironi, Rita Bompadre

 

“Cronache dalla terra di nessuno” di Maria Giovanna Massironi (Albaccara – Casa editrice, 2020 pp. 112 € 12.00) è una raccolta poetica intensa che assorbe dalla consapevolezza del dolore la linfa vitale e compassionevole della memoria. La poesia di Maria Giovanna Massironi accoglie testi arrendevoli al disagio emotivo e resistenti  al vincolo della speranza. L’autrice genera, attraverso una persistente confessione quotidiana, l’apprensione del proprio stato d’animo, la sofferenza dei giorni e delle notti, scandita dall’irrequietezza dei pensieri, in balìa del segnale della frattura esistenziale. Coglie la lesione dell’anima, una ferita accompagnata dalla malinconica amarezza di ogni sospensione della vertigine e dal profondo tormento per gli incubi e i fantasmi che si aggirano, crudeli e magnetici, nella sua mente. Maria Giovanna Massironi abita la terra di nessuno, il territorio conteso dai timori e dalle incertezze del vivere, il non-luogo della fluidità sensibile, il confine interpretativo della propria identità. Il libro confessa la rapida e spontanea evidenza dello smarrimento emozionale, sintonizza il fruscio segreto dell’umore, il silenzio nascosto dell’inadeguatezza. I testi, solo apparentemente frammentari, elaborati con la lealtà dell’impulso, donano il senso compiuto e graduale di una scrittura senza impedimenti, la libertà sincera di una funzione liberatoria, la capacità creativa di orientare le energie soffocate dall’affanno della perdizione. “Cronache dalla terra di nessuno” esprime una forma di premonizione istintiva, avvinta alla soglia del mondo interiore e all’esperienza delle sensazioni, collega l’ipotesi indefinita e disorientante delle difficoltà al riscatto di un orizzonte vagheggiato, varca la soglia della malinconia osteggiando l’inquietudine. Maria Giovanna Massironi resta “in limine”, sulla soglia dell’espressione, dona al lettore il suggerimento sentimentale per affidare alla vita sempre una straordinaria opportunità di rivendicare il proprio tempo. L’occasione letteraria di sollevare le proprie riflessioni evidenzia il privilegio di tradurre l’oggettività delle pagine dense di significato, di comprendere l’avvicendarsi degli eventi patiti, di condividere l’importanza del vissuto, la commovente e indecifrabile percezione della grazia. La poesia gratifica ogni ispirazione individuale, estende la consistenza del respiro universale, sfiorando la complicità della resistenza. La provvisorietà di una bruciante esistenza collega l’influenza dei versi, disgiunge la frattura dell’anima, il duro scontro inevitabile con la realtà, coglie la complessità delle vicissitudini, l’enigma delle illusioni. La poetessa, con uno stile originale, convincente e attuale, segue sempre l’eco di una psicologica attenzione al monito della coscienza, nell’individuare la riparazione del torto, nel consolidamento temporale dello spirito.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

Notte dieci. Giorno undici.

 

La notte appartiene agli ubriachi

e l’alba conserva

il suo splendore di albicocca.

La rivoluzione resterà un sogno

perduto nelle chiacchiere del mattino.

Voce d’argano e ruggine

viene dal mare e vi si perde.

Non il velluto, ma la ruggine

ha invaso ogni cosa.

Ci ha preso cuore e cervello.

Nervi e sangue.

Al richiamo di quella voce

abbiamo inseguito chimere

e mille volte siamo morte.

 

Nel giorno undici

non c’è posto per noi.

Stiamo come in porto

a tagliare pomodori,

a prua della nostra

piccola casa rosa.

 Solo le zanzare sono tornate.

 

 

 

Notte trentuno. Giorno trentadue

 

Nella notte abbiamo perso un calzino.

Il destro per l’esattezza.

Pensando di fare bene

ci siamo tolti anche il sinistro

e abbiamo sbagliato.

Alle ore 5,28 siamo completamente

svegli con tutta la nostra disperazione

e i piedi gelati.

Sotto le finestre, niente storie

di lupi e di pirati.

 

Il cielo è azzurro e le strade sono deserte.

Niente ci consola.

Il giorno trentadue inizia

pieno di ansie e preoccupazioni.

Spegniamo la radio.

Ci sono cose che

                                non si possono più ascoltare.

 

 

Notte quarantatré. Giorno quarantaquattro

 

Il buio non finisce mai.

Attraversiamo la città,

camminando sotto la pioggia.

I tetti sono lucidi

e noi siamo bagnati fino alle ossa

come le nostre carte

e i libri che portiamo a tracolla.

Sono bagnati i quaderni con le copertine

di cartoncino leggero che si slabbrano

e si abbandonano ad un’onda molle e pendula.

Siamo svegli dalle cinque.

Piove e non fa freddo.

Le nostre scarpe non tengono più la pioggia

e l’acqua arriva fino alle caviglie,

gonfia le calze che resteranno umide per ore.

L’ombrello ci avvolge floscio

e ci rende difficile vedere

dove mettiamo i piedi.

La tracolla ci taglia il respiro.

Tosse e fuoco nel petto.

Torniamo a casa

cercando una fuga

tra i buchi del selciato

che sono piccole voragini

di terra e sassi.

 

Nel giorno quarantaquattro

qualcuno si è preso la sua piccola vendetta.

 

I nani hanno lasciato il giardino

                              e con le scarpe infangate

                              sono entrati in casa

                              sporcando dappertutto.

 

Notte cinquantotto. Giorno cinquantanove.

 

Che parole usare nel giorno più buio?

Tronche? Piane? Sdrucciole? Bisdrucciole?

Piane, con cadenza di adagio.

Rassicuranti e confortevoli parole piane.

Casa. Libro.

No certo caffè oggi.

E neppure gioventù

e meno che meno libertà.

Le parleremo tutte piane.

Sommesse, quasi silenziose.

Piano. Piano. Forte.

Il presente è all’improvviso tronco.

Ricorderò.

Ricorderemo estati perdute.

Le città sul mare. I caffè turchi. I sogni.

I tuoi occhi bellissimi.

Le domeniche a san siro.

Le luci in galleria.

La sabbia umida. Le partire a pallone.

La salita ai bottini. Gli ulivi. I gatti.

Suonare insieme alle vocali.

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