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grandi poesie commentate

Forma alchemica 26: Emily Dickinson

18 sabato Set 2021

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA

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EMILY DICKINSON

Poiché non potevo fermarmi per la morte

Poiché non potevo fermarmi per la Morte –
Lei gentilmente si fermò per me –
La Carrozza non portava che Noi Due –
E l’Immortalità –

Andavamo lentamente – Lei non aveva fretta
Ed io avevo messo da parte
Il mio lavoro e anche il mio tempo libero,
per la sua cortesia –

Oltrepassammo la Scuola, dove i Bambini si battevano
Nell’Intervallo – in Cerchio –
Oltrepassammo i campi del Grano che ci fissava –
Oltrepassammo il Sole al tramonto –

O piuttosto – Lui ci oltrepassò –
La Rugiada tracciò tremante e gelida –
Il mio Vestito di Tessuto leggero
La mia Stola – solo un velo –

Sostammo davanti a una Casa che sembrava
Un rigonfiamento del suolo –
Il Tetto era appena visibile –
Il Cornicione – nel Tumulo –

Da allora – sono Secoli – eppure
Li avverto ciascuno più brevi del Giorno
In cui per prima intuii che le Teste dei Cavalli
erano rivolte verso l’Eternità.

(traduzione di Loredana Semantica)

Because i could not stop for death

Because I could not stop for Death –
He kindly stopped for me –
The Carriage held but just Ourselves –
And Immortality.

We slowly drove – He knew no haste
And I had put away
My labor and my leisure too,
For His Civility –

We passed the School, where Children strove
At Recess – in the Ring –
We passed the Fields of Gazing Grain –
We passed the Setting Sun –

Or rather – He passed Us –
The Dews drew quivering and Chill –
For only Gossamer, my Gown –
My Tippet – only Tulle –

We paused before a House that seemed
A Swelling of the Ground –
The Roof was scarcely visible –
The Cornice – in the Ground –

Since then – ‘tis Centuries – and yet
Feels shorter than the Day
I first surmised the Horses’ Heads
Were toward Eternity –

Questa poesia di Emily Dickinson è tra quelle sue citata più spesso, specialmente nella sua prima strofa che già forma una poesia a sé. E’ citata spesso perché considerata dai critici un capolavoro di composizione, in termini di rime, assonanze, costruzione retorica; ciò naturalmente si apprezza maggiormente nel testo in lingua originale.
Nel testo la morte è personificata nel pronome “He” letteralmente “Egli” che accompagna il passeggero (io) in un viaggio dentro una carrozza. “Chariot” “carrozza” è appunto il titolo col quale la poesia fu pubblicata postuma nel 1890.
Postuma perché Emily in vita pubblicò solo 15 poesie e la sua raccolta di 1775 poesie, su foglietti di minuta scrittura, cuciti a mano, fu scoperta dalla sorella Lavinia alla morte, avvenuta nel 1886.
Nella poesia l’io poetico e il fantomatico “He” compiono un tragitto in carrozza. Il percorso si snoda nello spazio e passa oltre i bambini che giocano a scuola durante la ricreazione, oltre i campi col grano occhieggiante, oltre il sole che tramonta. Questo scorrere di immagini della realtà regalano al testo un’aura di serenità, nonostante l’argomento sia alquanto tetro. L’ineluttabilità della sorte umana è accompagnata nell’espressione poetica dal senso di accettazione che il viaggio ultimo è inevitabile. Lo scorrere degli scenari fa pensare a quelle visioni che si dice accompagnino gli ultimi momenti di vita, nei quali scorrono i frames della propria esistenza come in un film.
L’insistenza sul concetto di immortalità nella prima strofa e di eternità nell’ultima adombra forse la possibilità di un’esistenza ultraterrena, di uno stato “di morte” che rende eterno il riposo dell’uomo, ma non escluderei anche la presenza nella poesia di un lampo di consapevolezza dell’autrice che, con la sua opera scrittoria, si accinge ad edificare il suo mausoleo di parole. Un magnifico edificio che l’avrebbe resa nota ben oltre la morte. In altri termini viene espressa la preveggenza dell’alto ruolo a cui il destino l’aveva chiamata: la morte nell’anima e per converso la gloria dell’immortalità
Cronologicamente la produzione del testo della poesia viene collocato nell’anno 1863.
Nonostante Emily abbia solo 33 anni ha già incontrato più volte l’oscura signora. Ad appena quattrodici anni aveva perso Sophia Holland, sua amica e cugina, ammalatasi di tifo. Nel 1850 la lasciò, sopraffatto dalla tubercolosi, Benjamin Franklin Newton, un giovane avvocato, suo amico e mentore. Benjamin le scrisse che avrebbe voluto vivere ancora per poterla vedere raggiungere la fama e il successo. Indubbiamente un suo ammiratore. Successivamente e all’improvviso venne a mancare anche l’amico Leonard Humphrey, preside dell’Accademia di Hamherst, dove lei aveva studiato.
Queste morti devastano la poetessa, la gettano in uno stato di sconforto e malinconia che si riflette nei suoi scritti. Un poeta non può che tradurre in poesia l’esito di profonde ricerche interiori dirette alla comprensione della morte, non meno che della vita.
E’ molto probabile inoltre che Emily si fosse già innamorata. Non sappiamo delle liasons con gli amici scomparsi, ma molti studiosi concordano che nel 1855, durante un suo viaggio a Washington, conobbe e si invaghì del reverendo Charles Wadsworth. Egli era sposato con figli perciò il sentimento d’amore sbocciato nella giovane non poté trovare sbocco, rimase platonico.
Con Wadsworth la poetessa intrattenne una relazione epistolare dal 1855 al 1858. Nelle lettere lei lo chiama “Master” cioè Maestro. Non si sa se a sua volta egli la corrispondesse sentimentalmente: queste lettere sono andate distrutte. Nel 1858 Wadsworth accetta un incarico di presbitero a San Francisco e ciò pone fine alla corrispondenza con Emily.
I temi del dolore, separazione, morte delle poesie della Dickinson probabilmente traggono fondamento da questa esperienza traumatizzante, non meno che dai lutti che l’avevano colpita.
Sebbene non si sappia con certezza quando Emily cominci a scrivere le prime poesie è certo che l’esplosione della sua creatività avvenne proprio in questi anni: 1855 – 1863. Durante questo periodo scrisse anche le “Master Letters” Lettere al maestro firmandosi “Daisy”, Margherita. Resta il dubbio che potessero essere destinate al reverendo Wadsworth, ma più probabilmente sono dirette a un Master che è trasfigurazione di un personaggio reale, e, quindi, un essere immaginario cui indirizzare confidenze poetiche, amorose, sensuali.
Nella vita di Emily tra le figure femminili è di fondamentale importanza Susan Gilbert per la quale la poetessa prova un trasporto affettivo intenso, al punto che qualche biografo ipotizza che lei possa essere il “Master” delle famose lettere. Susan diventa cognata di Emily nel 1856, sposandone il fratello Austin, ed Emily, pur amando entrambi, percepisce Austin come un intruso nel rapporto con la sua amica prediletta. Pare quasi che rischi di impazzire quando i coniugi pensano di trasferirsi altrove, lasciando la casa dove vivono adiacente a quella paterna di Dickinson, dove abita la poetessa. Essi si rendono conto della profonda crisi in cui era sprofondata Emily e rinunciano al progetto. Il matrimonio comunque non fu dei più felici, funestato tra l’altro anni dopo dalla perdita del figlio generato.

Questa vicenda a conferma ulteriore che l’equilibrio e la serenità di Emily furono sconvolti proprio in questi anni da perdite, dolori, traumi esistenziali che ne segnano l’esistenza, facendo esplodere incontenibile il potenziale poetico dell’autrice.
Nel 1865 Emily decide di vestire sempre di bianco. Questa scelta è il segno di un’accettazione del proprio destino, la quiete che segue l’agitazione, la volontà di dedizione al suo genio. Sa che la sua vita scorrerà per sempre tra le quattro mura della casa paterna perché questa è una sua decisione e, al contempo, gli abiti bianchi che indossa sono manifestazione esteriore di una raggiunta consapevolezza.

Non aveva paura della morte Emily tuttavia, lo dice chiaramente lei stessa nel corpo di una poesia

“Paura! Di chi ho paura?
Non della Morte – perché chi è Costei?”

Pensa che essa sia ricongiungimento ai cari, raggiungimento della quiete, pensa che l’amore è l’antidoto alla morte, non meno della promessa di resurrezione cristiana.

Chi è amato non conosce morte,
perché l’amore è immortalità,
o meglio, è sostanza divina.

Chi ama non conosce morte,
perché l’amore fa rinascere la vita
nella divinità.

E infine sul perché vestisse di bianco, anche qui troviamo la risposta nella sua stessa poesia.

Non può essere l'”Estate”!
Quella – è passata!
È presto – ancora – per la “Primavera”!
C’è quella lunga città di Bianco – da traversare –
Prima che i Merli cantino!
Non può essere la “Morte”!
È troppo Rosso –
I Morti vestono di Bianco –
Così il Tramonto tronca il mio dubbio
A Colpi di Crisolito!

(traduzione di Giuseppe Ierolli)

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Forma alchemica 25: Nazim Hikmet

24 domenica Gen 2021

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica

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Tag

alle vita, commento, Nâzım Hikmet, poesia

foto di Loredana Semantica

Alla vita

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

Siamo sempre col cellulare in mano, ma questo non sempre è un male, giusto qualche giorno fa eravamo in due in macchina su una provinciale ancor più a sud della mia città, avvolti dall’imbrunire suggestivo di un tardo pomeriggio siculo. Lui guidava, io cazzeggiavo al cellulare. Più o meno in prossimità di un passaggio a livello in sosta in attesa del passaggio del treno, vicino alla casa cantoniera, fermi a sinistra dei “pali di ficurinnia” piantati improvvidamente sul ciglio della strada, allora proprio allora, dallo schermo del telefonino è balzato fuori questo testo di Hazim Hikmet, come la poesia sbuca dal silenzio.
Lo leggo e lo trovo bellissimo, sento il bisogno di leggerlo al mio compagno che, a sua volta, lo trova bellissimo. L’esito dello scambio di opinioni è questa forma alchemica. “Forma alchemica” è la rubrica del blog Limina mundi nella quale rendo omaggio alle poesie che realizzano la perfetta alchimia di suono e senso, come spiego meglio qui.
Dal punto di vista formale il testo si compone di tre strofe, alcune frasi sono usate come un refrain “la vita non è uno scherzo” e “prendila sul serio”. Costituiscono il primo e secondo verso della prima e seconda strofa. “Prendila sul serio” introduce la terza strofa. Queste espressioni usate sono colloquiali, il poeta infatti si rivolge a un tu al quale parla, producono l’effetto di avvicinare il testo a una conversazione e di avvicinare l’interlocutore all’ascoltatore.
Nella prima strofa compare uno scoiattolo che non ci si attende dopo un inizio che promette una chiave di lettura della “vita”, ciò provoca un piccolo effetto sorpresa. Lo scoiattolo vuol essere un esempio, il riferimento a una creaturina che vive senza attese e pretese, un animaletto del bosco, ma avrebbe potuto essere un pesce nel mare, un uccello nel cielo, un giglio del campo. Esseri che non vivono nell’ansia del domani dell’oltre o del dopo, ma nel presente e semplicemente.
In questo pensiero poetico si avverte una singolare sintonia con il pensiero cristiano. Sovviene il passo del Vangelo Mt 6,25–33 nel quale le parole di Gesù sono un invito ad affidarsi alla benevolenza celeste, alla grazia che soccorre sempre anche qui chiamando in causa le piccole creature. Parole che sono di speranza nell’ansia e nell’affanno.

«Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” Mt 6,25–33

Ora siamo dentro una pandemia che spegne entusiasmo, iniziative, socialità. Leggere questo inno alla vita produce un particolare effetto di apertura e libertà. Regala un respiro di sollievo. Tocca le profondità.
La seconda strofa è dedicata al sacrificio estremo di quegli uomini che muoiono per altri uomini, per la loro libertà, davanti a un plotone d’esecuzione, o in un laboratorio di ricerca, gli occhi sui vetrini e provette a consumare la vita o a perderla per la salvezza di altri.
Anche questa strofa in questo momento storico assume un significato particolare, perché omaggia il sacrificio degli uomini di scienza, e ce ne sono, ne abbiamo visti, ma molti di più sono quelli che non vediamo, quelli dei quali non sappiamo, che i giornali non mettono in prima pagina o in un articolo per ottenere visualizzazioni, che non sono figure da copertina o disponibili all’esposizione, ma piuttosto esseri autentici e sconosciuti, sofferenti e determinati. Coraggiosi. Per tutti penso alle decine e decine di operatori sanitari morti sul campo di questa infausta pandemia. Di certo non l’avrebbero voluto. Come uomini e donne messi al muro.
Per l’ultima strofa ritorno per un attimo alla premessa raccontata sopra, chiarisco che quella raccontata non è la prima volta che leggevo questa poesia di Hikmet, già in passato l’avevo apprezzata, ma le circostanze erano diverse.
Quella sera di cui racconto avevamo lasciato alle nostre spalle un rettilineo che attraversa distese di uliveti. Ulivi annosi e contorti. Le foglie luccicanti d’argento. I polloni rigogliosi. Alberi fruttiferi e maestosi. In cima a questo post la foto di uno di essi. La chiusa del testo è un focus su vita, morte e ulivo. Quest’ultimo è un albero di alta valenza simbolica. Innanzitutto per le sue caratteristiche. La sua longevità fino a diventare albero secolare. La duttilità del tronco che si contorce per l’azione del vento, diventando una sorta di scultura viva. La capacità di sopravvivere in terreni aridi, sassosi e scoscesi, aprendosi la strada con le radici verso il suolo. Quella ancora più sorprendente di resilienza. E’ capace, distrutto da un’incendio, di gettare ancora polloni dalla ceppaia. Ama la luce, il sole, soffre il freddo e l’ombra. Il frutto che regala, buono in sé da mangiare (opportunamente trattato), è utile per produrre l’olio, prezioso nella cucina e nell’alimentazione. L’olivo era considerato sacro dai Greci, è simbolo di pace e rinascita. Dopo il diluvio per segno dell’emersione della terra una colomba porta a Noè un rametto d’ulivo. E’ simbolo di riconciliazione tra il divino e l’umano. Lo stesso olio che si estrae dall’oliva per la religione cristiana, una volta benedetto, è il crisma con cui si segna il cresimando, che si somministra agli infermi nell’estrema unzione.
Piantare ulivi a settant’anni è un gesto di resistenza alla morte, è la speranza di vederli crescere, il segno della continuità della vita, la consegna di questo spirito combattivo e anelante a una pianta che con ogni probabilità ci sopravvivrà.
L’ultimo aspetto che intendo rimarcare nella poesia e del suo legarsi singolarmente al nostro tempo richiede di riportare in breve gli aspetti salienti della vita dell’autore.
Nazim Hikmet viene detto spesso poeta turco, ma non mi sembra che questa nazionalità turca lo vesta perfettamente. Egli nacque a Salonicco, in Grecia, nel 1901, il padre era un diplomatico turco, la madre era una pittrice di nazionalità polacca. Nazim appena ventenne dovette lasciare la Turchia per ragioni politiche avendo pubblicamente denunciato il genocidio armeno. Si recò a Mosca dove maturò la sua formazione politica comunista. Tornato in Turchia nel 1928 per le sue idee comuniste, antinaziste e antifranchiste fu carcerato per cinque anni, poi liberato e nuovamente perseguitato, torturato e carcerato come sovversivo dal governo turco nazionalista.
La condanna inflitta era a 28 anni di detenzione, Hikmet ne scontò 12, dal 1938 al 1950. Nel 1950 fu liberato a seguito di uno sciopero della fame di diciotto giorni che compromise la salute del suo cuore e grazie a iniziative di solidarietà internazionale da parte di artisti e intellettuali.
Una volta libero, scampato a due attentati, fu costretto all’esilio, separato da moglie e figlio, in quanto il governo turno non permise loro di seguirlo. Nazim rinunciò alla nazionalità turca nel 1951, e, come rifugiato politico, acquistò quella polacca, la stessa della madre.
Egli visse poi soprattutto a Mosca, dove fissò la sua residenza e dove morì il 6 giugno del 1963, stroncato da una terza e fatale crisi cardiaca.
Hikmet scrisse la poesia “Alla vita”, proposta in questa forma alchemica, nel 1948, mentre era in carcere. Anche lo stato di prigionia del poeta aggiunge valore al testo. Nel leggerla proprio adesso non si può non correlare lo stato di costrizione in prigionia dell’autore alla particolarità del momento che viviamo e che ci costringe nelle case molto più di quanto desidereremmo. Anche se la detenzione è su basi diverse, lì imposta dalle sbarre punitive, qui dalle disposizioni e sanzioni, ma in sostanza dal buon senso a tutela della propria e altrui salute, sentirla risuonare come un canto di profonda libertà, pensare alla prigionia del suo autore, legge e rilegge in qualche modo il sentire del nostro tempo, lo rielabora, lo distende.

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Forma alchemica 24: Attila Jozsef

13 giovedì Dic 2018

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica

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Con cuore puro

Non ho padre, né madre,

né dio, né patria,

né culla, né sepolcro,

né amante né baci.

Da tre giorni non mangio,

né molto, né poco.

Vent’anni la mia forza,

i miei vent’anni li vendo.

Se nessuno li vuole,

allora che il diavolo se li porti.

Con cuore puro rubo,

se occorre ucciderò.

Che mi catturino e impicchino,

mi ricoprano di terra benedetta

un’erba mortale cresca

sul mio bellissimo cuore.

 

Attila Jozsef

Attila József è l’autore di questa poesia, scritta quando si accingeva alla carriera di insegnante. Con questa poesia egli si giocò la possibilità di insegnare, essa segna perciò le stimmate di poeta sui palmi di Attila, piega il suo destino.

Grande il fascino percussivo nella raffica di negazioni che s’inalbera nella prima strofa. Come vessilli di verità, sconforto, disillusione e sofferenza. La seconda strofa della poesia sembra adombrare lo spettro della fame, e sebbene vent’ anni abbiano in sé forza e potenza, se nessuno vuole dare ad essi storia e collocazione, soddisfazioni o vittoria, si buttano via in pasto al diavolo. Un cuore puro è disposto a sacrificare l’uomo, a perdersi nella riprovazione sociale, rubando o uccidendo se occorre. La poesia che inneggia al cuore puro, anticipa la sorte del poeta, la sua fine, eppure non rinuncia il cuore alla sua bellezza: l’erba del finale raccoglie simbolicamente il verde della speranza che questa bellezza non muoia chiusa nella tomba, ma prosegua diffondendosi sulla bocca degli uomini. Questo è ciò che è avvenuto per Attila Jozsef, che a dispetto delle umili origini, e della sua breve vita è riuscito nel breve tempo della sua esistenza a scrivere poesie di un denso lirismo, vitale e profondo, che gli hanno conquistato  l’amore del popolo ungherese.

Attila Jozsef nacque a Budapest nel 1905. Non ebbe un’infanzia felice, il padre, operaio in un saponificio, abbandonò la famiglia quando Attila aveva appena tre anni. La madre, contadina, rimasta sola, per mantenere i figli, si accollerà il duro lavoro di lavandaia. Ciononostante il piccolo Attila le venne tolto e, insieme alla sorella Elteka, affidato ad una famiglia di contadini del villaggio di  Öcsöd che divennero genitori adottivi. L’infanzia di Attila di certo non fu all’insegna del gioco, spensieratezza e affetto, la sua occupazione in campagna era  curare i maiali. I genitori adottivi non accettavano nemmeno il suo nome, preferendo chiamarlo Pista, diminutivo di Istvan. A questo tentativo di “repressione” identitaria, Attila farà risalire, anni dopo, la sua passione per la letteratura, avendo scoperto allora le gesta di Attila, re degli Unni, si rese conto che la letteratura permetteva una possibilità di esprimere idee alternative a quelle imposte da altri e la riaffermazione della propria individualità.

Dalla sistemazione ad Öcsöd  Attila fuggì per tornare dalla madre, della quale rimase orfano ad appena quattordici anni. Per la madre Attila nutrì sempre grande affetto, manifestato anche in commoventi poesie a lei dedicate nelle quali intreccia vissuto personale e anelito alla catarsi sociale, aspetti presenti in tutta la sua produzione.

A questo punto della sua vita per interessamento di Ödön Makai, marito della sorella maggiore, ricco avvocato e tutore di Attila, egli poté studiare. Era uno studente inquieto, discontinuo, ma brillante, otteneva risultati con poco studio, necessitando di poco tempo per apprendere. Il suo disagio tuttavia lo perseguitava manifestandosi in tentativi di suicidio e nella diagnosi  di una forma di schizofrenia.

A vent’anni scrisse la poesia “Con cuore puro” (Tiszta szívvel) nella quale dà voce potente alla sua profonda disillusione in tutte le istituzioni e consolazioni del mondo. La sua poesia tuttavia ben lontana dall’ essere frutto di una posa da poeta maledetto era invece espressione di accusa sociale, di sentimento di abbandono, di esperienza esistenziale di autentica sofferenza, aggravata dalla povertà, da un’ infanzia infelice e da un’acuta sensibilità.  Proprio per la poesia qui proposta egli ricevette il durissimo giudizio del professore di linguistica ungherese, Antonio Horger, dell’Università di Seghedino alla quale Attila era iscritto. Horger ebbe ad affermare che finché fosse stato vivo  non avrebbe mai permesso a Jozsef di diventare insegnante, non potendo consentire che l’educazione delle giovani generazioni fosse affidata ad individui che scrivevano poesie del genere. Si riferiva appunto alla poesia “Con cuore puro” pubblicata sul giornale Szeged. Attila deluso abbandonò l’Università e il proposito di diventare insegnante e si trasferì a Vienna dove cercò di mantenersi facendo vari mestieri: vendendo giornali, facendo pulizie, come precettore ed infine come corrispondente franco-ungherese all’Istituto del Commercio Estero, senza abbandonare l’attività letteraria, dalla quale riceveva anche saltuari compensi. Subentrò tuttavia uno stato di disagio psico-fisico che lo costrinse a lasciare l’impiego di corripondente.

Sul fronte politico Attila da giovane aveva aderito al partito comunista clandestino con fede ed entusiasmo, che tuttavia non impedirono al partito, anni dopo, di  espellerlo per deviazionismo. Probabilmente Jozsef era voce troppo autentica e fuori dal coro per un partito che in quegli anni era ligio alle indicazioni di allineamento staliniane. Questa estromissione fu per il poeta un colpo ulteriore. Egli tuttavia non cessò di esprimere nelle sue liriche le istanze di giustizia, lo spirito rivoluzionario, l’anelito al riscatto sociale, descrivendo il grigio delle periferie, delle fabbriche, l’alienazione del lavoro umile, manifestando la protesta contro l’ ipocrisia del mondo borghese, a favore di poveri, emarginati, operai, della loro degradata condizione, perché essi non ricevono dal mondo la loro parte di felicità, ma solo il salario. Attento anche alla bellezza di paesaggi, cielo, natura e considerando l’arte, unico vero rifugio dalla disperazione, fu sensibile agli influssi dell’espressionismo, del surrealismo, del simbolismo. La sua poesia è ricca di metafore e similitudini, ma esprime principalmente la solidarietà con gli ultimi, col loro dolore esistenziale, specchio del proprio, e uno spirito di contestazione per una società che ha elevato il denaro a priorità, rendendo gravemente inumano vivere per tutti di coloro che non accedono al benessere economico.

Non trovò consolazione nei rari rapporti sentimentali, tutti con esiti fallimentari.

Morì ad appena 32 anni investito da un treno mentre si trovava sui binari della stazione di stazione di Balatonszárszó. L’ipotesi più accreditata è quella del suicidio confortata dai suoi precedenti tentativi, dalle recenti delusioni sentimentali, ma non è escluso l’incidente. Coloro che respingono la tesi del suicidio evidenziano come Jozsef in fondo non è mai stato un vinto, pur nell’indigenza e nell’infelicità non ha mai cessato di lottare, come testimoniano i suoi versi, sempre pervasi da un fuoco ribelle, da un’energia rivoluzionaria che non si arrende. Probabilmente fu qualcosa di molto simile al lasciarsi andare trovandosi, non volendolo inizialmente, in una condizione di pericolo, come potrebbe essere una scelta di accettazione della fine, perseguita successivamente a una caduta accidentale o perché senza scampo.

E’ paradossale che proprio la poesia Con cuore puro che segnò fortemente in negativo la sua esistenza sia stata giudicata dai critici “emblema della nuova poesia”.

Come significativo è anche il più recente episodio avvenuto nel luglio del 2013, quando il governo autoritario di Orban, decise di rimuovere la statua di Attila Jozsef da una piazza centrale di Budapest. Sono accorsi in migliaia nella piazza per impedire la rimozione, testimoniando l’ammirazione per lo scrittore, icona di ideali e giustizia. Si realizza quindi ciò che è stato scritto da Jozsef nella poesia “Per il mio compleanno” nell’anno della morte, riferendosi con ironia al suo desiderio stroncato d’essere insegnante.

“Io non una scolaresca
ma il mio popolo intero
formerò”

La mortificazione del suo desiderio di diventare insegnante è stata riscattata dall’ essere diventato ciò che egli aveva intuito in vita: simbolo e ispiratore dell’intero suo popolo.

 

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Forma alchemica 23: Giorgio Caproni

24 giovedì Mag 2018

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA

≈ 2 commenti

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Giorgio Caproni

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.

Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

Giorgio Caproni

Commento oggi una poesia breve. Giorgio Caproni alla sbarra esegue la sua danza. Un volteggio celeste di parole. Contraddizione e sintesi in questo testo. Un ricercare alla radice della sedentarietà che si sposa con l’esistenza/non esistenza. Uno sparire sullo sfondo dell’essere sempre in un luogo, per andare dove mai si è andati, quindi per restare fermi, non muoversi, quasi piantati, eppure dinamici. Un percussivo battere di infiniti, un andamento circolare di versi che vanno e vengono e restano nella presenza in un luogo – topos fisico e metaforico – dove mai l’io poetico fu.

Caproni semplice e stimolante, lapalissiano e lampante, nel senso proprio di fulminante, in questo inseguirsi verbale di affermazioni e negazioni  che richiama molta poesia di Pessoa; il suo eterno contraddirsi consegnato al  corpus poetico. Come per Pessoa tuttavia in Caproni  sono presenti, nella contrapposizione dell’essere/non essere, restare o andare,  gli echi metafisici dell’immaterialità  e dell’ assoluto. Grandi temi che denunciano una ricerca profonda della verità personale, un’interrogazione sulla verità del mondo.

Non si tratta dunque di giochi di parole, non c’è alcuna volontà d’impressionare il lettore, il linguaggio è comune, quotidiano. Rimarco particolarmente quest’aspetto in contrasto con certa poesia letta di recente in rete che appare una sorta di trasposizione in versi di un “Grande fratello” (il famoso programma guardone) con intenti di dissacrazione. Poesia che ricorre all’ ostentazione di un linguaggio turpe e ammiccamenti che lasciano intuire perversioni/ossessioni sessuali per impressionare, catturare l’attenzione, incuriosire e interrogarsi fino a che punto viene condotto il gioco.

Non sono io che cerco la poesia da proporre in forma alchemica è la poesia che viene a me. Non per niente leggo in questi giorni Caproni e questa sua, quasi un compensare la cattiva impressione lasciata dall’offerta di altri testi letti. In verità questa forma alchemica muove da questo questo testo e dalla premessa appena esposta per sviluppare una serie di considerazioni sulla poesia: natura, valenza, potenza e potenzialità, veicolo, strumento.

Ho sempre sostenuto che in poesia si possa dire tutto, che non c’è da temere la parola, men che meno temere di pronunziarne una. Non si deve aver paura di chiamare le cose con il loro nome: il pene è l’organo sessuale maschile, il coito è l’accoppiamento, l’elefante ha la proboscide, l’ape punge. La sequenza è volutamente allusiva.  Ho appreso recentemente che squirtare è l’atto dell’eiaculazione femminile. Mi sono compiaciuta del grazioso nome che essa ha assunto nel mondo. Mi sono detta che non si finisce mai di imparare. Tant’è che recentemente ho appreso come porre a confronto i dati di due colonne di excel formattando automaticamente gli eventuali duplicati.

Una cosa tuttavia è l’atto di imparare, un’altra è scrivere o leggere poesia. Perché si scrive poesia se non per consegnare al mondo la propria verità profonda? E ci si augura che questa verità ingentilisca il mondo, lo alimenti di bellezza. Scavare nel proprio pensiero fino ai punti più reconditi permette di esprimere concetti sottili e belli che contengono al loro interno riferimenti ai punti critici delle domande esistenziali. Le domande che il poeta pone a se stesso sono al contempo interrogativi che egli ci offre. Noi sentiamo di condividerli ravvisando nella sua ricerca una speciale progressione della ricerca collettiva, un avanzamento verso una verità mai pienamente posseduta, che prima o poi tuttavia raggiungeremo. Le menti più eccelse, le sensibilità più acute si muovono alla sua ricerca, quasi punte avanzate del pensiero umano, rivolte all’oltre, all’introspezione, alla descrizione, mediante il qui e ora, attraversando il presente.

Quando ritorno sfinita da una giornata di lavoro, poesia come quella che qui propongo mi dà ristoro. Viceversa leggere in versi parole che lasciano il sospetto di una voluta ostentazione, esercizio stilistico forte e forse, ma comunque composte da una sequenza di associazioni verbali allusive di perversioni e oscenità, la reazione è di repulsa. La stessa reazione che provoca la poesia scadente pervasa da sentimenti, sentimentalismi, nuvole e tramonti. Certamente è vero che le brutture esistono nel mondo, vero che la poesia accetta la verità come una forma di ricerca di bellezza, ma se si intuisce l’intento di impressionare, di ostentare e provocare allora non so più se sia possibile dirla poesia, perché non so più quanta verità contenga e, pertanto, sento come osceno anche il ricorso a questa forma di arte, che tutto tollera sia con esso espresso, tranne la menzogna.

D’altra parte quante volte ho letto della poesia associata all’idea di scoria, superfluo, escremento, qualcosa di tossico, di cui liberarsi, allora potrebbe succedere che si scriva vomitando addosso al mondo il male percepito, e qualora il male fosse vero, qualora vero fosse il dolore, certo la questione muta angolazione. Ancora una volta torniamo all’idea di verità, sebbene in questo caso la poesia non sia modalità di ricerca della verità che s’illumina di bellezza, ma viene strumentalizzata per restituire il male. Diventa valvola di sfogo del proprio travaglio, del male subito, del dolore provato. A questo proposito devo riconoscere che altra cosa che guasta la bellezza è la virulenza. La bellezza è compostezza, distanza, pace, silenzio. Ha consistenza bianca marmorea fino alla luce accecante. Tra le righe di un foglio bianco traspare questo controllo della potenza, quel domino della parola ch’è setacciare profondità, innalzarsi alle vette. Quando un immenso dolore decanta si esprime con diverse parole che trasmettono sensazioni diverse da quelle suscitate quand’esso è troppo vivo e taglia la carne. La poesia non è fatta per affettare il cuore, ma per suggerire una via di ristoro al dolore, per raccontare il dolore lontano con parole anche forti, ma che ne sostengono il peso, perché frutto di raccoglimento, rassegnazione, riflessione.

In conclusione la poesia non è per la menzogna e neanche per farne strumento dei propri bisogni, ma esiste per volare, condurci oltre, nel luogo dove sappiamo essere l’assoluto. Assoluto impossibile da raggiungere eppure intravisto nei viaggi mentali, ispirati e assorti, che preparano e precedono l’atto poetico. L’assoluto che tutto contiene della nostra vita ed esperienza e comprende ciò che è, sarà e saremo. Tutto questo eterno e infinito contenuto ha modo di manifestarsi nella più alta forma della parola: la poesia.

Non intendo con ciò deificare questa forma espressiva,  tantomeno venerarla, ma certo suggerisco a chi si accinga a “maneggiarla” di rispettarla per la sua valenza, per la sua potenza. E’ responsabilità dello scrittore di evitare di aggiungere orrido all’orrido, osceno all’osceno, male che traduce il male, che trasmette il male, ed è sua responsabilità l’incapacità di coltivare la bellezza. Cioè l’unica cosa che ci salva, che ci consola.

Loredana Semantica

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Forma alchemica 22: Clemente Rebora

19 giovedì Apr 2018

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA

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Clemente Rebora

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Questa lirica di Clemente Rebora non poteva mancare nelle mie “Forme alchemiche”. Non poteva mancare perché ai miei albori da lettrice indefessa di poesia, incontrai questo testo e me ne innamorai, ritenendolo per lungo tempo un modello di perfezione poetica. Io ne percepii il valore al primo incontro, scoprii solo dopo che è considerato unanimemente il capolavoro di Clemente Rebora. La valutazione convergente mia e dei critici ha contribuito al raggiungimento della personale convenzione che solo i grandi scrivono capolavori e solo talvolta, gli altri loro componimenti sono sempre di qualità, ma non raggiungono certi vertici di perfezione che suscitano meraviglia “fra quattro mura/stupefatte di spazio” per citare proprio il testo in commento, che, con felice aggettivazione e originale allocuzione, circoscrive il sommovimento emozionale nell’ambito ristretto delle mura, dunque in uno spazio riservato e personale.
In fondo Forma alchemica esiste proprio per proporre testi poetici che “grondano” incantevole armonia di senso e suono. Se ne conclude che questa poesia sta di diritto in questo luogo a regalare ristoro ai cercatori di bella poesia e a rendere omaggio a Clemente Rebora.
Nella poesia “Dall’immagine tesa” è presente fortemente l’elemento dell’attesa. Un’attesa che nel proseguo assume toni parossistici “di quanto fa morire”, ma che già nel “tesa” del primo verso denuncia la tensione, l’anelito verso il “il suo bisbiglio” spasmodicamente desiderato.
E’ proprio delle anime in cerca di assoluto l’anelito a di sentire la voce di Dio, che poi per taluno si manifesta nella vocazione sacerdotale, per altri in una chiamata spirituale alla pratica laica dei valori cristiani. Per tutti consiste in un’attesa di realizzazione della promessa celeste di una resurrezione in anima e corpo per coloro che abbiano avuto fede dopo la morte nel ricongiungimento a Dio
Sentire la voce di Dio è bisogno manifestato anche da figure note di santi riportate nei anche loro scritti o in scritti che raccontano la loro vita. Solo per citarne alcuni San Francesco, Sant’Agostino, San Giovanni della Croce, quest’ultimo ispiratore di Giuni Russo ne “La sua figura”. Qui di seguito nel video che vale la pena di ascoltare.

Sul grande schermo l’anelito a sentire la voce di Dio è approdato ad esempio con la garbata parodia di conversazioni tra Dio e parroco del piccolo paese della Bassa Padana presenti dell’opera di Guareschi, nella quale un geniale Fernandel-Don Camillo dialoga con il Crocifisso parlante.

Indimenticabile lo struggente film Marcellino pane e vino, dove un bambino delizioso dalla guance paffute e profondi occhi neri, orfano di genitori, adottato dai frati di un Convento, parla con Cristo e gli offre pane e vino per poi in finale ricongiungersi a lui ed alla madre nel passaggio a miglior vita. Metaforicamente il film offre la chiave di lettura di un possibile dialogo con Dio solo attraverso l’abbandono, la fiducia, la semplicità proprie dell’animo di un bambino.

Tornando al testo ed alla sua composizione credo mai nessuno ebbe la felice idea di scrivere di un campanello che “impercettibile spande/ un polline di suono”, espressione nella quale si fondono i sensi visivo, tattile e l’odorato. Nessun campanello e fiore hanno ispirato l’associazione fino al sopraggiungere dell’invenzione di Rebora, sensibile a tanto concerto sinestetico. L’imminenza di questo arrivo è l’aspetto dinamico di questa attesa, l’assoluto che muove verso lo spirito che, di suo, con ansia, lo attende. L’attesa è l’aspetto statico della ricerca di un io profondo che invoca l’assoluto, consapevole che non è dato di percepirlo se non in quanto quello intenda rivelarsi.
Rebora sa che deve vegliare perché l’arrivo sarà improvviso, l’incontro non programmabile, che l’attesa può essere questione di un’intera vita e protrarsi nel tempo fino alla fine del proprio tempo. Chiaro qui il richiamo alla parabola evangelica delle dieci vergini. Cinque di esse previdentemente, uscendo per andare incontro allo sposo, si munirono dell’olio per le lampade, le altre cinque, rimaste senza olio, andarono a procurarsene. Quando arrivò lo sposo,  queste ultime non erano pronte e rimasero fuori dalla sua casa. La parabola rammenta di vegliare perché non si conosce il giorno e l’ora dell’appuntamento con l’oltre.
In questo senso l’attesa del divino si confonde con l’attesa dell’ exitus,  ch’è annullamento dell’essere per la rinascita a nuova esistenza.
E’ da rimarcare l’uso per ben tre volte nel testo poetico dell’espressione “non aspetto nessuno” . La frase vuole essere forse una dichiarazione che non è una persona che si attende, oppure che Colui che che si attende forse non dovrebbe nemmeno essere atteso, essendo in ogni cosa che è, o ancora che non si attende Lui, bensì una qualunque manifestazione del suo pensiero, presenza, volere, quell’impercettibile bisbiglio che può dare senso all’intera esistenza. E’ da rimarcare il refrain perché ad una prima lettura non si avverte, esso s’inserisce così armonicamente nella composizione che nemmeno si percepisce la ripetizione.
Desidero chiudere il commento a questo testo citando quattro versi che intercettando le aspirazioni di tutti gli uomini che perciò potremmo ben dire universali: verrà a farmi certo/ del suo e mio tesoro,/ verrà come ristoro/ delle mie e sue pene,
E’ anelito condiviso trovare quel tesoro che renda felici, che sia ristoro alle pene. Dolore e senso di pena o mancanza o insufficienza sono manifestazioni diverse inevitabilmente connesse all’essenza umana. Nessuno può mai prescindere dallo sperimentare nel suo percorso vitale tali avversità. Ecco perché trovare quanto dà ristoro e pienezza allo spirito è ricerca che accomuna. Certo cambiano le modalità, alcuni seguono percorsi autolesionisti, altri nascondono la testa sotto la sabbia, ma i più tentano la risposta che oltrepassi la fisicità per credere in un oltre, nell’assoluto, nella divinità. Coltivano la speranza di un’esistenza metafisica che sia premio ed approdo.
Questo il percorso di Rebora, che, avviato ad insegnamenti laici, alla strada della letteratura e dell’insegnamento, si rivolgerà ad un certo punto della sua esistenza alla vocazione sacerdotale, la dedizione alla poesia intrecciandosi con la sua vita d’operosità religiosa. La poesia “Dell’immagine tesa” è tratta dalla raccolta di Clemente Rebora “Canti anonimi”, pubblicata nel 1922.

 Loredana Semantica

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Forma alchemica 21: Sylvia Plath

08 giovedì Feb 2018

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ 3 commenti

L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro.
La levatrice ti ha schiaffeggiato sotto i piedi e il tuo nudo grido
ha preso il suo posto fra gli elementi.

Le nostre voci echeggiano, esaltando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra della nostra sicurezza.
Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti.

Non sono tua madre più di quanto
lo sia la nuvola che distilla uno specchio per riflettere la propria lenta
cancellazione per mano del vento.

Per tutta la notte il tuo respiro di falena tremola
fra le piatte rose rosa. Veglio per ascoltare:
un mare lontano si muove nel mio orecchio.

Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante
come una mucca e floreale
nella mia camicia da notte vittoriana.
La tua bocca si apre pulita come quella di un gatto. Il riquadro della finestra

s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle. E ora tu provi
la tua manciata di note;
le vocali chiare salgono come palloncini.

19.02.1961, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Io non ero ancora nata e Sylvia Plath scriveva questa poesia dedicata alla sua primogenita Frieda, nata nell’aprile del 1960. La propongo in forma alchemica perché sin dalla prima lettura, avvenuta molti anni fa, mi ha impressionato quel singolare miscuglio di:

  • amore materno (L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro –  Un grido, e scendo dal letto);
  • distacco da osservatore esterno (Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti – scendo dal letto incespicando, pesante come una mucca e floreale);
  • senso di estraneità (il tuo nudo grido ha preso il suo posto fra gli elementi. – Nuova statua. – Non sono tua madre più di quanto lo sia la nuvola… )

che trasuda dalla poesia ed è in grado di catturare magneticamente alla stupefatta lettura  fino alla fine del componimento.

C’è soprattutto un verso che trovo incantevole, frutto del parossismo dello spirito di osservazione e della capacità eccezionale d’inventiva poetica, il verso dove la poetessa assimila la boccuccia sottile di un neonato a quella dalle linee altrettanto nitide, sottili e pulite del felino di casa. (La tua bocca si apre pulita come quella di un gatto.) E’ un’originale similitudine, singolare e coraggiosa, concentrato di tutti e tre i filoni portanti del testo: amore materno, distacco e senso di estraneità

La Plath è una poetessa geniale, graziosa d’aspetto e con una personalità affascinante. Nacque a Boston il 27 ottobre del 1932.

Amava la perfezione, gli studi letterari, la poesia. Scrisse la sua prima poesia ad appena 8 anni, restò orfana di padre a nove, tentò il suicidio a 18, si laureò con lode a 23. Cercò per tutta la vita di compiacere la madre nel suo desiderio che la figlia conquistasse successi e perfezione

Sposò Ted Hughes, poeta laureato inglese e con lui, dopo un periodo felice a Boston, si recò a Londra e successivamente nel Devon. Il fascino di Sylvia Plath è reso ancora più profondo dal disagio psichico  culminato il 31 ottobre del 1963 nel suo suicidio, avvenuto a Londa in un appartamento che era stato abitato da William Butler Yeats

Molti articoli in rete riportano e commentano, raccontano e romanzano il suicidio di Sylvia. Chiudersi in cucina, sigillare porte e finestre con nastro adesivo e asciugamani bagnati, infilare la testa nel forno e morire avvelenata dal monossido di carbonio è certo un modo pensato e caparbio di morire.  I figli al sicuro nella stanza accanto hanno pronta accanto al letto la colazione: una tazza di latte, pane e burro. A breve, Sylvia sapeva, sarebbe arrivata un’infermiera alle cui cure era stata affidata dal medico la famiglia e che infatti ebbe la macabra sorpresa di trovare la poetessa morta. Forse Sylvia non voleva morire, ma formulare una disperata richiesta di aiuto, forse pensava nel suo inconscio che l’infermiera sarebbe arrivata per tempo e avrebbe chiamato i soccorsi, che l’avrebbero rianimata, forse all’opposto la sua ansia di perfezione si manifestò anche nel programmare e portare a compimento il suicidio, con un calcolo perfetto dei tempi, della resistenza fiacca del suo organismo, della riuscita del suo progetto.

Non stava bene Sylvia, era prostata dall’abbandono di Ted Hughes che era andato a vivere con Assia Wevill della quale si era innamorato, questa probabilmente fu la goccia che fece traboccare il vaso del disagio. Già la Plath aveva dovuto affrontare la nascita di due figli e un aborto nel 1961, dunque dal 1960 come un continuo martellamento il suo equilibrio era stato messo a dura prova, ben sappiamo quanto la nascita dei figli sconvolge la vita dei genitori e quanto impegno richiede ad una madre. L’inverno tra il 1962 e il 1963 era stato particolarmente rigido e sia la Plath che i suoi figli si erano ammalati. I bambini avevano ancora la febbre. Questa sequela di eventi avrà portato la Plath alla scelta nefasta della resa definitiva.

Nel 1959 Sylvia aveva frequentato insieme ad Anne Sexton un corso di scrittura creativa che influenzò molto il modo di scrivere di entrambe. La Plath e la Sexton sono considerate infatti le maggiori esponenti femminili della poesia “confessionale” per quanto l’etichetta, usata anche in senso negativo, non esalti a sufficienza l’originalità, l’inventiva e la profondità degli scritti di queste due autrici. Anche la parola poesia “femminista” è riduttiva, non solo perché insufficiente ad esprimere la complessità della scrittura poetica, ma perché maschera un deteriore tentativo di ridimensionamento.

Tra le due poetesse però si sviluppò un rapporto prevalentemente competitivo determinato dalla volontà di Sylvia di eccellere, dalla sua continua ricerca di perfezione, e dal disappunto che ella provava nei confronti della Sexton che riusciva, a differenza di quanto riusciva a fare lei, a scrivere di getto.

L’anno 1960 tuttavia dette il via al periodo più prolifico e brillante della Plath. Pubblicò The Colossus, dedicato a Hughes che lei appunto considerava un genio, scrisse il romanzo autobiografico La campana di vetro, che era stato appena pubblicato quando lei si suicidò e una serie di riuscite poesie che confluirono nella raccolta postuma Ariel che vide la luce nel 1965.

Ted Hughes e la madre di Sylvia Aurelia Schober esercitarono un controllo sulle pubblicazioni postume dell’autrice, parti del diario che la Plath teneva sono state distrutte dal marito, a suo dire, per tutelare i figli, la Schober invece ha bloccato le pubblicazioni della figlia negli Stati Uniti.

Mi ha impressionato la scia di suicidi che seguono quello di Sylvia come una sequela nefasta di negatività. Assia Wevill si suicidò sei anni dopo la morte di Sylvia con sonniferi e gas insieme la figlioletta che aveva avuta da Hughes. Più di recente, nel 2009, si è suicidato Nicholas Hughes, oceanografo, figlio di Sylvia e Ted.

Certo queste scelte terminali sono testimonianza di vite vissute drammaticamente, e la poesia di Sylvia non è altro che il modo di rendere visibile, comprensibile, quasi esporre questa drammaticità esistenziale. Non per niente Sylvia scriveva sul suo diario «La scrittura è la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo» e più sotto in carattere maiuscolo «LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA»

Ted Hughes, al quale l’opinione pubblica addebiterà la responsabilità del suicidio della Plath, confesserà in uno dei suo ultimi scritti, il suo amore mai sopito per lei; nel frattempo dalla morte ad oggi, grazie alla poesia, quindi proprio alla sua scrittura,  Sylvia, ha conquistato l’amore di moltissimi lettori e lettrici, e di molti poeti e poetesse, alcuni dei quali tentano, senza successo, di riprodurne l’inimitabile stile.

Loredana Semantica

 

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Forma alchemica 20: Hermann Hesse

22 mercoledì Nov 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Hermann Hesse, Tristezza

Hermann_Hesse_1927_Photo_Gret_Widmann

immagine da wikipedia

Ancora ieri splendidi
oggi votati alla morte
cadono fiori su fiori
dall’albero della tristezza

Li vedo cadere e cadere
come neve sul mio cammino
svanita l’eco dei passi
si avvicina il lungo silenzio

Non ci sono più stelle nel cielo
né amore nel cuore
la distanza è muta e smorta
vecchio e vuoto il mondo

Chi può proteggere il cuore
in questo disperato momento?
Dall’albero della tristezza
cadono fiori su fiori

Hermann Hesse
(trad. Loredana Semantica)

Die mir noch gestern glühten
Sind heut dem Tod geweiht
Blüten fallen um Blüten
Vom Baum der Traurigkeit

Ich seh sie fallen, fallen
Wie Schnee auf meinen Pfad
Die Schritte nicht mehr hallen
Das lange Schweigen naht

Der Himmel hat nicht Sterne
Das Herz nicht Liebe mehr
Es schweigt die graue Ferne
Die Welt ward alt und leer

Wer kann sein Herz behüten
In dieser bösen Zeit?
Es fallen Blüten um Blüten
Vom Baum der Traurigkeit

La poesia che propongo in questa forma alchemica rappresenta una fedele descrizione dell’avvilimento spirituale dei depressi. Il progressivo spegnimento della luce, dei colori, dei suoni, il senso di oscuramento di ogni sentimento gioioso e un continuo cadere di “fiori su fiori” come fossero lacrime dal cuore. Cuore che tace morto all’amore, da non intendersi come pulsione sentimentale verso l’altro in quanto essere umano, quanto altro, come ciò che è fuori da sé, cosa o persona che sia, verso cui si è incapaci di tendere, di andare incontro, perché svanisce, soffocato dalla percezione di un’insormontabile distanza che s’interpone, come avviene metaforicamente col suono dei passi che si spengono ovattati dalla neve.
Non c’è nulla che possa salvare in questi momenti disperati, la tristezza pervade tutto. Tutto cade verso il suolo nella demoralizzazione invincibile rappresentata dai fiori, sinonimo di colore e bellezza, che cadono senza speranza. E’ un dolore morale senza rimedio che pervade lo spirito e lo prostra.
Hermann Hesse è l’autore di questo testo. La perfetta rappresentazione del climax psichico modellato con le parole della poesia introduce alla principale nota caratteristica della poetica di Hesse. L’approfondimento psicologico che egli svolse per tutta la vita con la sua scrittura, accreditandosi come scrittore della crisi e della ricerca. Il filo conduttore della poesia e degli stessi romanzi di Hesse è una costante e pervasiva autoanalisi influenzata da principi mutuati dalle dottrine orientali, indù e buddista principalmente, unitamente a uno spirito profondamente pacifista che lo portò ad assumere posizioni non in linea con il movimento nazionalista. Queste posizioni tuttavia non furono espresse dichiaratamente, ma scaturiscono come evidente conseguenza degli ideali contenuti nelle sue opere. Il pensiero di Hesse era sostanzialmente contrario a un impegno dell’artista in ambiti politici e sociali, dovendo egli piuttosto dedicarsi al compimento della propria “formazione” umana attraverso l’esplicitazione della propria arte. La sua contrarietà al nazionalismo si desume anche dall’affermazione che egli, favorevole a un’unione europea a tutela degli ideali umanistici , espresse in età avanzata, “Sto scoprendo per la prima volta dopo decenni dei sentimenti di nazionalismo nel mio petto, naturalmente non tedesco, ma europeo”.
L’introspezione, il pacifismo, lo spiritualismo e il misticismo sono le ragioni che spiegano il fascino esercitato dagli scritti di Hesse nel 1964 sui giovani americani aggregati in movimento pacifista contro la guerra in Vietnam. Il loro apprezzamento postumo, di appena due anni dopo la morte dell’autore, sono alla base della grande diffusione internazionale delle opere di Hesse, autore di lingua tedesca tra i più letti al mondo.

Una figura eclettica Hermann Hesse, poeta, scrittore, filosofo, pittore, tedesco, naturalizzato svizzero, nacque nel 1877 a Calw da famiglia protestante, il padre e il nonno erano stati missionari in India. Visse l’infanzia con la famiglia a Basilea, insofferente alla rigida e oppressiva educazione pietista impartitagli. Egli inizialmente fu avviato agli studi teologici nel seminario protestante del monastero di Maulbronn. Hermann però, appena quindicenne, fuggi dal monastero, e attraversò una profonda crisi depressiva culminata in un tentativo di suicidio. I genitori allora lo fecero ricoverare a Stetten, dove rimase per quattro mesi in cura, poi lo iscrissero al liceo di Cannstatt, nel quale prese la licenza media.
Successivamente si recò a Tubinga dove diventò libraio e cominciò a pubblicare i suoi primi scritti. Fu un autore prolifico, ben 15 raccolte di poesia e trentadue romanzi, tra i quali i più famosi: Peter Camenzind (1904), Gertrud (1910), Demian (1919), Siddhartha (1922), Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930) e Il gioco delle perle di vetro (1943). Siddharta è stato ispirato dal suo viaggio in India, paese che esercitava su di lui grande attrattiva per il trascorso dei genitori. Il viaggio da lui stesso definito deludente, si traduce nell’opera in uno splendido risultato.
Si sposò tre volte. La prima moglie fu Maria Bernoulli, una fotografa professionista, che sposò nel 1904, e che gli dette 3 figli Bruno, Heiner e Martin. Nel 1919 si separò da Maria, dalla quale si era progressivamente allontanato per un forte esaurimento nervoso causato dalle esperienze connesse alla prima guerra mondiale e dai problemi psichici della moglie.
Si recò a Montagnola, nel Ticino, dove sembro riprendersi dalla malattia, ma, al termine della prima guerra mondiale, dovette ricorrere alle cure di Carl Gustav Jung e di un suo allievo per superare il suo malessere psichico.
In seconde nozze sposò la cantante Ruth Wenger, vissero poco insieme e le nozze ebbero breve durata, sufficiente tuttavia per precipitare nuovamente Hesse nella depressione e in pensieri oppressivi di morte, che egli cercò di contrastare frequentando i locali notturni di Berna e Zurigo. Frutto di questa esperienza fu il romanzo autobiografico “Il lupo della steppa”
La terza moglie di Hesse fu Ninon Dolbin Ausländer, storica d’arte, una personalità forte che lo influenzò molto, con la quale visse serenamente la propria vita e arte. Ninon gli stette vicino fino alla morte, avvenuta a Montagnola nel 1962.

Hesse nel 1946 è stato insignito del premio Nobel per il saggio pedagogico di “Il gioco delle perle di vetro”, la cui stesura lo impegnò per 10 anni, con la seguente motivazione “Per la sua scrittura ispirata che nel crescere in audacia e penetrazione esemplifica gli ideali umanitari classici, e per l’alta qualità dello stile” ma mi piace chiudere questa forma alchemica con una citazione tratta dal romanzo Demian sulle conversazioni con il dottor Jung (nel romanzo dr. Pistorius) perché più di altre centra il nucleo racchiuso nella scrittura di Hesse, il suo sforzo di ricerca e di individuazione dell’origine della sofferenza psichica dalla quale fu afflitto per tutta la vita, mai definitivamente sopita, fondamento e ragione della sua affascinante opera: “Ma tutte le conversazioni, anche le più umili, colpivano con leggero e costante martellio il medesimo punto dentro di me, tutte contribuivano a formarmi, a rompere gusci di uova da ognuno dei quali alzavo il capo un po’ più in alto, un po’ più libero, finché l’uccello giallo con la bella testa di rapace erompeva da frantumato guscio del mondo.” (trad. di Ervino Pocar)

Loredana Semantica

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Forma alchemica 19: Jacques Prevert

01 mercoledì Nov 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Jacques Prévert

I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Jacques Prevert

 

Desidero dedicare questa forma alchemica a Jacques Prevert. E comincio a parlarne rinviando a un post che qualche giorno fa ho pubblicato qui, su questo blog. Si tratta della prima “Poesia a caso”, una sorta di esperimento poetico nel quale apro a caso una pagina della raccolta poetica di un autore e ne pubblico il testo. Singolarmente la poesia di Prevert scelta a caso intercetta perfettamente lo spirito della nuova rubrica, nel senso che essa vuole rendere evidente che non sempre i grandi hanno scritto capolavori. Le loro poesie migliori, le loro “forme alchemiche” circolano con maggior frequenza delle altre, queste ultime magari sono ben scritte, di sicura qualità, ma meno riuscite in perfezione di senso e di bellezza. In particolare la poesia “La meteora” non brilla per finezza, parla di galera, pitale e di schizzi che al solo pensiero suscitano repulsa. La parola “merda” in una poesia è sufficiente a connotarla di un elemento di disgusto, per quanto, obiettivamente, essa è sostanza che accomuna gli esseri viventi. Tutti gli organismi vivi dal più semplice al più complesso, si nutrono ed eliminano le scorie non utili a produrre energia o rinnovare/mantenere la propria struttura corporea. Non dobbiamo certo “impressionarci” delle parole, anzi coraggiosamente dobbiamo accettarle tutte nella loro inesauribile capacità di nominare l’esistente e il non esistente, nella sconfinata e incantevole ricchezza di espressione, composizione, suono. Una fascinazione che senza mai esaurirsi attrae i poeti, gli scrittori, gli artigiani della parola. A parte la digressione compiuta a “giustificare” l’uso di termini non elevati e nobili che, sono certa, alcuni non apprezzano in un testo poetico, ci tengo a sottolineare che, nonostante ciò, la poesia scelta per inaugurare una “Poesia a caso” è una poesia d’amore. Amore che si schiude al suo senso in un crescendo, dalla prosaicità del penitenziario e degli escrementi, alla leggerezza del sentimento d’amore che riscatta il carcerato, la poesia e fa trionfare il sentimento. E proprio dall’esaltazione del sentimento si riconosce come una poesia scritta da Jacques Prevert. In questa forma alchemica propongo, per contraltare al picco trash della poesia “La meteora”, uno dei testi migliori di Prevert, dove il sentimento d’amore è colto nella sua punta di maggiore acutezza: la fase dell’innamoramento. È il periodo nel quale gli innamorati non hanno occhi e orecchie se non per la persona amata e si appartano in angoli bui dove poterla “assaporare”. Vivono in un mondo tutto loro di sensazioni ed emozioni, si cercano coi corpi e le bocche, scandalizzando i passanti, arrabbiati per questa ostentazione di “privato”,  invidiosi del loro sentimento.

Jacques Prevert, francese nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine è stato poeta, scrittore, sceneggiatore, artista. La famiglia, dopo un periodo di difficoltà economiche, si risollevò dalle ristrettezze per l’assunzione del padre Andrè all’Ufficio dei poveri di Parigi. Ciò darà modo a Jacques di osservare un mondo di miseria che rappresenterà poi in alcune sue opere. Il padre influenzerà la formazione dei figli portandoli spesso al cinema e al teatro, anche perché la scuola non fu la scelta di Jacques che, insofferente alla disciplina, l’abbandonerà a quindici anni. Appena ventenne, durante il servizio militare conobbe  Yves Tanguy e Marcel Duhamel che poi divenne editore, due importanti amicizie che influenzarono la carriera di Jacques e di suo fratello  Pierre. Pierre divenne regista e mise in scena per la televisione e il teatro le sceneggiature, anche per bambini, scritte dal fratello, in un lungo e proficuo sodalizio artistico. Nel  1922  Jacques si avvicinò al gruppo dei surrealisti francesi, tra i quali  André Breton, Raymond Queneau, Louis Aragon e Antonin Artaud, e per i quattro anni successivi vi furono intensi contatti. I rapporti furono interrotti a causa del testo di Prevert “Mort d’un monsieur”, scritto in polemica con Breton, del quale Prevert contestava la presunta superiorità intellettuale, che determinò la rottura con Breton e l’allontanamento di Prevert dal gruppo. Dal 1932 al 1936 visse a Tourette de loupe, si dedicò al teatro e alle sceneggiature per la cinematografia, collaborando con Jean Renoir e Marcel Carnè. Tornerà a Parigi soltanto nel 1945, lo stesso anno in cui vede la luce la sua prima raccolta di poesie “Paroles”, accolta con molto favore dal mondo letterario. A questa seguiranno altre raccolte: Spectacle” (1949); “La pluie et le beau temps” (1955); “Choses et autres” (1972), altrettanto apprezzate dalla critica. Prevert conobbe e collaborò con Pablo Picasso, al quale, pare, abbia dedicato per ammirazione la poesia Alicante. Nel 1948 per un incidente cadde da una finestra e rimase in coma per alcune settimane. Ripresosi dall’infortunio si dedicò ancora alle sceneggiature, e ad una nuova attività artistica: il  collage, una scoperta del suo ultimo periodo. Espose e pubblicò alcune delle opere realizzate. Visse gli ultimi anni a Omonville la Petite, ricevendo rare visite di cantanti e attori conosciuti in attività, fino alla morte per tumore nel 1977.

La poetica di Jacques Prevert si caratterizza per il rilievo dato al sentimento, sempre cercato anche se talora disperato e disperante: amore tradito, amore mancato, amore libero. Si avverte in tutta la sua opera la polemica con il potere, l’irriverenza spinta fino alla blasfemia, l’ironia dissacrante fino alla satira, l’anticonformismo, la critica ai benpensanti. Ciò conduce a definire Prevert sostanzialmente un anarchico, proprio per l’avversione contro chi comanda, espressa nei termini che potrebbe usare la gente comune. Fedele ai temi del surrealismo, consapevole della lezione del simbolismo, Prevert riversa nel suo dettato l’anelito alla libertà, spesso simboleggiata da un uccello, esprime la ribellione alle istituzioni e dipinge un mondo di personaggi caratterizzati vivacemente, portatori di drammi, storie, aneliti autentici, uomini e donne conosciuti nelle sue frequentazioni sul lungosenna, nelle modeste pensioni, nelle rues parigine, nei bistrò. La sua poesia presenta giochi di parole, divertissement, ma anche coltissimi rimandi ed intrecci intellettuali. Può sembrare, ad una lettura superficiale, che i suoi testi pecchino di semplicità, fin quasi alla banalità, ma Prevert compie volutamente la scelta di un lessico comune che veste di una complessità di significati, non abbandonando mai la ricerca di un preciso e accattivante ritmo. Lo stesso che egli ben “maneggiava” avendo scritto innumerevoli canzoni, più di mille testi, interpretati da grandi cantanti come Juliette Greco, Yves Montand, Serge Reggiani. Chiudo riportando da “L’età forte” le parole di Simone Beauvoir che testimoniano l’influenza il carisma di Prevert tra la gente di cinema che s’incontrava al Fleure, famoso caffè di Saint-Germain des Prés: «Allora, il loro dio, il loro oracolo, il loro maître à penser, era Jacques Prévert, di cui veneravano le pellicole e le poesie, di cui provavano a copiare il linguaggio e le atmosfere spirituali. Anche noi gustavamo le poesie e le canzoni di Prévert. Il suo anarchismo sognante ed un po’ stralunato ci catturava completamente»

Loredana Semantica

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Forma alchemica 18: Pierluigi Cappello

04 mercoledì Ott 2017

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Pierluigi Cappello

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Gli orli hanno la luce di settembre
come una bella mela le nuvole oggi
sono innocenti, senza rumore
anche le macchine passano
nel silenzio della tua testa
sei qui, come una cosa sottratta
in questa calma di non appartenere
la nuvola sottratta alla terra
il salto allo slancio, l’orma al suo piede
il corpo a ciò che precede.

Pierluigi Cappello

Con la fine di settembre ci ha lasciati Perluigi Cappello. Il primo di ottobre ci ha lasciati dolenti e consapevoli d’essere orfani di qualcosa che non sarà più, non dirà più, ma che di sè ha lasciato quel che ha potuto, quel la vita gli ha permesso, che gli ha permesso il suo essere poeta.
Friulano di Gemona, nato nel 1967, ad appena sedici anni egli subì un grave incidente in moto, nel quale il suo amico perse la vita e lui ebbe reciso il midollo spinale, con la conseguenza della paralisi degli arti inferiori e di una vita trascorsa sulla sedia a rotelle.
E’ facile pensare che sia diventato poeta per questo, perché si chiusero le porte di vita “normale”, dinamica, per il trauma, per reazione, ma i poeti avevano affascinato Pierluigi ancora prima del suo incidente e lui dice che senza lo sarebbe diventato ugualmente, anzi migliore. C’è da crederci, è un’affermazione che proviene dall’interprete più titolato, dall’autore stesso. Tra le esperienze negative ha vissuto anche il terremoto del Friuli del 1976, che gli ha distrutto la casa. Per una decina d’anni ha vissuto in un prefabbricato in condizioni disagiate a Trigesimo, Udine.
Nonostante tutto ciò, impressionante nella poesia di Cappello è la luce, la serenità, la freschezza che promana. Perché impressiona? Perché da un offeso dagli eventi della vita, perciò traumatizzato, si ci potrebbe aspettare la rabbia che deriva dall’incomprensione della sorte, la contestazione aspra dell’ingiustizia subita, o almeno una visione cupa della vita, tragica, dentro le spire della depressione. E invece le sue parole sono un’architettura luminosa che scorre con semplicità e freschezza, purezza di suono e di intenti, La sua parola è limpida come acqua di sorgente.
Era un bell’uomo Cappello, un viso magro e attraente, incorniciato da barba e capelli morbidi ondulati, occhi verdi, dolci, sorridenti, occhiali a giorno da intellettuale. Per testimonianza di chi l’ha conosciuto era anche una bella persona, a lui si sono affezionati molti poeti e artisti contemporanei e nell’ultimo decennio il suo nome ha cominciato ad acquistare una certa fama nell’ambiente poetico oltre i limiti regionali, e l’attenzione della critica. Cappello era un operatore di cultura, nonostante la menomazione fisica, finché ha potuto, s’è adoperato per diffonderla, anche nelle scuole e nelle università. E’ stato insignito di numerosi premi
Per iniziativa degli stessi poeti e artisti nel 2014 è stato proposto ed ha ottenuto il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli per gli artisti.
Ha scritto diverse raccolte di poesie, ricorrendo nella scrittura anche al suo dialetto natio, il friulano, che ha ampliato col suo timbro duro il registro delicato del poeta:
• Le nebbie (Campanotto, Udine 1994)
• La misura dell’erba (I. M.Gallino, Milano 1998)
• Il me Donzel (Boetti, Mondovì 1999)
• Amôrs (Campanotto, Udine 1999)
• Dentro Gerico (La Barca di Babele, Circolo Culturale di Meduno, Pn, 2002)
• Dittico (Liboà editore in Dogliani, Cn, 2004).
• Assetto di volo (Crocetti Editore, Milano 2006)
• Mandate a dire all’imperatore (Crocetti Editore, Milano 2010)
• Azzurro elementare. Poesie 1992-2010 (BUR contemporanea, Rizzoli, Milano, luglio 2013)
• Stato di quiete, Poesie 2010-2016, BUR contemporanea, Rizzoli, Milano 2016.

Nel giorno della sua scomparsa, appena quattro giorni fa, il dispiacere era tangibile in rete, su facebook innumerevoli post di sue poesie, articoli d’omaggio, ricordo, dolore di amici e di coloro che lo amavano, apprezzavano la persona e la sua scrittura. Ieri i funerali.
Il mondo della cultura è in lutto, la poesia piange un suo figlio, ed io non posso che questa forma alchemica.
Arrivederci Pierluigi.

Loredana Semantica

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Forma alchemica 17: Gottfried Benn

20 mercoledì Set 2017

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Gottfried Benn, poesia

gott

Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.

Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l’orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.

Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna,

e già così presso agli scogli
sai la tua fragile barca –
venite, disserrate le labbra,
chi parla non è morto.

Gottfried Benn, trad. Ferruccio Masini

Gottfried Benn, nato a Mansfeld  nel 1886, morto a Berlino nel 195, è stato poeta scrittore e saggista  di lingua tedesca. Laureatosi in medicina all’ Accademia di Berlino nel 1910, appena due anni dopo esordì in letteratura con la sua prima pubblicazione, dal titolo di “Morgue e altre poesie” (morgue è  il termine francese per indicare l’obitorio). La raccolta di poesie è caratterizzata da un linguaggio medico – scientifico, da descrizioni cadaveriche, narrazioni di malattie e corruzione dei corpi.

Prima di Benn, “Morgue” è una raccolta di Rilke che Benn certamente aveva letto, compiendo un balzo in avanti, verso i giorni nostri, nella raccolta Morgue di Benn si respira un’atmosfera molto simile a quella rappresentata in alcune scene di serie televisive di grande successo come CSI NSIS, acronimi per indicare a polizia scientifica di Las Vegas o Miami o altre grandi città americane dove sono ambientati gli episodi d’investigazione. Esse hanno ingenerato negli spettatori, una sorta di familiarità “mediata” con la sala autoptica, con i gesti e le operazioni, i referti dei professionisti che procedono alle dissezioni e ricomposizioni dei cadaveri.

Oggi perciò scrivere poesie descrittive ispirate all’esperienza medica di questo tipo farebbe molto meno scalpore, ma allora, agli inizi del 900, il libro fece scandalo e Benn entrò così nel mondo letterario della Berlino del 1910, diventando riconosciuto esponente dell’espressionismo; in quel periodo conobbe  la poetessa ebrea Else Lasker-Schüler con la quale ebbe una relazione.

Certo non è difficile immaginare che “Morgue” sia il frutto dell’esperienza professionale di Benn. Un impatto che squarciò la scorza lasciando fuoriuscire il magma creatore, trasformando il medico in scrittore, in una sorta di metamorfosi/catarsi purificatrice dell’impressione che l’orrido, la materialità di carne e sangue decomposti avevano prodotto sull’ uomo. Nel contempo sorprende come, nonostante il tema, Benn gestisca, sin da questa prima raccolta, la parola, rivelando una rara capacità di creare dal nulla scenari tanto luminosi che raccapriccianti, di modulare la lingua con quella padronanza che sa produrre piacevolezza di suono, purezza di significato in una sorta di inesprimibile azzurro: raggio laser che incide.

Nel 1926 scrisse il racconto – saggio “Cervelli”, nel 1917 pubblicò “Carne” una raccolta di liriche scritte durante le seconda guerra mondiale. L’evoluzione della sua scrittura registra il passaggio dal nichilismo, dissacrazione dell’uomo e critica della civiltà, che caratterizzano la sua prima produzione, all’esaltazione dell’io tragico che ha speranza di riscatto nell’io primordiale dell’uomo, un io in sintonia con la natura che, secondo Benn, riaffiora nel sogno dove sono neutralizzate razionalità e sovrastrutture.

Scrisse ancora “Scissione” e “Onda ebbra” nelle quali nonostante la nostalgia per l’essere originario e prelogico egli si esprime con razionalità ferrea manifestando una sicurezza e ricchezza espressiva che si rivelano in contraddizione con l’anelito al mito primordiale. Egli perciò si rende conto di dover superare lo iato ed afferma che la fusione di concetto e allucinazione, razionalità e sogno, produce arte, progredendo quindi dall’iniziale nichilismo verso la consapevolezza di una trascendenza creativa.

Proprio per questa nostalgia dell’uomo primordiale e del mito, all’avvento del nazismo Benn se ne lasciò affascinare, nella convinzione che si trattasse di una forza potente e irresistibile, votata all’estetica e rigenerante, che avrebbe ripristinato il valore della forma e realizzato, attraverso il totalitarismo, la sovrapposizione di potere e spirito, individuo e collettività. Il regime inizialmente apprezzò il suo entusiasmo, affidandogli l’incarico di gestire la sezione poesia dell’Accademia di Prussia. Poco più di un anno dopo però,  Benn fu rimosso dall’incarico e allontanato, a causa di alcuni suoi scritti giovanili vicini al movimento espressionista, represso dal nazismo perché “arte degenerata”. Egli allora aprì gli occhi sulla realtà del nazismo.

Probabilmente il suo entusiasmo iniziale per il fascismo (come si è detto: collaborazionista che non ha mai collaborato) fu l’errore imperdonabile che ha impedito a Benn di occupare nello scenario della letteratura tedesca il posto che la sua potente ricca, espressiva scrittura avrebbe meritato. Fu scienziato, intellettuale, esteta, aristocratico. Usò magistralmente il linguaggio in modo nuovo, originale, intellettualmente superiore, facendo ricorso a molti sostantivi, stratificando versi, usando la parola per scardinare la realtà con cinismo, fin quasi crudeltà. Certe sue liriche indubbiamente sono tra le più spietate che la letteratura del 900 ci abbia regalato, ma, anche per questo, dense di coraggio, lontanissime dal plagio, dal compiacimento, permeate di una certa violenza verbale e rabbia che nascono dalla consapevolezza e avversione per la decadenza sociale. Una poesia definita “assoluta”, senza Dio, senza speranza o salvezza, che trasuda piacere creativo, procede per associazione di idee, lacera la propria essenza e travalica i contenuti morali o filosofici per essere solo forma ed espressione.

Fu anche scrittore di saggi, racconti e romanzi tra i quali “L’osteria Wolf”, “Romanzo del fenotipo”, “Il tolemaico”, scritti negli anni 40, oltre che di una autobiografia dal titolo “Doppia vita”. “Frammenti e distillazioni”, “Aprèslude”, “Giorni primari” sono le sue ultime raccolte poetiche.

La poesia che ho scelto in questa forma alchemica, mi sembra ben rappresenti quanto appena detto sulla scrittura di Benn. Irresistibile l’ invito a parlare,  perché chi parla non è morto, dice Benn, parola che ci rende vivi,  perché è così che l’io diventa noi e noi viviamo solo disserrando le labbra nella parola che ci sopravvive.

Chiudo questa forma alchemica con un’altra poesia che questa di Benn mi riporta alla mente. La poesia è di Arthur Rimbaud, tra le due non c’è apparentemente molta relazione, ma non escludo che Benn avesse letta quella di Rimbaud prima di scrivere la sua. Entrambe sono metapoetiche, cioè poesie che hanno ad oggetto la poesia, in entrambe sono citati i colori. Una citazione che, nella solenne, comune, potente drammaticità dei testi produce un singolare effetto straniante, di vivacità e illuminazione, evocando, nel contempo, sinesteticamente un ventaglio di sensazioni, sostantivi, scenari potenzialmente esprimibili in poesia.

Loredana Semantica

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Un giorno dirò la vostra origine segreta:
A, corpetto nero e peloso di mosche lucenti
ronzanti intorno a esalazioni crudeli

Golfi d’ombra; E, candori di tende e vapori,
Lance di ghiacciai fieri, bianchi re, tremori d’ombrelle
I porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
Nella collera o  nell’ebbrezza che si pente

U, cicli, vibrazioni divine di mari verdi,
Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe
Che l’alchimia incide su ampie fronti  da studiosi;

O suprema Tromba piena di strani stridori
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi
O l’Omega, raggio viola dei Suoi Occhi!

Arthur Rimbaud

 

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Forma alchemica 16: Thomas Stearns Eliot

19 mercoledì Lug 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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TS_Eliot

Thomas Stearns Eliot

Alta marea
nelle vie della città
ma le onde della vita fremono
si restringono si frantumano
in mille frammenti
sbattuti contrastati accidenti.
Questa è l’ora attesa.

Questa è l’ora suprema
che dà un senso alla vita.
I mari dell’esperienza
che erano così ampi e profondi
così impetuosi e scoscesi
sono improvvisamente tranquilli.
Dite quel che volete
questa pace mi atterrisce.
Altro intorno non c’è.

Thomas Stearns Eliot
traduzione di Loredana Semantica

(testo in lingua originale)

Along the city streets,
It is still high tide,
Yet the garrulous waves of life
Shrink and divide
With a thousand incidents
Vexed and debated:—
This is the hour for which we waited—

This is the ultimate hour
When life is justified.
The seas of experience
That were so broad and deep,
So immediate and steep,
Are suddenly still.
You may say what you will,
At such peace I am terrified.
There is nothing else beside.

Dopo Rilke e Kavafis, in questa sedicesima forma alchemica, è la volta di un altro grande della poesia: Thomas Stearns Eliot. Celebrato poeta inglese, Eliot nacque a Saint Louis nel Missouri nel 1888, si trasferì nel 1914 in Europa ed in seguito divenne suddito britannico. In gioventù studiò la letteratura europea e Dante in particolare, che suscitò la sua ammirazione e lo avvicinò alla lingua italiana,si laureò ad Harvard in filosofia. Nel 1917 si trasferì a Londra, dove restò fino alla morte, avvenuta nel 1965.
A Londra Eliot trovò lavoro nella Lloyd’s Bank. Sposò Vivienne Haigh-Wood nonostante i dubbi e la contrarietà della famiglia Eliot motivati dai disturbi mentali della donna. Probabilmente per questa scelta dovette affrontare anni dopo un forte esaurimento nervoso che lo porterà, nonostante il senso di colpa, a separarsi da lei ed a farla rinchiudere in un istituto per malati di mente.
Nel frattempo egli aveva avviato una casa editrice la Faber Faber, meditato una conversione religiosa al cristianesimo-anglicanesimo, varato i suoi capolavori: la raccolta Prufrock and Other Observations( Prufrock ed altre osservazioni, 1917), i poemi The Waste Land (La terra desolata, 1922) e The Hollow Men (Gli uomini vuoti, 1925) .

Dopo la conversione le sue opere manifesteranno la rigenerata religiosità, registrando toni meno cupi e desolati della sua prima produzione. Ciò è evidente soprattutto negli altri suoi capolavori: Mercoledì delle ceneri, Quattro quartetti e Assassinio nella cattedrale. Fu anche saggista e scrittore di opere teatrali.
Eliot ebbe contatti con Ezra Pound, fu ammiratore di Groucho Marx. Nel 1948 fu insignito del premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione “for his outstanding, pioneer contribution to present-day poetry”.
Nello stesso senso della Commissione del Nobel, il critico Roberto Sanesi “Thomas Stearns Eliot, il poeta che forse più di qualsiasi altro ha contribuito a mutare il corso della poesia dall’Ottocento al Novecento (non soltanto in Inghilterra) e a dare un’impronta inequivocabile a tutta la poesia del nostro secolo”
Eliot tuttavia non ebbe soltanto estimatori, riporto a conferma  il pensiero di Elias Canetti, che non apprezzava affatto il poeta e lo dice senza mezze misure: “Sono stato testimone della fama di un Eliot. Qualcuno proverà mai vergogna a sufficienza per avergliela tributata? Un libertino da nulla, un galoppino di Hegel, uno stupratore di Dante. Sarà molto difficile raffigurare Eliot com’era realmente, ovvero nella sua malvagità abissale. La sua opera d’un gretto minimalismo (tante piccole sputacchiere del fallimento artistico) il poeta del moderno impoverimento inglese dei sentimenti”.
La poetica di Eliot è espressione: di profonda crisi esistenziale (speculare alla crisi della cultura occidentale), di solitudine e alienazione dell’artista, di atteggiamento critico verso la letteratura di stampo vittoriano, derivazione di quella romantica. Tutte tematiche proprie del modernismo, corrente letteraria alla quale appartengono anche Virginia Woolf ed Ezra Pound. Il modernismo sottolinea l’importanza dell’oggetto ma non nel senso simbolista, quanto piuttosto evocativo, emozionale in una teorizzazione definita del correlativo oggettivo. Secondo questa idea unico modo di esprimere un’emozione in forma artistica è individuare una serie di oggetti, una situazione, una sequenza di eventi che costituiscano la formula di quella specifica emozione, in modo che, quando siano dati i fatti esterni, che devono concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione ne risulti immediatamente evocata.

Modernista è definita anche la poesia di Eliot, che non sviluppa un filum logico, ma esprime concetti conclusi, lapidari. Composizione di frammenti che suggeriscono al lettore un completamento mentale secondo la propria esperienza. Analoga discontinuità avviene anche nella forma poetica che accosta immagini di grande bellezza, espressioni profonde, filosofiche, a descrizioni di squallore e decadenza, nel contrasto che si estende anche al registro linguistico tra forme alte, liriche e linguaggio usuale.

La poesia che propongo oggi è una creazione giovanile di Eliot, composta nel giugno del 1910, quando Eliot aveva appena 21 anni e si era da poco laureato. Egli racconta quest’attimo creativo come un momento visionario nel quale, camminando per le strade di Boston ebbe una sensazione di restringimento e divisione delle strade e contemporaneamente un’esperienza di estraniamento e silenzio che lo pervasero proiettandolo oltre il tramestio del mondo. La sensazione di appartenere a un attimo senza tempo, senza prima e dopo. “You may call it communion with the Divine or you may call it temporary crystallization ofthe mind” (tu puoi chiamarlo comunione col divino o temporanea cristallizzazione della mente) come Eliot stesso ebbe modo di dire.
Fu in sostanza un’esperienza mistica che verrà successivamente ripresa ed espressa in altre forme in altre sue più famose opere, come ne “La terra desolata”. Esperienza che non appartiene solo a Eliot, ritrovandola con simile espressione anche nella poesia di Montale “Forse un mattino”, contenuta nella raccolta “Ossi di seppia”, della quale riporto di seguito a riprova la prima strofa.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Tuttavia Montale è tutta un’altra storia della quale prima o poi mi occuperò in una  specifica forma alchemica.

Loredana Semantica

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Forma alchemica 15: Costantino Kavafis

05 mercoledì Lug 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA

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E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

Constantinos Kavafis
[In Settacinque poesie, Einaudi, Torino 1992]

Κι αν δεν μπορείς να κάμεις την ζωή σου όπως την θέλεις,
τούτο προσπάθησε τουλάχιστον
όσο μπορείς: μην την εξευτελίζεις
μες στην πολλή συνάφεια του κόσμου,
μες στες πολλές κινήσεις κι ομιλίες.
Μην την εξευτελίζεις πηαίνοντάς την,
γυρίζοντας συχνά κ’ εκθέτοντάς την
στων σχέσεων και των συναναστροφών
την καθημερινήν ανοησία,
ώς που να γίνει σα μια ξένη φορτική.

Κωνσταντίνος Καβάφης
da “Ποιήματα 1897-1933”, Ίκαρος, 1984

Propongo per questa Forma alchemica una poesia di Costantinos Kavafis, la versione originale e la traduzione in italiano, quest’ultima tratta dalla raccolta Einaudi “Settantacinque poesie” di N. Risi e M. Dalmàti
Non ha scritto molto Costantinos Kavafis, poco più di 150 poesie in tutto, la maggior parte delle quali dopo i quaranta anni, molte altre poesie sono rimaste incomplete. Scriveva su fogli sparsi, come appunti, senza sistematicità. Eppure, dopo la sua morte, raccolta e conosciuta la sua produzione, la sua fama cominciò a crescere, fino a farne uno dei più grandi poeti in lingua greca.
La spiegazione di questa grandezza sta nel suo modo di fare poesia, avulso dal gusto dell’epoca, non ascrivibile a nessuna corrente letteraria, dagli argomenti anticonvenzionali, insoliti, profondi e trattati con mano originale. Egli coniuga il classicismo letterario e l’attualità, la ricerca dell’interiorità e il desiderio sensuale. Molti componimenti si caratterizzano per i toni nostalgici, struggenti, come “Itaca”, splendida metafora del senso della vita, alla quale questo blog ha reso omaggio citandola nella pagina “About”
Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863 e, sebbene per qualche tempo se ne sia allontanato al seguito della famiglia, volle tornare in questa città, dove si stabilì definitivamente nel 1885. Lì lavoro’ come giornalista, agente di borsa e poi per trent’anni interprete presso il Ministero dei Lavori pubblici. Da impiegato intimamente provava nei confronti dei colleghi un vago senso di superiorità e, sebbene fosse coscienzioso, si rendeva conto che il lavoro d’ufficio ostacolava la sua vena artistica, chiedendo tempo e applicazione, mortificando la sua ispirazione.
Kavafis amava Alessandria, per la sua natura multietnica, multilingue, la tolleranza morale, la vitalità dei commerci, la licenziosa vita notturna, per la ricchezza culturale frutto della congiunzione di molte culture: greca, ebrea, italiana, copta, armena. Visse ad Alessandria fino alla morte avvenuta nel 1933.
Egli tuttavia aveva molto a cuore la cultura e la lingua greca, e frequentò perciò sempre, sia ad Alessandria che nei viaggi lontano da essa, la comunità di lingua greca. Fu profondo conoscitore della storia, della civiltà ellenica, dell’impero romano e bizantino, che espresse nella sua scrittura.
Kavafis occultò la sua omosessualità che, scoperta da adolescente, esplicava con animo contraddittorio tra il godimento libero, derivante dal piacere dei sensi di ellenistica memoria e un senso oscuro di censura di estrazione cristiana, per la quale questo piacere sterile poteva trovare appagamento solo in ambienti degradati e situazioni infime.
Forse per questo egli visse per tutta la vita un senso di segregazione, che lo teneva nel suo appartamento, alla luce di una lampada, a scrivere versi cercando nella memoria il ricordo di un giovane corpo, un piacere mai dimenticato, che la pelle e sensi gli avevano regalato.
Probabilmente nasce in questo contesto di solitudine la  poesia oggi in commento.
Splendido esempio di compiutezza e limpidezza, trattazione moderna, argomento insolito, paradigmatica quindi della poetica dell’autore. L’avvio con la congiunzione “e” del primo verso sembra proseguire un discorso precedente. La poesia si snoda poi in un unico periodo retto dai primi tre versi e scandito dall’imperativo “non sciuparla”. Si riferisce alla vita Kavafis, ed in linea col suo vissuto di riserbo e solitudine, raccomanda di non sprecare la vita in commerci e vacue frequentazione, ma di selezionare le persone e gli eventi a cui partecipare con cura, in modo che la vita ci sia cara e non diventi un’estranea in balia del frenetico gioco degli inviti e delle relazioni.
La raccomandazione mi sembra particolarmente indicata in un’epoca nella quale ci lasciamo trascinare dalla mania del divertimento e della partecipazione ad attività ludiche, ricreative, sociali, collettive, più o meno grandiose, dove solo l’esserci in quello specifico luogo oggetto d’attenzione o diventato di moda, sembra dare una patente di esistenza in vita.
Mi sovvengono due citazioni musicali per questo argomento, che hanno in qualche modo attinenza con la poesia, con lo spirito che la pervade, specialmente con l’ indovinato aggettivo stucchevole, che ben esprime la nausea per tutte le occasioni festaiole e by night che tanto coinvolgono molta nostra attuale gioventù. Le propongo nei “gettonati” official video sottostanti.  Sia, voce affascinante ed interprete del più recente “Chandelier” e il più datato “Fuori dal tunnel” del cantautore Caparezza.

 

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Forma alchemica 14: Rainer Maria Rilke

21 mercoledì Giu 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA

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IX Elegia, Rainer Maria Rilke

Noi forse siamo qui per dire: casa,
ponte, fontana, cancello, brocca, albero da frutto, finestra
al massimo: colonna, torre…ma per dire, cerca di capire,
oh, per dirle così, come mai le cose stesse
hanno mai intimamente creduto d’essere.
Tuttavia essere qui è molto, perché sembra
che tutto qui abbia bisogno di noi,
questo luogo effimero che stranamente ci riguarda.
Noi i più fugaci. Ogni cosa una sola volta.
Solo una volta e mai più. E noi ugualmente
soltanto una volta. Mai una seconda.
Ma questo essere stati una volta
anche una sola volta, essere stati terreni
sembra irrevocabile.

(Rainer Maria Rilke, IX Elegia, vv. 32- 36, 11-17, traduzione di Loredana Semantica)

Il cantore dei cantori è Rilke, lui l’Orfeo moderno, mistico e misterioso. Ardente del sacro fuoco poetico. Con Rilke ci slanciamo verso l’azzurro del pronunciamento. La sacralità della parola esiste per dire, mentre, per converso, sembra che le cose stesse esistano al mondo per poter essere dette. E’ quasi un incantesimo del dire che le fa essere ciò che sono: presenti, visibili, dicibili. Cose animate, cose pensate, cose per sempre cose nel momento stesso in cui esse sono definite, nel vocabolo che le significa e le com-prende facendole comprendere. Cose molteplici, personificate e pensanti che mai avrebbero inteso essere ciò che sono, quando le si dice. Inconsapevoli della loro presenza/essenza, del loro portato di significanza. Semanticamente cose. Cose esplicitate. Cose a corredo, normali, meravigliose.
Noi uomini ad esse rapportati, sembriamo essere qui ed ora giustificati proprio da queste cose che necessitano di noi, come se per nostro tramite si rivelassero, rivelando la loro autentica essenza. Cose che sono per un attimo e poi non più. Fugaci quindi, non meno di noi uomini esseri caduchi per eccellenza, eminentemente consapevoli della finitudine, destinati al termine fin dalla nascita. Uomini che vivono sapendo di morire progressivamente ogni giorno, avvicinandosi col tempo sempre più all’exitus. Rilke profondo. Profondo, ieratico, profetico e interrogante. Ineluttabile, vaticinante. Rilke saggio e gigante, svettante poesia fino alle cime, impasto di poesia e carne. Come le cose, noi stessi nella fugacità dell’essere esistiamo sulla terra. Vi so-stiamo una sola volta e mai più.
Ma essere anche solo una volta sulla terra, nonostante l’abito della transitorietà, ha in sé il seme di un’eternità che sta nell’irrevocabilità della nostra essenza/presenza nel mondo. Natura esistente che resta e r-esiste per un tempo non definibile a testimonianza-specchio-icona-monolite e ci sopravvive.
Non trascorriamo quindi, inesistenti e vacui, ma siamo nel rapporto con le cose che ci concernono, più o meno materiali, in un’elencazione che le scardina e le afferma, che le rende persistenti ed effimere al contempo, che le rende tuttavia cose nella peculiarità di ciascuna di esse: casa, torre, colonna finestra. Significativa la scelta musicale dei vocaboli. Evidente un insistente riferimento a costruzioni architettoniche frutto del lavoro umano: casa, torre, ponte. Non meno significanti la fontana e l’albero da frutto, anch’essi metaforicamente produttivi, nello zampillare dell’acqua e nel frutto che l’albero dona, in un dare bucolico, originario, sorgivo. Un vago sentore metapoetico è profuso nell’intero testo. Omaggio alla parola, alle realtà osservata e trasposta in parola, all’interiorità. Com’è proprio dei temi cari all’autore.
Cose quindi che si colorano di significato e prolificano di senso attraverso la nostra esperienza che le acquisisce e concretizza. Esse non esisterebbero senza di noi, senza il significato che noi ad esse riconnettiamo, per la percezione che ne abbiamo. Poetica quest’ultima che caratterizza l’intera produzione rilkiana, come il senso religioso, instillato dalla famiglia del poeta, profondamente religiosa.
In questa Forma alchemica ho premesso  il commento ai cenni biografici che sono solita dare sull’autore. Ho scritto questo commento in colata unica, in sorta di “raptus” di corrispondenza poetica suscitata per riverbero dalla poesia di Rilke, la considero infatti un modello di perfezione, requisito di eccellenza presente del resto anche altre composizioni di questo poeta. Non avendo confidenza con la lingua originale dell’autore, delle poesie di Rilke, purtroppo, non posso percepire pienamente la costruzione, l’armonia, il ritmo e le assonanze, cioè tutto ciò che fa di un testo poesia, prima e oltre il suo senso. Esse tuttavia mantengono, anche tradotte, un’indiscutibile profondo fascino, nel che, ritengo, sia ulteriore dimostrazione della loro grandezza. Rilke ha scritto principalmente in lingua tedesca, senza tuttavia disdegnare il francese, al quale ha fatto ricorso nella seconda parte della sua produzione.
Ciò che tuttavia impressiona della biografia di Rilke è l’inquietitudine del poeta che si manifesta con una vita girovaga. Non per niente il concetto di “uomo senza casa” presente anche in Kafka, serpeggia anche nella poetica di Rilke.
Nell’arco del mezzo secolo della sua vita, (nato nel 1875, è morto nel 1926), Rilke ha viaggiato per tutta l’Europa e oltre, dalla Russia a Venezia, da Napoli a Monaco, da Praga, a Zurigo, Berna, Roma, Duino, Dresda, Egitto, …e l’elenco potrebbe proseguire. Costanti i contatti di Rilke con gli ambienti culturali di tutta l’Europa, molte le donne con le quali intrattenne una corrispondenza epistolare e frequentazione personale, essendo amiche per lui, muse, amori. Molti amici artisti e scrittori, tra i quali Pasternak, Tolstoj, Rodin, Valery, solo per citare i nomi più noti, con i quali condivise idee, reciproca stima. Altri ancora erano amici che l’ammiravano, gli offrivano ospitalità nei suoi spostamenti.
Si sposò con Clara Westhoff, dalla quale ebbe la figlia Ruth, ma il grande amore della sua vita fu l’intellettuale Lou Andreas-Salomé.
Ampia la sua produzione, i suoi capolavori sono le Elegie duinesi, dalle quali è tratto lo stralcio poetico commentato qui, i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge.

Loredana Semantica

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Forma alchemica 13: Angelo Maria Ripellino

19 mercoledì Apr 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Angelo Maria Ripellino, poesia

ripellino-2

La pigrizia di Cristo che si sveglia dal sepolcro,
la sua sghemba goffaggine di orso ferito,
il suo stiracchiarsi dal sonno, e la testa
pesante come quella di un infermo,
portato a un concerto dopo mesi di letto.
I suoi occhi intrisi di nera muffa,
le braccia sottili come lunghissimi ceri.
E un giornalaio che strilla: «Mala Pasqua»,
l’albagía dei badchónim e dei gavazzieri,
che cantano la storia della sua morte,
e venditori che spacciano i suoi santini,
i chiodi e il legno della croce, e la rossa garza
che coprí le sue fístole,
e il bàlsamo e i lini.
La nausea di perdonare, di fingersi forte,
la nausea di essere Cristo,
fratello di Lazzaro.

(Angelo Maria Ripellino da Notizie dal diluvio, Einaudi, 1969).

La Pasqua 2017 è appena tramontata e noi l’abbiamo celebrata qui con una poesia di Fernanda Romagnoli. Una poesia intimista, incentrata sul sé poetico, “centripeta”, come tutta la poesia della Romagnoli, diretta all’esplorazione dei mondi interiori, inquieti, inquietanti, devastati, interroganti. Specchi di rimando di un’anima in bottiglia.
Diversamente da Fernanda, Ripellino ha una cifra poetica espansiva, diretta verso l’esterno, la direi “centrifuga”, dove è esaltata l’osservazione del mondo, la sua vasta e variegata realtà. La sua è una poesia ricca di lemmi, ricercata nei vocaboli, si caratterizza sempre, anche in testi diversi da questo che propongo, per una sorta di festosità e fastosità verbale, un sentore di barocco, che dice il suo amore per la parola, studio e cultura, ma anche la curiosità per l’altro, l’osservazione sensibile e attenta, il desiderio di ricerca, la commistione di molteplici esperienze artistiche e internazionali. Per converso, riscontriamo nei suoi testi inserzioni a sorpresa di nostalgia e tristezze che inducono a interpretare il contorno ricco come un mascheramento, metabolizzazione dell’essenziale natura di siciliano sradicato, partecipe interiormente delle contraddizioni tra una natura esuberante e generosa e un’estate arida e funesta, ch’è il cuore autentico dell’isola che l’ha visto nascere.
Un siciliano doc quindi, nato a Palermo nel 1923, si trasferì a Roma col padre che insegnava latino e greco ed iniziò a Roma la sua carriera di poeta, scrittore, slavista, vivendo un’ avventura che l’ha condotto a spaziare nelle varie forme d’arte: poesia, teatro, cinematografia, pittura, e a conoscere validi maestri e molti artisti e poeti, tra questi Evgenij Evtušenko e Boris Pasternak. Ripellino ha molto viaggiato, collaborato a importanti antologie, enciclopedie e riviste, tra le quali L’Unità e L’Espresso, ha insegnato all’Università di Roma e di Bologna, tenuto corsi di letteratura, ha scritto numerosi articoli, recensioni, e pubblicato svariate raccolte di poesia. E’ morto a Roma infine il 21 aprile del 1978, a soli 55 anni. Una vita relativamente breve, nella quale tuttavia Ripellino sembra aver realizzato la fortunata alchimia del fare della propria passione il proprio lavoro.
La poesia di Pasqua che riporto appartiene alla raccolta Notizie dal diluvio, pubblicata da Einaudi nel 1969. La raccolta è tutta incentrata sull’esperienza di Ripellino inviato dall’Espresso, a seguire e raccontare la stagione dei movimenti che nel 1968 animarono tutta l’Europa e in particolare Praga, alla quale il poeta era particolarmente legato, avendo, tra l’altro, sposato Ela Hlochova, conosciuta proprio lì.
Egli nella poesia racconta un Cristo, risorto dal sonno eterno, con stiracchiata pigrizia, come fosse un goffo orso che si sveglia dal letargo, la testa pesante quasi fosse un malato forzato a partecipare ad un concerto. Tutt’ intorno un turbinare di voci e animazioni, dal giornalaio che strilla, ai boriosi badchónim (ebrei comici-accademici che animano i matrimoni), accolite rumorose che raccontano la sua morte, commercianti che vendono santini, i chiodi della croce, le garze che hanno coperto le ferite, come volgari gadgets del mondo consumistico.
Viene in mente la cacciata dal tempio di evangelica memoria, e quanto si vorrebbe che Cristo ancora una volta avesse tanta potenza su questo squallore, così ben descritto da Ripellino, sul quale potesse ancora una volta trionfare il bene, la luce della resurrezione convertendo un’ indifferenza moribonda di umanità, sacralità e valori.
Ripellino sembra fare una colpa di tutto ciò allo stesso debole, pigro, goffo Cristo, che non risorge, come Dio, come figlio di Dio, nuovo verbo d’amore per l’umanità, ma come orso, scontroso e vacillante, su cui niente può poggiarsi, nessuna rivoluzione, nessuna aspettativa, soffocate entrambe dal cicaleccio di massa, distratto e indifferente, come un mercato, un circo quotidiano.
Alla fine la poesia si chiude sul senso di nausea che prova il povero Cristo, costretto da una sorta di clichè fallimentare ad essere forte, ma in fondo umano anche lui, non meno di Lazzaro che gli è fratello.
Una resurrezione quella di Ripellino, senza divinità e senza gloria, che crocifigge ancora una volta la speranza, agli occhi intrisi di nera muffa, aperte le braccia sottili come lunghissimi ceri.

Loredana Semantica

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Forma alchemica 12: Lorenzo Calogero

05 mercoledì Apr 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Lorenzo Calogero, poesia

Di tanto rovinoso mare
poco suono giunge
al mio orecchio assorto
in ascoltazione dell’Eterno
che come un angelo passa.

lorenzo-calogero-1954-milano-piazza-duomo-_2-web11.jpg

Per includere in Forma alchemica Lorenzo Calogero ho scelto una poesia molto breve, appena cinque versi. Anche stavolta la scelta è caduta come le precedenti composizioni che ho proposto qui su una forma disposta con ammirevole grazia in un’armonia di suono e senso che incanta. Credo che scrivendola Calogero abbia voluto esprimere la sua essenza di vita, turbata dai marosi interiori, ma anonima per il resto, dimessa, raccolta nell’ascolto di qualcosa che non è per le orecchie di tutti, in un dialogo con l’oltre, col muro, con se stesso che lo ha consumato.

Calogero è nato a Melicuccà, Reggio Calabria nel 1910 e lì è morto nel 1961, in circostanze non chiarite. Il 21 marzo 1961, fu visto per l’ultima volta dai suoi vicini, tre giorni dopo fu trovato morto nel suo letto. La primavera non perdona. Ed i poeti la soffrono. Calogero non meno, essendo poeta fin  dentro le ossa. Il suo modo straordinario di scrivere non gli conquistò molte attenzione in vita, nonostante egli abbia ripetutamente tentato di ottenere un riconoscimento e la pubblicazione dei suoi versi, recandosi tra l’altro personalmente da Giulio Einaudi. Riuscirà a pubblicare soltanto un’opera con Vallecchi, nel 1956, Parole del tempo.

Si laureò in medicina ed esercitò la professione fino al 1955. Commovente la sua storia di solitudine, disturbi pischici, amori infelici, attaccamento alla madre. Mezzo secolo di tormento e scrittura che hanno portato alla stesura di un consistente corpo poetico ignoto ai più, perché conosciuto solo da addetti ai lavori. L’ironia della sorte volle  che nel 1962, appena un anno dopo la sua morte, furono pubblicate dall’editore Lerici le “Opere Poetiche”, quasi l’esecuzione testamentaria del suo ultimo verso, trovato in un foglio sullo scrittoio della sua casa “Vi prego di non essere sotterrato vivo”.

In vita ignorato sistematicamente, apprezzato soltanto dal poeta Leonardo Sinisgalli, l’unico che credette in lui e gli rimase amico fino alla morte, Calogero con la pubblicazione delle “Opere poetiche” divenne un caso letterario. Eugenio Montale, Giancarlo Vigorelli ed altri critici espressero parole di apprezzamento e di paragone ai grandi della letteratura da Rilke a Rimbaud, da Novalis a Mallarmè. Persino la critica letteraria straniera s’interessò a Lorenzo Calogero, con parole che rendono il pregio della sua finissima scrittura “…Si ha l’impressione che tutto sia sviluppato sotto il livello della coscienza. Le immagini si fondono, le parole si associano stranamente, spesso la sintassi è dislocata, i ritmi quasi ipnotici. Non si può dubitare che questo flusso abbia una forza straordinaria e neppure si può dubitare dell’abilità di Calogero nel disporre le immagini in improvvise giustapposizioni bellissime, né della sua perizia musicale…”

Nient’altro da dire, se non che quando s’incontra un poeta, lo si riconosce a distanza. Questo è Calogero, semplicemente un poeta.

A lui è dedicata questa mia del 8/09/2010

Guarda com’è fatto un poeta
nella posa rannicchiata
rigida impacciata
colto di sorpresa con gli occhiali spessi
neri nel cercine e lo sguardo
miope sul naso
dritto all’obiettivo che lo guarda.

Rileva la sagoma del corpo
i punti dell’ombra sulla strada
confronta le distanze
sovrapponi i perimetri
e le masse
valuta specialmente la misura
se s’approssima
anche solo appena
sollevando in punta i piedi
o meglio su una scala
alla sua la tua
statura.

 Loredana Semantica

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Forma alchemica 11: Simone Cattaneo

29 mercoledì Mar 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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poesia, Simone Cattaneo

Non mi importa niente dei bambini del Burchina Faso che muoiono di fame,
non ne voglio sapere delle mine antiuomo,
se si scannassero tutti a vicenda sarei contento.
Voglio solo salute, soldi e belle fighe. Giovani belle fighe, è chiaro.
Che gli appestati restino appestati, i malati siano malati e
i bastardi che vivono in un polmone d’ acciaio
fondano come formaggio in un forno a microonde. Voglio bei vestiti,
una bella casa e tanta bella figa. Buttiamo gli spastici giù dalle rupi,
strappiamo fegato e reni ai figli della strada
ma datemi una Mercedes nera con i vetri affumicati.
Niente piani per la salvaguardia delle risorse energetiche planetarie
vorrei solo scopare quelle belle liceali che sfilano tutti i sabato pomeriggio
con la bandiera della pace. Non ho soldi e la botta è finita.
Ma sono un uomo rapace, per le vacanze pasquali
quindici milioni di italiani andranno in ferie lasciando
le loro comode case vuote.
Alla fine non sono razzista. Bianchi, neri, gialli e rossi
non mi interessano un granché.

Simone Cattaneo

Questa è una forma alchemica particolare, di poche parole, perché c’è poco da dire oggi. Oggi come tutti i giorni in cui l’abisso si apre sotto i nostri occhi, nelle parole di un uomo che soffre. Nato nel 1974 a Saronno, Simone Cattaneo si è suicidato nel 2009,  a soli 35 anni. Quando un uomo è un uomo e non si può più dire un ragazzo. Ha vissuto abbastanza per conoscere il mondo, per sperimentare il dolore. L’urlo poetico di Simone Cattaneo non si è ancora sopito, continua a inquietare i vivi, a spiazzarli dalle loro convenzioni e certezze. Continua a leggere →

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Forma alchemica 10: Derek Walcott

22 mercoledì Mar 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Derek Walcott, poesia, Siracusa

Sono perseguitato da siepi d’oleandro rosa
lungo le strade siciliane, le loro consonanti di ghiaia
sotto le ruote, da pile di pietre, da muri la cui sorpresa
è che non c’era bisogno di andare così distante
per riconoscere ciò di cui mi ero già accorto,
tranne, e ora ritorna, quello strano castello
in rovina con un blu caraibico affacciato alle porte
e il nome Ortigia che tintinna come cristallo
nel suo fragile equilibrio. Nel fruscio del pino,
dell’ontano argenteo e dell’olivo qualcosa iniziava a cambiare,
suoni che andavano tradotti. Il mare era uguale
tranne per la sua storia. La nostra santa patrona
era nata qui. Condividevano un unico nome:
Lucia. La calura aveva l’identica innocenza
di un pomeriggio isolano, ma con una differenza,
l’aspetto degli oleandri e la verde fiamma dell’olivo.

I am haunted by hedges of pink oleander
along the Sicilian roads, their consonants of gravel
under the tires, by stone piles, by walls whose wonder
is that there was no need to travel
this far, to recognize things I already knew,
except, and now it grows, the odd broken castle
through whose doors peered a Caribbean blue,
and the name Ortigia that rings like crystal
in its fragile balance. In the pine’s rustle
and the silver alder’s and the olive’s, a difference began,
sounds that needed translation. The sea was the same
except for its history. The island was our patron saint’s
birthplace. They shared the same name:
Lucia. The heat had the identical innocence
of an island afternoon, but with a difference,
the way the oleanders looked and the olive’s green flame.

Derek Walcott

(da Suite siciliana, Egrette bianche, Adelphi, 2015)

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ph. Loredana Semantica “Oleandro rosa pallido”

Derek Walcott entra di “diritto” in Forma alchemica per aver egli raggiunto appena qualche giorno fa, il 17 marzo 2017, lo stato di defunto, che è, insieme alla bella forma poetica, requisito necessario per accedere a questa rubrica.

La poesia di Walcott che propongo non è tra quelle da me selezionate e da tempo salvate nella mia cartella “poesie scelte”, l’ho scelta invece recentemente dal web, precisamente dal blog Imperfetta Ellisse di Giacomo Cerrai, che, senza volere, creando una specie di “coccodrillo involontario”, come l’ha chiamato lui stesso, ha pubblicato sul suo blog una selezione di poesie di Derek Walkott, giusto qualche giorno prima dell’ exitus dell’autore.

Le poesie proposte mi hanno colpito in particolare perché tra esse ce ne sono alcune dove son presenti a piene mani riferimenti alla città dove vivo: Siracusa. Ed è proprio una di queste poesie che propongo qui, oggi, esplicitando i richiami a me noti.

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Forma alchemica 9: Fernanda Romagnoli

15 mercoledì Mar 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Fernanda Romagnoli, poesia

roma

Fernanda Romagnoli

Confesso che ho qualche difficoltà a scegliere una “rosa” di poesia di Fernanda Romagnoli, alla quale intendo dedicare questo mercoledì di Forma Alchemica. La difficoltà non sta certo nel valore, perché la produzione di Fernanda ben rappresenta il senso del titolo di questa rubrica, che ho spiegato qui, nel penultimo capoverso della nota introduttiva. La difficoltà è piuttosto dovuta alla scelta di quale poesia sia maggiormente rappresentativa dell’eccellenza poetica di questa autrice.

La forma che la Romagnoli dà alla scrittura e la sapiente, sorprendente abilità di scegliere i lemmi da disporre nella perfetta architettura dei suoi versi, ben le meritano i commenti entusiastici espressi dai critici che “battezzarono” le sue raccolte. Appena quattro, sparse lungo tutto l’arco della sua vita: Capriccio, Roma 1943 Berretto rosso, Roma 1965 Confiteor, Guanda, Parma 1973 Il tredicesimo invitato, Garzanti, Milano 1980. Si sa poco di Fernanda Romagnoli, studi al Conservatorio, matrimonio con un militare, una vita scorsa tra gli anni dalla nascita nel 1916 alla morte nel 1986 in grande riservatezza, tanto che qualcuno ha osservato come si contrapponga alla vita in ombra e apparentemente  piana, senza scosse, tutta l’agitazione esposta nella potente dolorosità dei suoi versi.

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Forma alchemica 8: Edgar Lee Masters

28 martedì Feb 2017

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Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters, poesia

Johnnie Sayre

Papà, non saprai mai
l’angoscia che mi strinse il cuore
per la mia disobbedienza, quando sentii
la ruota spietata della locomotiva
affondarmi nella carne urlante della gamba.
Mentre mi portavano dalla vedova Morris
vidi ancora nella valle la scuola
che marinavo per saltare di nascosto sui treni.
Pregai di vivere fino a chiederti perdono-
e poi le tue lacrime, le tue rotte parole di conforto!
Dalla consolazione di quell’ora ho ricavato una felicità infinita.
Sei stato saggio a scolpire per me:
«Strappato al male a venire».

Edgar Lee Masters

L’Antologia di Spoon River è una raccolta di epitaffi espressi in forma poetica, con i quali i defunti stessi riepilogano gli aspetti salienti della propria vita o della propria morte con accenti di profonda verità. Essendo morti appunto essi si affrancano dai vincoli del pudore e dell’ipocrisia, e possono raccontare tradimenti, violenze, cattiverie e inganni, episodi che hanno segnato l’intera esistenza e dei quali sono stati testimoni, vittime carnefici o artefici senza contenersi, non tanto nella prolissità, che anzi questi epitaffi sono a volte estremamente brevi e, pertanto, anche “fulminanti”, quanto nella sincerità. Colpisce che un’intera vita possa essere riepilogata in così poche parole: un’ iscrizione  sulla pietra tombale, scarna quanto basta per sembrare scolpita nella pietra. Incisa e incisiva dunque, per la sua stessa sua natura d’essere una voce dall’aldilà,  proveniente da uomini e donne ancora memori delle loro vicende umane, adesso alle prese con l’altra misteriosa faccia della (non) esistenza.

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Forma alchemica 7: Sergio Solmi

22 mercoledì Feb 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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poesia, Sergio Solmi

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fotografia di Marca Barone

Canto di donna che si sa non vista
dietro le chiuse imposte, voce roca,
di languenti abbandoni e d’improvvisi
brividi scorsa, di vuote parole
fatta, ch’io non discerno.
O voce assorta, procellosa e dolce,
folta di sogni,
quale rapiva i marinai in mezzo
al mare, un tempo, canto di sirena.
Voce del desiderio, che non sa
se vuole o teme, ed altra non ridice
cosa che sé, che il suo buio, tremante
amore. Come te l’accesa carne
parla talora, e ascolta
sé stupefatta esistere.

Sergio Solmi

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fotografia di Marca Barone

Sergio Solmi, nato a Rieti nel 1899, morto a Milano nel 1981, studiò giurisprudenza e lavorò per tutta la sua attività professionale come avvocato della Banca Commerciale Italiana. Ha partecipato alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria, poi alla Resistenza e per questo fu detenuto nel carcere di San Vittore, dall’ esperienza nacque Aprile a San Vittore. Conobbe Piero Gobetti. La sua ricerca di studioso s’incentrò sulle problematiche della personalità umana, ispirato da letture giovanili di Émile-Auguste Chartier, detto Alain, illuminato filosofo francese, che certamente influenzò la sua formazione.
La scelta tra le poesie di Solmi è caduta su Canto di donna, una poesia che egli scrisse nel 1926, appena ventiseienne, chiarendo con essa cosa intendesse con lo scrivere una poesia moderna. Il testo s’apre con una descrizione di una donna che dietro le imposte chiuse canta, una voce roca, sensuale e misteriosa perché la donna non si può vedere. A dire il vero non è nemmeno certo che canti, se ne percepisce la presenza e la voce senza che sia possibile discernere le parole, una voce detta contradditoriamente procellosa e dolce. Come può una voce evocare tempeste e nello stesso tempo esser dolce? Eppure ciò può accadere per le tempeste emozionali che anche solo la voce di un essere può provocare nel cuore di un altro, la sensualità di una voce può smuovere emozioni anche solo per la sua potenza carismatica che avvolge e trascina in una sorta di incantesimo evocato per sola vibrazione della voce e il languore che prende l’ascoltatore è indipendente, talora, da un coinvolgimento sentimentale, perché l’effetto si produce per le note particolari di quella particolare voce, o per quella voce in particolari condizioni personali

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fotografia di Marca Barone

Ecco che Solmi rivela la capacità che il senso dell’udito ha di solleticare emozioni e cita il caso più noto dell’antichità mitologica, il canto di sirena che si racconta avesse il potere di stravolgere a tal punto la mente dell’uomo e di attrarlo così potentemente che egli si buttava tra le onde a capofitto finendo per sfracellarsi sugli scogli.
La poesia, nell’idea dell’autore chiarisce in cosa consista la poesia moderna che, superata la ricerca della melodia e scansate le lusinghe della retorica, appare come “un’illusione suprema di canto che si sostiene quando sono distrutte tutte le illusioni” o, il che è lo stesso, sono distrutti tutti i valori , una poesia quindi che “sembra aspirare a una nuova primitività, che non esclude, anzi esige il potenziamento delle facoltà autocritiche e riflessive, per mettere a nudo, nel pensiero poetico la parte istintiva immediata” Queste citazioni dall’opera di saggista di Solmi delineano quello che è la sua concezione della poesia, nel pensiero che egli svilupperà con più ricchezza e approfondimenti nell’età più matura, in saggi che lo eleveranno al rango di fine critico che ancora oggi suscita interesse per le sue idee e approfondimenti negli studiosi della materia “parola poetica”.
La sua poesia invece si caratterizza per eleganza e misura, mai debordante, urlata, fuori le righe, effetto che egli raggiunge da un lato con l’apparente semplicità, dall’altro con la ricerca di spontaneità ed espressione di autenticità emozionale, ciò  anche per reazione al clima culturale artefatto del momento, impregnato di sovrastrutture storico/elitarie.
Se come si dice – ed è vero-  che si legge ciò che si vuole, ma si scrive come si può, io dico che, ancora più esattamente, si scrive per come si è, e Solmi trasfondeva nella poesia la propria sobrietà e raffinatezza, ma anche la sua idea alta di responsabilità morale dell’uomo verso il presente, unitamente all’esigenza di un recupero del linguaggio classico che, per ricchezza e costruzioni verbali, consentiva finezza di pensiero e stimolanti sconfinamenti nell’ambiguità.
A riprova, infine, il canto di donna languido e gorgheggiante col concorso della memoria s’accende d’amore e desiderio, scoprendo di sé impulsi che nella carne trovano stupefatti la loro radice di fuoco. Lo stupore che chiude la poesia, da un lato sorprende piacevolmente il lettore (ottima chiusa) dall’altro rimanda all’istintività poetica vagheggiata da Solmi e puntualmente espressa in questa che, a buona ragione, per quanto detto prima, si può considerare la poesia rappresentativa della sua idea di poesia.
Per commentare visivamente il testo ho chiesto di poter pubblicare alcune sue foto a Marca Barone, fotografa siciliana, specializzata nei ritratti, specialmente femminili, nei quali il trucco, la pelle, le luci, il vestiario e certi particolari a corredo concorrono a creare, sia a colori che in b/w, un mondo sensuale e attraente di sguardi e bellezza mediterranea.

Loredana Semantica

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