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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: I nostri racconti

racconti di autori contemporanei

The voice

22 martedì Nov 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti

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Amedeo Modigliani, Ritratto di giovane ragazza, 1917

Il dr. Fidoti era un torello d’uomo, basso, tarchiato, sovrappeso. Amava la natura e curare il giardino, ma soprattutto la Sicilplast, la sua azienda. Lui era un imprenditore. Vestiva in modo sempre elegante. Abiti di manifattura impeccabile blu o grigio scuro. Camicia bianca dal collo rigido. Orologio d’oro al polso. I gesti sicuri di chi ha avuto tutto dalla vita e poteva aspettarsi di più. Sposato con tre figli e una moglie bellissima, ricca di famiglia, sportiva, disinvolta, elegante, intelligente, una a cui non mancava niente

Alla Sicilplast producevano oggetti di plastica. Barattoli, secchi, vaschette quadrate, ovali, contenitori coi coperchi, ma soprattutto cassette di plastica per uso agricolo, destinate alla raccolta degli agrumi. La fabbrica era prossima alla campagna siciliana. Attorno distese di giardini coltivati ad aranceti.

Federica era un’impiegata della Sicilplast, si occupava di contabilità. La sua scrivania era al primo piano della palazzina destinata agli uffici amministrativi. Una stanza contigua alla direzione. Le stanze avevano pareti bianche, con mobili grigio perla e finestre ampie luminose, l’aria condizionata che in quei giorni d’agosto creava un’oasi di fresco beata. A piano terra la portineria e il garage. Il capannone industriale conteneva le macchine. Costose macchine che ingurgitavano ingredienti e sfornavano materia plasmata. Il ciclo di produzione marciava come se non ci fosse un domani. L’azienda andava a gonfie vele.

Nulla era fuori posto. Tutto ordinato, efficiente, ben gestito. Persino il parcheggio era ben sistemato. Perfettamente asfaltato. Niente erbacce, il cane da guardia, la cuccia in muratura col tettuccio rosso coibentato, il cancello d’ingresso principale, a grosse e pesanti barre di ferro che svirgolavano curve nere verso il suolo, scorreva senza stridere, come sulla seta. Quattro alberi d’ulivo secolare per ombreggiare sotto il rovente sole siculo. E una tettoria per la protezione delle auto parcheggiate. Aveva mani piccole il dr. Fidoti, ma d’oro. E un capoccione intuitivo e brillante. Tutto filava come l’olio.

Ma per Federica il dr. Fidoti era soprattutto una voce, della quale s’era perdutamente innamorata. Non capiva se amava la voce in sé o perché la associava alla personalità da manager, al ruolo di prestigio, al piglio imperioso. Fatto sta che in sua presenza diventava di burro. Il cuore le sprofondava in una pozza di miele.

Il dr. Fidoti era anche una persona che sapeva impiegare al meglio il suo carisma. Quando la chiamava al telefono, abbassava la voce, la rendeva suadente, sembrava una carezza a distanza. Federica allora si precipitava da lui come se l’avesse chiamata il Signore in persona, avesse avuto un minimo di raziocinio, avrebbe capito che era un modo del capo di conquistare devozione e servizi. Insomma, in verità se ne rendeva conto, ma questo continuo franare verso un sentimento inspiegabile e incontenibile la prendeva come sabbie mobili.

Federica era una donna piccola e rotonda. Il seno abbondante e il culo altrettanto nel corpo sodo, tondeggiante, faceva voglia agli uomini. Come un sacco il girovita era strizzato tra le debordanti rotondità. I capelli lisci, lunghi e nerissimi. Anche gli occhi erano neri. Una presenza da novella pirandelliana. Una femmina sicula perfetta. Buona per fare figli, solo che Federica aveva studiato ragioneria, di matrimoni nemmeno l’ombra. A trentotto anni era anche stanca di aspettare, sognare il principe azzurro, sognare una cosa qualunque. Riversare così vanamente energie in questo sentimento per un uomo proibito era percorrere una strada lastricata di pene, con tresca intermedia e finale di vita fallimentare.

Solo che questa voce le penetrava nel cervello, nelle vene la pervadeva di bisogno, di premura, d’ansia. Come dovesse improvvisamente cercare qualcosa che mancava, che aveva dimenticato. Si doveva alzare per forza, fare qualcosa, muovere il corpo, reagire a questo nervosismo irrefrenabile. Le vibrazioni risuonavano dentro dalle orecchie viaggiavano fino al petto e poi scendevano fino al ventre. Quella voce la sentiva come un cordone ombelicale. La chiamava come un abisso e lei vi precipitava dentro ebbra di desiderio. E il desiderio era corporale come un pezzo di fegato, una placenta. Si coagulavano improvvisamente nella testa gli anni di rinuncia agli svaghi e al divertimento, di sacrifici dedicati alla cura della madre. Tutte le virtù canoniche saltavano e le veniva voglia di ballare, gridare, spogliarsi, tuffarsi nell’irrefrenabile. Impazzire, come un’Erinni.

Federica viveva sola. I genitori li aveva seppelliti uno dopo l’altro, il primo morto d’infarto all’improvviso dieci anni prima. Erano rimaste lei e la mamma, che poco dopo s’era ammalata di una forma di Parkinson senza tremori. Federica s’era dedicata ad accudirla con pazienza e dolcezza. Il ventiquattro novembre dell’anno prima la madre era andata via nel sonno, com’era vissuta, con pazienza e dolcezza, mentre riposava sulla poltrona preferita, come se fosse affondata nel lago della morte.

Federica era quindi rimasta sola ad abitare la graziosa casetta a due piani nel paese di Paderò, ad appena dieci chilometri dalla Sicilplast. Era rimasta anche senza lavoro. Per fortuna zio Ernesto, che conosceva mezzo paese, aveva saputo che alla fabbrica cercavano un contabile e l’aveva indirizzata. Ora Federica aveva un lavoro, una casa e la voce. La voce era il suo peggiore affare al momento. La torturava senza costrutto. Le faceva sentire tutto il peso dei suoi trentotto anni, tutto il divario sociale tra lei e il datore di lavoro, tutta la vanità di un sentimento disperso per un uomo impossibile. Per dedicarsi alla madre Federica aveva rinunciato ad amici e svaghi e scoraggiato anche qualche relazione sentimentale. Il modo in cui però si stava innamorando della voce del dr. Fidoti aveva qualcosa di patologico, sembrava una calamita, una piovra che la stesse risucchiando. Si diceva che doveva reagire, doveva cercare alternative, conoscere altri giovani, insomma, nemmeno tanto giovani, uomini comunque raccomandabili che potessero essere una buona compagnia. Così almeno le diceva zia Rosetta, la sorella di mamma e moglie di zio Ernesto. Insomma era bella che cotta. E continuava a bollire come una rana in pentola a pressione, ad arrossire e arrostire come un gambero sulla brace.

Tutto sarebbe andato nel modo peggiore e più prevedibile, se non fosse che quel giorno Federica decise ch’era ora di darci un taglio e si recò al nuovo negozio di parrucchiere del paese. Da Saverio diceva l’insegna. Pare fosse il nipote della Signora Pizzoli, tornato dopo aver vissuto per anni a Milano. Federica non lo ricordava affatto, non Saverio, non la sua famiglia e nemmeno la nonna Pizzoli, peraltro morta da dodici anni. Tutte queste cose le aveva sapute per le chiacchiere del paese. Come aveva pure saputo che il coiffeur Saverio era divorziato, reduce da una profonda depressione, conseguenza del fallito matrimonio. Era giusto tornato al paese d’origine della famiglia per bisogno di recupero e quiete.

Federica entrò nella sala ch’era vuota. Saverio aveva i capelli rossi, un grosso naso, era magro, con le spalle larghe. Il viso irregolare, il sorriso piacevole e occhi azzurri che le si piantarono addosso.  “Buongiorno” la salutò. E Federica quasi svenne. Saverio aveva la stessa voce del dr. Fidoti. O almeno a lei così sembrò. Lo guardò dritto negli occhi e capì. Sarebbe stato suo. Era il suo destino. In qualunque modo.

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“L’abito fa il monaco” un racconto di Patrizia Destro

27 martedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti

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L'abito fa il monaco, Patrizia Destro, racconto

Ritratto di Raymond, Amedeo Modigliani

Tutto era cominciato l’anno in cui la biblioteca chiuse al pubblico. “Manutenzione straordinaria”, così dissero. “Tra quattro mesi al massimo riapriremo”.
I quattro mesi erano ormai passati da tempo. Di mese in mese, di stagione in stagione, in tutto ne passarono quasi trentasei. Tre anni, giorno più, giorno meno.
Frank, in principio, vi tornava, pieno di speranza, una volta alla settimana per controllare se avessero riaperto. In seguito vi ritornava una volta al mese ma poi decise di abbandonare del tutto l’attesa.
Il soprannome gli era stato affibbiato da un signore anziano all’esterno del supermercato dove a volte comprava del cibo vicino alla scadenza, a metà prezzo. L’anziano lo aveva visto appoggiato al muro vicino alla porta d’ingresso, mentre stava mangiando un tramezzino, e lo aveva chiamato. “Dammi una mano, Frank. Aiutami a caricare l’automobile. Queste borse sono pesantissime”. E Frank lo aveva aiutato, ricevendone in cambio una banconota da cinque e un nome nuovo di zecca.
La biblioteca chiusa era un grosso problema per i molti studenti che ogni giorno avevano riempito le sue
sale, anno dopo anno. Ed era un problema enorme per Frank che, con l’arrivo dell’estate, non aveva più un posto fresco e accogliente dove trascorrere la giornata con un buon libro, una bottiglia d’acqua e un bicchierino di caffè preso al distributore di bevande. Tempo prima le panchine del vicino punto scambio libri erano state eliminate, e così trovare un posto dove sedersi a leggere diventava arduo. Era un buon posto, quello! Frank lo rimpiangeva amaramente. Una piccola oasi in mezzo al cemento, una nicchia fatta di alberi ad alto fusto, scaffali di libri sempre in movimento, tra arrivi e partenze, proprio come i treni che sfrecciano alle spalle di quella biblioteca all’aperto. Alcune panchine quasi nuove completavano il piccolo rifugio per amanti della lettura, così come il saluto degli altri utenti e dei volontari con i quali Frank, a volte, scambiava quattro chiacchiere.
Spesso, su una di quelle panchine, Frank ci aveva anche passato la notte, un po’ dormendo e un po’ leggendo alla luce del vicino lampione. Il dormitorio, in certi giorni, è davvero troppo lontano da raggiungere a piedi, a volte a causa di un malessere, altre volte per la stanchezza di aver lavorato troppe ore per racimolare solo un paio di banconote. E non sempre ci si può permettere di pagare una moneta da due euro per un viaggio in metropolitana.
“Guarda che bella borsa abbiamo ricevuto oggi!” gli dissero un giorno al guardaroba pubblico. “Se la vuoi
è tua, puoi metterci i libri e i vestiti di ricambio. E’ arrivato anche questo bel completo. Provalo, sembra fatto su misura per te”. Frank ringraziò e si ritirò nell’angolo adibito a spogliatoio. Dopo aver tirato la tenda si spogliò con calma; indossò prima i pantaloni e poi la giacca e sentì che effettivamente il completo gli stava comodo. Era quasi nuovo. Prese un lembo della giacca e lo saggiò con una mano. “E’ di cotone!” pensò. “E’ così fresco e profumato!” Aveva fatto da poco la doccia e tagliato barba e capelli, laggiù, alle docce pubbliche. Si sentiva un altro, quasi nuovo e fresco anche lui, come il vestito e la borsa in simil-cuoio che, dall’aspetto, si notava che era stata usata proprio pochissimo.
“Sembra una borsa da medico” pensò Frank. “O forse da uomo d’affari”, aggiunse. O forse nessuno dei due. E’ da tanto di quel tempo che Frank non trova più un lavoro, un impiego stabile. Che cosa può saperne? “A proposito: che lavoro facevo? Non me lo ricordo quasi più. Tanti lavori, nessun lavoro, alla fine”.
“Vieni a guardarti allo specchio” disse la voce del guardarobiere-operatore sociale, distogliendo Frank da pensieri cupi. Vedere la propria immagine riflessa e sentire un sorriso enorme spuntargli prima negli occhi e poi sulle labbra fu un tutt’uno.
“Il meraviglioso abito color gelato alla panna! (*) Non è esattamente color panna, tutt’altro! Si tratta più di un grigio, un grigio chiaro, certo, ma è il concetto che conta”. La mente di Frank sta velocemente rispolverando una propria, personalissima gamma cromatica formatasi in uno degli ultimi posti di lavoro, un colorificio.
“Color panna grigia! Forse è stato aggiunto del pepe nero…” pensa Frank, ridacchiando tra sé e sé.
“Metti tutto in questa busta, maglione giaccone e pantaloni, così li mandiamo in lavanderia” gli dice il volontario. “Te li restituiremo in autunno, promesso!” Frank sa che non glieli ridaranno, non proprio questi, almeno, ma sta al gioco. E’ sempre uno shock, per lui, separarsi dagli indumenti invernali. Soffre il freddo, anche d’estate. “Quel che protegge dal freddo protegge anche dal caldo” è il motto che ripete a se stesso – e talvolta anche agli altri – quando si accorge che i suoi vestiti fuori stagione attirano gli sguardi dei passanti.
“Non mi sento a mio agio, così elegante. Grazie per avermelo fatto provare, ma…” Quel vestito, in realtà, non è così lussuoso come sembra a Frank. Ma il fatto è che lui, ormai, è abituato a indumenti smessi adatti alla vita per strada. E così, per lui, un completo giacca pantaloni pur di seconda mano è uguale ad
un vestito da cerimonia.
“Ascoltami, ho avuto un’idea: ti porti via il vestito così ti ci abitui. Sotto la giacca metti questa maglietta grigia scura, che è in tinta. Domani hai un appuntamento per quel colloquio di lavoro, ti ricordi? Vestito così vedrai che ti prendono. Nella borsa ho messo un paio di jeans e una maglietta blu, così hai il cambio pulito per i prossimi giorni. Cerca di non sporcare i pantaloni! Nella borsa troverai anche della biancheria nuova. Dammi quelle scarpe, che ormai sono sfondate. Prendi queste, più leggere e sportive. Vanno con tutto!”
“Tranquillo, non mi siedo mica ovunque!” (E si, certo che mi ricordo del colloquio, come farei a dimenticarmelo? Un posto di custode giù ai magazzini della stazione, un posto di lavoro con una stanza privata e i servizi igienici, l’alloggio del personale…)
Frank non si sedeva mai per terra; faceva già abbastanza fatica a tenere i vestiti puliti per una settimana, a volte dieci giorni. E quando si sedeva sulle panchine ci metteva sopra un giornale di quelli in distribuzione gratuita. Ne prendeva sempre due copie, di cui una da leggere. Ma le panchine pubbliche
diminuivano, ancora e ancora…
Questa volta aveva un motivo in più per non sporcarsi. Un motivo importantissimo, essenziale. E quando c’è un motivo così grande per fare una cosa, si diventa più audaci.
Frank iniziò a maturare una decisione: avrebbe trascorso il tardo pomeriggio e la notte in un albergo. Da
quanto tempo non entrava in un albergo? Da tanto di quel tempo che ormai dubitava di averne mai visitato uno.
Si ricordò dell’hotel di otto piani a due strade di distanza dal Centro dove si trovava ora. Ogni tanto ci passava perché, lì vicino, c’era una di quelle panetterie dove, nel tardo pomeriggio, il pane e altri prodotti sono venduti a metà prezzo o regalati. Frank aveva voglia di un trancio di pizza, anche semplice, era da tanto che non ne mangiava! Ma temeva di sporcare il vestito, cosa che non poteva assolutamente permettersi. “Vediamo che cosa è avanzato”, si disse. “Magari una fetta di focaccia non molto condita”.
Si avvicinò e si accorse che questa volta il fornaio aveva lasciato fuori dalla porta, in una cesta, pizzette e biscotti già imbustati. Con l’acquolina in bocca, Frank disse a se stesso che avrebbe fatto molta attenzione. Afferrò due buste con delicatezza, una per tipologia di prodotto, e si avviò verso l’albergo.
“Se è rimasto tutto come prima dovrebbero esserci ancora le chiavi metalliche”. Frank nutriva un’avversione per le tessere elettroniche – con tutti quei dati personali in memoria! – tanto maggiore adesso, che stava per diventare un probabile ospite insolvente e temeva che, a causa di un guasto, avrebbe potuto rimanere chiuso dentro…
Prese il coraggio a quattro mani, inspirò profondamente ed entrò. Alla reception non c’era nessuno. Il registro delle presenze non si vedeva: usano il computer, qui! e le chiavi di metallo, uno strano abbinamento di antico e moderno su cui Frank si ripromise di riflettere in seguito. Una rapida occhiata alla bacheca portachiavi e documenti gli rivelò che, molto probabilmente, la camera 412 era libera. Frank afferrò le chiavi e, con il cuore in gola per l’emozione, si avviò in fretta su per le scale. La stanza era effettivamente libera; niente valigie, l’armadio vuoto, il letto – singolo -intatto. Con un respiro di sollievo, Frank chiuse la porta, si tolse i vestiti e li appese sulle grucce, accarezzandoli con un dito. Si sdraiò sul letto, pregustando una cena a base di prodotti da forno e acqua del rubinetto. Da molti anni,
ormai, non aveva più una casa. Se tutto andava bene, da domani ne avrebbe avuta di nuovo una, minuscola ma tutta per sé, insieme ad un lavoro stabile. E poi, chissà, l’estate prossima, risparmiando su tutto, sarebbe riuscito a fare una vacanza al mare, senza pretese…
L’indomani mattina Frank si svegliò presto, si lavò, e dopo una colazione a base di biscotti avanzati dalla sera precedente e un bicchier d’acqua si vestì di tutto punto, prese la sua borsa e uscì dalla stanza, lasciando le chiavi nella toppa. Nessuno lo vide andare via. Quando, un’ora dopo, si trovò a firmare il contratto per il posto di custode, disse a se stesso che forse, dopotutto, anche se è di un colore sbagliato, questo vestito è davvero ‘Il meraviglioso abito color gelato alla panna’, quello che ti dà il coraggio di fare tutto, perfino di esaudire un piccolo enorme sogno a lungo sognato.

(*) cit. Il meraviglioso abito color gelato alla panna di Ray Bradbury.

Patrizia Destro

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Vittoria Luna. Un racconto di Patrizia Destro

29 mercoledì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Patrizia Destro, racconto, Vittoria Luna

“Da grande voglio fare l’astronauta”. Vittoria è seduta sul pavimento, attorniata da cubi e costruzioni che impila gli uni sugli altri con grande attenzione. Si trova in soggiorno, in compagnia dei suoi genitori. Lui, il papà, è seduto in poltrona a leggere il giornale; lei, la mamma, sta facendo le parole crociate. La domenica è per entrambi giorno di riposo. La donna salta subito in piedi, entusiasta.
“Hai sentito, caro? La nostra bambina ha detto la sua prima frase lunga! Vieni qui, amore, che ti coccolo tutta!”
“Ma dico, sei impazzita?” dice lui, alzando la voce. “Non prenderla in braccio, che poi ci fa l’abitudine! E comunque i suoi fratelli hanno cominciato a parlare molto prima di lei. Non trattarla come un fenomeno!” “Abbassa la voce, che la fai spaventare! Non dire che ha imparato a parlare solo ora, perché non è vero. Nostra figlia ha imparato a parlare presto. Solo che parla poco, ecco. Non è logorroica come i gemelli, che quando telefonano ci stordiscono di chiacchiere !”
“Ah, ti danno fastidio i nostri figli, è così? Almeno non sono ritardati come questa qui, la tua preferita. Sono svegli, loro!” urla ancora lui. “Non capisco proprio a chi somigli. Anzi, lo capisco benissimo: somiglia a te, che in tutta la vita non hai concluso niente. Sei nata donna delle pulizie e morirai pulendo, te lo dico io!”
“Mi offendi così, non hai proprio un briciolo di dignità?” dice lei. E aggiunge: “Vittoria non somiglia a nessuno di noi due, per fortuna. Nel caso te lo fossi dimenticato l’abbiamo adottata”.
“Certo, che me lo ricordo! Una delle tue idee idiote, come se non avessimo già fatto il nostro dovere mettendo al mondo due figli!”
Lei non raccoglie la provocazione. “E comunque ci vuole intelligenza anche per fare le pulizie. Pensa se mescolassi, per ignoranza, alcol e candeggina, per esempio. Ma io non lo faccio, perché certe cose le so. E, visto che te la sei cercata, aggiungo che neppure tu sei diventato uno scienziato; sei solo un cameriere, ecco quello che sei!”
“Si, sono un cameriere e ne vado orgoglioso. Anche i nostri figli sono camerieri come me. E tutti e tre lavoriamo in ristoranti di lusso. Non come te, che pulisci lo studio di tre medici sconosciuti e incapaci, che quando li chiami non vengono mai a casa!”
“Da quando i dentisti fanno visite a domicilio? Cerca di ragionare, prima di aprire la bocca, santo cielo!” Vittoria, intanto, continua a giocare, pacifica. Le voci dei genitori litigiosi le arrivano ovattate, come da molto lontano. Gioca e cresce, cresce e gioca e impara, noncurante delle cattive parole che le volano attorno.

“E questa la chiami pagella?” sbraita il padre appoggiando in malo modo la tazza di caffè sul tavolo della cucina. “Tutti ‘sette’, ragazzina? Non è che ti sforzi molto, a quanto vedo. Sei in terza liceo, ormai. Dovresti impegnarti di più, ecco! Non ci arrivi proprio a prendere qualche ‘otto’ o ‘nove’, eh? Io alla tua età studiavo dalla mattina alla sera e anche di notte, e prendevo dei bellissimi voti, sempre!”
“Ma quanto sei bugiardo? Eravamo a scuola insieme, chi credi di imbrogliare? Mi ricordo benissimo che arrivavi alla sufficienza con grande fatica. Non è che tu ti sia mai sforzato troppo, eri sempre al bar con gli amici. E poi te l’ho già spiegato: nella scuola di Vittoria i voti arrivano solo fino all’ ‘otto’. Otto è il voto massimo, capito? E’ come il ‘dieci’. Quindi Vittoria è come se avesse preso ‘nove’ in tutte le materie”. “Certo, certo… Continua pure a dare i numeri, io intanto vado a fare quattro passi. Siete impossibili, voi due, non vi sopporto”.
La madre scuote la testa; rimane per qualche minuto a guardare nel vuoto e poi, senza dire una parola, si prepara per andare al lavoro.
Vittoria, nel frattempo, sta compilando un test per la scuola. Toglie per un attimo le cuffiette (sta ascoltando il suo gruppo preferito), rivolge uno sguardo neutro prima verso il padre poi verso la madre e ricomincia a scrivere tranquillamente, come se avesse udito un semplice spostamento d’aria.
“Presto, siediti qui vicino a me! Tra poco saremo in collegamento con Vittoria, è da mesi che non la vediamo! Che emozione, ma ci pensi? Lei è arrivata là, dove solo poche persone potevano anche solo sognare di arrivare!
“Vengo, vengo! Che idea scriteriata, andarsene in orbita attorno alla terra, ma dico io”.
“Piantala di brontolare, per una volta… Oh, eccola! Ciao, amore, come stai?”
” ‘Amore come stai’ … ma sentitela, che smancerie! Sembra sempre che tu stia parlando col tuo gatto. Quella bestia lascia il pelo dappertutto e con quelle sue zampacce ha spremuto fuori dal tubetto tutta la pasta adesiva per la mia dentiera…”
“Che colpa ne ha Micio se tu hai perso i denti in anticipo perché li tieni digrignati, sempre, giorno e notte!” Il padre fa finta di non sentire. Muove di malavoglia una mano a destra e a sinistra per salutare la ragazza. Si avvicina al video e vede che c’è scritto ‘Vittoria Luna’.
“Hai visto che tua figlia si è cambiata il nome? Ci ha rinnegato, ecco che cos’ha fatto! E’ proprio una vergogna!”
“Fai sempre una tragedia per tutto, sei uno stolto, lasciamelo dire. Vittoria non ha cambiato proprio un bel niente, si è solo aggiunta un altro nome, molto appropriato alla situazione”.
L’uomo esce dalla porta sbraitando che astronauta non è un vero lavoro, è un’occupazione inutile, lei doveva diventare chef, quello si che è un lavoro vero e utile, ma naturalmente nessuno lo ascolta mai. Aggiunge che deve andare a comprare un nuovo tubetto di pasta adesiva ed esce.
Vittoria, nel frattempo, è comparsa sul video e saluta con una mano e un sorriso leggero. Segnala ‘tutto bene’ con i pollici alzati e poi si sposta per consentire alla madre di dare un’occhiata all’interno del modulo. Il collegamento con la Terra dura pochi minuti. Dopo la chiusura, la donna rimane a guardare il video ormai spento, con aria sognante, mentre accarezza Micio che, nel frattempo, le è salito in grembo e ha iniziato a ronfare più rumorosamente del solito.

Patrizia Destro

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Don Elio e internet. Un racconto di Patrizia Destro

21 martedì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Don Elio e internet, Patrizia Destro, racconto

Don Elio è seduto nella piccola chiesa di Lagomonte, l’unica, della parrocchia che gli fu affidata vent’anni prima. Le poche panche di legno sono divenute anche troppe dopo lo spopolamento delle quattro frazioni che compongono il paese che un tempo era la casa di centoventotto anime.
Il parroco si stringe la radice del naso con il pollice e l’indice della mano destra mentre con la sinistra si appoggia al sedile e si lascia scivolare in ginocchio.
Tiene le mani congiunte, Don Elio. Passano dieci minuti, ne passano altri trenta. E’ distratto, non riesce a concentrarsi.
– Ti sei accorto subito che non stavo pregando, eh! Scusami, Signore, è che ultimamente ho dei pensieri.
Il prete parla con il crocefisso che si trova sull’altare. Si tratta di un semplice pezzo di legno su cui è dipinta la figura stilizzata di un Cristo, ma per lui è come se si trattasse di una persona vivente, il Dio fattosi essere umano per la salvezza di tutti.
Ed Elio ci parla con fiducia, ad alta voce, da uomo a uomo, e, talvolta, da figlio a padre.
Gli chiede consiglio e poi ascolta la risposta che si forma, puntuale, dentro la sua testa.
– Innamorato io? Alla mia età, poi? Ah ah ha, oggi ti va di scherzare, Signore! No, non si tratta di questo. Ho ben altri problemi. Mi innamorai una volta, tanti anni fa. Non pretendo che tu te lo ricordi, dopotutto siamo otto miliardi di anime, su questa terra. Certo, sei onnisciente, non potrei mai dimenticarlo, e hai spazio e tempo infiniti, puoi occuparti di tutti contemporaneamente, certo… Ma io sono qui, tutto solo, su questo altipiano che a volte mi pare immenso. Non mi sto lamentando, sia chiaro. Ho avuto una vita piena di cose da fare e di gente da aiutare, sia qui che laggiù, alla missione…

Don Elio smette di parlare all’improvviso e si porta una mano ad un polpaccio. Reprime un lamento di dolore, trattiene il fiato e, dopo qualche secondo, riesce di nuovo a respirare liberamente. La scheggia della mina anti-persona che lo colpì quando era un uomo di mezza età, florido ed energico, un vero soldato della fede… quella grossa scheggia che gli entrò in una gamba, senza provocargli danni troppo gravi nel fisico, gli aveva perforato l’anima. Lui si era salvato ma due bambini del gruppo della scuola, che stava riaccompagnando a casa dopo una breve escursione in cerca di piante da studiare, laggiù, nel piccolo villaggio tra il mare e il deserto, erano saltati per aria. E lui non poteva e non voleva dimenticarli. Solo, per non soffrire troppo, aveva conservato il ricordo in un angolo della sua mente, e ci conviveva così come si convive con un mal di testa cronico e semi-invalidante.

– Non ho guardato le carte geografiche del villaggio, non stavolta, credimi! E neppure le fotografie. E’ da ieri che non accendo il computer. Ho fiducia in Te, come sempre. So che i miei piccoli riposano nel Tuo amore, ma è difficile da accettare, ecco. Un attimo prima sorridevano felici e poco dopo … Io sono sopravvissuto, e provo un senso di colpa insopportabile.
Don Elio sente una nuova fitta al polpaccio e un’altra in mezzo al petto, fortissima. Dopo l’esplosione era rimasto in stato di choc per settimane e poco tempo dopo fu rimpatriato.
Durante gli anni gli abitanti di Lagomonte erano diminuiti sempre più. I giovani avevano trovato lavoro lontano, dispersi per il mondo, e gli anziani si erano trasferiti in luoghi meno freddi e più accessibili, al mare o in città. Prima di andarsene, un giovane aveva regalato a Don Elio un computer con tutte le connessioni e gli aveva insegnato ad usarlo. Per il prete era stato come ricevere il più bel regalo del mondo. Con quello aveva potuto rimanere in contatto con i suoi parrocchiani e ricreato una sorta di parrocchia virtuale. Secondo le norme ecclesiastiche avrebbe dovuto esortarli ad unirsi alle loro nuove comunità religiose ma non ne aveva avuto il coraggio. Non poteva rinunciare al calore e all’affetto di cui godeva tra i fedeli, seppure nella distanza. Lui li sentiva ancora fisicamente vicini, ognuno di loro.

– Non sono triste, davvero! E’ che non vedo l’ora che arrivi l’estate, ecco tutto. A luglio molti dei miei parrocchiani ritornano qui, e per me è una festa! Alcuni ritornano anche d’inverno, per il Natale. E così sono in compagnia due volte l’anno… Nei restanti mesi ci teniamo in contatto con il telefono e il computer.
Non sei convinto, pensi che io ti nasconda qualche cosa? E va bene, ora ti racconto tutto, per filo e per segno. Ho aperto una pagina su un social network, ecco. I miei parrocchiani e io siamo sempre in collegamento, e io mi sento come se avessi di nuovo una famiglia, una grande e affettuosa famiglia! Tre anni fa alcuni di loro hanno avuto l’idea di confessarsi a distanza; all’inizio erano poche decine, poi con il passaparola tra i loro amici in breve sono diventati tremilasettecento… Ammetto che la situazione mi è un po’ sfuggita di mano, ma come potrei rifiutare qualcuno? Sono le mie pecorelle e io sono il loro pastore! Quando vogliono confessarsi mi scrivono e mi raccontano tutto. Io li assolvo e gli dò la penitenza. Poi, durante la settimana, a piccoli gruppi, celebro le messe a distanza. Benedico il pane che preparo con le mie mani, lo spezzo e, simbolicamente, ne distribuisco a tutti. Ognuno di loro si procura un pane, piccolo o grande, secondo le loro esigenze, e io benedico anche i loro pani… Poi tutti insieme ci comunichiamo.
No, non ho chiesto permessi al Vescovo, non credevo ci fosse niente di male… Io sono felice di continuare la mia opera, anche utilizzando un monitor e una tastiera, e i miei parrocchiani mi dimostrano ogni giorno che io sono di conforto nelle loro vicissitudini…
Il permesso lo chiedo a te ora, Signore! Dovrei rispettare le gerarchie? e per quale motivo? Tu sei l’Essere Supremo, il Perfetto e l’Onnisciente. Tu conosci il passato, il presente e il futuro e sei il Padre di tutti noi…

Don Elio, che si era alzato in piedi nel perorare la propria causa e quella dei suoi parrocchiani dispersi ma virtualmente riuniti, sente una terza fitta al polpaccio e, contemporaneamente, una seconda, dolorosissima fitta al petto.
Con fatica il sacerdote raggiunge una panca e vi si siede, col fiato corto. Don Elio attende una risposta dal suo Signore, che stavolta tace.
Passano dieci minuti, ne passano altri trenta. Don Elio riprende un poco delle sue energie; si alza in piedi e si avvia verso l’uscita della chiesa, con le spalle ricurve e lo sguardo perso nel vuoto.

Patrizia Destro

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Lucy

07 martedì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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colonia, Gambarie, Loredana Semantica, Lucy, Racconti

Dorotea conobbe Lucy nel 1969 alla colonia estiva montana di Gambarie in Aspromonte. Gemma, la mamma di Gisella e Dorotea preparò i bagagli delle figlie in vista della partenza per la Calabria. Gemma aveva cucito per loro freschi completi da viaggio. Comodi bermuda azzurro cielo e camicette a fiori pastello primavera. Il bagaglio era tutto in una sacca di tessuto, secondo le istruzioni. Sulla sacca erano applicate tessere di tessuto bianche, ciascuna con una lettera ricamata sopra in filo rosso, accostate a comporre i rispettivi nomi. Su ogni capo di intimo, asciugamani e magliette erano cucite simili tessere che componevano il numero di matricola assegnato. I numeri erano assegnati nella raccomandata con la quale l’E.N.P.A.S. comunicava ch’era stata accolta la domanda per l’ammissione alla colonia estiva e servivano ad associare l’indumento alla persona titolare di quel numero per non disperdere i capi al momento in cui venivano lavati insieme a quelli degli altri compagni. La partenza avveniva da Piazza Adda in pullman gran turismo. Un cinguettare festante di bambini riempiva l’aria dalla prima mattina. Nel momento in cui i pullman si avviavano, tutti a salutare con la mano, a mandare baci. Qualcuno si commuoveva.
Cominciava la vacanza vera. Già il viaggio era un divertimento. Canti, senso di avventura e libertà, giochi e risate. A Dorotea piaceva affacciarsi al finestrino e sentire l’aria schiaffeggiarle il viso, spettinarle il capelli. Il fiato mozzato dalla forza del vento.
Arrivavano a Gambarie all’imbrunire. Spesso completamente afone per aver speso tutta la voce possibile. L’edificio che le accoglieva era grande, su  tre piani, aveva muri esterni giallo chiaro, elementi in rilievo col color crema e grandi finestre. Un aspetto architettonico indeciso tra un castello e un albergo. Il corpo dove si apriva l’ingresso, con le sue scale semicircolari e gli infissi in legno e vetro, sporgeva sul grandissimo cortile ricoperto di pietrisco.
A destra e a sinistra, come ali, i restanti corpi dell’edificio. Tutto intorno alla costruzione e al cortile alberi. Ai piani superiori le camerate dove i ragazzi sistemavano le proprie cose: un comodino ciascuno, un armadio in comune a gruppi di due o tre. Maschi a sinistra femmine a destra nelle due ali dell’edificio. Rigorosamente separati. Poi c’erano il grande salone mensa, lunghi corridoi, seminterrati con le docce, infermeria, cappella e cucine. In un edificio più piccolo aggregato c’era la lavanderia. Tutti i ragazzi della colonia venivano forniti di una sorta di divisa: una gonnellina di tessuto tipo jeans leggero per le bimbe, pantaloncini per i ragazzi, per entrambi camicia azzurra, un maglione di lana blu, un cappellino modello marinaretto blu. All’interno del cappello, foderato di garza, occorreva scrivere il nome per evitare di perderlo o confonderlo con quello di altri.
All’inizio dei venti giorni di vacanza i bambini venivano controllati nel caso avessero i pidocchi. Era il momento in cui Dorotea aveva la sensazione d’essere un vitello da ingrassare. Uno per uno, dopo l’attesa in fila ordinata, entravano in infermeria, lì erano pesati e misurati in altezza. Un altro controllo veniva fatto a metà della vacanza e l’ultimo prima di tornare a casa.
Gambarie era immersa nei boschi di faggio, larice, abete bianco e di tutta la vegetazione montana dell’Aspromonte, il centro abitato di poche case disposte attorno alla piazza, dove c’erano pochi negozi, tra i quali uno di souvenir dove acquistare le cartoline da mandare ai genitori e parenti.
Anche in piena estate il clima era fresco, la sera occorreva una coperta leggera. La mattina suonava la sveglia alle 7,30. Nei bagni i lavandini erano bianchi ampi e circolari, vasche rotonde di ceramica con un cilindro centrale dal quale sporgevano i rubinetti. Da questi usciva un’acqua fredda da far rabbrividire. L’acqua calda c’era e non c’era, nel senso che prima che arrivasse ai rubinetti percorrendo i tubi, i più avevano già finito la toilette. I gabinetti alla turca erano quanto di più scomodo per i bisogni e inquietante per lo spirito, con quel buco grosso al centro che s’affossava nel nero profondo e finiva chissà dove. La giornata iniziava con tutte le squadre, così come si erano formate all’arrivo, distinte per sesso, schierate in ordine nel cortile per l’alzabandiera e l’inno. Una cosa piuttosto militare, ma che aveva un suo fascino. Composto e suggestivo Dopo, sciolte le righe, sempre sul posto un po’ di ginnastica del buongiorno.
La colazione di pane, burro, marmellata, caffelatte. I pranzi alla mensa erano niente male. A Dorotea piacevano in particolare le sogliole fritte in pastella e il pollo al forno. La cena era meno appetibile, spesso c’era pastina in brodo vegetale, per secondo un bel pezzo di svizzero o qualche fetta di prosciutto, verdure cotte e pane.
Dorotea dunque conobbe Lucy alla colonia estiva, non ricordava il momento preciso dell’incontro, ma nel corso della vacanza si accorse che la preferiva a tutte le altre compagne, non solo per giocare, ma perché sentiva ch’erano della stessa pasta, avevano gli stessi gusti, gradivano gli stessi cibi, gli stessi giochi.
Lucy aveva una sorella più grande Elena. Elena aveva gli stessi colori di pelle, capelli e occhi della sorella minore, un naso affilato, i capelli nella parte più alta aderenti alla testa, ondulati in punta, erano divisi da una riga centrale e sulla fronte tagliati a frangia. Elena era più grande, più alta, aveva già le forme di una donna e, ovviamente, altri interessi, i ragazzi innanzitutto e molti ragazzi s’interessavano a lei.
Lucy aveva anche un fratello Piergiorgio più grande di Lucy e più piccolo di Elena.
Piergiorgio era il ragazzo più corteggiato della colonia. Bruno di pelle e di capelli, un sorriso accattivante, denti bianchissimi, un bel fisico atletico, inoltre gentile, sorridente, disponibile anche con Dorotea.
Dorotea avrebbe potuto interessarsi a Piergiorgio ma per qualche ragione vederlo così desiderato e sentirlo, rispetto a sé, più grande, le faceva pensare che fosse del tutto fuori dalla sua portata. Anzi ancora più profondamente, Dorotea tendeva a stare lontano dai ragazzi. Li trovava strani, diversi. Lucy invece no. Lucy era bellissima. Una pelle ambrata perfetta, liscia compatta senza un difetto, gli occhi grandi verdi, due smeraldi nel viso. I capelli erano una danza di onde bionde. Del colore del sole, delle spighe dorate, accendevano il volto, splendevano di giorno, illuminavano la notte.
La vacanza in colonia scorreva in modo alquanto monotono, la mattina dopo la ginnastica e la colazione, passeggiata tra i boschi nei dintorni, tutti in fila per due ben accosti al bordo strada, alcune giovani maestre erano incaricate della sorveglianza e vigilavano ciascuna sul proprio gruppo composto da venti persone circa. Si cantava per ingannare il tempo durante il cammino, spesso i canti della resistenza oppure “Lo sciatore” o “La macchina del capo”, le preferite dai ragazzi. Sosta in qualche punto spianato e circoscritto per permettere il gioco. Ritorno agli alloggi. Dopo il pranzo e il riposino, altra passeggiata più breve, oppure visita a Gambarie o giochi nel cortile. Occasionalmente i Capigruppo organizzavano una giornata di giochi a squadre, tornei di ruba bandiera, partite di pallone per i maschi, la visione di un film nella sala di proiezione, gare canore nelle quali Lucy mostrava le sue doti perché era intonata e aveva una bella voce. Un giorno le chiesero di cantare il suo cavallo di battaglia, un successo del momento: “Un mondo d’amore” di Gianni Morandi.

C’è un grande prato verde
dove nascono speranze
che si chiamano ragazzi
Quello è il grande prato dell’amore

Uno : non tradirli mai,
han fede in te.
Due : non li deludere,
credono in te.

Tre : non farli piangere,
vivono in te.
Quattro : non li abbandonare,
ti mancheranno.

Quando avrai le mani stanche tutto lascerai,
per le cose belle
ti ringrazieranno,
soffriranno per li errori tuoi.

Grande interpretazione. Gli ascoltatori disposti tutt’intorno in cerchio applaudivano.
L’amicizia tra Lucy e Dorotea intanto cresceva, non con episodi particolari, ma nel quotidiano farsi compagna delle giornate di vacanza, per semplice vicinanza. Dorotea tuttavia si era resa conto che l’affiatamento con Lucy rendeva quest’ultima la sua migliore amica. Quando le era vicina si rallegrava, aveva voglia di scherzare, si animava. Sentiva che insieme avrebbero potuto essere una forza, un’alleanza. Nessuno avrebbe potuto spezzare il cerchio magico che le univa. Forte, luminoso, capace di allontanare amichette dispettose, noia, malumori e pericoli. Come i serpenti che abitavano il bosco e potevano saltare su da qualche mucchio di foglie o pietra, come le bacche che non bisognava mangiare perché facevano venire il mal di pancia. Come le macchine che passavano vicine o il burrone oltre il ciglio della strada. Una specie di talismano contro i tanti pericoli dei monti.
Dorotea e Lucy giocando inventavano storie fantastiche dove l’immaginazione galoppava tra fate, cavalieri, draghi da sconfiggere, oppure di ordinaria quotidianità di genitori, figli scuola, cucina. Terra, foglie, pietruzze e fili d’erba erano d’aiuto per preparare le pietanze da impiattare. Con i grani che crescevano sulla pagina superiore della foglia di un arbusto montano fabbricavano bracciali e collane. Queste escrescenze vegetali avevano le dimensioni di un chicco di farro e la particolarità di diventare col tempo legnosi, un canale naturale nel senso della lunghezza li rendeva sostanzialmente cavi, si prestavano perciò ad essere inanellati in collane. Le ragazzine li chiamavano “coralli” e c’era tra loro un fitto scambio di questi “preziosi”.
Verso la fine della vacanza ci fu un colpo di scena. Arrivarono i genitori di Lucy. Erano venuti a trovare i figli, ma visto che mancavano due giorni alla fine della vacanza, avevano deciso di portarli via con loro. Dorotea si dispiacque molto di non poter fare il viaggio di ritorno con Lucy, ma avendo scoperto che proveniva dalla stessa sua città le chiese il numero di telefono e le scrisse il suo su un biglietto, con la promessa reciproca di sentirsi.
La cosa più singolare per tutti però fu vedere piangere Elena, davvero scossa da questa frettolosa partenza. Per intercessione delle vigilanti si ottenne che Elena al di fuori delle regole della colonia si recasse pochi minuti nel dormitorio dei maschi per salutare Marco. Dorotea non conosceva gli intrecci relazionali tra i ragazzi più grandi e non capì il perché di tanta commozione. Cioè non le sembrava possibile che qualcuno potesse affezionarsi così tanto a una persona da giungere alle lacrime.
Pochi giorni dopo il ritorno a casa dalla vacanza Dorotea decise di telefonare a Lucy. Dapprima al numero che Lucy le aveva dato non rispondevano affatto. Lucy pensò ci fosse un errore e volle controllare sull’elenco telefonico, senza esito. Doveva essere un numero segreto. Poi finalmente ad un successivo tentativo qualcuno rispose, era Piergiorgio, ma le disse che Lucy non c’era, un’altra volta rispose Elena, tuttavia Lucy non la richiamava, sebbene Dorotea lasciasse detto di farlo. Provò a chiamare un’altra volta, un’altra ancora, fino a quando sentì con le sue orecchie dall’altro capo del telefono proprio la voce di Lucy dire alla sorella di riferirle che era uscita.
Dorotea capì, o meglio non capì, fu la sorella maggiore Gisella a spiegarle che Lucy non la voleva più per amica. Dorotea continuò a non capire, ma imparò il rifiuto. Continuò a non capire per anni e anni. Si era convinta che Lucy fosse di una famiglia altolocata, che non poteva coltivare amicizie ordinarie. Una specie di contessina o principessa, la figlia di un agente segreto o di un altissimo funzionario.
Ogni tanto, mentre diventava una giovane donna amabile e graziosa e poi madre e poi adulta, mentre invecchiava, ripensava alla vicenda. Continuò a non capire, e nonostante il tempo passasse, non trovò risposte o soluzioni. Non incontrò più Lucy. Come se non vivessero nella stessa città. Gli interrogativi stagnarono nella mente senza risposte. Si chiedeva quale fosse la macchia, la mancanza o l’errore che aveva commesso, cercava un possibile perché, ma si rendeva conto che tutti poi convergevano in una sola domanda, come una spina: in quale universo si fosse disperso, in quale anfratto si fosse nascosto il suo “mondo d’amore”.

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Novembre di zucchero. Un racconto di Loredana Semantica

10 mercoledì Nov 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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2 novembre, commemorazione dei defunti, Loredana Semantica, novembre di zucchero, racconto

zucchero_filato

Benedetta il primo di novembre sentiva che si avvicinava la festa. L’aria frizzantina all’imbrunire si riempiva di fumo e dell’odore di caldarroste. Spuntavano le bancarelle dei giocattoli e caramelle. C’erano luci, musica, tutta un’animazione nelle strade, un viavai di gente con i pacchi e i cartocci di frutta secca: a simenza, a calia, i favi sicchi, a nucidda americana, i pastigghie *. I bambini passavano tenuti stretti per mano dalla mamma o dal papà, altrimenti nella confusione si perdevano. Nell’altra mano tenevano uno stecco di legno attorno al quale in cima era avvolta una nuvola bianca di zucchero filato. Mangiavano la nuvola, affondando il naso nel biancore e spalancando la bocca per accogliere la matassa dello zucchero, che, prima si addensava dove avevano dato il morso in grumo dolce, poi si scioglieva in bocca mentre naso, bocca e mani diventavano appiccicosi di zucchero, quando non subivano la stessa sorte i vestiti propri o i soprabiti dei passanti. Uno spettacolo era vedere quando preparavano lo zucchero filato. Di solito lo facevano presso le bancarelle che vendevano dolci, torroni, caramelle. Si servivano di una specie di pentola gigante a forma di tortiera per ciambelle, nel supporto centrale, rialzato rispetto al fondo, versavano lo zucchero che, riscaldato, cominciava a filare e si raccoglieva mano mano sul bastoncino di legno a formare la matassa sempre più grande, più grande fino a sembrare una nuvola di cotone. Anche il resto della bancarella era un piacere per gli occhi: l’ossa e motti**, i biscotti di miele, durissimi cilindretti lunghi arrotolati in due spirali opposte, i totò al cioccolato e quelli bianchi, col cuore morbido e fragrante, le ghirlande cellophanate di caramelle, i leccalecca, le caramelle sfuse di tutti i colori, gommose o dure, le gelatine di frutta, il torrone bianco, il torrone scuro di mandorle, quello di nocciole, ricoperto di glassa ai vari gusti, i torroncini avvolti nella carta luccicante, cioccolata a tavolette più o meno grandi, il nocciolato spezzato a grossi tranci, le meringhe dai colori pastello che sormontavano i coni di cialda croccante a imitare i gelati, i marron glacé, i ceci e le mandorle ricoperti di zucchero, le caldarroste, la frutta secca. Una festa della gola e dell’abbondanza. Le bancarelle più attraenti però erano sempre quelle dei giocattoli. Il mistero era che papà e mamma tirassero sempre via Benedetta  senza comprarle niente, lei perciò si doveva accontentare di guardare l’esposizione e i bambini coi loro giocattoli in mano.
L’indomani era il giorno dei morti, la festa cominciava già la mattina. Il papà e la mamma di Benedetta immancabilmente andavano al cimitero portando con sé le figlie Eleonora, la maggiore, e Benedetta, la più piccola. Per le bimbe il cimitero non era un luogo triste. Affollato di piante, alberi e persone, lo vedevano più simile a un parco che a un luogo di silenzio e commemorazione. Tutt’intorno il cimitero era delimitato da un muro alto in antica muratura, si entrava da un ingresso imponente con tre archi, ma quello era l’ingresso principale, ce n’erano altri secondari e nel giorno dei morti li aprivano tutti. Da quale entrare dipendeva da dove si trovava parcheggio.
Posteggiare la fiat 600 blu era un’impresa, ma in qualche modo un buco lo trovavano, tra lo strombazzare delle auto e i pedoni a frotte. Prima di entrare al cimitero c’erano tante bancarelle di fiori di tutti i tipi e colori. Il papà di Benedetta prendeva sempre sei garofani rossi per la sua mamma. Poi, camminando di fretta per i viali del cimitero, si recava al colombaio dove c’erano i loculi di suo padre e sua madre. Vicini, ma non troppo. Benedetta lo seguiva, ma nel frattempo aveva modo di osservare ai lati dei viali le cappelle dei defunti. Alcune modeste, altre grandiose, tutte guglie, cupole, cuspidi, come piccole chiese. Poi i decori, i vetri colorati, gli stucchi, le inferriate. Le statue soprattutto erano affascinanti. Quelle degli angeli in tutte le pose e dimensioni, così ieratici e bianchi, le madonne a mani giunte, bellissimi bimbi che sembrava dormissero un loro sonno di pietra, adagiata la testa su cuscini ornati dalle nappe, la malata nel suo letto con le coperte poggiate fino ai fianchi, il busto eretto e le braccia protese ad abbracciare la morte, le statue dei soldati caduti con la divisa le armi, l’elmetto. Le tombe nella terra erano quelle che maggiormente la inquietavano. Pensava ai corpi abbandonati all’umido, al freddo degli inverni, coperti da implacabili lapidi di marmo sulle quali si leggevano dediche struggenti.
C’erano tombe curate coi fiori freschi, le piante, la teca di vetro che conteneva la Madonna benedicente, un Cristo pietoso o sofferente. C’erano tombe trascurate, il marmo spezzato, le lettere della lapide staccate, la costruzione cadente. Similmente le cappelle.
Giunti al loculo della nonna, Eleonora, Benedetta e la mamma dicevano le preghiere. Tre “L’Eterno riposo” e poi si concludeva “Anime sante, anime purganti, pregate Dio per noi che noi pregheremo per voi affinché Dio vi dia presto la grazia del Santo Paradiso”. Papà pregava mormorando a fior di labbra, un po’ in disparte, da solo. I colombai erano a più piani e si accedeva salendo le scale. Nei vari piani e per le scale era tutto un andirivieni di visitatori.
Poi si tornava a casa e veniva il bello. C’erano i doni che avevano portato i morti. Non mancava mai qualcosa per Benedetta ed Eleonora che fosse vestiario, giocattoli o dolci. La volta che Benedetta fu sopraffatta dalla sorpresa fu quando ricevette una bambola bionda, vestita di verde e ornata di pizzi, corredata di carrozzina per portarla a spasso. La carrozzina con la capote color turchese era perfettamente dimensionata alla statura di una bambina. Anche Eleonora ricevette una bambola, la sua però aveva i capelli neri, il vestito rosso. La capote era blu. Giocarono tutto il giorno, divertendosi. I cugini maschi nel frattempo, si sparavano per finta coi i botti veri delle caps* nelle pistole di latta e nei fucili argentati. Anche loro felici, schiamazzanti, accaldati.
Tutti i bimbi di quegli anni pensavano che i morti fossero buoni, portavano dolciumi e giocattoli, anzi che i defunti fossero persone care, alle quali volere bene perché loro si ricordavano dei vivi e lo dimostravano portando loro doni.
Benedetta, diventando grande, vide sbiadire queste tradizioni e sorgerne altre che mettevano i cari defunti sullo sfondo, ricollegandoli più alla perdita e al dolore che al ricordo e ai regali, per questi ultimi si preferivano figure più colorate, allegre, fantasiose o pittoresche come Babbo Natale o la Befana.
Poi si diffuse anche la festa di Halloween che nella notte del 31 ottobre impazzava tra i giovani con tutto il corredo dei simboli suoi propri: le zucche, i dolcetti o gli scherzetti, le mascherate da creature della notte.
Benedetta ebbe due figli: Francesco e Nicolò, detto Nico. Cercò di trasmettere loro un’idea positiva dei defunti facendo dei doni nel giorno del due novembre, dicendo “Questi sono regali da parte del nonno Vito e della nonna Pina”, ma non c’erano più le bancarelle e la festa, non c’era il cimitero monumentale, perché la famiglia aveva cambiato città, non c’erano i viali, le panchine, le statue. I ragazzi non si recavano volentieri al cimitero e tendevano a defilarsi, tutti presi dagli impegni tra giovani: serate e amici.
Il due novembre divenne sempre più un’incombenza per adulti. Una visita al cimitero, fiori sulle lapidi, la tristezza del ricordo e la solitudine della mancanza. Benedetta si rendeva conto che di quella festa del due novembre di quand’era bambina s’era perso tutto il fascino, s’era spenta la magia.

* semi di zucca salati, ceci tostati, fave secche, noccioline americane, castagne secche
** ossa dei morti, dolci tipici che si preparano nel periodo della commemorazione dei defunti in Sicilia, come anche i biscotti al miele e i totò
*** munizioni per armi giocattolo

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Irene nel Paese delle Meraviglie

17 domenica Ott 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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irene nel paese delle meraviglie, Loredana Semantica, racconto

Liberamente ispirato al capolavoro di Lewis Carroll, un racconto surreale di Loredana Semantica

Irene aveva cominciato a lavorare piuttosto giovane. Nel senso che con i suoi quasi ventiquattro anni  d’età, non che fosse giovanissima, ma, vista  la fame di lavoro che c’era, poteva ben considerarsi fortunata.

Giunto il grande giorno di partire per recarsi al luogo di lavoro, il Bianconiglio l’accompagnò alla stazione. Lui era commosso, lei stranita. Bianconiglio le regalò un pennapugnale, un pallottoliere, una museruola. Lei li conservò nella sua grande borsa alla Mary Poppins. Quando Irene iniziò il viaggio erano più o meno le sette di sera. Passò attraverso lo specchio, prese un treno al binario ventisette, cenò su uno scomodo sedile, poi si ritirò nella cuccetta sospesa a mezz’aria. Man mano che si approfondiva la notte, le sembrò che gli altri viaggiatori diventassero zombie. Il Bianconiglio le aveva consigliato: “Se ti dovessero aggredire, sfodera il pennapugnale” Irene si addormentò pensando: “ Per questo ne uccide più la penna che la spada.” E sognò nel sogno che li avrebbe uccisi tutti e che, prima o poi, sarebbe tornata a casa.

Albeggiò  ch’era ancora intera. Solo allora si accorse che gli zombie non potevano vederla. La sera prima aveva mangiato un panino col prosciutto avvolto in una carta argentata dove c’era scritto: “Mangiami” e si era fatta piccola piccola, fin  quasi all’invisibile. Bevve l’acqua dell’accrescimento da una bottiglietta di plastica dove c’era scritto: “Bevimi”. Ripose il pennapugnale nella borsa tra il pallottoliere e la museruola. Dopo un giorno e una notte di viaggio giunse al luogo di lavoro. Era tutto scale da scendere e salire. Bisognava sorridere sempre, chiedere tanti permessi, inchinarsi nei corridoi, mangiare caffè e brioches. Irene ben presto si accorse di essere stata assunta nel Paese delle meraviglie. Nel Paese delle meraviglie c’era sempre qualche guerra da combattere o partita da giocare. All’inizio la sua squadra era quella dei Naningenui, formata da undici neoassunti, Irene inclusa; erano tutti bravi ragazzi. Gli altri, gli avversari, erano la squadra dei Tantomatti, tra questi s’erano infiltrati i Poconesti, che avevano un’aria furtiva e la faccia di piombo. Dopo una conversazione tra il Re di Picche e il Granpapà, una delle neoassunte fu trasferita ai Pianialti. Irene non capì cosa avesse potuto dire il Granpapà al Re di Picche, fatto sta che Irene assieme agli altri del gruppo continuarono a incidere la pietra a mani nude,  l’altra andò dove si usavano i guanti. Irene imparò che nel Paese delle meraviglie le conversazioni a quattr’occhi tra Re e Granpapà producono frutti.

Dopo molti anni e molto impegno e dopo aver inciso tante e tante tavole di pietra, Irene riuscì a farsi trasferire ad Altrove, più vicino a casa. Per farlo dovette compiere una giravolta e battere i tacchi. Un po’ come Dorothy nel Mago di Oz, ma con più pathos. Nel luogo dove giunse avevano un modo antiquato di lavorare e lei cercò di proporre delle innovazioni. Aveva nuovamente bevuto l’acqua dell’accrescimento e questo l’aveva fatta ridiventare grande grande. “Capovolgiamo i fogli” disse Irene a Teresa, la collega anziana, “così devono leggere a testa in giù, il sangue gli andrà alla testa e tutti penseranno meglio.”

Il giorno dopo il Re di Fiori emise un editto che faceva Teresa Gran governante, Irene l’ultima addetta. Irene pensò bene di mangiare un panino col prosciutto. Ridiventò di nuovo piccola piccola, quasi invisibile, tirò fuori dalla borsa la museruola, la indossò e tacque. Aveva capito che nel Paese delle Meraviglie era meglio tacere.  Tacere e annuire poteva portare buoni frutti. Non passò molto tempo che la chiamarono al Pianodisopra, c’era bisogno di una testa e la sua sembrava piuttosto grossa. “Purché non me la taglino” pensò Irene. In effetti non volevano tagliarla ma usarla, la misero in un bel posto tutto di legno lucido e scuro, ma non come una bara, piuttosto come una stanza da pranzo. Ci misero la testa ancora attaccata al tronco. Insomma Irene tutta intera, che lì, in pace, passò molti anni lavorando con gusto, mangiando panini, bevendo tanta acqua.

Poi avvenne che il Mondodiqua e il Mondodilà si riunirono. Adesso al comando c’era il Re di Quadri e a lui serviva una che sapesse contare. Irene non era brava a farlo, ma aveva il pallottoliere e lo sapeva usare. La misero sulla scacchiera a fare il cavallo e lei saltava tra un quadretto e l’altro, in diagonale, poi segnava i punti col pallottoliere e dava ordini ai Pedoni.

In quel periodo apprese che nel Paese delle meraviglie i Pedoni hanno due facce. Una a vista, l’altra nascosta. Che Giano in confronto era un principiante. E Duefacce di Batman un essere angelico. I pedoni praticavano spesso la menzogna, ancora più spesso l’ipocrisia, entrambe dirette a trarre tutti i possibili vantaggi per se stessi. Intanto i mondi che si erano riuniti presero un nuovo nome:  Unicomondo. Dove, a questo punto, arrivò il Cappellaio Matto.  Lui, spronando Pedoni, Cavalli e Alfieri, vinse ogni battaglia. Fece stragi di preferenze, lo acclamavano tutti, ma presto dovette andar via. Nuove battaglie e nuove avventure lo attendevano. Ad Unicomondo la scacchiera fu messa da parte e contare non ebbe più importanza. Irene, afflitta, subì la stessa sorte. Allora cambiò vestito. Mise quello della determinazione. Era stanca di ingigantire e rimpicciolire. Le girava terribilmente la testa. Chiese al Nuovore  di Unicomondo di nominarla Ciambellano, ma i Pedoni non furono d’accordo. Si mossero tutte le Torri  insieme, la accerchiarono per farla precipitare. Dietro di loro, nascosti e maldicenti, i Pedoni a due facce. Nuovore però fu presto rimosso e Lunicoverore, giunto al suo posto, non si lasciò intimidire. Questi era un grande condottiero e andò dritto per la sua strada, riportando Unicomondo, scosso da tante tempeste, sulla retta via. Pacificò le squadre, mise tutti al lavoro come un unico coro. Solo pensò di lasciare il compito della nomina del Ciambellano alla sopraggiunta Donnadicoppe che non era tanto forte. Perciò nominarono Irene, ma solo Mezzociambellano e l’altro mezzo arrivò dopo, quasi inavvertitamente.

Sembrava che per Irene adesso tutto andasse bene, ma il viaggio non era ancora finito e nemmeno il lavoro. Ancora battaglie, ancora ferite. All’orizzonte un’altra avventura. Quella in cui Unicomondo fu sopraffatto da Altromondo, non tanto per una guerra, ma per un terremoto. Quelli di Altromondo piombarono su Unicomondo, erano rapaci e privi di scrupoli, come Orchi del Signore degli Anelli. La stessa bocca schifosa, piena di bava e di denti, la loro voce era gutturale, la gola profonda emetteva suoni inumani. Irene fu rimossa da Ciambellano per occuparsi delle Cucine. Divenne Gran Cuciniere e sfornava piatti su piatti, alcuni perfetti, altri un po’ cotti, altri un po’ crudi. A Irene non piaceva cucinare, preferiva altri lavori, chiedeva a gran voce che la mettessero al sole e non la lasciassero nel buio degli scantinati, ma nessuno la ascoltava. Languiva, si accorse di fare sempre più fatica nel lavoro, come se spingesse una montagna, finché, sfinita, non bruciò una frittata. Allora la Falsaregina, che in quel momento aveva il potere, dispose che le tagliassero la testa. La Falsaregina, Irene lo sapeva, era solo un Pedone travestito, ma non se ne accorgeva nessuno. Tutti i Pedoni obbedivano e gli Orchi ringhiavano vendetta. Irene provò a gridare che la Regina era falsa,  che aveva il sorriso ipocrita dell’impostore, ch’era stata messa sul trono dai Granpapà senza nessun merito, nessuna nobiltà, ma il cuore le batteva all’impazzata, il respiro era mozzato, la voce non le usciva.

Nella piazza principale di Altromondo s’era riunita una piccola folla di Orchi e di Pedoni curiosi di vedere l’esecuzione. Al centro della piazza c’era una fontana grandiosa, tutta statue, marmi e giochi d’acqua. Fu letta  la sentenza che disponeva  le tagliassero la testa. Irene chinò il capo e solo allora vide se stessa. Si rese conto che a bruciare non era la frittata, ma il suo vestito e tutto il suo corpo, corse verso la fontana per spegnere il fuoco e si accorse che tra le statue di marmo, nascosta dai veli d’acqua, c’era una porta. La aprì, ne oltrepassò la soglia, poi chiuse la porta dietro di sé e questa, come d’incanto, si dissolse.

Altromondo era sparito, sparito il Paese delle meraviglie, i Pedoni, gli Orchi, la Falsaregina.

Irene si guardò intorno, si accasciò sul pavimento e pianse, il viso tra le mani: finalmente era tornata a casa.

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Alessandro Trasciatti, “Acrobazie”, Il ramo e la foglia Edizioni, 2021.

28 lunedì Giu 2021

Posted by Deborah Mega in Eventi e segnalazioni, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Alessandro Trasciatti, “Acrobazie”, Il ramo e la foglia Edizioni, 2021.

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Acrobazie, Alessandro Trasciatti

 

Le brevi storie di questa raccolta sono spiazzanti racconti del quotidiano, miniature curiose e circonvoluzioni della mente. Con abilità funambolica Alessandro Trasciatti scatta istantanee a partire da intuizioni e stravaganze, indaga le svirgolature dalla normalità, ritrae situazioni al limite del paradosso in cui convivono ironia e humor nero, erudizione ed esigenze corporali, aspirazioni letterarie di giovani bohémien e assurdi dialoghi con la mobilia della giungla casalinga.
I personaggi di Acrobazie si muovono trasognati e in precario equilibrio sulla soglia del verosimile, cercano un senso che dia forma al vuoto, «un punto fermo da cui ripartire».
Nella variopinta rassegna di sogni, amori giovanili e fantabiografie, si avvicendano affetti asinini, matrimoni unilaterali, violinisti sordomuti e inferni da Commedia.
Colpiscono i toni teneri e buffi e la scrittura tersa: con queste polaroid del possibile, Trasciatti propone l’autoironia come soluzione di fronte all’incomprensibile e le fantasticherie del passato come rifugio dal mondo. Acrobazie esplora i pertugi tra veglia e sonno, attraverso carambole stilistiche che fluiscono lievi e lasciano spazio al tepore di un sorriso.

*

1
Sterilmente ricerco da anni il mio luogo più integro e segreto, il mio centro nascosto, ma non trovo che angoli parziali e periferici. Del più recondito dei miei spazi ho tentato di parlarti in più d’una veglia, scarsa di luce ma gremita di parole, coi termosifoni spenti e noi avvolti in coperte di lana. Sedevamo sul divano giù al pianterreno. La “stanza del computer” la chiamavamo, perché era lui l’unico inquilino permanente di quelle quattro pareti fredde, dipinte di celeste chiaro. Su un lato una libreria folta di volumi di mio padre: riviste di elettronica, manuali di pedagogia, fotocopie rilegate, confusioni in varie fogge. Nel mezzo una scrivania cosparsa di penne e pennarelli, squadre, righelli, viti e dadi erranti, piccoli ordigni fuori uso in attesa di riparazione. Sulla scrivania il computer, appunto, avvolto in fogli di nylon trasparente a difesa dalla polvere, col suo ronzio insidioso – una volta acceso – e la sua luce raggelante.
Non c’era altro posto nella casa per parlarti. Non di sopra, coi genitori persi in perenni tenzoni da dopocena sull’uso dell’aglio negli intingoli, smodato secondo lui, appena percettibile secondo lei. Non di sopra, con i gatti acciambellati ovunque, i fratelli pacifisti in corteo contro la guerra, le sorelle aspiranti veline a controllare i fianchi negli specchi.
Non di sopra, nella mia camera che non avevi mai amato, piena com’era di cianfrusaglie colorate, ricercate con perversa cura, leziosamente giustapposte con tardivo gusto surrealista per l’inutile. Forse i libri ti piacevano, ma t’impedivo quasi di
toccarli per paura – fondata devo dire – che tu ne scambiassi l’ordine e infrangessi l’equilibrio di quelle teorie coscienziose di Einaudi, Sellerio, Adelphi, Gallimard. Non lo facevi, lo so, per cattiveria e nemmeno per eccessiva sciatteria, ma solo perché non arrivavi al fondo della mia minuzia maniacale e affettuosa al punto che riservavo ai miei volumi l’ultima occhiata prima di dormire. Come spiegarti la voluttà di guardarli e riguardarli, di verificarne le simmetrie, di constatare il loro numero accresciuto? Come farti capire, senza cadere nel ridicolo, il piacere materno di riordinarne le file e di reperire nuovi spazi quando gli scaffali traboccavano?
Non c’era altro angolo per parlarti se non la “stanza del computer”, inaccogliente e sottilmente ostile, ma silenziosa e lontana dai locali più abitati. E poi non era solo più facile chiacchierare senza timore di essere interrotti, potevamo anche leggermente amarci. Con le orecchie tese, è vero, ai rumori di eventuali avvicinamenti, ma in verità i passi erano benevolmente lenti – ovvio che tutti sapessero di noi – ed avevamo sempre il tempo sufficiente per ricomporci. Ci piaceva però pensare di essere davvero esposti alla ronda serale di chiusura delle porte, alle paternali, ai castighi espiatori, desideravamo anacronistiche punizioni corporali che nessuno ci inflisse. Ci piaceva pensarci come frutti proibiti l’uno all’altra, così non arrivammo mai ai limiti d’amore, anche perché era sempre tardi, faceva freddo ed il divano era scomodo. Meglio fermarsi, dunque, e rimandare le effusioni ad altra data.
Non c’era davvero altro anfratto per parlarti del più segreto dei miei luoghi, quello che, malgrado le approssimazioni, non ho mai trovato. Ti parlerò, allora, degli altri piccoli
recessi in cui mi sono rintanato in questi anni.

9
Sulla mia scrivania ho posto un foglio rigido di plastica trasparente per poterci mettere sotto qualche reliquia iconografica in cui specchiarmi ogni volta che mi siedo. Sono immagini di attori, tessere di associazioni, santini e, soprattutto, foto di te, foto di me.
Ero ansioso aspettandoti l’altra sera. Fumavo sigarette, mi sudavano le mani. Un mese era passato senza vedersi. Pensavo già che ti avrei detto: “Scusami se sono agitato, non posso farci niente”. Accesi la TV. Guardai distratto. Spensi.
Mi cosparsi la faccia col dopobarba che mi avevi regalato per Natale: “Dono di fidanzata”, sussurrasti. L’ho sempre usato poco, in verità, sono rimasto attaccato al mio. Non offenderti per questo. Riconosco che il tuo era un’essenza fine, ma sono pigro nelle mie abitudini olfattive. Giravo per la casa. Non arrivavi. Alle sette e mezza avevi detto. Erano quasi le otto.
In cucina mia madre stava terminando di preparare la cena. Non avrei potuto trattenerti a lungo, non avevi mai mangiato qui, nemmeno nei momenti migliori, figuriamoci ora. Finalmente suonasti. Al citofono dissi: “Sei tu?”. Infatti.
Scesi di corsa le scale. Aprii, eri lì e per me fu confusione. Come fosse tutto come prima e niente come prima. Entrasti. Eri di fretta. La tua fretta solita a cui ero affezionato. Mi dicesti di essere in ritardo, di dover fare presto. Non credo che fosse per difenderti dalla mia presenza, no. Eri sempre stata così. Era il tuo lato attivo, questo. Mi parlasti di assemblee, di presidi pacifisti in città (la guerra del Golfo, qui da
noi, era ancora fatta di scontri verbali e servizi televisivi), di sorelle che ti aspettavano, di professori. Volevi salire? Ti sfiorai il braccio in una stretta incerta che avrebbe voluto essere ospitale, affettuosa e riparare l’amore che ti avevo tolto, ma che pure non voleva darti l’impressione di un ripensamento, una stretta lieve che era paura di ferirti ancora e, soprattutto, paura delle tue reazioni, dei tuoi lucidi rimproveri, paura di te. Durò un attimo e ti accompagnai in fretta su in camera. “Ecco il libro”, dissi, “questo è quanto”. Eppure non era vero, non era quanto. Così continuai: “Posso darti qualcuno
dei regali che non ti ho portato per Natale?”. “Così, in fretta e furia?” rispondesti. “No, hai ragione, un’altra volta con più calma”. Mi accorsi di temere un tuo ritorno, sarebbe stato un sollievo consegnarti tutto in quel momento. Avevo paura sul serio. Perché eri bella. Parlavi, parlavi. Non ti sentivo, riuscivo solo a guardarti. Come avevo fatto a lasciarti? Ero stato davvero io? Dal mio reliquario sulla scrivania prendesti alcune foto, non feci in tempo a chiederti quali. Uscisti sempre rivolgendoti a me. Ti replicavo a mezze frasi. Ti domandai qualcosa che non avevo capito. Pensavo alle foto. Erano di certo le mie che ti eri portata dietro. Mi attraversò un filo di compiacimento. Eri già fuori. Faceva freddo. Ti salutai restando sulla porta. Tornai in camera per verificare quali foto avevi scelto per ricordarmi. Non compresi subito quello che vidi. In quella vetrinetta di memorie il volto mancante era il tuo.

 

*

 

ALESSANDRO TRASCIATTI è nato a Lucca nel 1965. Francesista di formazione, ha lavorato prima come archivista e postino, poi come editore dei Libratti, collana di letteratura illustrata nata dal blog Il Trasciatti – lunario inattuale di letteratura e desueta umanità. Tra le sue pubblicazioni troviamo Prose per viaggiatori pendolari (Mobydick 2002), Il dottor Pistelli. Una vita in ritardo (Garfagnana 2013), Avevo costruito un sogno. Storie e fatiche di un postino artista (Ediesse 2014), Scampoli (Oèdipus 2017). Negli anni ha scritto per diverse riviste letterarie e non, tra cui Il Grandevetro, Sinopia, Poesia, Paragone, Gente Viaggi; suoi testi sono apparsi anche su spazi online come La Balena Bianca, Altri Animali, NiedernGasse. Attualmente
collabora con Nuova Tèchne – rivista di bizzarie letterarie e non (Quodlibet).

Hanno detto di lui:
«I modelli di Trasciatti potrebbero essere due autori come Antonio Delfini e Robert Walser, al netto delle distanze; lo fanno pensare la sua misura, la prosa limpida e allegra, la presa soggettiva sulla realtà, e la levità con cui tocca la disperazione facendola subito evaporare.» – Andrea Cirolla, Doppiozero

«A suo modo [Trasciatti] è uno Cheval-Fitzcarraldo.» – Nazareno Giusti, Avvenire

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TRE DONNE

31 mercoledì Mar 2021

Posted by marian2643 in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Il profumo del mandorlo


ALBA

Dopo un inverno interminabile, flagellato da piogge e nevicate, finalmente era arrivato il sole. Dentro l’auto la temperatura era alta, nonostante dal finestrino aperto entrasse qualche refolo di vento. Era la prima volta che si incontravano, dopo un paio di mesi trascorsi nella burrasca di eventi che avevano turbato l’armonia della loro amicizia. Fra di loro, adesso, aleggiava un silenzio fatto di parole vuote, di frasi stereotipate, e infarcito di commenti banali sul traffico domenicale. Parole che nascondevano la paura di dire o di ascoltare altro da quel repertorio di idiozie che si stavano scambiando. Saveria guidava sbuffando, grattava le marce ed inviava occhiate preoccupate all’indicatore del carburante. Gloria mostrava il suo solito sorriso accomodante e tentava di distrarre Saveria dal suo nervosismo raccontando che aveva fatto la pulizia del viso, che la sua collega Gisella era affetta da una labirintite e che le piante del suo terrazzo si stavano riprendendo dopo le gelate subìte. Le piante (ma avrebbe potuto essere qualunque altra cosa) avevano riportato Diego alla mente di Alba. La floricoltura era un interesse che lui e Gloria condividevano, chissà quante volte Diego le aveva portato piantine e bulbi e aveva colto per lei le rose del suo piccolo giardino, così come una volta, non troppo tempo fa, le raccoglieva per lei, confidandole che raramente si risolveva a strappare i fiori dalle piante se non per casi eccezionali e assegnando al gesto un valore ben più grande di quello che gli si potesse attribuire. Emozionata, Alba s’inebriava al profumo di quel mazzetto di fiori e, appena appassiti, ne riponeva qualcuno fra le pagine di un libro. Chissà se anche Gloria conservava i cadaveri degli omaggi floreali di Diego.

            Fra strappi e frenate erano giunte sul viadotto San Michele. A destra, invisibile ma perfettamente delineato nella sua memoria, sorgeva il rustico di Diego, il loro rifugio; era il luogo della loro intimità, dove, dopo l’amore, restavano a parlare a lungo, di poesia, di esoterismo, di amici comuni. In uno di quei pomeriggi Diego aveva portato con sé un mazzo di tarocchi e aveva cercato di istruire Alba sulla loro simbologia. Le aveva raccontato di suo nonno, che “leggeva le carte” ed aveva avuto fra i suoi clienti nientemeno che Mussolini. Lei lo ascoltava e si appassionava ai racconti di lui, le si apriva la visione di un mondo infinitamente lontano da quello che era stato ed era il suo. Ora provava una fitta di nostalgia al pensiero che non avrebbe mai più ritrovato quelle ore rubate al monotono fluire delle sue giornate. E si diceva che era strano come quei gesti comuni potessero, in retrospettiva, apparire assoluti e insostituibili.

Imboccato il vialetto d’accesso, ecco la casa che Saveria e Gloria da due anni avevano preso in affitto per trascorrervi le estati. Mancavano da sette mesi, da quel settembre che le aveva viste, entusiaste, organizzare grigliate e country-party. Era stato durante l’ultimo di quei party che lei aveva avuto le prime avvisaglie di quello che sarebbe accaduto. Diego si era mostrato annoiato, manifestando attenzioni solo per Gloria. Alba si era accusata di essere la solita sospettosa, si rimproverava la sua mancanza di fiducia e la sua ossessione nei confronti di Diego.

            Dopo avere indossato i grembiuli e i guanti da giardinaggio, Gloria e Saveria si erano date da fare con zappe e rastrelli per sistemare le aiuole e piantare le nuove talee. Alba stava distesa sulla sdraio con il viso rivolto verso il cancello. Sul vialetto transitavano le macchine dei vicini e ad ogni passaggio lei trasaliva immaginando di stare aspettando Diego. Sapeva che non sarebbe successo, Diego non le avrebbe più raggiunte. La sua era diventata una presenza negata che pure s’imponeva con il peso dell’assenza. Forse ci sarebbe stata meno amarezza se fra loro tre avessero potuto parlarne, ma parlarne avrebbe significato sollevare la cortina dell’ignoto, aprire il vaso di Pandora ed essere pronte a sopportarne i venefici vapori.

Alba si domandava perché mai aveva acconsentito a trascorrere questa giornata proprio lì, dov’era più presente il ricordo delle recenti vicende, con Saveria e Gloria, testimoni e complici del sovvertimento che aveva investito la sua vita.

            Mentre Gloria si allontanava per una doccia, Saveria si dedicava alla preparazione del barbecue e, mentre spezzava legnetti e ammucchiava foglie secche, rivolgeva ad Alba uno sguardo affettuosamente indagatore: “Allora, come va?” E in questo interrogativo si affollavano una quantità di domande. Alba sapeva che Saveria avrebbe voluto aiutarla, che avrebbe voluto condividere il suo disagio e darle i giusti consigli, ma non voleva leggere nello sguardo e nelle parole dell’amica il larvato compatimento, preferiva sorriderle e dirle che andava tutto bene.

GLORIA

Quell’aria da vedova inconsolabile che aveva assunto Alba la irritava. Certo, avrebbe voluto farla sentire in colpa e lei detestava sentirsi in colpa. La rodeva la curiosità di sapere se stava ancora con Diego o se avevano rotto, ma Gloria era decisa a non cadere nella sua trappola. Temeva di lasciarsi prendere dal nervosismo e non voleva che succedesse, sarebbe stato fare il suo gioco. Sotto la doccia, mentre lasciava che l’acqua le scorresse addosso, pensava che  non era possibile far finta che non fosse successo niente e dimenticare le ore che lei e Diego avevano trascorso in quella casa. Era stata un’estate bellissima. Arrendersi alle attenzioni di Diego era stato sorprendente. Anche se aveva cercato di non prenderlo troppo sul serio, alla fine aveva vinto lui.

Alba e Saveria si stavano occupando del fuoco, le vedeva vicine vicine a parlottare. Immaginava che anche Saveria avrebbe voluto scavare nella sua vita e ricevere le sue confidenze. Quando aveva saputo di lei e Diego si era mostrata contenta, ma ora le sembrava che tutta la sua comprensione fosse per Alba. Perché alla fine sono i perdenti che stuzzicano quella parte pronta alla commiserazione, sono quelli che suscitano simpatia e per i quali si parteggia, ma Gloria a questa simpatia rinunciava volentieri, preferiva essere considerata fredda e inattaccabile e non tutta sospiri e malinconie, reclinata come un ciclamino moribondo.  Guardava il rametto di lunaria appeso alla maniglia della finestra che le aveva portato Diego in un meriggio di grilli. In ognuna di quella piccole foglie argentee le sembrava fosse rimasta impigliata la luce dei suoi occhi, quella luce che le aveva regalato attimi di stupore.

 

SAVERIA

Le faceva rabbia che Alba e Gloria non stessero assaporando il gusto di quella giornata che avrebbe potuto dissipare la tensione. Mostravano un atteggiamento innaturale, ed era chiaro che fra di loro l’ombra di Diego aveva scavato un percorso buio che nessuna delle due voleva percorrere. Forse se avesse  raccontato loro di quella mattina di dicembre in cui Diego le aveva chiesto d’incontrarla, sarebbero riuscite a ritrovare un briciolo di buonsenso e avrebbero smesso di pensare a Diego come al più grande bene perduto.

Quella mattina, seduta di fronte a lui al tavolino di un bar, dopo averlo ascoltato aveva pensato che la sua anima era come il suo corpo, scarna, sdutta, in una parola: minuscola. E come il suo corpo si raggomitolava e scompariva nel cavo della poltroncina che lo accoglieva, così la sua anima si avvolgeva su se stessa e si ricopriva per rendere invisibile il poco di sé.

            Diego l’aveva guardata con uno sguardo nuovo, diverso da quello che conosceva e lei aveva cominciato a sentirsi a disagio.

            “Ebbene- aveva detto ad un certo punto- di cosa volevi  parlarmi?”

            “Ho una storia con Gloria – aveva risposto lui senza indugio- ma è una cosa che non sta in piedi, iniziata per noia e continuata per inerzia. Qualcosa a cui non ho dato nessuna importanza.”

            “E perché allora me ne stai parlando?”

            “Perché è con te che vorrei stare.”

            “E Alba?”

            Lui aveva alzato le spalle con noncuranza.

L’indifferenza ed il cinismo con i quali stava mettendo in gioco i sentimenti di Alba e di Gloria l’avevano sconcertata. Aveva sempre pensato a lui come ad un uomo leale, lo aveva considerato un amico, una persona di cui fidarsi ed ora invece le appariva un gran bastardo che non si faceva scrupolo di usarle per riempire i suoi vuoti.

Prima di avviare il motore Saveria aveva dato un’ultima occhiata al cancello,  aveva abbracciato con lo sguardo casa e giardino per assicurarsi che tutto fosse a posto, infine aveva imboccato il vialetto per tornare sulla carrozzabile. Lungo la strada bar e pizzerie avevano acceso le insegne, il mare aveva preso il colore del piombo fuso ma, al largo, residue macchie di smeraldo ricordavano il lucore mattutino. In fondo era stata una buona giornata, calma e riposante, solo percorsa da una segreta vena di malinconia.

Saveria adesso guidava tranquillamente, in silenzio. Gloria aveva poggiato la testa allo schienale ed aveva chiuso gli occhi, Alba teneva ostinatamente lo sguardo al di là del finestrino. Si stava lasciando alle spalle, questa volta per sempre, il viadotto San Michele, il rustico di Diego e l’estate di un anno da dimenticare. Diego era un fantasma, un’ombra che non sarebbe sparita alla prima luce della nuova stagione, l’avrebbero incontrata ancora, nelle parole che avrebbero taciuto, negli occhi degli amici che avrebbero domandato di lui e forse l’avrebbero portata a lungo dentro come un dolore incarnito. Saveria pensava che qualcuno avrebbe dovuto spezzare quella specie di incantesimo che le teneva inchiodate come statuine di cartapesta sul loro trono di gesso e quel qualcuno non poteva che essere lei. Allora aveva fermato l’auto sulla prima piazzola di sosta che aveva incontrato e aveva detto: “Bene, ragazze, è arrivato il momento che vi racconti una storia.”

Anna Maria Bonfiglio

 

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Anime e animali

27 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Anime e animali, Loredana Semantica, racconto

Camilla amava i gatti. Ne ammirava il corpo proporzionato e flessuoso, la piccola testa triangolare, gli occhi gialli, verdi, azzurri, tutte le fessure oblunghe delle pupille piantate nel buio a scrutare la notte. Bello il loro pelo variopinto, la sua lucentezza briosa, dalle tonalità del bianco, al rosso, al nero, declinato in tutte le molteplici sfumature del marrone, gli ineffabili grigi. Affascinanti i balzi eleganti dei gatti in barba a tutte le leggi della fisica, la disinvolta indifferenza del loro  incedere nel mondo e di contro i picchi di curiosità sfacciata e intrigante. Lo strusciarsi ruffiano contro le gambe, le fusa, le onde positive di vibrazioni che queste  diffondono, il magnetismo animale della presenza, il sicuro piglio del passo sui cornicioni a chilometri dal suolo, la capacità di giocare con un filo di lana, una pagliuzza d’erba, una foglia secca.

Avere davanti agli occhi un piccolo felino, con i pregi di quelli selvaggi e senza i problemi che quelli darebbero, era per Camilla un incomparabile regalo della natura. Guardare giocare due micetti la riconciliava col mondo, come ammirare un albero nel suo rigoglio, un fiore nel suo splendore. Era una sorta di danza, una fusione di tenerezza e bellezza, dove la morbidezza del pelo e i corpicini dai movimenti incerti e goffi si mescolavano nel gioco all’esercizio per la lotta necessaria alla vita futura.

Camilla ne aveva avuti tanti gatti nel suo giardino. Fino ad una ricca colonia di sedici animaletti, molti anni prima. Ancora adesso ne aveva intorno.  Da quando suo marito Oscar aveva montato una tettoia di policarbonato sul gazebo del giardino, i gatti del quartiere avevano deciso che quello era un luogo congeniale. La tettoia non era spiovente, ma piana, come Oscar avesse potuto montare una tettoria piana in un gazebo  progettato col tetto spiovente era un miracolo di inventiva.  Come avesse potuto sormontarla da un telo di polietilene era un mistero ancora più profondo. Il telo risultava praticamente inutile, esteticamente orribile, ed era stato strappato dal vento in più punti.

A dispetto di ciò i gatti avevano eletto quel luogo come prediletto.  Il telo di polietilene era diventato un tiragraffi ideale. C’era un gatto bianco latte pezzato a macchie grigie, con una testa quasi tonda e l’aria soddisfatta di chi non teme nemici, che amava schiacciare un pisolino nell’angolo sinistro della tettoria. Un altro tigrato rosso tutto pelo passava ogni mattina,  calpestando con le zampette guantate una passatoia in ferro  nero di appena otto centimetri. Non mancava di farsi vivo uno splendido gatto nero, lucido di pelo e muscoloso, simile a una pantera in miniatura, con magnetici occhi gialli. Compariva in modo spettacolare, ergendosi statuario in tutto il suo splendore. Almeno altri due o tre felini bazzicavano quel posto tra i quali un elegante persiano grigio polvere, probabilmente non randagio. Era diventato un luogo trafficato come il corso principale di un paese. Non potevano mancare le zuffe animate da soffi, zampate e miagolii che si concludevano con l’allontanamento dell’ultimo invasore. A Camilla non erano chiare le dinamiche degli scontri per cui qualche volta restava alla finestra per studiarle. Il gazebo era antistante alla finestra, la tettoia da quel punto di osservazione appariva come un palcoscenico.

Camilla amava i gatti, ma non solo. L’amore per gli animali le era semplicemente connaturato, pensava che fossero parte del creato e dovessero essere rispettati come abitanti della terra, espressione della natura e, se domestici, come amici.

Per questo motivo Camilla, quando era bambinetta di sette o otto anni non capì perché in quella bella pineta in montagna, con la giostra e l’altalena, le panchine e aiuole, un posto ideale per divertirsi e giocare. Non capì dicevo, perché  quel giorno un gruppetto di tre bambini, appena più grandetti, torturò e uccise un passerotto che aveva avuto la sventura di finire tra le loro mani. Dopo esserselo passato l’un l’altro tirandolo come una palla, l’ultimo del gruppo lo lanciò in aria e gli sferrò un calcio mandandolo a sbattere contro un tronco. Neanche il tempo di un grido. Camilla rimase attonita e sconvolta. Questo episodio si stampò indelebilmente nella memoria, finché fu capace di darsi ragione di questa crudeltà.

Divenne grande. Allora capì che  quei ragazzini si dicono balordi, e più in generale che gli uomini si dividono in due categorie i buoni, che operano per il bene e i cattivi, capaci di gesti simili, non soltanto con le bestie, ma anche con i simili. Capì che c’erano mille sfumature tra questi estremi. Di solito chi era crudele con gli animali non era benevolo nemmeno con le persone, solo che su queste avesse un briciolo di potere. Ne concluse che la vera natura di una persona emerge col potere. Decise che avrebbe imparato a riconoscere gli uomini e avrebbe sempre operato perché il potere fosse dato ai buoni. E così fece.  Indicibile impresa.  

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Sogni

20 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Loredana Semantica, racconto, sogni

“Balloons girl” Banksy

Giselda sognava ad occhi aperti. Mamma voleva che mettesse in ordine la cucina dopo pranzo. Da un lato le insegnava a rivestire il ruolo di brava donna di casa, dall’altro si faceva aiutare nelle faccende. Giselda comunque non era una cenerentola, aveva due sorelle e insieme si organizzavano. A volte in buon accordo, a volte bisticciando. Una lavava i piatti, di solito Amelia, la maggiore che si sbrigava in venti minuti e filava via. Alice era la più piccola, veniva adibita ad asciugare le stoviglie. Il resto era per Giselda. Vale a dire riporre le stoviglie, riordinare la stanza, spazzare e lavare i pavimenti. Giselda non faceva in fretta come Amelia, era più mogia, cincischiava, perdeva tempo, alla fine restava sola in cucina. Non le piacevano le faccende di casa, forse era pigra, col tempo si rese conto che non era portata, le faceva per dovere e per necessità, non certo perché far brillare la casa fosse la sua vocazione. Se ne rese conto solo quando incontrò qualcuno che l’aveva. La vocazione. Allora realizzò che siamo tutti fatti in modo diverso.

Nella grande cucina luminosa Giselda, rimasta sola, s’immergeva nelle sue peregrinazioni mentali ancora più profondamente, mentre riordinava, passava la spugna sui ripiani o spazzava il pavimento. L’ora assolata in quella stanza era grande abbastanza per i sogni, era perfetta per sognare. Lei entrava in una specie di torpore immaginifico dove s’inventava storie. A volte erano astruse e surreali: il disegno della piastrella, ad esempio, si animava e diventava un aquilone. Altre volte la statua di legno del gatto nero era un gatto vero con cui giocare. Spesso sognava di se stessa. Da grande farò la scrittrice, pensava. Scriverò un romanzo bellissimo, specchio dei tempi e della società, una sorta di Gattopardo, oppure sarò una specie di Emily Bronte di  Cime tempestose, meglio ancora Antoine de Saint-Exupéry. Spesso nei suoi sogni c’entrava la scuola, la ricerca di un successo, un apprezzamento, lodi mai avute da professori indifferenti.

La notte nondimeno Giselda era preda della sua immaginazione. Il sonno sembrava non arrivasse mai. Le ombre, i rumori la tenevano all’erta. Una volta temette che qualcuno dietro la porta d’ingresso strusciasse i piedi in modo sospetto. Lo disse a suo padre, che inaspettatamente non la mise a tacere, ma le diede retta. A sua volta vegliò per scoprire che erano le scope dei netturbini che spazzavano le strade. In fondo anche questa era una fantasia, una storia inventata che il confronto con la realtà trasformò in una cosa banale, routinaria, simile alle pulizie di casa. La nettezza urbana.

Non passò molto tempo che Giselda perse la capacità di sognare ad occhi aperti e visse la sua vita di lavoro e di affetti. Solo molto molto tempo dopo Giselda la recuperò. Capì che quel sognare era come tornare all’infanzia, invecchiare diventando bambini, ma non smise di farlo, come non smise di invecchiare.

Allora il suo sogno più grande diventò di andare a vivere in un casale in campagna, scrivere racconti, romanzi, articoli, poesie. Dipingere, coltivare piante. Per realizzarlo dipinse un unico quadro, un autoritratto e lo mise in vendita ad una cifra esorbitante. Esattamente quella che occorreva. Non dico quanto, nemmeno se riuscì nel suo intento, ma i sogni si realizzano solo se desiderati.

Le stelle aspettano sempre che noi facciamo un balzo e le raggiungiamo. E’ certo che ciò avvenga non sappiamo quando. I sogni li plasmiamo noi stessi con le nostre mani. Sono come bolle di energia che scagliamo nell’ universo.  L’universo le accoglie, a volte rotolano per anni, a volte per secoli, prima di esplodere, ma è certo che a un dato momento quella bolla di energia esploderà, tanto più violentemente quanto più grande il desiderio che la forma. Ci sono bolle che scoppiano in modo fragoroso e le vibrazioni si propagano come onde nello spazio e nel tempo. Bolle che fanno “flop” e si afflosciano in un secondo come palloncini sgonfi. Quelle che implodono ci danno dolore, quelle che esplodono gioia, ma ancora più importante è fabbricarne tante e tante da non poterle contare o tanto grandi da non poterle contenere. Il difficile allora sarà restare ancorati alla terra.

Loredana Semantica

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Solfeggiando…in emergenza. Un racconto di Cinzia Della Ciana

08 domenica Nov 2020

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Solfeggiando…in emergenza. Un racconto di Cinzia Della Ciana

“Solfeggiando…in emergenza” è un racconto breve di Cinzia Della Ciana che appartiene alla raccolta “Solfeggi” della stessa autrice. Il racconto suggerisce un possibile antidoto al tempo difficile che stiamo vivendo. Non un rimedio risolutivo, ma che aiuta a superarlo e rende meno cupo il percorso: il sorriso. Consigliatissimo. Il rimedio, certo, ma anche il racconto.

  • Ma pensa te…
  • Che ti passa per la testa Linda stamattina, ti vedo contrariata?
  • Cose da pazzi! Da pa-zzi!
  • Ch’è successo?
  • E’ successo che la nostra Lella non viene più a casa a fare le pulizie!
  • E perché non viene? Non sta bene forse?
  • No no, sta benissimo!
  • Sicura?
  • Sicurissima! É perfettamente lucida e in forma, l’ho appena sentita al telefono.
  • Con questi chiari di luna bisogna esserne sicuri, perché se ci fosse anche un minimo dubbio che non stesse bene, allora… allora sarebbe meglio per tutti che non venisse!
  • Così questa casa chissà chi la pulisce, eh? Ma che discorsi fai?
  • Meglio da soli che male accompagnati!
  • Sentitelo il signorino, lui fa presto a dire meglio “soli”… tanto a strusciare lui non è avvezzo, l’olio di gomito preferisce comprarlo al posto di darlo!
  • Ma insomma non cambiar discorso Linda, piuttosto dimmi un po’… perché la Lella non verrebbe da noi?
  • Questa mattina, è lunedì lo sai, il lunedì arriva presto perché deve fare i terrazzi e anche tutte le vetrate del salone, ecco mi ha telefonato precisamente cinque minuti prima delle otto…, dico ma si può avvertire così a ridosso? Nemmeno in cent’anni una come lei, una con lo stipendio fisso, imparerebbe l’educazione!
  • Insomma non la fare lunga, arriva al sodo, che t’ha detto?
  • Ha cominciato così: “Signora Linda ha sentito il Premier ieri sera?” e io: “Il premier chi?” e lei: “Ma come, il Presidente del Consiglio!”… Capito? Lei, la Lella di “Ponte alla polpetta”, il Capo dello Governo mica lo chiama come noi che poveri cristiani s’è fatto tanti sacrifici per mettere su la fabbrica e per comprarsi l’attico! Lei, senza pensieri, aspetta di riscuotere la fine del mese e a forza di guardare i filmini americani lo chiama il Premier… incredibile!
  • Insomma Linda mi vuoi dire che t’ha detto la Lella?
  • Un attimo che c’arrivo… e diamine fammele mettere in fila tutte le sue paroline perché devi capire quant’è fina quella lì!
  • Ancora, uffa…
  • Dunque dicevo… io le ho risposto che noi s’era andati a cena fuori e che s’era fatto tardi per cui la televisione non s’era guardata. E lei, quella sfrontata, m’ha subito ripreso: “Ma come, ormai di questi tempi, si sa che certi discorsi, i politici, li fanno la domenica sera e tardi e li danno sui social… bisogna essere aggiornati, glielo ricordi al suo caro signor Giovanni: i giornali oggigiorno non bastano più, bisogna esser sempre connessi e non si può aspettare d’andare in edicola il giorno dopo!”
  • Ma senti questa chi si crede d’esser diventata col telefonino sempre in mano! Per me con quel cellulare sui social c’ha trovato anche il “ganzo”, te lo dico io!
  • Ah ecco, ora che ho fatto il tuo nome, m’ascolti eh? Senti allora come è svoltata la faccenda…
  • Dimmi dai…
  • Io alla provocazione del premier non ho risposto e ho lasciato correre, così lei ha continuato dicendo: “Signora Linda i dati del covid sono arrivati a livelli preoccupanti, non si può continuare a uscire come fate voi, …”
  • Pure! Ora c’ha da ridire anche sul fatto che noi si va fuori?
  • Certo! Dice che noi siamo sempre in giro, una sera qui, un giorno là e che si entra a contatto con tanta di quella gente che quando si torna in casa, si porta dentro un po’ di tutto: microbi, virus e … insomma non siamo più sicuri. Anzi lei sostiene che, a dirla tutta, non siamo nemmeno in regola, perché la casa, questa nostra casa, non è una semplice casa, ma è un luogo di lavoro e quindi…
  • E quindi?
  • E quindi lei afferma che per essere in regola andrebbe sanificata!
  • Sanificata? Ma che discorsi sono questi? Prima di far pulire la casa dalla domestica dovrei chiamare un’altra domestica per farle trovare la casa pulita? O che è grulla? O per chi c’ha preso?
  • Che domestica e domestica! La Lella la sanificazione la vuole con l’ozono fatta dalle ditte specializzate!
  • Pure!
  • Secondo lei è il momento di dare un segnale di sicurezza a tutto il mondo del lavoro: noi dobbiamo cominciare a offrire un orizzonte certo, se no…
  • Se no?
  • Se no va seguìta la raccomandazione del governo!
  • In che senso?
  • Nel senso che la legge raccomanda lo smart working!
  • E allora?
  • Per farla corta: da oggi la Lella lavora in smart working!
  • Come sarebbe a dire? E lei che fa? Una domestica in smart working? Stira e lava con il computer?
  • No no… lei ha detto che noi alle 10 le telefoniamo con la video chiamata e quindi lei ci dice, per filo e per segno, quello che va fatto e come va fatto!
  • Sarebbe?
  • Sarebbe che lei sa dove stanno i prodotti e gli strumenti e come si usano, lei sa quel che c’è da fare via via in questa casa… e da casa sua lei ci dirige!
  • Ma che tocca pagarla?
  • Bellino per forza, che pensi che lei stia al cellulare per nulla?
  • A me sembra una cosa che non sta né in cielo né in terra! Voglio sentire il commercialista…
  • Lascia stare dice che quelli del sindacato… insomma non si scampa.
  • Ma io? Io che c’entro col pulire?
  • L’hai voluto l’attico? E allora pedala anche te, pallino!

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Teiera triste. Un racconto di Cinzia Della Ciana

06 sabato Giu 2020

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Cinzia Della Ciana, Grumi sciolti, racconto

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Teiera triste è un racconto di Cinzia Della Ciana tratto dalla sua ultima pubblicazione “Grumi Sciolti” Helicon, 2020

Un profilo da panciuta teiera montata su una mole di un’altra panciuta teiera, modello Sheffield tardo Ottocento, un vecchio pezzo di un servito da nave non più lucidato, sconvolto da una patina che aveva inciso sulla lamina e fatto affiorare a sparo di proiettile efelidi brune.

Si sedeva al tavolino più esterno del caffè, quello al limitare del grande ombrellone bianco, parallelo al siparietto creato dal bosso rispetto alla piazza salotto della città.

La postazione era perpendicolare all’ingresso del locale e a tutti gli altri tavolini esterni. Era un tavolino quadrato da due, lei occupava la poltroncina di sinistra, mostrando in controluce la silhouette del suo profilo alla platea degli avventori. Fissava con occhi di brace chi non le era seduto di fronte.

 Lo sguardo intenso lustro di rabbia, una teiera bollente protesa a rovesciare improperi. Dalla borsa informe, abbandonata in terra accanto alla gamba del tavolo, pescava con il braccio molle la scatola delle sigarette e una volta raggiunta l’apriva di scatto. Estraeva la sigaretta e con rara abilità accendeva la miccia e aspirava a mantice. Poi rovesciava la nuvola addosso a chi non c’era. Biascicava parole e roteava la mano aggettandosi col petto sconfinando sulla metà del tavolino non di sua competenza. A tratti girava lo sguardo verso la piazza languida, respirando più intensa, scuoteva la testa.

All’arrivo del cameriere ordinava. Poco dopo dal vassoio ondeggiante atterravano sulla tovaglietta bianca una tazzina di caffè e un bicchiere di acqua nell’imbarazzo del cameriere che esitava a disporre le bevande, ma alla fine decideva di appoggiarle davanti a quella bizzarra umana teiera sconvolta da tanta incapacità.

Una volta allontanatosi il pinguino, la donna recuperava una strana calma. Sdraiava l’intera sigaretta sul posacenere e distribuiva quanto ordinato secondo un preciso ordine. L’acqua davanti alla poltroncina vuota. Il caffè sotto al suo bricco. Faceva un cenno quasi di cincìn e blaterando suoni che non arrivavano alla platea trangugiava il caffè in un sorso. Quindi apriva la bustina, la versava dentro la tazzina e girava i granelli allo spasimo, fino a che li raccoglieva a più riprese con il cucchiaino e li gustava deglutendo inquieta quanto in bocca aveva appena sciolto.

E mentre s’addolciva, il parlare defluiva ritmato da pause che nessuno dall’altra parte riempiva, ma che lei rigorosamente rispettava dondolando la testa, a tratti scuotendola per la comprensione che non riceveva. E i minuti diventavano un’ora e anche più. E la gente attraversava incurante la piazza che nell’attardarsi del giorno si andava aranciando. E gli avventori si alternavano agli altri tavolini. Lei ancora lì: non la vedeva nessuno, e nessuno lei vedeva, se non chi davanti a lei non c’era. Poi in un momento incalcolabile, quando le cicche le avevano spento anche l’anima e sfumato ogni desiderio, chiedeva il conto sbandierando minacciosa l’ultima sigaretta a mo’ di marchiatore di bestie. Il cameriere giungeva quasi lanciando il biglietto per il timore di subirne le conseguenze, per il disagio di entrarvi in contatto.

Frugava nel borsello ciondolo le monete che sapevano d’elemosina e maniacale le impilava precise a torre accanto al posacenere. Afferrava il collo alla borsa, raccoglieva le sue curve flaccide e salutava chi non c’era, quasi sputandogli addosso, tanta era la saliva che sporgeva a spuma dal labbro inferiore. Poi scavalcava la siepe nel punto esatto in cui il varco non teneva e s’allontanava sbuffando come una teiera appena messa sul fuoco. La tazzina era vuota, il bicchiere di acqua ancora pieno.

Il cameriere finalmente poteva sparecchiare.

***

“Non ancora, grazie debbo bere.”
“Scusi pensavo la signora fosse sola.”
“Sono arrivata tardi. Posso?”
“Certo, mi scusi si accomodi pure… non avevo capito.”
“Lei non capisce mai!”
“Come scusi?”
“Ogni volta non mi fa finire.”
“In che senso?”
“Porta via tutto senza aspettare.”
“Ma scusi cosa dovrei aspettare?”
“Che io beva.”
“Ma la signora se n’è andata …”
“Il bicchiere è per me e io mi siedo se e quando voglio.”
“Va bene… ma io come facevo a saperlo?”
“Stia più attento nello svolgere il suo lavoro, non deve solo sperare di finirlo presto e di pulire subito. Lei ce l’ha scritto in fronte: fuori uno, uno in meno.”

E solfeggiando con la mano finalmente mi sedetti al tavolino. Con la schiena dritta, come una caffettiera napoletana che aspetta di esser girata appoggiai sul piano la mia borsetta a bauletto. Estrassi gli occhiali, li inforcai e guardai la piazza attraverso la lente di quel vetro pieno. Poi lentamente rovesciai il bicchiere e mi misi a guardare il rigagnolo del liquido che lento si faceva strada sulla tovaglia e s’avviava a affrontare il grande salto verso terra.

“Aspetti, aspetti… asciugo e gliene porto un altro.”

“No! Bere non è la risposta e bevendo dimentichi la domanda. Ha visto come ci si può ridurre a bere? Si parla da soli, come la signora che se n’è appena andata!”

E mentre il cameriere si allontanava, sentii chiaramente le parole dell’ottuso che non aveva capito niente: “Bisogna che smetta di non bere, non vale a nulla essere astemio.”

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BYE (Chapbook) di Giorgio Brunelli

01 lunedì Giu 2020

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Bye, Giorgio Brunelli

 

Gentile narratario,
questo squarcio di vita reale o immaginaria, vede come primattore l’uomo contemporaneo, cui l´io narrante ne ha amaramente edulcorato le gesta.
Un eroe disilluso, esacerbato dalla consapevolezza filosofica e pragmatica di una sconfitta infinita, di uno scacco esistenziale inevitabile; una riedizione aggiornata del topos letterario e, antropologico, della figura del “vinto”. L´attitudine ad assumere un protocollo narrativo decisamente grottesco, drammatizzando parodicamente gli assunti ripescati dal mondo del “banale”, collude con una provocatoria ricercatezza verbale la quale, coniugata a una tendenza dissacratoria del linguaggio stesso, ne sottolinea l’ontologica inadeguatezza a sostenere fino in fondo la tragedia del vivere.

Giorgio Brunelli

*

 

Francesca, in quell’infuocato occaso di maggio, tornava con un Intercity da un convegno sull´arte a Milano. Terminai di guardare la centocinquantesima puntata di Un posto al sole e mi avviai a recuperarla in stazione con la mia automobile nuova: una Saxo immatricolata sedici anni addietro, acquistata per cento euro e salvata dalle capziose rottamazioni con gli incentivi statali. Per eludere reità cagionate da eventuali ritardi, arrivai in anticipo e ne approfittai per recarmi alla toilette di Trenitalia, ma non disponendo di un soldo per il piattino della migrante alla reception, dovetti trattenere nella vescica il giro di shottini consumati al brunch. Frustrato per l’insoluta minzione, mi affrancai verso l’angolo fissato per l’appuntamento.

Mi venne incontro con una falcata da virago e sensuali fianchi basculanti poggiati su dei cuissardes violacei da troia, martellati e inchiodati da un certo Manolo, un illustre calzolaro spagnolo. Il volto, aniconico dalla stanchezza, le sviliva il perfetto maquillage. La minigonna, disegnata per lei in esclusiva da un amico sartino angloturco, le slanciava ancor più il corpo segaligno e flessuoso da patinata gazzella contemporanea. Stringeva sotto al braccio una cartella minimal in pelle primo fiore e, con atavico appeal, indossava sontuosamente, calato sulla fronte, in ossequio ai diktat modaioli, un Borsalino avorio a larga tesa con vezzosa piuma di pavone, che le dissimulava – eccetto le cascate elicoidali dei tirabaci – la mole ondulata e abbacinante della chioma Terra di Siena.

Mi baciò distrattamente le labbra e interpretai al volo la sinossi di quel bacio; un horror vacui a venire non più rilevante di altri passati. La dottoressa Francesca Cinotti, Frenci per tutti, la conobbi in un falansterio dell´arte di firma archistar, all’inaugurazione della mostra
personale di Manlio Cattani, un mediocre e velleitario performer da lei fortemente sostenuto. Titolata esegeta della critica d´arte, Frenci era precipuamente marcata da una prezzolata congerie d’imprenditoria salottiera e smargiassa, e da galleristi parafiliaci d´ordine sagristico. Era peraltro accerchiata da un´organigramma di platidattili di giunta comunale, da propalatori calunniosi, dagli usuali prezzemolisti della gauche caviar, da artisti di scuderia campioni di dressage, e da una fumisteria di checche orbitanti nei dipartimenti modaioli. Infine, concatenati al filo rosso, vi si appellavano pivotanti art advisor sguinzagliati da lungimiranti istituti di credito, demiurghi tassidermizzati da café chantant con ascot al collo, e cuccioli criptociarlieri di critici d´arte, attitudinalmente inclini all´alpinismo curatoriale. Sostanzialmente, in questa vaudeville “coprosociale”, s´infingeva il meglio del portaborsame antropofagico del settore. Tutti peones di un sistema dell´arte divenuto inverecondo, correamente adunato in un anamorfico habitus di perfidi ciangottii.

L´ipertrofica mostra del pupillo di Frenci, così come in ogni altra sponsorizzata esposizione con menù gratuito alla carta, in realtà fungeva per tutti i presenti – me stesso in primis – da sputtanevole alibi per degustare la raffinata nouvelle cuisine proposta dal fastoso catering nel suo immaginifico buffet. Le ambite vettovaglie venivano ineccepibilmente glorificate su una striscia avorio di fine cotone broccato. Nel parapiglia collettivo, scatenato dalla corsa all´approvvigionamento per le dispense domestiche, oltre all’ordito prezioso della tovaglia, venivano pure sbranate le gambe della chilometrica tavola e i sottopiedi in acciaio temperato. E appunto, in questa schizoide temperie, fra il “c’era questo e c’era quello,” c’era anche lei: la storica dell’arte charmant. Nei sibilanti milieu dei gangli artistici nazionali, era arcinoto il suo scrivere d’arte salacemente percettivo e profondamente colto.
Ella, una bobo (Crasi linguistica di bourgeois-boheme. Giovane e colto professionista, dalla vita sociale brillante caratterizzata da comportamenti anticonformistici) dell’high-class lombarda, si era meritocraticamente guadagnata il girocollo d’alloro al DAMS di Bologna, assieme all’altro in smeraldi di Bulgari, prodigioso cadeau di laurea regalatole dall’ inorgoglito padre.

Dopo quel mattino giocondo, per lei fu un pontificato continuum di tripudi professionali. A unanime parere, era per giunta una donna squisitamente esteta e chic, amante di conversazioni ad alto nitore intellettuale, che sosteneva con tonalità di voce incolori. Poteva risultare oscenamente snob e, pur essendolo profondamente, riusciva a declinare la caterva di critiche al vetriolo adottando una verve lemmatica argutamente eresiarca. Comunque, dopo una bottiglia condivisa di prosecco, un cesto di moine picaresche e un paio di intuizioni azzeccate in merito all’opera del suo delfino ammaestrato, vinsi la sua F nella rubrica del cellulare. Seguì l’omologato corteggiamento a ruota di pavone e, al trigesimo della nostra conoscenza, già appendevo la mia gruccia di vita nel sei ante wengé di Frenci.

Gli esordi del rapporto furono intellettualmente vivaci e compulsivamente scoperecci. Ciò mi faceva evincere che, diversamente dalle mie precedenti rovinose convivenze, Frenci fosse la Musa perfetta, da me sempre agognata. Ella, tuttavia, era opportunamente mia moglie per il “do ut des” con l’establishment curiale col quale era reprensibilmente ammanicata, e mia libera compagna con gli estranei e tutta la sua sfera amicale, mia indefessa delatrice. In sintesi, Francesca Cinotti, detto all’ americana, incarnava il perfetto prototipo della “career woman”. Diversamente da me che, grazie alla Legge 180/78 Basaglia, potei scansare una ciclicitá di TSO manicomiali e che, per un singolare gap metempsicotico, nacqui coevo all´inconsolabile trapasso di Marylin. Ero un misantropo patologico e pennivendolo dopolavorista che gravitava nell´iniquo mondo dell´arte figurativa. In sostanza, all´impianto sociale apparivo come umbratile e schivo, avvolto da un´ostica nube anedonica che non di rado precipitava in stati di cupezza a dirotto. Ero peraltro stremato dall’essere strattonato in stereotipati inviti su répondez s’il vous plaît, frivoli happy hour o altre scoglionanti didascalie assoggettate al territorio speculativo del demanio ricreativo.

La Cinotti era bene informata sul fatto di quanto detestassi e demolissi con ferocia talune nomenclature professionali. Saccenti categorie costituite nelle quali vi individuavo, in un cospicuo numero di funtori ad esse accorpate, indizi di caratteri autoencomiastici altamente glicemici. Un nugolo di urticanti fragilitá ascrivibili al paradigma “primi della classe”, cui questa boriosa selezione di narcisismo overt, ne sventolava surrettiziamente il proprio sfilacciato gonfalone da caserma abbandonata. Forse, l´ostracismo connaturato in questo mio rifiuto oltranzista, si fulcra in un retropensiero afferente al mio frottage di un padre, il quale portava in dote una cifra artistica potente di cui egli con modestia, tendeva ad ascondere per un commovente senso di colpa impietosamente addossatogli dalla sua naturale perizia. Era peraltro pienamente conscio dell´innatismo del suo talento, che tuttavia ne adombrava la contezza, grazie a una forma indulgente di rispetto, di cui inconsciamente se ne avvaleva al fine di preservare la dignità della sua falange amicale artisticamente normodotata.

Pertanto, archiviata questa digressione paterna innervante sottotraccia, non potevo altro che desumere che tutto questo sottobosco “barnumizzato”, era il cachettico architrave che sosteneva l´intero mondo cinottiano; un meltin´ pot di opportunistiche relazioni, congiunte a un dopolavorismo tautologico impastato di cardio-frequenzimetri, assaggi di veganismi e bilance al quarzo alla senna, noto estratto di foglia dal devastante effetto waterrea. Come un logoro refrain, il tempus fugit arrivò a rarefare tutti i nostri ardori e candori. Così, ineluttabilmente puntuali, si presentarono al nostro cospetto i primi scazzi preventivati di norma, causati da una sommatoria di mutuali coazioni a ripetere, ormai largamente divenute intollerabili a entrambi. Una sera, speculare di altre, l’automobile rifiutó l´accensione. Frenci sussultò sul sedile e vomitò un´erotica interiezione che un tempo le avrei persino lambito con infinito amore. Poi, impostando la dizione, sbraitó un estetico “diocane!” maledendo l´infausto giorno in cui iniziò a darmi credito. Con la bizzarra alchimia dell´afflizione, convertì il senso di colpa in furore e, come in un ciak di Romero, scatenò l’amok rimastole imploso da mesi. Insorse strillando, invasata come non mai, che avrei dovuto rottamarlo quel fottuto trabiccolo da scalzacani, e che solo a un interdetto come me avrebbero potuto rifilarlo. Cercai anche sotto il tappetino poggiapiedi dell’utilitaria, dove mai poteva essersi imbucata la stupenda apparizione goduta al trasognante incontro all´orribile vernissage.

Con la mente a zonzo per i cazzi suoi, le braccia poggiate di peso sulle razze del volante crocchiando una caramella Rossana, tacqui, rimesso al suo solipsismo giaculatorio. A fine pistolotto il rottame tornò a rombare. Dopo un’ora di sordidi silenzi, segnalatori acustici di bilanci passivi e nebulosi ricordi, giungemmo a casa oramai arrendevolmente fagocitata da entrambi la riottosa querelle. Frenci si riempì la Vuitton di se e di sé e, scaraventandomi addosso le ultime scorie di contumelie, pigiò lo stop sulla nostra animata storia d’amore, lasciandomi con un ammosciante “Bye”.

Ferito a morte dal congedo tranchant, mi defibrillai l´anima segandomi selvaggiamente, finché l’ansia abbandonica si dissolse assieme al nostro paragrafo di ficcante chimica sentimentale.
Oggettivamente, era solo l´equa ripartizione di erotomachie licenziose, il volano che aveva graziato il nostro antinomico rapporto, tuttavia condotto per forza d´inerzia fino a quel topico addio. Riempii tre scatoloni del Billa con le mie suppellettili, e le lasciai le chiavi di casa sopra la consolle shabby chic. Sotto il vaso inflatable di design contenente le sue risibili petunie in feltro, infilai un’ultima succinta missiva che scrissi a mano sul retro di una bolletta del gas, imitando calligraficamente la font Vivaldi:

Oh mia Frenci, ma quanto che ti ho amato, cazzo!

Chissà, forse doveva andar così…o forse boh.

Beh, allora ciao.

 

 

Bye di Giorgio Brunelli, tratto da Inqlatio, Polluzioni patafisiche e non, di un pollo apolide al palo

 

 

Nato a Verona nel 1962, mi formo in Scultura all´Accademia di Belle Arti nella stessa cittá. Artista situazionista, mi occupo di scultura, digital art e grafica industriale. In merito lo scrivere, la mia penna vola notturna, saldamente sorretta da un´insonne passione antispeculativa. Dal 2012 vivo in Brasile fra macumbe, anaconde e, talora, saltuarie gioie minimali.

 

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“Griot in the city”, un racconto di Francesco Tontoli

11 lunedì Mag 2020

Posted by frantoli in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Francesco Tontoli, Griot in the city

 

Nella sua voce vi sono così tanti armonici che anche quando parla, anche quando non canta, gli si può ascoltare il fruscìo sotterraneo di un mondo di muchi e catarri, un lavorìo di bronchi affaticati, un motore non immobile di ottoni e di archi come un’orchestra asmatica che si accordi con difficoltà.
-Canta, canta!…- gli dicono centrando il cappellaccio in terra con una moneta. E lui con lo sguardo acquoso fa cenno di stringersi il pugno al petto gorgheggiando con un suono simile alla carta vetrata un:
-Grazie!- sonante e soddisfatto, imitando il “parlato” d’operetta.
–Dedicherò questa birretta a te, amore mio sconosciuto!…-
La velocità della massa di uomini e donne che si sposta da un punto all’altro della città come in una clessidra, ogni giorno su quel marciapiede, viene alterata dal suono ruvido e dal tono beffardo che fuoriesce dal suo cavo orale.
Un monito, il richiamo di un sirenetto rauco alla vacuità della fretta. Uomini legati a doppio filo alla schiavitù dell’ora esatta, e del minuto secondo da centrare ad ogni passo, vengono intontiti per un tempo indefinibile da una fonte sonora oscura e cavernosa che li blandisce, rapendoli dalla strada.
La cecità non gli è d’ostacolo. Sa esattamente del rumore dei passi di chi esita e di quanti sono quelli che non resistono al duro impatto della sua voce.
Sa quanti corpi barcollano allo scontro con le onde seghettate delle sue blue-notes. E i piccoli cerchi concentrici umani che gli si formano intorno sono simili a quelli che si allargano nell’acqua quando vi affonda un sasso.
Ode chiaramente le corrispondenze lievi degli sguardi che si incrociano e annuiscono. Le labbra che piano si allargano in un sorriso scavando nella pietra dura. E’ tutta gente uscita a sgomitare per lo spazio vitale dei pochi centimetri quadrati concessi graziosamente ogni giorno dall’Entità Sconosciuta chiamata benevolmente Padreterno, che manifesta tutta la sua gentile ferocia nell’abbrutire e nell’annichilire in un luogo denominato “città” , tutta la vita che gli uomini immaginano abbia creato.
Certo che anche gli uomini stessi, qualcuno sospetterebbe soprattutto loro, partecipano allo scempio con una discreta attitudine emulativa che la dice lunga sulla competizione che stabiliscono con Dio per dividersi le spoglie del pianeta che abitano. L’uno nel Sito Immaginario, l’altro in quello Reale.
Chi sono ad esempio quei due che si tengono per mano mentre ascoltano il Griot metropolitano cieco, fare i gargarismi con l’acido muriatico, tutti compresi nello sforzo di carpirgli il segreto della musica e della sua fascinazione?
E quell’altro tipo un po’ in disparte in grisaglia d’ordinanza che sembra fulminato sulla via di Damasco, con la borsa di pelle nera in una mano ingombra del sangue delle sue vittime finanziarie? Come mai si è fermato anche lui in posa mistica, sguardo perso e bocca aperta?
Forse perché il barbone sfatto di cattiva birra ha toccato i loro tasti dolenti, i loro bottoncini segreti, esposto i loro nervi alla radiazione della sua voce facendo emergere un’umanità dimenticata? E’ come scavare in un sito archeologico affondando strumenti in un terreno cedevole, avendo a disposizione il più potente dei mezzi di scavo: la frenesia dovuta al ricordo di qualcosa di irrimediabilmente perduto.
Ognuno di questi uomini in cerchio insomma, anche se ora si ricompone e ritorna a correre, anzi a rincorrere l’oggetto scuro del suo desiderio, ha subìto l’effetto devastante dell’evocazione di un fantasma prigioniero nella propria mente.
I due amanti questa sera si lasceranno senza una ragione così come aveva cantato il Griot. E l’uomo con la borsa nera, dopo aver visto scorrere e cadere i suoi titoli in borsa, verrà attratto dal cassetto della scrivania dove ha riposto la pistola che ha comprato un giorno, più per esibirla che per usarla. Ma questo il Griot non lo canterà sui marciapiedi di New York o Londra, dove si svolge presumibilmente questa storia di possibilità.
Lui vocalizza solo canzoni d’amore.

Francesco Tontoli

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“Sprechen doich?”Un racconto di Francesco Tontoli

17 giovedì Ott 2019

Posted by frantoli in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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racconto

Hans ripiega la lettera. Me l’ha tradotta puntigliosamente tutta dal tedesco, facendo delle pause lunghissime per sottolinearne i momenti più cupi.
Ha gli occhi lucidi, lo sguardo lontano, le mani con un leggero fremito.
Il piccolo Johannes gioca tra le sue lunghe gambe parlando il suo curioso linguaggio infantile, con quei punti interrogativi che si sentono cantilenare e che non richiedono risposte.
Siamo solo noi tre , gli altri sono in cucina a chiacchierare con Aurelia. Ci hanno lasciato soli col bambino, prevedendo che tra di noi ci sarebbe stata la solita lunga confessione. Ma sono 10 anni che non ci vediamo, e abbiamo diritto a un nostro momento privato.
Il papà gambalunga si scuote da quell’attimo di nostalgia e porge al figlio il nuovo gioco che ha appena tolto dalla confezione provocando tutto quel rumore di carta strappata. Entrambi emettono suoni che esprimono sorpresa e stupore di fronte al regalo.
Johannes sale sul cavalluccio di legno, e faticosamente cerca di spingerlo con l’aiuto dei piedini. Hans sorride e si asciuga gli occhi, non so bene se per la felicità di vedere suo figlio provarci, oppure per il dolore che si è appena procurato ravvivandolo leggendomi la lettera, come quando si tocca il dorso di una vecchia ferita cicatrizzata che non fa più male , ma di cui se ne rammenta il percorso doloroso.

La lettera è sul divano, stropicciata e unta dalle ditate. Penso siano impronte lasciate da mani umide. Letta e riletta chissà quante volte, mandata a memoria e dimenticata, e rimandata a memoria. La voce fuori campo degli incubi, la litania dei giorni tristi col cielo grigio del lungo inverno passati da solo tra i pazienti montanari. Chiuso, murato tra i boschi e le valli.
Johannes si dondola sul cavalluccio di legno, e guarda il padre asciugarsi la lacrima sfuggita ma subito asciugata col dorso della mano. Hans ritorna a sorridere illuminato dal figlio che lo guarda stupito. Il bambino ha puntato il dito all’angolo dell’occhio da dove è spuntata quella goccia, e ha guardato il padre con l’ennesima frase interrogativa…
Fuori dalla finestra vedo i filari ordinati dei meli ancora in fiore, ma già con accenni di verde, perdersi per la collina. In alto, se alzo un po’ lo sguardo, l’abbazia di Sabiona tutta circondata da file ordinate di viti, incombe minacciando l’abitato con la sua ombra merlata. E’ un pomeriggio sereno, ci sentiamo tutti fortunati a goderci un tempo così. Il sole fende la stretta valle con raggi già obliqui e dorati, e tra poco tramonterà dietro la neve delle cime più alte mandando bagliori che rimbalzeranno sul bianco. Juergen mi indica quel paese lassù che si gode la luce più a lungo di qui. Noi siamo appena arrivati dal sud e abbiamo portato il bello mi dice Hans, perché fino alla scorsa settimana è nevicato più volte…
Ora festeggiamo stappando il prosecco conservato per questa occasione:

-E’ da tanto che questa bottiglia vi aspetta, ci dice versandocelo.

Il brindisi è un po’ frettoloso anche se Hans lo vorrebbe solenne. Sta lì pensoso a rimirarsi l’etichetta della bottiglia, il bimbo attorcigliato alle gambe che lo implora di prenderlo su alla sua altezza sconfinata, e quando viene sollevato in braccio non manca di commentare la vertigine dell’ascensione con gridolini di piacere, che ci fanno inebriare tutti. Hans non ha avuto nemmeno il tempo di avvicinare le labbra al flûte. Non ha bevuto un goccio, ma è completamente ubriaco di suo figlio…..
La lettera intanto è stata intercettata da Aurelia che la ripone in una busta quasi distrutta tanto è usurata, e la porta via come se fosse una reliquia, depositandola presumibilmente in uno di quegli angoli oscuri che ci sono in ogni casa, cassetti segreti, oppure tra le copertine dei libri più cari, un tabernacolo occulto, un sancta sanctorum domestico.
Decidiamo di uscire, con il piccolo Johannes che guida il corteo in passeggino, andiamo incontro al paese passando davanti alla vecchia stazione dove c’e’ in bella mostra una vecchia locomotiva a vapore tirata a lucido.
Passiamo in rassegna le case linde e silenziose , fino a un piccolo ponte pedonale sul fiume Isarco. Tutti guardiamo l’acqua che attraversa la città veloce dopo il disgelo. Costeggiamo il lungofiume guardando le papere che stazionano a riposare nelle piccole anse.
Hans mi dice che quegli uccelli qui sono chiamati “le anatre di Koester” dal nome del pittore che le osservava e le dipingeva dal giardino che proprio ora stiamo attraversando, e a cui è stata dedicata quella statua di bronzo che si vede tra gli alberi con lo sguardo rivolto al fiume e con un piccolo pennello in una mano che sembra contare le anatre più che dipingerle.
Tutto sembra pervaso di una perfezione primaverile che ci mostra il movimento della natura nella sua rotazione.
Ci stiamo trasformando, e chi ode le voci nella direzione del nostro crocchio non può far a meno di voltarsi, sorridere, incuriosirsi dall’arrivo degli ospiti tanto attesi dai due dottori.
Aurelia ci porta direttamente nel suo studio, che è al primo piano del vecchio edificio della dogana, subito dopo l’antica porta. Saliamo tutti. Nella sala d’attesa del medico c’è un pianoforte! E degli affreschi antichi recuperati con perizia. E nello studio, proprio dietro la scrivania della dottoressa c’e’ la postazione di lavoro del piccolo Johannes, un box pieno di giocattoli, da cui osserva la mamma visitare i pazienti commentando le patologie riscontrate con grugniti e parole incomprensibili che sembrano simili a sentenze scientifiche su eventuali malattie, come ci riferisce la madre.
Poi tra la sorpresa generale, compresa quella di Hans , Aurelia si siede al piano e ci dà un saggio eccellente della sua bravura, addirittura anche come cantante .
Stiamo lì seduti in sala d’attesa come cinque pazienti incantati a sentire suonare il piano. Händel? Bach? Schubert? Chissà…ma esplode l’applauso liberatorio. Pura musicoterapia!

Hans mi parla di questa città mentre siamo di nuovo in strada. Alla fine dell’800 qui si riunivano molti artisti, pittori, poeti e musicisti che sciamavano nella strada principale riempiendo le osterie e gli alberghi. La ragione per cui arrivavano fin qui era dovuta al fatto che si era diffusa la voce che da queste parti era nato il maggior poeta medievale di lingua tedesca Walther von der Vogelweide, minnesanger, poeta d’amore, mi dice Hans sorridendo e strizzandomi l’occhio. Tra fine ‘800 e inizi ‘900 accorsero qui gli artisti e si moltiplicarono gli alberghi e le taverne. La vita sorrideva allora, l’impero del buon Cecco Beppe era l’esempio del paternalismo asburgico più bonario. Le ostesse servivano birra sorridendo e commuovendosi per le canzoni più belle. Questo dunque è uno dei luoghi sacri del nazionalismo tedesco, e si trova in Italia!
Hans è alto e sottile come un giunco. Enza mi dice che ha un aria di un giullare medievale, e io me lo sono immaginato spesso in questa veste armato di cetra, mentre declama versi d’amore davanti alla piccola corte del castello. Allampanato e con la nuvoletta intorno al collo.
Hans ci ha sempre stupiti per questa sua ingenuità che è così platealmente esibita da sembrare falsa e stucchevole. In realtà non c’e’ nulla di affettato in lui. Dentro credo sia una roccia di granito, non potrebbe sopravvivere altrimenti tra questi monti duri.
Diventa così quando racconta. Perché tutto quello che fa diventa nella sua fantasia un racconto, una parte di una storia. Una storia che narra a sé stesso senza aver bisogno necessariamente di interlocutori. Quando parliamo di lui tra amici non possiamo che riconoscerci in questa immagine: un medico in esilio che non ha scelto l’Africa, ma i monti dell’Alto Adige.
Hans ha voglia di parlare , e come quegli eremiti loquaci che tentano di tradurre anni di silenzio in poche battute, ci presenta la natura che si dispiega ai nostri occhi enumerando i miracoli e i dolori della convivenza qui, terra di confine, oltre le ragioni e i torti, oltre i conflitti.
L’albergo che ci ha prenotato guarda la piazza più bella del paese. E’ la prima serata tiepida di primavera. Lui non ha lasciato niente al caso. Nell’eventualità che volessimo usare la sauna basta dirlo al portiere. Per le escursioni basta chiedere che qualcuno organizza. No, non sfrutteremo niente di questo tipo di ospitalità. Ci guardiamo negli occhi tutti. Naturalmente l’albergo è già stato pagato per quattro, e noi ne siamo stupiti, ma in fondo dovevamo aspettarcelo. Solo Hans può farlo, e la moglie acconsente. Ci guarda curiosando tra i gesti delle nostre reazioni stupite.
Hans.
Poi vanno via salutandoci abbracciati. Li guardiamo avviarsi e spingere il passeggino di Johannes sul selciato. Fino a non vederli più.

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Nota critica sull’antologia di racconti “Il tempo sospeso” di Francesca Varagona

03 lunedì Set 2018

Posted by Deborah Mega in Eventi e segnalazioni, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Deborah Mega, Francesca Varagona, Il tempo sospeso

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Dalla percezione e dall’osservazione del reale si alimentano i racconti che compongono l’antologia di Francesca Varagona edita da Terra marique, opera in cui il filo conduttore è quello della mancanza intesa come perdita, dispersione, mancata realizzazione di un progetto di vita. Non è come dire vacuità perché il concetto stesso di mancanza porta alla mente l’esatto opposto, la presenza di qualcuno o qualcosa e l’attesa del ritorno oppure il manifestarsi di un fatto e il suo non verificarsi. L’autrice, con grande abilità narrativa, organizza un’ampia e variegata carrellata di tipologie e comportamenti umani soprattutto femminili. “Le vite delle donne senza nome sono silenziose”, scrive l’autrice, eppure sono vite vissute appieno, colme di gioie e di lutti. Continua a leggere →

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (91) di Enrico Cerquiglini

30 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in COSTUME E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì vi ha tenuto compagnia un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Proponendo l’ultimo di questi racconti brevi, colgo l’occasione per ringraziare di cuore Enrico Cerquiglini di questa sua gradita presenza su Limina mundi.

Risaliva tutte le sere l’unica strada che divideva in due il paese, aspettava che calasse il sole prima di uscire dall’osteria. “Passata la sciatica?”, “Anche questa giornata è finita, signora bella”, “No, grazie, è meglio che non bevo più per oggi. Ma c’è sempre domani!”, “Notizie dalla Svizzera?”, “C’è finita in trappola la volpe?”, “Quando lo facciamo quel lavoro?”. Ogni quattro passi una sosta per un saluto, una battuta, una domanda. Quella in fondo alla via, subito dopo il dosso, era la sua casa, ed era stata la casa del padre e del nonno… e sarebbe stata anche la casa del figlio se la polmonite non se lo fosse portato via poco più che bambino. Ed anche la moglie se n’era andata. Il lavoro nei campi, il dolore per la morte della creatura avevano distrutto il suo esile fisico “non adatto alla terra”, come diceva la povera anima di sua madre. Teneva le due foto sopra la trave del camino e alzando lo sguardo si rattristava a volte, altre veniva preso da un senso di inquietudine, mista a rabbia, che si scioglieva in una reiterata bestemmia. La mattina la passava nell’orto (i campi aveva smesso di coltivarli, la vecchiaia non perdona) o nel pollaio. Poi se ne andava all’osteria, fino a pranzo, non a bere (beveva poco e non sopportava gli ubriachi come quel fesso di Vinovo – lo chiamavano  così perché chiedeva sempe il vino nuovo – che per il vino aveva perso moglie, podere e casa e che dormiva nella stalla del cugino, con le vacche e i vitelli), ma per scambiare qualche parola coi pochi abitanti rimasti.

In realtà nel paese, tranne lui, non c’era più nessuno da anni. Non se n’era voluto andare come aveva fatto suo fratello. Conosceva le pietre di ogni casa ed aveva fermato il tempo. Non c’era più nessuno da anni ma lui continuava a recarsi all’osteria, dove parlava col vecchio oste (era già vecchio quando lui era bambino), con la di lui moglie, ancora giovane e procace, con i vecchi del paese (ridotti a guardare gli ultimi raggi di sole con un mezzo toscano in bocca). E la sera, risalendo verso casa, salutava tutti: la vedova (morta di parto nel ’56, per colpa della neve), il vecchio mulaio (quello che aveva fatto la guerra del ’15-’18), il fabbro (morto d’infarto nel ’75), la ragazza dalle trecce bionde (fatta morire da un maldestro strappadenti), il potatore (morto cadendo da un melo a quasi novant’anni) e tutti gli altri.

Quando fu la sua ora, nel sonno, senza soffrire, non vedendolo passare la mattina per andare all’orto e al pollaio, tutti si fecero sulla porta e cominciarono a gridare il suo nome. A valle, a chilometri dal paese, fu udito distintamente il canto del suo gallo con la cresta a rosa.

 

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (85) di Enrico Cerquiglini

23 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in COSTUME E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Tagliato tra le due terre, restò per sempre un frutto dall’apparenza selvatica, aspra, scontrosa. Piccolo di statura, nient’affatto armonico nel fisico, dal viso intagliato senza alcuna perizia, fu sempre trattato dalla madre come un anatroccolo che mai sarebbe diventato cigno (e non lo sarebbe davvero mai diventato). Cresceva sgraziato, senza nessuna istruzione che non venisse dai lavori nei campi, più legato alle bestie che alle persone, timido, ma spesso, per reazione, violento. Aveva quindici anni quando la madre, prossima alla morte per un cuore che non reggeva più, gli disse che la natura con lui era stata malvagia, gli aveva dato povertà e bruttezza e che mai nessuna donna l’avrebbe voluto. “Le donne bisogna comprale o con gli averi o con i soldi, o stregarle con le parole e la bellezza, e tu non hai niente di questo”. Non capì subito quello che la madre gli aveva detto, sopraffatta com’era dai dolori. Gli tornarono in mente quelle parole quando vide lei, una ragazza di luce, dai capelli neri, dagli occhi che folgoravano le stelle. “Quanto costerà? Sicuramente tanto. Ci vorranno cento milioni”. Da quel giorno cominciò a non spendere più nulla, a lavorare giorno e notte, a mettere da parte quei quattro soldi della pensione di orfano di guerra: stendeva i biglietti da mille e li riponeva al riparo dai topi. Anni e anni di lavoro, di privazioni (mangiava erba dei campi piuttosto che spendere una lira, niente luce elettrica, niente mobili in casa, si tagliava barba e capelli da solo con le vecchie forbici della madre, indossava vestiti consumati, rattoppati da solo), di risparmi. Ogni tanto andava a vederla di nascosto: era ormai una donna fatta, con un marito e figli, ma aveva quegli occhi…

L’avrebbe comprata, altri 5-6 anni e sarebbe riuscito ad averli questi maledetti cento milioni. Nessuno frequentava la sua casa-porcile, tranne un cugino che, di tanto in tanto, andava a fargli visita. Era l’unico con cui parlasse: un bell’uomo, pieno di donne e di vizi, sempre profumato e azzimato. Gli confidò un giorno il suo segreto. Ci sorrideva il cugino, ma non gli diceva nulla.

Quando lo ritrovarono con la testa fracassata sotto un noce, nessuno si meravigliò di quell’incidente. Non aveva più l’elasticità di un tempo. “Aveva frequenti capogiri”, diceva il cugino. Doveva averne dei soldi, dicevano in giro, ma nessuno riuscì a trovarli. Il cugino, dopo poco, lo si vide girare con una decappottabile americana, nuova, fiammante…

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (82) di Enrico Cerquiglini

16 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in COSTUME E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Si diceva di lui che avesse attraversato tutti gli oceani, visto tutte le terre del mondo e si fosse macchiato di crimini inenarrabili. A vederlo vecchio, ricurvo, sempre col sorriso pronto, lo si sarebbe detto un simpatico ottuagenario che attende, senza particoli ansie, la fine spettante a tutti. Eppure c’era chi giurava che dietro quella testa canuta, dietro le sigarette senza filtro, dietro il suo amore per gli animali (allevava canarini e tortore) si nascondesse un assassino spietato. Quando passavano davanti alla sua piccola casa i ragazzini facevano scongiuri, gli uomini sputavano catarro e resti masticati di tabacco, bestemmiando ad alta voce. Alla sua morte nessuno volle partecipare al funerale, anche il prete si rifiutò. “Non era un credente, né si è mai pentito dei suoi crimini”. La casa restò chiusa a lungo e fu soggetta alle sassate dei bambini. Un giorno uno di questi ragazzini, più per sfida che per curiosità, entrò nella casa. La porta non aveva mai avuto serratura. Tra ragnatele e scaffali ormai compromessi dai tarli vide tanti libri, tanti fogli scritti, tante lettere. Ne lesse alcuni e rimase sbalordito dalle descrizioni di crimini efferati, di sadismo, di violenza gratuita. Lo sguardo cadde su una busta con una bellissima calligrafia, sicuramente femminile. “Amico carissimo, quanta violenza in questi tuoi racconti! Tu persona così mite, così dolce, incapace di fare del male a qualsiasi essere vivente, vittima di mille persecuzioni e sevizie, trasferisci nel carattere, nel corpo del carnefice i tuoi tratti, il tuo nome. Che ne direbbero i tuoi paesani se leggessero le pagine di questo romanzo in forma di confessione?” In effetti qualcuno aveva letto sul tavolo da cucina l’inizio di quel romanzo: “Signor Giudice, prossimo ormai al giorno estremo, io *** ***, assassino di mia madre, di mio padre, dei fratelli miei tutti, sento il dovere di confessare a Lei, che tanto si è battuto per ricostruire la verità, storica più che giudiziaria, che io sono il solo colpevole. Non le invierò questa confessione né per chiedere perdono (la parola ‘perdono’ non fa parte del mio vocabolario) né per volere espiare quelle che Lei ritiene colpe e delitti. La mia è solo una testimonanzia per restituire verità alla Storia. Il giudizio sul mio operato spetta alla Storia non certo alla mediocre Sua persona, Vostro Onore!”

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