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LIMINA MUNDI

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LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: I nostri racconti

racconti di autori contemporanei

Del terzo millennio: strascichi post-umani (78) di Enrico Cerquiglini

09 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Quanto l’aveva desiderato un figlio! Per anni aveva temuto di dover morire senza lasciare traccia di sé. Gli sembrava inutile la vita senza un’appendice di immortalità. Quando, dopo cure e trattamenti medico-chirurgici, la moglie rimase incinta il sole ricominciò ad illuminare i suoi giorni. Com’era bello quel bambino, pieno di riccioletti biondi, con i lineamenti identici al padre che diventavano ancora più somiglianti con il passare degli anni. Ma dal padre non aveva ripreso la voglia di lavorare, il senso del sacrificarsi per la famiglia e per raggiungere certi obiettivi. Neanche la scuola faceva per lui, “T’insegnano tutte stupidaggini. Che me ne frega di Giolitti o di Pascoli? Andare a scuola è solo una perdita di tempo”, tanto che finì a 16 anni la terza media e decise di non continuare a perdere tempo. Il padre cercò di farlo entrare nella fabbrica dove lavorava da trent’anni, ma lui rifiutò “Io non voglio fare lo schiavo nella vita”. Passava le mattinate a letto e le serate a zonzo per i locali della città: un po’ di birra, qualche pista di neve, qualche amoruccio di strada e si faceva l’alba. Il pomeriggio lo passava al bar a discutere con i pensionati, si faceva offire prosecchini a raffica e quand’era alticcio cominciava ad insultarli perché quelli come loro rubavano il suo futuro e quello degli altri giovani. I giovani come lui dovevano lavorare per pagare le loro pensioni. Anche con gli immigrati ce l’aveva: ci rubano il lavoro, la cultura e le tradizioni. Le poche volte che incrociava il padre pretendeva da questi il denaro che gli serviva per fare una vita dignitosa aspettando l’arrivo di un lavoro. E spesso lo minacciava di rompergli il “muso”. E a pensare a quanto l’aveva desiderato quel figlio, gli veniva un groppo in gola.

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Del terzo millennio: strascichi post-umani (51) di Enrico Cerquiglini

02 mercoledì Ago 2017

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', I meandri della psiche, I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Del terzo millennio: strascichi post umani, Enrico Cerquiglini

Per tutto agosto ogni mercoledì un racconto breve della serie Del terzo millennio: strascichi post-umani di Enrico Cerquiglini. Ogni mercoledì una perla di disincanto proprio dei nostri giorni, da raccogliere tuffandosi nelle profondità, per poi riemergere al “sollievo” del sole, del mare, luce e vacanze. Buona lettura.

Ultimo di una covata di figli, nato nella miseria di una campagna-periferia, non desiderato né cercato, con i genitori ormai prossimi alla vecchiaia, imparò a camminare e a parlare piuttosto tardi, al punto di esser bollato dai fratelli e dai parenti come uno stupido. Non era stupido, non più degli altri della famiglia e dei suoi coetanei, ma interiorizzò ben presto questa sua presunta magagna. Fece ridere la maestra che lo rimproverava per non aver scritto bene le letterine, “Sono stupido, signora maestra, lo sanno tutti”. Rise di gusto la maestra e non le restò altro che convenire con la voce popolare. Smise di frequentare la prima elementare appena imparò a fare la firma. Ci mise più degli altri ma, ormai, anche per la maestra era uno stupido. Crebbe con la convinzione di essere stupido e si trovava bene solo con gli animali che non glielo ricordavano ad ogni occasione. Fu riformato alla visita militare. “Chi non è buono per il re neanche per la regina”, gli dicevano ridendo paesani e fratelli, e se ne convinse. Non si sposò, venne utilizzato dai fratelli come uno strumento parlante per i lavori più faticosi e umili. Ma tanto era uno stupido. Tutti glielo dicevano che non capiva nulla, che non ci arrivava a comprendere le cose della vita, che era incapace di organizzarsi la vita da solo. Un nipote, forse meno cinico degli altri, cercò di dimostrargli che stupido non era, che aveva grandi capacità nel lavorare il legno e la creta. Un po’ s’inorgogliva nel sentirsi riconoscere tali qualità, ma un giorno prese il nipote da una parte e glielo disse chiaramente: “Senti, ho quasi sessantanni e sono sempre stato stupido per tutti. Adesso arrivi tu e vuoi farmi credere che non lo sono? Lasciami in pace, lasciami morire da stupido! Tu mi dici che non sono stupido e, ammettiamo che sia vero, significherebbe che mi hanno rubato la vita. Mi getti nell’inferno del tempo sprecato a coltivare la mia stupidità. Non dirmi più certe cose. Sono lo zio stupido, e basta!”

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La signora

09 venerdì Giu 2017

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Amedeo Modigliani, la signora, Loredana Semantica, racconto

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“Portrait of Madame Survage”, Amedeo Modigliani

Per Luciana, impiegata, brizzolata, cicciottella, attempata, la parola “signora” era tra le più evocative del suo vocabolario. Suscitava nel suo animo una serie concatenata di pensieri ed emozioni. Vorticava nel cervello come una trottola dispettosa, alla quale dare spago e conto.
Oh era ben consapevole che per il vocabolario italiano era soltanto il titolo di cortesia con cui ci si rivolge a una donna sposata, versione di genere femminile del corrispettivo maschile “signore”, ma per lei “signore” e “signora” avevano tutto un corredo di significati, agitavano sentimenti che si allungavano e contorcevano in una scia di tensione e rabbia, sorriso o frustrazione.
Bastava che qualcuno le pronunciasse, perché l’ondata di queste memorie la investisse facendola per un momento, distrarre, sbandare, deconcentrare da qualunque cosa stesse facendo
Come potesse una sola parola avere tanta valenza per Luciana, impiegata, brizzolata, cicciottella, attempata era un fatto singolare. Ma se si fosse penetrata la sua mente, se si fossero potuti leggere i suoi pensieri, avrebbe acquistato senso cotanto alto profilo semantico.
A cominciare dal ricordo più antico e incisivo, un regalo al veleno dal padre della sua migliore amica nell’età adolescenziale: Clara. Lui, il padre di Clara, laureato in biologia, una volta, chiamato signor Tarantello dal padre di Luciana, rimarcò “Dottore prego”. “E’ questo il modo tipico di umiliare chi ha cominciato la propria vita andando giovanissimo a lavorare per mantenere la sua famiglia, sig. Tarantello” pensava Luciana “Un laureato della vita mio padre, sig. Tarantello”. Ormai il padre di Luciana era morto, come ormai morto era anche il sig. Tarantello. Che Dio li abbia in gloria. Morti entrambi, signori e non, come livella comanda, nei cieli e in terra.
Questa era una scena a cui Luciana aveva pensato mille volte, lungo il suo tortuoso e faticoso percorso accademico. Certamente tra le cose che per desiderio di riscatto, per dare motivo d’orgoglio al padre, le avevano dato la forza di perseguire l’obiettivo della laurea con la stessa tenacia di un mastino che addenta un osso e non lo molla neanche a morire.
Ma “signore” o “signora” non avevano solo una connotazione negativa per Luciana impiegata, brizzolata, cicciottella, attempata. Se lei pensava alla parola “signore” le tornavano in mente certi film americani, quelli epici della storia della navigazione, dove “signore” tra gli ufficiali di marina veniva usato ad ogni fine frase con tanta dignità e sussiego, da sembrare l’appellativo di un essere superiore, ultraterreno, potenzialmente chiamato ad un atto d’eroismo che il film stesso grandiosamente celebrava, quando fosse diventato realtà. Qualcosa alla Horatio Hornblower per intenderci, nato dalla penna di Cecil Scott Forester, prototipo dell’uomo perfetto, eroico e tutto d’un pezzo. Da innamorarsene, se mai fosse esistito.
Ma lei, Luciana, ormai era signora da tantissimi anni, ad innamorarsi non ci pensava affatto, invece all’appellativo “signora” ci pensava eccome. Le tornava ad esempio in mente il fotografo del suo matrimonio, che la chiamava “signora” a ripetizione, col sorrisetto compiacente, spiegando che ormai doveva abituarsi. Era chiaramente un refrain tattico per lusingare la cliente.
Invece non fu così. Dopo il matrimonio Luciana continuarono a chiamarla “signorina” per tanti e tanti anni, fino a un momento imprecisato tra i quaranta e i quarantacinque. In un primo momento alcuni smisero di chiamarla “signorina” e passarono al “signora”, altri esitarono per qualche anno tra i due appellativi, infine, passato qualche anno ancora, tutti optarono decisamente per il “signora” in ogni circostanza. Apparve chiaro a Luciana che era diventata: brizzolata, cicciottella e attempata senza rimedio, nemmeno quello della tintura per capelli. Tutti la chiamavano “signora” perché aveva cambiato aspetto, da giovane donna in donna matura, non più giovanile, sbarazzina. Anche qui duro colpo all’autostima. Era proprio finito il tempo delle mele, cominciava quello delle rose avvizzite.
Luciana pensava che fosse un’ingiustizia che una donna dovesse essere chiamata “signorina” o “signora” a seconda del suo stato civile o peggio ancora del suo aspetto esteriore, un appellativo fortemente discriminatorio, giacché invece gli uomini in ogni caso, sposati e non, sono sempre “signore”.
La parola “signore” le faceva tornare in mente la sua collega Valeria, quando doveva chiamare un uomo del quale non conosceva il nome lo appellava con foce ferma “signore, senta signore, aspetti ha dimenticato …”. Quell’appellativo “signore” a voce alta, nel silenzio documentale, tra scrivanie e faldoni, aveva un suono, così estemporaneo, di rispetto e dignità d’altri tempi, che nessun altro avrebbe potuto altrettanto, se non Valeria. Ne sorrideva al ricordo, Luciana. E poi subito dopo si rattristava perché neanche Valeria c’era più. Anche lei aveva raggiunto il Signore. Quello in maiuscolo. Per sempre.
L’esperienza di Luciana, impiegata, brizzolata, cicciottella, attempata, in tema di “signore”, “signora” e titoli accademici nel mondo del lavoro non si fermava qui. Nessun altro come lei poteva sapere quante volte era stata chiamata “signora” mentre l’altra collega dei suoi dintorni era la dottoressa Colasanti o il giovanotto dell’altro corridoio era l’ingegnere Saporiti e il Direttore, dottor Cerami o Direttore, facoltativamente. Ora nessun altro poteva sapere quanto il suo titolo universitario Luciana l’avesse sudato palmo a palmo, per ogni lettera che compone la parola, esame per esame, senza aiuti esterni, interni o laterali, solo duro impegno personale. Era un mistero questa collocazione del ceto impiegatizio in impiegati di serie A e di serie B. Perché poi lei dovesse appartenere per forza al ramo B era incomprensibile. Dove fosse la falla, la carenza. L’usurpazione di cosa, quale mancanza avesse commesso per essere etichettata meno di quel che era, frustrantemente posta a confronto con altri, titolati immancabilmente, per chissà quale discesa celeste dell’investitura.
Un mistero che s’era infittito ulteriormente adesso che era diventata impiegata, brizzolata, cicciottella attempata e il più delle volte veniva chiamata Dottoressa. Finalmente anche lei sentiva pronunciare l’appellativo glorioso, conquistato palmo a palmo, per ogni lettera del titolo. Restava oscuro perché, a volte, di colpo, venisse appellata come “signora” nella bocca dei superiori alla prima proposta giudicata sbagliata o frase fuori posto, per un piccolo errore di lavoro o se si opponeva o non capiva al volo, se dava fastidio in ogni modo. Allora veniva subito sul campo immediatamente degradata al rango di “signora” come a dire: impiegatuccia incompetente o insolente. Chiaro come il sole invece che il dott. Colasanti era sempre dottore, e l’ingegnere restava ingegnere anche in mezzo alla sua inefficienza ed ai suoi macroscopici errori.
Poi non mancava il collega che parlando di quella della stanza accanto, per dire quanto fosse altezzosa o sgarbata o montata o per chissà quale altro torto nei suoi confronti, la definiva appunto la “signora”. Dando alla parola un evidente sottolineatura dispregiativa.
E per finire, ciliegina sulla torta, i famosi parenti serpenti di Luciana che la chiamavano “signora” per dire che si sentiva chissà cosa, si dava arie o importanza, che era superba o antipatica.
“L’avreste mai detto che “signora” potesse essere un modo per insultare una persona? Riflettete “signori” e “signore”. Al mondo non vi sono persone di serie A e di serie B. Solo uomini e donne. Aventi pari dignità sociale. E’ difficile questo concetto da imparare? Di sicuro la mia esperienza è che è difficile da mettere in pratica, in questa società ipocrita e graduata per fottutissimi ranghi sociali.”
Così pensava Luciana quel giorno che al lavoro si portò il fucile. Al primo “signora” che uscì dalla bocca al superiore lo inchiodò con un colpo in centro petto. “Ecco” pensò Luciana, impiegata, brizzolata, cicciottella, attempata e laureata. “Giustizia è fatta”.

Loredana Semantica

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