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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Idiomatiche

traduzioni

Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La gatta zoppa” di Vicente Riva Palacio

04 giovedì Mag 2023

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M E S S I C O 

LA GATTA ZOPPA

(1896 postumo)

Vicente Riva Palacio (1832-1886)

Traduzione di Emilio Capaccio

Politico, scrittore e militare, ritenuto uno dei più importanti fautori della novella storica. La sua opera, nondimeno, spazia attraverso una moltitudine di generi differenti: poesia, drammaturgia, racconti brevi,“folletines” satirici, saggistica. Fu diplomatico, membro del Congresso, governatore e guerrigliero durante l’invasione francese (1862-1867). È considerato una delle figure più emblematiche del XX secolo in Messico. La sua opera si contraddistingue per l’uso di un linguaggio semplice e preciso, con tratti umoristici e sarcastici. Il lavoro giornalistico, invece, spicca per essere assai critico e per dare una rappresentazione veritiera della situazione politica del suo paese, rimanendo fermo sulle sue posizioni liberali.

— Mi volete dire – disse Delfina — perché continuate a prendervi cura di quella povera gatta zoppa?

— È una storia – rispose sorridendo — che ora vi racconto, sebbene non sia né lunga né allegra.

Io e la Pepa la portammo da Siviglia; la compagnia teatrale che ci aveva condotti fin lì finì per litigare pochi giorni dopo. Avevamo un bel contratto, sette pesetas, spostamenti pagati e un guadagno libero per il coro delle signore. L’impresario era un uomo di grande impegno ma di poche risorse. Sarà stato circa tre anni fa. Era estate, speravamo di ricrearci un po’ e di approfittare dell’opportunità di visitare le province.

Avevamo portato un buon repertorio: da Getafe a Paraíso, La canzone della Lola, Los bandos de Villafrita, La Gran Vía, …e, di corsa, al mare. Ma come diceva, e diceva bene, l’impresario, la compagnia pone e il pubblico dispone. E perché la soprano non era bella ed era stonata, o perché quello con la barba tartagliava, o per la caratteristica bizzarra dell’occhio destro, o perché Dio solo lo sa, fatto è che la compagnia non andò bene a Siviglia, e già dalla prima rappresentazione il pubblico cominciò a prendersela con noi, con il pretesto che il tenore aveva fatto una gaffe andando avanti a cantare quando non toccava più a lui. Nelle prime esibizioni non c’erano pezzi che non suscitassero prese a pedate; in seguito non fu più così, perché, non essendoci rimasti più di tre duros nell’armadietto, non c’era neanche il pubblico pagante che se la prendesse con noi. Non si trovava altra soluzione: la compagnia non poteva pagarci e noi dovemmo accontentarci di ricevere un biglietto di terza classe sul treno diretto per Madrid. Con quello, e cinque duros che aveva la Pepa, più altri quattro che avevo risparmiato, arrivammo qui, prendemmo un alloggio e ci mettemmo a cercare una parte; macché! Visto che l’estate era inoltrata, tutti i teatri avevano più attori di quanto ce ne sarebbe stato bisogno: né al Felipe, né al Recoletos, né al Principe Alfonso, né al Tívoli, che era stato inaugurato in quei giorni, riuscimmo a trovare un posto, i nove duros finirono presto, e i bagagli scivolarono sul banco dei pegni, e le rogne abbondarono più frequentemente del copione di una commedia.

Ho trascurato di dirvi che, quando prendemmo l’alloggio, avevamo trovato quella gattina, magra e affamata, ma così affettuosa che, come disse la Pepa, avremmo dovuto tenere con noi perché Dio ci aiutasse, e la povera bestiola faceva proprio simpatia, perché mangiava il baccalà con le patate avanzato dal pranzo con lo stesso piacere con cui mandava giù le briciole sulla tovaglia della colazione. Potrei giurare, addirittura, che fu lei a mangiare il guanto di capretto della Pepa, che non riuscimmo più a trovare.

Ci alzavamo molto tardi, dopo mezzogiorno, e andavamo a letto molto presto per non dover fare più di un pasto al giorno; non avevamo soldi, ma il nostro buonumore non ci lasciava mai e tutto quello che capitava ci faceva ridere, perché prendere sul serio ogni cosa era come suicidarsi.

Una mattina scoprimmo che la situazione era più grave del solito, non avevamo più niente da impegnare e dovevamo mangiare. Pensando e ripensando, alla Pepa venne in mente di vendere la sedia che il vicino di casa ci aveva prestato perché avessimo un posto dove sederci. L’idea non era male e mi ripromisi di toglierci da quella situazione.

Per fortuna il vicino non c’era, faceva il macchinista del tranvia e non sarebbe ritornato che alla sera. Aprii la porta, assicurandomi che le scale fossero deserte; afferrai la sedia, corsi al piano di sotto e non mi fermai fino a quando non arrivai alla casa di un vecchio commerciante di mobili, che mi diede due pesetas. Immediatamente andai a comprare pane, vino, carbone e due braciole che mi ballavano in mano.

Con quale piacere mi accolse la Pepa. Misi la spesa sul braciere e penetrai nella sala per togliermi lo scialle e lavarmi le mani, raccontando alla Pepa le mie peripezie. Ma tutti i mali vengono dalla lingua; ci mettemmo a parlare come se non avessimo avuto fame, e quando tornammo in cucina…non c’è bisogno che vi racconti come mi sentii quando vidi la gatta mangiare l’ultimo pezzo di braciola.

Vi dico solo che fu tale il colpo che tirai alla povera gatta, che da allora si trascina zoppa.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La tristezza di Paolo” di Enrique Gómez Carrillo

20 giovedì Apr 2023

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G U A T E M A L A 

LA TRISTEZZA DI PAOLO

(1899)

Enrique Gómez Carrillo (1873-1927)

Traduzione di Emilio Capaccio

Critico letterario, scrittore, cronista e diplomatico. Conosciuto anche per la sua vita mondana, frenetica e avventuriera, e per i suoi matrimoni chiacchierati con le scrittrici Aurora Cáceres, Raquel Meller e Consuelo Suncín. Trascorse gran parte della sua vita a Parigi. Molti aneddoti si raccontano sulla sua vita, il più importante dei quali lo vede coinvolto nel tradimento della spia Mata Hari, catturata di rientro a Parigi, nella sua camera dell’albergo Elysée Palace, dalla polizia francese e giustiziata il 15 ottobre del 1917. La sua fama letteraria deriva soprattutto dal lavoro di cronista e corrispondente di guerra durante la Prima Guetta Mondiale, guadagnandosi l’appellativo di “Principe dei croinisti” e l’ammirazione di molti intellettuali europei, tra i quali: Leopoldo Alas, Maurice Maeterlinck, Jean Moreas, Vicente Blasco Ibáñez.

Stremato e triste, Paolo lasciò il salone in cui si ballava e andò a cercare una nicchia profumata sotto le immense palme del parco, dove le note dell’orchestra arrivavano raddolcite e deterse dalla calda atmosfera della notte.

— Qui – pensò sistemandosi su una panca rustica — le mie instancabili cugine non mi troveranno.

Il ragazzo aveva 18 anni. Era biondo come un paggio del rinascimento veneziano; grave come un abitante della leggendaria Tebaide; malinconico come una castellana di una fiaba medioevale. I suoi occhi dal taglio allungato, di velluto chiaro e indolenti, attiravano senza cercare di dominare. Le sue guance pallide e lisce, quasi cristalline, sembravano illuminate dall’interno da una luce rosata.

Era giovane e molto bello e per di più nobile e ricco.

Ma non era felice.

Mosso da straordinarie fantasticherie, era arrivato a perdere la nozione di vita reale e soffriva la monotona volgarità di possibili piaceri, come gli altri soffrono i dolori materiali.

Si chiamava Paolo del Monte.

Le sue cugine lo chiamavano “Il selvaggio” per via del suo carattere restio e per tirarlo su di morale lo obbligavano ad accompagnarle ai festini nei palazzi degli amici.

— Ti portiamo a civilizzarti – mormoravano sorridendo.

In realtà, lo portavano per ballare con lui, per stringerlo nelle loro braccia sensuali e stordirlo con il profumo dei loro seni scollati, e anche sfiorarlo furtivamente, qualche volta, con la bocca, nel vortice propizio della danza.

La cugina più grande, in particolare, sembrava avere un interesse speciale nel far vibrare la carne statuaria del ragazzo. Quando ballava lo afferrava freneticamente e spesso cercava di immobilizzarlo in un abbraccio, accanto a un muro discreto, nel buio dei corridoi, appannandogli il viso con il soffio di fuoco della sua bocca socchiusa e palpitante.

— Penso che tu sia innamorata di me — le diceva lui ironicamente in quei momenti.

E lei, i cui occhi aveva improvvisamente serrati con profonde occhiate bluastre, non poteva rispondere che per mezzo di scuse incoerenti e balbettanti, fatte di suoni più che di parole, intervallate da rapidi sospiri, vezzeggiativi incomprensibili, gemiti ansimanti.

Quella notte sua cugina non era riuscita a condurlo in un luogo appartato.

— Qui non mi troverà – mormorò Paolo, accarezzando meccanicamente i petali flosci e freddi di un’iride gigantesca. — Qui non mi troverà.

Il suo sguardo si perdeva nell’infinito dell’orizzonte, alla ricerca della torre che un leggero e lontano suono di campana faceva percepire, oltre i confini del parco, nelle profondità della grande città sonnolenta.

Il cielo, di una tonalità quasi verde, un misto di intenso chiaro di luna e azzurro glauco, il cielo basso e pesante di quella notte d’estate, somigliava a una pianura aurorale popolata di nubi dalle forme voluttuose, tonde e bianche come ninfe discinte. Tutto, sotto le palme, respirava un’ardente mollizia. La stella che dà consigli amorosi luceva ancora solitaria e augusta nel firmamento.

Paolo pensò ad un altro cielo meno bello ma più amato, visto qualche anno prima dal giardino del collegio, nel momento in cui la campanella del dormitorio gli faceva alzare gli occhi a contemplare, per l’ultima volta nella giornata, qualcosa di libero, lontano e splendido, come le nuvole stesse, e le stelle.

— Il collegio!… L’alcova comune!… L’orrore dei letti vicini!

Paolo ricordava tristemente le sue notti di insonnia solitaria, ormai lontane. Improvvisamente, come spinto da una molla, ritrasse la mano che aveva accarezzato il fiore e cominciò a pulirla nervosamente con il fazzoletto. Gli sembrava che la carne del fiore si fosse tramutata in carne umana, marcita, gelata, quasi morta… E un’infinita ripugnanza per la materia molle dei corpi invecchiati gli ispirava idee di castità.

— Cugino! – si sentì chiamare.
Un passo leggero calpestava la sabbia finissima dei sentieri. Tra le fronde di palma scivolava un’ombra biancastra, curvandosi su ogni panca, scrutando nella boscaglia, ondulandosi leggermente con movenze feline.
— Cuginetto! – L’ombra si fermò ai piedi di un’acacia in fiore, sotto un arco di lanterne giapponesi. Immobile. Paolo la esaminò incuriosito.
Alla luce delle lanterne rosate, il suo petto nudo si tingeva di un soave carminio che accentuava le mirabili curve dei suoi seni. I capelli neri brillavano come un casco d’oro rossastro. I grandi occhi scuri brillavano, nel biancore del viso, come due scintille fisse. La linea del corpo, così perfetta.
— È una tentazione — si disse mentalmente Paolo. Poi si rivolse a lei:
— Cugina!
La chiamò senza sapere perché, senza rendersi conto che la stava chiamando, senza pensarci, senza volerlo e senza sentirlo.
La chiamò nonostante il desiderio di non vederla, di non farsi accarezzare da lei, di fuggire da tutto quello che potesse macchiare la sua anima.
La chiamò e non capì di aver sbagliato a chiamarla finché lei non fu al suo fianco.
— Cugina!…
Seduto sullo stesso scanno accogliente, sotto le palme coprenti, nello sfondo silenzioso del parco, i due cugini si guardavano sorridendo.
Lui, con bontà quasi ironica, tra rassegnato e contento, in attesa.
Lei, con labbra tirate e palpitanti.
— Sai a cosa stavo pensando? – disse Paolo.
— Se non era a me, preferisco non saperlo.
— Ero a me stesso.
Aveva appena finito di pronunciare quella frase inopportuna, quando già la cugina prendeva la sua testa tra le braccia e gli mordeva le labbra con superbia rabbia amorosa, in un bacio che era allo stesso tempo una ferita.
Le foglie sparse cantarono la loro canzone epitalamica, scricchiolando ritmicamente, con allegrie pagane e con giovani malizie, come duemila anni prima nell’Arcadia, quando le ninfe e i satiri facevano dei boschi sacri un vasto letto di amori.
Un’ora dopo, seduti entrambi su un sofà del salone, apparivano gravi e silenziosi, senza osare parlare, né avere voglia di sorridere.
E mentre nell’anima di lei tutto era luce, gioia e apoteosi, nell’anima di lui, era caligine e grigiore.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Attraverso la serratura” di Josefina Peñate y Hernández

23 giovedì Mar 2023

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E L  S A L V A D O R

ATTRAVERSO LA SERRATURA

(1930)

 (1901-1935)

 

Può essere considerata come la prima scrittrice di racconti nel suo paese. È stata anche poetessa e giornalista, allieva di Victoria Magaña de Fortín, prima scrittrice femminista e attivista dei diritti delle donne a El Salvador. Pubblicò in breve tempo, dal 1928 al 1930, tre volumi: “Esbozos”, raccolta di saggi e riflessioni; “Surtidores”, miscellanea di aforismi, prosa e poesia; “Caja de Pandora”, raccolta di racconti. Le tematiche trattate fanno ritenere l’autrice come una delle pioniere del femminismo sudamericano. Nei suoi racconti spesso l’ambiente familiare si trasforma in uno spazio di conflittualità in cui l’uomo opprime la donna attraverso la violenza domestica e una continua emarginazione da tutte le attività sociali, considerate tipicamente maschili per l’epoca.

 

Lesbia era giunta a trovare impiego in quella scuola. Perché? Solamente per capriccio. Non per urgente necessità. Era un’anima sensibile e fine. Brillantemente colta, capace di percepire anche le più vaghe sensazioni e di imprimerle nelle sue pagine predilette. Militava nella legione degli scrittori; non propriamente legione, perché gli scrittori votati a quest’arte si contano sulle dite della mano. Ma quella era la sua bandiera: la suprema idealità della bellezza conquistata dalla parola.

In breve tempo, giunse sotto la lente di quel crocchio di donnicciole volgari della scuola che la esaminavano dalla testa ai piedi e bisbigliavano alle sue spalle. “Pedante, altezzosa.” Ma Lesbia non era né pedante né altezzosa, aveva semplicemente un merito concreto e un valore intrinseco, e questa circostanza mandava le altre fuori dai gangheri. Inoltre, con il suo carattere schivo e ombroso, si teneva sempre a rispettosa distanza, cosa che quelle non gradivano. A questi spiriti gretti che si ritrovavano, scambiandosi sciocchezze e battute volgari, sembrava riprovevole il riserbo altero e dignitoso di Lesbia.

“Chi sei, veramente?” le sussurrava una voce interiore, come per metterla in guardia dalle maldicenze nella scuola. Lesbia si rispondeva: “Chi sono? Una che è molto al di sopra delle loro sciocchezze e delle loro volgarità. Uno spirito che non arriveranno mai a comprendere”.

Taceva, consapevole e fiera, già più volte ferita nel suo amor proprio e nella sua delicatezza.

Un pomeriggio quando andò, come di consueto, per consultare l’orologio, prima di iniziare il suo lavoro, era anche fumettista e caricaturista, si ritrovò con lo stupido mucchietto di carne umana, come sempre, a dire sciocchezze. Salutò educatamente e cercò con lo sguardo l’orologio. Una di loro, forse d’accordo con le altre, le disse:

— Lesbia, di voi dicono che scrivete anche, e che i vostri scritti siano molto belli. Mi piacerebbe leggere un racconto che mi hanno riferito s’intitola: “Attraverso la serratura”, che si deve alla vostra penna magistrale.

Lesbia si pose davanti a quella figura, negli occhi spuntò lo sguardo scrutatore delle sue nere pupille. Dietro il desiderio goffamente espresso si nascondeva un intento malvagio. Lesbia era come un punto luce attorno al quale si raccoglievano tutte le sue compagne, tutti gli artisti. Questo, in luoghi piccoli e calunniosi, suscita pettegolezzi, soprattutto quando la persona che si giudica ha talento e qualità tali da poter essere intaccata dalle coscienze altrui. Ma Lesbia sapeva anche essere perfettamente accattivante. Sapeva farsi lusingare senza mutare di una virgola la sua dignità. Era cresciuta in fretta nei circoli artistici e intellettuali della sua terra natale e la sua casa era sempre apparsa come un cenacolo dove tutti gli iniziati si radunavano per scambiarsi le proprie idee. Lesbia aveva la dote di saper vivere.

Ma quelle anime zuppe di fango cercavano di umiliarla, senza ricordare a loro stesse che tutti noi abbiamo minuscoli recessi nella nostra coscienza che sono molto poco illuminati. Perché se non fosse così, saremmo creature perfette, e dov’è la perfezione? Lesbia con spigliatezza rispose:

— Dite bene, Eleonora. Ho un bel racconto intitolato “Attraverso la serratura”. Non so se vi piacerà. Avevo il ritaglio del giornale da qualche parte ma l’ho perso. Tuttavia, poiché non voglio che rimaniate con il desiderio di conoscerlo, ve lo narrerò a grandi linee.

Così Lesbia iniziò a raccontare una piccola storiella sulla vita intima di Eleonora.

“Lei era una giovane carina e attraente che aveva viaggiato un po’ e per questo credeva di avere illuminazione e finezza, cosa molto difficile. Ebbene, la finezza si eredita, viene dall’anima e dai sentimenti, e l’illuminazione si ottiene quando si ha uno spirito esplorativo assetato di sapere, e quando si viaggia con la mente in talune circostanze. Ma Ifigenia, che è la protagonista della mia storia, non aveva viaggiato in tal modo: aveva semplicemente svolto mansioni gravose, umilianti, futili. Meglio, non aveva perpetrato i costumi generosi della sua gente, ma aveva messo in pratica solo quelli volgari e insignificanti, che si racchiudono nel lusso sfrenato, e imparato a parlare male di tutte le persone a portata di mano, raccontando menzogne e giudicando sempre sotto il prisma dell’invidia e della grettezza morale. Ebbene, senza imparare nulla di buono tornò per necessità in seno alla campagna. Cercò di farsi impiegare come addetta a un banco di rivendita senza riuscirci, fintantoché non la posero a lavorare in una officina dove trascorreva i suoi giorni senza allegria, occupandosi del carico che i carrettieri portavano alle stazioni e ascoltando la loro linguaccia da taverna. Con il cuore spezzato per i pochi spiccioli della paga e per l’umiliazione data dalla sua mansione, decise di cambiare ambiente ed entrò in una scuola superiore per ragazzi. Lì conobbe Edgardo, un maestro piccoletto e nero come una nocciola, ma molto intelligente e buono. Invaghirsi perdutamente l’uno dell’altra alla velocità della luce, fu un tutt’uno. I giorni passavano rapidi come fulmini e lei, ardente di febbre d’amore, aveva nella mente solo il pensiero di farsi sposare. Edgardo, però, non pareva mostrare la stessa determinazione. Un pomeriggio… (arriva la parte interessante) … si diedero appuntamento nei bagni della scuola. Il posto sembrava appropriato, era discreto, buio e chiuso a chiave. Lì si abbandonarono a una passione disperata e orribile. Lui, approfittando del momento e spinto dalle circostanze, aveva sollevato il vestito di raso e cominciava a toccarle il corpo, che tremava di passione. Lei gemeva, desiderando chissà quante altre cose. Naturalmente avevano dimenticato il rispetto che merita un luogo sacro come la scuola e il rispetto umano. Chissà fino a che punto si sarebbero spinti se non fosse stato per due occhi maliziosi e indagatori, che sembravano quelli di un felino, e che, premuti sul buco della serratura, si rallegravano dello spettacolo. Erano quelli di un vecchio insegnante, una vera canaglia, a cui piaceva per giunta impicciarsi dei fatti degli altri, e che, prevedendo l’imminenza di un fatto spiacevole per lui, come direttore, non aveva saputo trattenere un gemito. Edgardo, al sentire il rumore, era impallidito di paura, aveva allontanato l’invasata che era tornata in sé e stava per urtare contro uno dei pilastri della sala da bagno. Quanto avrebbe goduto ancora il vecchio insegnante, vera canaglia, vedendo quelle cosce bianche e chissà cos’altro! Ebbene, in seguito Ifigenia continuò a lavorare e a fingere una serietà senza limite e a giudicare male tutte le donne civettuole e allegre che ardivano esibire le loro cosce marmoree a un uomo che voleva solo divertirsi con loro, come con una bambola di alabastro.”

— Vi è piaciuto il racconto, Eleonora? – Disse Lesbia dolcemente, fissandola negli occhi.

Eleonora si morse le labbra, dissimulando l’imbarazzo, e dicendo:

— Lesbia, avete inventiva e immaginazione. Niente di più bello del racconto della maestra avventuriera. Ma per essere della combriccola voi avreste dovuto tacerlo. Sarà che non è finzione?

Lesbia salutò nuovamente e voltò le spalle ridendo dentro di sé per l’imbarazzo cagionato. Poi rifletté: se noi donne ci odiamo, se non troviamo in noi nulla di buono né di morale, come possiamo sperare di difenderci dagli attacchi degli uomini? Dov’è quel blocco che dovremmo formare per difenderci dall’ingiustizia? Ma se anche così fosse, lo sforzo di noi, donne consapevoli, deve tendere a ottenere la redenzione dopo la morte, a incanalare i passi di quelle donnette senza senno e odiose sul cammino di una bella solidarietà, di un sano e onesto cameratismo. Oggi, non è ancora tempo, ma arriverà. Le nostre mani, a caso, devono gettare nel solco il seme di un nuovo vangelo che parli di comprensione, amore, generosità, perdono. Io amo tutte loro nonostante tutto. Come il Battista nel Giordano delle liberazioni, dobbiamo innalzare l’acqua lustrale di tutti gli ideali di redenzione, sotto la gloria di cieli luminosi e all’ombra dei limoni in fiore.

Questo diceva tra sé, mentre lo sguardo penetrante dei suoi occhi neri si perdeva in lontananza, sui dorsi bui della montagna, dove i petali di un gigantesco crisantemo sanguinante, che orlava il vaso enorme del firmamento, si dissolvevano lentamente. E anche l’orologio lentamente dava i suoi rintocchi.

Con un profondo sospiro, Lesbia disse:

— È ancora presto. Manca ancora tutta la notte per il nuovo giorno, ma quando esso arriverà splendente con la sua faretra di raggi di luce, i miei giardini pensili dello spirito si troveranno copiosi di rose accese e di pallidi gigli di bene e di verità.

Il cielo sembrava di cobalto.

 

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Gli artigli della tigre” di Froylán Turcios

09 giovedì Mar 2023

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H O N D U R A S

GLI ARTIGLI DELLA TIGRE

(1930)

Froylán Turcios (1875 – 1943)

Traduzione di Emilio Capaccio

Già all’età di dodici anni cominciò a pubblicare versi in varie riviste locali, ma negli anni successivi fu nel racconto che diede i suoi migliori risultati, potendosi considerare come il vero e proprio iniziatore di tale genere nel suo paese. I racconti di Turcios si caratterizzano per la perizia della trama, per il finale molte volte inatteso e spiazzante, e per lo stile asciutto e preciso con chiari rimandi al decadentismo italiano di Gabriele D’Annunzio. Di rilievo fu anche la sua attività di redattore di varie riviste letterarie, oltreché la sua carriera di diplomatico: fu ministro dell’Interno, deputato al Congresso Nazionale e delegato honduregno davanti alla Società delle Nazioni, a Ginevra.

I

Nella casa di montagna risuonarono terribili pianti dentro la cupa notte di giugno. L’allegra Juanita, di appena undici anni, era stata vittima della bestiale lussuria del bandito José Garmendia, chiamato El tigre, che scorrazzava per pianure e paraggi montuosi, marcando la sua orma con ogni tipo di infamia.

La povera creatura era stata aggredita dal feroce criminale a cento metri dalla casa, sul sentiero per Ojo de Agua (1). Era stata sua madre e le sue sorelle ad accorrere alle grida acute della bambina, dal momento che gli uomini non erano ancora tornati dalle piantagioni di tabacco nella fertile pianura. Si attardavano, quella sera. Il selvaggio, dopo la vile soddisfazione del suo desiderio, era fuggito in fretta tra gli alberi. Juanita giaceva immobile sul sentiero, i suoi vestiti strappati, seminuda e coperta di sangue. Il bandito, nell’esasperazione della sua animalità, e accecato dalla resistenza della fanciulla, l’aveva picchiata orribilmente. Le dita ruvide si erano impresse nel candore del collo infantile e dalle tempie pallide stonavano rivoli di porpora. Juanita riuscì appena a pronunciare il nome del suo carnefice e spirò qualche ora dopo.

II

Passarono diverse settimane. Gli ispettori di polizia tremavano alla prospettiva di poter incontrare José Garmendia e nessuno osava inseguirlo. Era un temibile malfattore, forte come un toro, agile come il felino di cui portava il nome, e crudele come mai nessuno, considerando il terrore che aveva gettato, negli ultimi tempi al proseguimento dei suoi audaci oltraggi. Si diceva che avesse recentemente attraversato il confine nicaraguense, dopo aver ucciso e derubato due cinesi nella Cuesta de Azacualpa.

III

Juan Diego, il più giovane dei fratelli di Juanita e colui al quale la bambina era stata più affezionata, aveva mutato il suo carattere dalla sera dell’orrendo crimine. Aveva perso il suo solito buonumore e la volontà per il lavoro. Immerso in un tenace silenzio, trascorreva giornate intere disteso sulla sua robusta amaca di corda o vagando per i monti. Rispondeva con amarezza alle domande che gli venivano poste e, sopraffatto da un dolore nero, si dimenticava persino della sua innamorata, la ragazza più bella del villaggio vicino. Spesso dormiva all’aperto. Si gettava nella frescura delle valli e l’alba lo sorprendeva a guardare il pallore delle stelle. Era un giovanotto bruno, energico e muscoloso, dal viso altezzoso e dallo sguardo profondo. Una mattina di fine settembre scomparve dalla montagna. Nessuno seppe più niente. Suo padre e i suoi tre fratelli lo cercarono ovunque e dopo inutili ricerche lo credettero morto.

IV

Una notte all’abbaiare violento dei cani tutti si svegliarono. La famiglia si alzò sentendo che qualcuno stava aprendo l’uscio nel patio. Mentre essi aprirono la porta, Juan Diego apparve sulla soglia. Immediatamente lo circondarono e lo accolsero con esclamazioni di gioia. Sembrava più alto e barbuto, e i suoi occhi neri brillavano.

— Padre! – esclamò — Ecco a voi gli artigli feroci della tigre, che ho lasciato appeso a una quercia nella valle di Jamastran. E trasse dalla borsa di pelle, che gli pendeva dalle spalle, due oggetti orribili e nauseanti, due mani gonfie e mostruose, villose e nere, bagnate di fango e di sangue.

_______

(1) Comune del dipartimento Comayagua, in Honduras.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Morbo et umbra” di Rubén Darío

16 giovedì Feb 2023

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N I C A R A G U A

MORBO ET UMBRA

(1888)

Rubén Darío (1867-1916)

Traduzione di Emilio Capaccio

Poeta, narratore, giornalista e diplomatico, è considerato il massimo esponente della cultura del suo paese. L’opera “Azul”, pubblicata nel 1888, un misto di poesia e di prosa, da cui è tratto il racconto proposto, viene unanimemente considerata l’atto di nascita della corrente letteraria del modernismo che gradualmente sostituirà gli schemi metrici rigidi ereditati dalla tradizione castigliana e dal romanticismo, con cadenze di una più accentuata musicalità, introducendo il verso libero, anche se non sarà abbandonata del tutto la rima, e ampliando il patrimonio linguistico, introducendo soggetti lirici e lemmi derivanti da una equilibrata fusione tra avanguardia europea e parnassianesimo francese. Collabora con i più grandi poeti e letterati dell’America Latina e con le riviste e i quotidiani più prestigiosi. Viaggia in quasi tutti i paesi del Sudamerica. In Argentina, collabora con la “La Nación” che nel 1898 lo assume come corrispondente e lo invia in Spagna. Successivamente è chiamato a rivestire la carica di console del Nicaragua a Parigi. In questi anni conosce grandi poeti e intellettuali del suo tempo, come: Miguel de Unamuno, Juan Ramón Jiménez, Ramón María del Valle-Inclán, Antonio Machado. Oggi, in virtù della sua eredità letteraria, è universalmente considerato cittadino di tutta l’America Latina.

Un burlone vendeva bare nel magazzino all’angolo della strada. Ai clienti era solito fare battute di spirito che lo avevano reso popolare tra i commercianti di pompe funebri.

La rosolia [1] devastò in una quindicina di giorni un intero mondo di bambini in città. Fu terribile, come immaginare che la morte, dura e crudele, passi per focolai domestici strappando fiori.

Quel giorno la pioggia minacciava di cadere. Nubi plumbee si ammassavano nell’enorme forma di più vasti nembi tenebrosi. L’aria umida soffiava dannosa, portando tosse ovunque, e i colli della gente ricca e pulita erano avvolti da foulard di seta o di lana.

Il diavolo, invece, ha sempre un polmone grande e sano. Si interessa poco che una folata gelida possa colpirlo o che il cielo, con le sue grandini, prenda a sassate quelle spalle nude e cotte dal sole dell’estate. Spossato e indomito. Il suo busto è come roccia per il morso della brezza gelata, la sua zucca grossolana ha due occhi sempre aperti superbamente sul caso, e un naso che aspira miasma come vento marino che sa di sale e fortifica il petto.
Dove andava la vecchia Nicasia?

Eccola passare con la fronte bassa, avvolta nel suo manto nero di merino grezzo. Inciampava a volte e quasi cadeva, se ne andava leggera, quasi impalpabile.

Dove andava la vecchia Nicasia?

Camminava senza salutare i conoscenti che la vedevano passare, e sembrava che il suo mento raggrinzito, la sola cosa che si percepisse nel nero del mantello, tremasse.

Entrò nello spaccio dove faceva di solito la spesa e ne uscì con un pacchetto di candele nella mano, annodando la punta di un fazzoletto in cui aveva riposto il resto.

Giunse davanti all’ingresso del magazzino delle pompe funebri. Il tipo allegro la salutò con una facezia.

Allora, come se gli avessero detto una parola dolorosa, di quelle che arrivano profondamente a commuovere l’anima, sciolse il pianto e varcò la porta.

Il tipo allegro, con le mani dietro la schiena, camminava davanti a lei.

La donna finalmente riuscì a parlare. Gli spiegò che cosa era venuta a fare.

Il bambino, il figlio di sua figlia, si era ammalato pochi giorni prima di una febbre atroce.

Due levatrici aveva prescritto dei rimedi, ma senza alcun effetto. L’angioletto si era aggravato ora dopo ora, e quella mattina aveva esalato tra le braccia l’ultimo respiro.

Che dolore!

— Signor impresario, l’ultima cosa che vorrei fare per il mio nipotino è comprargli una bara come quelle; non tanto costosa; deve essere foderata di blu, con nastri rosa. Voglio anche un mazzo di fiori. Pagherò in contanti. Qui ci sono i soldi. Volete vedere?

Le lacrime si erano asciugate, e come presa da un’improvvisa risolutezza, si era diretta a scegliere la piccola bara. Il locale era stretto e lungo, come una grande tomba. C’erano qui e là, casse di tutte le dimensioni, rivestite in nero o in altri colori, da quelle con lastre argentate, per i fedeli ricchi del quartiere, a quelle più semplici e dozzinali, per i poveri.

L’anziana cercava, tra tutto quel triste raggruppamento di feretri, uno che fosse degno dell’amato corpicino del nipote che giaceva a casa, cereo e senza vita, adagiato su un tavolo con la testa circondata da rose e con il suo vestitino più bello, quello con un ricamo grezzo, ma vistoso, di uccelli viola che portavano nel becco una ghirlanda rossa.

Trovò una bara che le piaceva.

— Quanto viene a costare?

Il tipo allegro camminando sempre con la sua risata incantata:

— Sette pesos. Andiamo, non siate avara, nonnina.

— Sette pesos? … No, no, no, è impossibile. Ne ho cinque.

Cominciò a slegare la punta del fazzoletto, dove risuonavano con ingannevole tintinnio le poche chauche [2].

— Cinque, è fuori discussione, signora. Due pesos in più ed è vostra. Volevate bene a vostro nipote! Lo conoscevo. Era attivo, vivace, indiavolato. Non era il biondino?

— Sì, era il biondino, signor impresario. Era il biondino, e voi state spezzando il cuore a questa vecchia, rinsecchita e addolorata.

Era quello attivo, quello birbante, che lei adorava così tanto, che coccolava, che lavava e al quale cantava, facendolo saltellare sulle sue ginocchia, vecchie cantilene, melopee monotone che fanno addormentare i bambini.

— Era il biondino, signor impresario. Sei pesos…

— Sette, nonna.

— E sia!

Gli diede i cinque pesos che aveva portato con sé. In seguito avrebbe pagato il resto. Era una donna onorata. Anche se fosse stato necessario non mangiare, avrebbe saldato il suo debito. L’impresario la conosceva bene, perciò si portò via la bara.

A passi rapidi andava la vecchia con la cassa attaccata al fianco, sopraffatta, con il respiro pesante, il mantello stropicciato, la testa canuta al vento gelido. Così arrivò a casa. Tutti dissero che la bara era molto bella. La guardarono, la esaminarono, mentre l’anziana se ne andò a baciare il piccolo corpicino, rigido sui suoi fiori, con i capelli arruffati da una parte, e dall’altra incollati alla fronte, con un vago ed enigmatico rictus sulle labbra, come qualcosa della misteriosa eternità.

Non voleva vegliarlo. Avrebbe voluto il suo nipotino, ma non così, no, no, era meglio che lo portassero via, al più presto!

Camminava da un posto all’altro. La gente del vicinato che era venuta a far visita, parlottava sottovoce. La madre del bambino, con la testa avvolta in una pezzuola azzurra, faceva il caffè in cucina.

Intanto la pioggia cadeva a poco a poco, cernita, fine, molesta. L’aria entrava da porte e fessure e faceva smuovere il tessuto bianco del tavolo sul quale giaceva il bambino; i fiori tremavano a ogni folata.

La sepoltura doveva avvenire quella sera, e la sera già cadeva. O tristezza! Sera d’inverno, nebbiosa, bagnata, malinconica, quelle sere in cui i mendicanti distesi per terra si coprono i torsi giganteschi con quei cenci ruvidi e rigati, e le vecchie succhiano il mate dalla cannuccia, sorseggiando la bevanda cocente che gorgoglia insieme ai borborigmi.

Nella casa vicina cantavano con voce stridula un’aria di zamacuca [3]; accanto al piccolo cadavere, un cane scuoteva le orecchie per le mosche, chiudendo gli occhi pacificamente e il rumore dell’acqua che cadeva a getti sparsi e modulati, dalle tegole al suolo, si confondeva con un leggero schiocco di labbra della nonna, che parlava tra sé singhiozzando.

Dietro le nubi della sera opaca stava morendo il sole. Si approssimava l’ora della sepoltura.
Una carrozza veniva sotto la pioggia, una carrozza quasi inservibile, trainata da due cavalli barcollanti, pelle e ossa. Arrancando nel fango della strada, giunse alla porta della casa del morticino.

— È ora? – chiese la nonna.

Lei stessa andò a deporre il bambino nella piccola bara; prima sistemò un materassino bianco di stracci, come se volesse assicurarsi che stesse a suo agio e volesse dargli conforto nella nera tenebra della sepoltura. Dopo adagiò il corpo e per ultimo i fiori, in mezzo ai quali si intravedeva il volto del bambino, come una grande rosa pallida e svanita. Si chiuse la bara.

Signor impresario, il birbante, il biondino, sta andando al camposanto. Sette pesos è costato la bara; cinque pesos sono stati pagati: signor impresario, anche se dovrà digiunare, la vecchia nonna, pagherà i pesos che mancano!

La pioggia incalzava, dalla vernice del vecchio e scorticato veicolo cadeva in gocce nel fango denso, e i cavalli con i fianchi bagnati sbuffavano dalle narici e facevano suonare i morsi tra i denti.

In casa, la gente finiva di bere il caffè.

Tac, tac, tac, risuonò il martello mentre piantava i chiodi sul coperchio. Povera vecchia!

Solo la madre doveva andare al cimitero a deporre il morticino; la nonna le preparava il mantello.

— Quando lo caleranno nel fosso, da’ un bacio alla bara da parte mia.

Si incamminarono dopo aver sistemata la bara nella carrozza e dopo che vi fu salita anche la madre.

Sempre più forte infuriava la pioggia. Schioccò la sferza e si mossero i cavalli, trainando per strada il loro catafalco.

La vecchia, allora, rimasta sola, sporse la testa da una apertura nel muro sbrecciato e vedendo perdersi in lontananza la carrozza malconcia, che traballava di buca in buca, quasi formidabilmente nella sua profonda tristezza, tese al cielo oscuro le braccia sottili e raggrinzite, e serrando i pugni, con un gesto terribile, esclamò a voce alta, tra gemito e imprecazione:

— Potrei parlare con qualcuna di voi, o Morte, o Provvidenza? …Farabutte! Farabutte!

__________________

[1]  Il virus della rosolia fu isolato per la prima volta dal dott. Paul Douglas Parkman (1932-vivente). I primi vaccini furono autorizzati negli Stati Uniti, a partire dal 1969.

[2] Monete da 20 centavos che equivalgono a 1/5 di peso.

[3]  Danza di corteggiamento molto allegra, di origine cilena, ma diffusa in tutta l’America Latina.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Per giustizia il tempo” di Manuel González Zeledón

02 giovedì Feb 2023

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C O S T A  R I C A

PER GIUSTIZIA IL TEMPO

(1913)

Manuel González Zeledón (1864-1936)

Traduzione di Emilio Capaccio

Conosciuto come “Magón”, fu scrittore, politico, educatore e grande promotore della cultura del suo paese, tale da essere considerato il creatore dell’immagine nazionale del Costa Rica. La sua opera si caratterizza per una narrazione in stile costumbrista, in cui emergono quadri di vita campesina e ambientazioni rurali, raccontati con una pungente ironia, lepidezza e arguzia che non sfocia mai nella beffa o nella derisione. I suoi racconti costumbristi furono pubblicati su vari giornali e riviste. Per volontà dell’autore, tali racconti furono raccolti e pubblicati nel 1913, con il titolo: “La propia y otros tipos y escenas costarricenses”. Nel 1920, fu pubblicata una seconda edizione con l’aggiunta di altri testi. Tuttavia, l’edizione più accurata e completa si ebbe postuma, nel 1968, quando fu pubblicata “Cuentos de Magón”, che può essere considerata la raccolta definitiva.

I

Era la vigilia di Natale del 1872 e se fosse stata quella dell’anno scorso, i miei ricordi non avrebbero potuto essere più chiari. Continua a leggere →

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Ipnotismo” di Darío Herrera

19 giovedì Gen 2023

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P A N A M A

IPNOTISMO

(1903)

Darío Herrera (1870-1914)

Traduzione di Emilio Capaccio

Uno degli scrittori modernisti più rappresentativi del suo paese. Studiò con grandi sacrifici e privazioni da autodidatta. Fu diplomatico e collaborò con le più importanti riviste letterarie del Sudamerica. La sua opera narrativa, benché facente parte prevalentemente della corrente modernista, risente degli influssi di autori come: Leconte de Lisle, Stéphane Mallarmé, Paul Verlaine, e in generale dei parnassiani francesi. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta: “Horas lejanas y otros cuentos”. La raccolta fu pubblicata nel 1903 in Argentina ed è considerata la sua opera più importante, oltreché la prima raccolta di racconti della letteratura panamense.

Dopo cena, alla vigilia del nostro arrivo a Valparaíso, il dottor Fowland ed io penetrammo nella cabina fumatori. Era deserta. Sin dalla partenza da Coquimbo il mare si era mostrato furioso e i passeggeri, per la maggior parte, non riuscendo a sopportare le forti ondate, si erano rintanati nelle loro cabine. Il cielo era nero, il vento gemeva e sfzava aspramente il tendone da sole sul ponte, la nave danzava con violenza sulle onde e sulle sue fiancate risuonava il fragore incessante della schiuma. Tuttavia, non c’era pericolo, solo il malessere fisico per chi non era avvezzo.

Quella sera il dottor Fowland era straordinariamente nervoso e per la prima volta si coglieva sul suo viso, sempre impenetrabile, la parvenza di un qualche stato d’animo. Era alto, pieno di vigore nella sua asciuttezza, cereo, quasi esangue. Sarebbe stata una fisionomia impassibile, inespressiva, senza quei suoi occhi di un verde giallastro, grandi, profondi e di una luminosità quasi insopportabile, come se contenessero al suo interno un potente riflettore. In verità, producevano uno strano contrasto su quel viso incolore e freddo come il marmo. Di professione faceva il medico e negli Stati Uniti era considerato un’eminenza scientifica. Aveva viaggiato senza meta, a suo capriccio e il suo ritiro ermetico, nei venti giorni di navigazione, era stato infranto solo con me, chissà a causa, forse, di una delle stranezze del suo carattere, ovverosia di simpatie e antipatie istantanee.

— Domani – esclamò — ci salutiamo per seguire strade diverse; poi, sarà come se non ci fossimo mai incontrati. Le amicizie che si fanno durante i viaggi per mare o per terra hanno questo vantaggio: non impongono nulla. Avvicinano due estranei, uniscono i loro animi per qualche giorno, e dopo li separano senza lasciare alcun germe che possa comportare in seguito un ricominciare importuno. Continuerete la vostra marcia, con le inquietanti paure di un futuro ignoto e con la nostalgia ancora fresca degli affetti recentemente perduti. Io non porto neppure quelle paure e quelle invidiabili nostalgie nel mio incerto pellegrinaggio, giacché sono emozioni, emozioni profonde, e io non ho più una sola aspirazione, nemmeno quella del benessere materiale, perché la mia fortuna è maggiore dei miei bisogni. Viaggio per vedere scorrere continuamente le visioni del mondo, che è una distrazione per i miei occhi. Se questo alla fine mi annoierà, mi stabilirò in un luogo qualsiasi con la stessa indifferenza con cui vago ora da un clima all’altro.

Si fermò per mandare giù un sorso di whisky. Poi, continuò a dire:

— Mi avete raccontato qualcosa del vostro passato ed è giusto che faccia lo stesso. Sembrerà che io, moribondo, lo racconti a un altro moribondo. Perché la separazione dei due, alla fine di un viaggio, con la certezza di non rivedersi più, è come salutarsi eternamente dalle proprie tombe. Questa è per me il principale interesse del viaggiare: accompagnare continuamente amici defunti al cimitero, e la tristezza che risiede in questo è una scossa benefica per chi, come me, porta nello spirito una costante quietudine raggelata. Non ritrovarsi più nella vita è morire, e in questa morte fittizia c’è tanta verità e oblio quanto in quella reale. D’altro canto, sono passati molti anni da quegli eventi e voglio commemorarli rivelandoli a voi.

Parlava con la sua voce solita, con lentezza e con toni sordi; ma era diventato ancora più pallido e aveva un bagliore anche più vivo nelle sue pupille. Il suo volto appariva completamente anemico, mentre gli occhi ardevano per il fuoco di una febbre altissima. Fuori, in alto, il vento aveva squarciato il fitto arazzo delle nuvole. Nelle radure azzurre le costellazioni tremavano e la luna, simile a una roncola d’argento, andava a occidente, come per raccogliere messe astrali.

— Quando ebbi la certezza – proseguì il dottor Fowland — che tra mia moglie e il mio segretario (un giovane di ventitré anni che avevo accolto ed educato da bambino) stesse germogliando una passione, ancorché platonica, non meno delittuosa, iniziai a elaborare il mio piano. Entrambi erano già due traditori: una nell’amore, l’altro nella gratitudine, e i traditori si uccidono. In seguito, li sorpresi in un bacio, nient’altro che un bacio, ma abbastanza per procedere, perché il misfatto più grande, ora, dipendeva solo dal poter avere un’opportunità loro. Evitando la realizzazione cosciente di questo sporco proposito, evitavo la vergogna completa, provocando l’opportunità con la mia volontà, invece, ma aggiungendo al delitto la punizione, riabilitavo il mio onore.

Avevo letto di esperimenti di ipnotismo e suggestione, descritti da un medico norvegese e verificati a Parigi dai professori di La Salpetrière e di Nancy. Ebbene, ciò è possibile: io li facevo da molto tempo con risultati ancora più sorprendenti. Ma i veri possessori di questa scienza suprema sono i fachiri dell’India: lasciano nei viaggiatori l’impressione di essere stati testimoni di eventi soprannaturali. Da qui le affermazioni di poc’anzi, descritte, di eventi esistenti solo nelle menti, le quali sono sottoposte dallo sperimentatore a una potente influenza ipnotica. Per quei misteriosi operatori di miracoli dell’antico Oriente, l’ipnotismo e la suggestione su un singolo individuo sono facili tanto quanto quelli su una moltitudine di persone. Lo dimostrò uno di loro a Londra, prima in un concorso teatrale e poi durante un’assemblea di studiosi, in cui erano presenti le più alte celebrità di Oxford.

Il fachiro si sollevò in aria a un’altezza considerevole e rimase lì sospeso, senza alcun punto di appoggio. Seduto in mezzo al cerchio degli spettatori, annunciò che sarebbe sparito, e scomparve, ma la sua voce continuava ad espandersi dalla sedia vuota. Piantò un seme nel terreno, una pianta germogliò, l’albero crebbe, i rami si coprirono di foglie, le foglie di fiori e poi tutto svanì come in una scena di magia. Fece bollire l’acqua di uno stagno e la fece evaporare in un minuto; ad alcuni metri di altezza si allungò una nube densa, e la nube, alla fine, si trasformò in una pioggia copiosa, riempiendo di nuovo lo stagno.

Queste e altre cose, non erano prodigi, ma casi di ipnotismo e di suggestione simultanei, prodotti in concomitanza. Le leggi cosmiche sono immutabili e la loro violazione non è che il semplice frutto dell’allucinazione delle menti dominate da un uomo solo. Come fanno i fachiri a raggiungere una conoscenza così perfetta di quella scienza? Ecco quello che ancora ignoriamo. Ma se non è ancora possibile a un occidentale uguagliarlo, può arrivare, se si propone, molto vicino. E io, votato a questo studio, quasi esclusivamente, sono riuscito a fare conquiste incoraggianti. Così, accorgendomi di quella nascente passione delittuosa, il modo di punire i colpevoli nacque in me naturalmente in linea con le mie indagini e scoperte; e il piano lo concepii velocemente.

Entrambi erano già stati ipnotizzati altre volte per esperimenti importanti. Orbene, sopprimere nei due, in lei soprattutto, la volontà, anche contro i suoi più forti sentimenti, anche contro l’istinto della propria conservazione, era un compito arduo. Cominciai perciò a ordinarle di compiere piccole azioni; poi divennero azioni più importanti, ne aggiunsi una più complessa: già con questa ero sicuro dell’esito di quella ancora più grande. Era la penultima e consistette nell’ordinarle di tagliarsi i capelli. Erano il suo orgoglio: fini, neri, magnifici. Dopo due ore si presentò nella mia camera-studio, con i capelli corti. Era confusa, imbarazzata.

— Non sono riuscita a contenermi – mi disse — non volevo, eppure, a dispetto di me, ho preso le forbici e li ho tagliati. Ho dovuto chiamare un acconciatore per aggiustarli alla meno peggio; devo sembrarti orribile.

Mi sembrava affascinante con quel taglio mascolino e con quel viso che era emerso, delicato e ambiguo come quello di un efebo. Tuttavia, le risposi:

— Stavi meglio con i tuoi capelli… – E aggiunsi imperiosamente: — Rimani qui.

Obbedì come una bambina e cominciai l’ultimo esperimento.

Riposi nella preparazione tutta la mia energia, tutto il flusso che i nervi, duramente scossi durante quella settimana, avevano accumulato, concentrandolo, nella mia mente. La destai e si ritirò. Da quel momento non era più una persona, ma un congegno docile, completamente sottomesso a una forza superiore. Quella forza avrebbe agito nelle sue idee come un feroce tiranno. Dopo chiamai l’altro: il lavoro era semplice, perché la suggestione tendeva come un sostegno efficace per la passione, già indomabile. Nella scena del bacio, li avevo sorpresi da dietro una tenda, c’era stata una grande audacia da parte sua e in lei solo un timido consenso passivo.

Erano le sei del pomeriggio, quando terminai ogni cosa. Ritirato nello studio, alla soave penombra crepuscolare, il mio spirito poté riposarsi dopo otto giorni di collera repressa, di gelosia dissimulata, di tutto un mondo di cose amare e pungenti. La cena fu deprimente, nonostante i miei sforzi per animarla. I due erano silenziosi, assorti: non si guardavano neppure. Senza dubbio qualcosa, troppo debole per essere un’idea precisa, ma abbastanza da generare un vago e ansioso presentimento, palpitava nelle loro anime, prive già del libero raziocinio. La carne, isolata dallo spirito, deve conservare nel suo inconscio un’esistenza larvale che le impedisce la ribellione, ma gli lascia la nozione del pericolo di fronte alla prossimità dell’annientamento. Questo terrore paziente della materia è come una protesta contro la fatalità. Allora lo spirito, nel suo letargo, soffre e si popola di presagi misteriosi, presentimento oscuro di disgrazie vicine, sconosciute, inevitabili.

Al termine della cena, mi congedai, annunciando che sarei ritornato molto tardi. Uscii, lasciando la mia pistola, carica, nel cassetto del comodino della camera da letto. Mi diressi al teatro: volevo che la gente mi vedesse fuori di casa. Al “Metropolitano” si rappresentava Otello. La gelosia e la vendetta del moro mi parsero semplici e bestiali, come quelle di un primitivo dell’epoca paleolitica, e indegne per la mente raffinata dell’uomo moderno. Rincasai alle 23:30, salii le scale, penetrai nello studio, sedendomi davanti alla scrivania. Di fronte a me, dall’altra parte dell’anticamera, attraverso la porta vetrata, si intravedeva la camera da letto, dove si cerneva una luce fioca. Dovevano essere stati in quella camera due ore prima. Ricostruivo il colloquio di lei come se fossi stato presente: si ritrovavano congiunti senza stupore, automi guidati da un impulso irresistibile e il bacio iniziale, di certo più lungo di quello che avevo sorpreso, non aveva avuto alcun effetto emotivo sulle loro facoltà psichiche.

Ora, distesi nel letto, lui scivolava nel sonno gradualmente, per immergersi in un torpore profondo, mentre lei lo contemplava. Erano passati dieci minuti, venti, venticinque. I miei nervi vibravano scossi dall’impazienza febbrile. Senza rendermene conto, ero arrivato, attraverso i vani interni, ad una delle porte della camera da letto. Le tende dei vetri mi impedivano di vedere, ma la mia immaginazione era dentro la camera, al lato del letto e vedevo tutto chiaramente. Il braccio di lei scivolò furtivamente fuori dalle lenzuola, tirò il cassetto, prese la pistola e la puntò all’orecchio del suo amante. Gli spari furono quasi simultanei; penetrai dentro, strappai dalla mano contratta l’arma, la tenni nella mia e aspettai al centro della camera, eretto e sereno.

In seguito, apparvero i domestici, un agente di polizia e alcune persone. Sulla bianchezza del letto si stendeva, allargandosi, una macchia purpurea. Il corpo del ragazzo era già rigido, mentre sgorgava dall’orecchio sinistro un filo di sangue nerastro; quello di lei, con la tempia sconquassata, si agitava in una fievole agonia. Poi, anche lei si immobilizzò. Entrambi, irrigiditi, nella quasi nudità delle loro carni, pallide e insanguinate, riproducevano il simbolo scultoreo del delitto punito. Il quadro non aveva bisogno di chiarificazioni. Tutti restarono in silenzio, guardandomi con affetto compassionevole e quando l’agente ruppe il mutismo per dirmi di seguirlo, la sua voce apparve rispettosa come una invocazione.

 

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Il crimine di Julian Ensor” di Alfonso Hernández Catá

22 giovedì Dic 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Alfonso Hernández Catá, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Il crimine di Julian Ensor, Racconti, TRADUZIONI

C U B A

(1918)

Alfonso Hernández Catá (1885-1940)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di un militare spagnolo distaccato a Salamanca, località di Santiago di Cuba e di una cubana. Nasce in Spagna, si trasferisce pochi mesi dopo a Cuba con la famiglia e ritorna in Spagna all’età di 16 anni per intraprendere i suoi studi. Traduce e approfondisce autori inglesi e francesi, mentre lavora come apprendista ebanista. Tornato nuovamente a Cuba, dirige 2 periodici a La Avana: “El diario de la marina” e “La discusión”. Più tardi, abbraccia la carriera diplomatica rivestendo la carica di console e di ambasciatore in vari paesi europei e sudamericani. La sua opera è caratterizzata da una grande ecletticità di generi: novella, lirica, saggistica, giornalismo, drammaturgia. Tuttavia, il riconoscimento più grande e l’elogio della critica, sia in Spagna che in America Latina, deriva indubbiamente dagli innumerevoli racconti, nei quali sono evidenti il suo spirito critico e cosmopolita, le contraddizioni sociali e umani, le tematiche amorose ed erotiche.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La giacca” di Jacques Roumain

08 giovedì Dic 2022

Posted by Loredana Semantica in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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  H A I T I

LA GIACCA (1)

(1930)

Jacques Roumain (1907-1944)

Traduzione di Emilio Capaccio

 

Scrittore, poeta e politico. Suo nonno, Tancrède Auguste, fu Presidente della Repubblica di Haiti, dal 1912 al 1913. Nel 1934, fu fondatore del partito comunista del suo paese e a causa delle sue continue attività politiche di resistenza contro l’occupazione americana nell’ambito delle c.d. “guerre della banana”, fu molte volte arrestato ed esiliato dal presidente Sténio Vincent. Viaggiò in Francia, Spagna, Svizzera, Belgio, conoscendo molti intellettuali europei dell’epoca. Nelle sue opere, impregnate dei suoi studi di etnologia, esprime la frustrazione del popolo haitiano, sfruttato per secoli dai coloni e in generale tutti i temi peculiari dell’indigenismo. Il racconto scelto è tratto dalla raccolta di racconti: “La proie de l’ombre”.

 

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La lezione sul caos” di Fabio Fiallo

24 giovedì Nov 2022

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  R E P U B B L I C A  D O M I N I C A N A

LA LEZIONE SUL CAOS

(1908)

Fabio Fiallo (1866-1942)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di un deputato al congresso del paese, si dedica alla politica e alla poesia fin dalla giovane età. È stato un accanito sostenitore del nazionalismo e assume un atteggiamento di netta opposizione nei confronti dell’occupazione degli Stati Uniti, dal 1916 al 1924, all’interno del più vasto conflitto c.d. “guerre della banana”. La sua produzione risente dei canoni del modernismo di Rubén Darío, di cui fu intimo amico, anche se non abbandona totalmente gli archetipi del romanticismo spagnolo e tedesco e un acceso lirismo sentimentale, seguendo l’influenza di Heinrich Heine e di Gustavo Adolfo Bécquer. Continua a leggere →

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. ” Il malo uccello” di Manuel Antonio Alonso Pacheco

10 giovedì Nov 2022

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 P O R T O R I C O 

IL MALO UCCELLO

(1849)

Manuel Antonio Alonso Pacheco (1822-1889)

Traduzione di Emilio Capaccio

Medico, scrittore e giornalista. Studiò medicina all’università di Barcellona. È ritenuto una delle prime figure del romanticismo antillano. La sua opera più importante, “El Gíbaro”, può essere considerata come un quadro delle tradizioni e della vita rurale e campesina dell’epoca, dalle chiare influenze della corrente costumbrista.

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Emilio Capaccio traduce Edgar Allan Poe

02 mercoledì Nov 2022

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Emilio Capaccio, POESIA, TRADUZIONI

Le invisibili cose sono le uniche realtà.

E. A. P.

Edgar Allan Poe (1809-1849), traduzioni di Emilio Capaccio. Qui altre poesie di Edgar Allan Poe tradotte da Emilio Capaccio.


ANNABEL LEE

Fu molti e molti anni or già,
in un regno alla ripa del mar,
ch’una fanciulla visse e saperla potete
col nome d’Annabel Lee; —
senz’altri pensieri vivea la fanciulla
ch’amarmi ed esser amata.

Bambino ero io, bambina era lei,
in questo regno alla ripa del mar;
con sì amor abbiam amato che più era dell’amor stesso —
io e la mia Annabel Lee —
con sì amor che del ciel alati angeli
furono a invidiar lei, a invidiar me.

Questa la cagion che, tanto tempo or già,
in un regno alla ripa del mar,
il vento da una nube sbuffò,
raggelando la cara Annabel Lee;
e vennero i suoi nobil propinqui
da me a portarla via,
e in un sepolcro la riposero,
in questo regno alla ripa del mar.

Gli angeli, nel ciel non così felici,
furono a invidiar lei, a invidiar me —
Sì! questa la cagion (come tutti sanno,
in questo regno alla ripa del mar)
che il vento di notte dalla nube uscì,
a raggelar la mia Annabel Lee.

Ma era il nostro più forte dell’amor
di quelli più grandi di noi —
di molti di quelli più saggi di noi —
e né lassù gli angeli del ciel,
né i demoni sottomar,
posson dalla mia mai separar
l’anima della cara Annabel Lee: —

Perché luna non brilla che non porti sogni
d’Annabel Lee; né sorgon stelle,
ch’io non senta i fulgidi occhi d’Annabel Lee: —
così, in notturna marea, accanto m’adagio
alla mia cara, mia vita, mia sposa,
là, al suo sepolcro sulla ripa del mar —
sulla ripa del risonante mar. 


ANNABEL LEE

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Sant’Antonio la canaglia” di Rufino Blanco Fombona

20 giovedì Ott 2022

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Racconti, Rufino Blanco Fombona, Sant'Antonio la canaglia, TRADUZIONI

V E N E Z U E L A 

SANT’ANTONIO LA CANAGLIA

(1904)

Rufino Blanco Fombona (1874-1944)

Traduzione di Emilio Capaccio

Nella sua opera si alternano vari generi letterari: poesia, narrativa, saggistica, libri di viaggi. Fervido oppositore della dittatura del generale Juan Vicente Gómez e per questo incarcerato e in seguito esiliato in Spagna e in Francia. Figura distaccata del modernismo, il suo stile abbraccia anche altre correnti artistiche degli inizi del XX secolo: positivismo, realismo, naturalismo. In particolare, nei racconti e nelle novelle, oltre al suo fervore politico, è chiara l’influenza di Maupassant e di Balzac ed è quasi sempre presente una concezione pessimistica della società attraverso la rappresentazione e l’enfatizzazione dei suoi elementi più tipicamente ignobili e corrotti. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta: “Cuentos americanos”.

 Rufino Blanco Fombona

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Carne” di Efé Gómez

06 giovedì Ott 2022

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Carne, Efé Gómez, Emilio Capaccio, Racconti, TRADUZIONI

 C O L O M B I A

CARNE

(1925)

Efé Gómez (1867-1938)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stato narratore, matematico, ingegnere e docente dell’Università di Antioquia. Insieme a Tomás Carrasquilla e a Francisco de Paula Rendón, ha fatto parte del gruppo degli intellettuali di Antioquia e ha collaborato a varie riviste, tra le quali: “El montañés”, “El repertorio”, “Alpha y Cirirí”. Il suo stile si discosta dal modernismo predominante alla fine del XIX secolo per anticipare un realismo critico e spietato, frutto dell’influenza esercitata soprattutto dagli studi fatti sulle opere di Nietzsche e di Schopenhauer. Spesso i personaggi dei suoi racconti, per una imprinting pessimistico delle condizioni esistenziali dell’uomo, conducono una vita senza scopo, senza porsi domande sul domani né fare niente per tendere a qualcosa altro che non sia al mero presente in cui intessere le loro trame ingannevoli, meschine, egoiste.

La notte era fredda e uggiosa. Continua a leggere →

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Lúcio Cardoso traduzioni di Emilio Capaccio

29 giovedì Set 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Emilio Capaccio, Lucio Cardoso, POESIA, TRADUZIONI

C’è un’epoca in cui la delusione,
la fatica della lotta,
l’intima convinzione che in fondo
la vita non vale così grandi sforzi,
diventano, per taluni spiriti,
un nembo che a poco a poco s’allarga,
fino a oscurare l’orizzonte intero.

L. C.

Lúcio Cardoso (1912-1968)

traduzioni di Emilio Capaccio 


ALBEGGIARE

La notte è in me
ruota nel mio sangue.
Sento sbattere nella mia bocca
le pupille cieche della luna.
Sento le stelle come dita
smuovere la solitudine in cui cammino.
Poi il profumo della poesia
sale ai miei occhi tremanti, serrati,
odo la musica delle cose che si ridestano
sul corpo nero della terra
e la voce del vento distante,
la voce delle palme che s’aprono in raggi,
la voce dei fiumi che scorrono.
E la notte è in me.
Come un uccello
il mio sogno solleva le ali nel cuore dell’ombra.
Ascolto la musica dei fiori che cadono,
il chiasso delle nubi che passano,
e la mia voce che s’alza
come una preghiera nella pianura solitaria.
Allora sento la notte fuggire da me,
sento la notte fuggire dagli uomini
e il sole che avanza a cavallo del mare
e le nubi curvate che riempiono il cielo
come grandi destrieri di fuoco
che svaniscono risucchiati con l’oscurità.
 
AMANHECER

A noite está dentro de mim,
girando no meu sangue.
Sinto latejar na minha boca,
as pupilas cegas da lua.
Sinto as estrelas, como dedos
movendo a solidão em que caminho.
Logo o perfume da poesia
sobe aos meus olhos trêmulos, cerrados,
ouço a música das coisas que acordam
sôbre o corpo negro da terra
e a voz do vento distante
e a voz das palmeiras abertas em raios
e a voz dos rios viajantes.
E a noite está dentro de mim.
Como um pássaro,
meu sonho ergue as asas no coração da sombra.
Ouço a musica das fiôres que tombam,
o tropel das nuvens que passam
e a minha voz que se eleva
como uma prece na planície solitária.
Então sinto a noite fugindo de mim,
sinto a noite fugindo dos homens
e o sol que avança na garupa do mar
e as nuvens curvas que enchem o céu
como grandes corcéis de fogo côr-de-rosa
desaparecendo sugados pela treva.  


UNICA POESIA D’AMORE

tutto così calmo
la vita che sonnecchia
com’ora che cade senza rumore
nella pianura del mio pensiero…
foglie morte che non volano,
uccelli fissi che non cantano,
acqua stagnante che non scorre…
e il corpo tuo come un giglio sulla terra,
e muta la terra, impregnata di profumo,
gli occhi tuoi grandi come fiori notturni,
fiori che s’aprono nella dolciura del silenzio
e l’ombra mia, nuvoletta perduta
affacciata sui tuoi inerti capelli
che fluttuano, fluttuano sull’acqua della pianura…

 
ÚNICO POEMA DE AMOR

tudo tão calmo
a vida dormindo
como agora que tombasse sem murmúrio
na planície do meu pensamento …
folhas mortas que não voam,
pássaros imóveis que não cantam,
água parada que não corre …
e teu corpo como um lírio sobre a terra,
e a terra muda impregnada de perfume,
teus olhos grandes como flores noturnas,
flores que se abrem na doçura do silêncio
e minha sombra como uma nuvem perdida
debruçada sobre teus cabelos imóveis
que bóiam na água da planície…
 
POESIA DEL FERRO E DEL SANGUE

Hanno dimenticato i campi scompigliati
dove vegetano perdute
le ossa oscure
calcinate
di dieci milioni di morti.

Hanno dimenticato le croci improvvisate
che sollevano in alto
preghiere di rami contorti.

E hanno dimenticato il rumore delle granate
rivoltando la terra e i vivi
divorando e i morti
annientando.
 
POEMA DO FERRO E DO SANGUE

Esqueceram os campos revolvidos
onde vegetam perdidos
os ossos obscuros
calcinados
de dez milhões de mortos.

Esqueceram as cruzes improvisadas
erguendo para o alto
preces de galhos retorcidos.

E esqueceram o rumor das granadas
revolvendo a terra e os vivos
devorando os mortos
destruindo.
 
RICETTA DELL’UOMO

Poi deve esser alto,
senza far pensare al freddo stile della palma.
Quanto basti moro per vedersi
tinti i capelli dal sol d’agosto.
E non troppo biondo, talché d’improvviso
nei suoi occhi scintilli qualcosa della zigana patria assopita.
E che abbia mani grandi, per lunghe carezze
e addii rallentati dal peso stesso del gesto.
Anche piedi grandi, perché no,
cosicché i ritorni siano brevi
e ch’abbiano animo a camminar con altri piedi.
Gli occhi parlino, parlino sempre, parlino
d’amore, gelosia, morte o tradimento.
Ma che parlino. Perché senza la musica degli occhi
l’uomo è come una tomba al sol di mezzogiorno.
E possa la risata ricordar un po’ dell’infanzia,
affinché abbia, nel fervor del bacio,
una memoria di pitanga e mora pesta.
Ah, il corpo! S’avvicendino albe per il gentil petto,
e scurisca la calugine fin al sesso velato.
(Ma non del tutto.)
E il suo passo ricordi la danza, ma solida danza,
e parli la sua scia di profumo, senza profumo,
e lenti scorrano fiumi sui fianchi ieratici.
E che canti, senza cantare,
per tutta la sua umana tessitura,
affinché anche le cose attorno a lui cantino,
allorquando, come il prim’uomo,
nudo s’erge davanti al mare. 


RECEITA DE HOMEN

Depois deve ser alto,
sem lembrar o frio estilo da palmeira.
Moreno sem excesso para que se encontre
tons de sol de agosto em seus cabelos.
E nem louro demais para que, de repente
no olhar cintile algo da cigana pátria adormecida.
E que tenha mãos grandes, para demorados carinhos
e adeuses que se retardem ao peso do próprio gesto.
Pés grandes, também, por que não,
para que os regressos sejam breves
e haja resistência para as conjuntas caminhadas.
Os olhos falem, falem sempre, falem
de amor, de ciúme, de morte ou traição.
Mas que falem. Porque o homem sem a música dos olhos
é como sepultura exposta ao sol do meio-dia.
E que o riso relembre um pouco da infância,
para que se tenha, no fervor do beijo,
uma memória de pitanga e amora esmagadas
Ah, o corpo! Sucedam alvoradas ao longo do tórax gentil,
e escureça a penugem até o sexo velado.
(Mas não definitivamente.)
E o seu passo lembre a dança, mas com firmeza,
e o seu rastro fale de perfume, sem perfume
e escorram pausados rios em seus flancos hieráticos.
E que ele cante, sem cantar
por toda a sua humana contextura,
para que também em torno dele as coisas cantem,
quando, como o primeiro homem,
nu ele se erguer defronte ao mar.
 
A UNA STELLA

Il mio dominio è quello del sogno,
la mia gioia, del ciel c’abbuia la bufera
il mio domani al chiar della disperazione.
Solo tu sai il segreto della mia predestinazione.
Solo tu sai l’estensione di tanto dover andare,
solo tu sai l’umile casina in cui ho vissuto.
Chi saprebbe spezzare il sortilegio che m’attornia,
O rosso sole, alba dei moribondi?

Ma mai rifletti il gesto che condanna.
Questo paese, ahimè, è d’arido eterno!
Se dall’alto la stella non guarda la palude,
più grande allor del suo splendore è la sua malignità.

E tu, Vespero, solo tu placherai il mio desiderio,
solo tu potrai deporre, su quest’aggrinzita carne,
il bacio che nelle tenebre dà al sonno il sereno del riposo.
 
A UMA ESTRELA

Meu domínio é o do sonho,
minha alegria é a do céu que a tormenta obscurece,
meu futuro é aquele que amanhece à luz do desespero.
Só tu saberás o segredo da minha predestinação.
Só tu saberás a extensão de tantas caminhadas,
só tu conhecerás a casa humilde em que morei.
Quem saberia romper o sortilégio que me cerca,
ó sol vermelho, aurora dos agonizantes.

Mas não reflitas nunca o gesto que condena.
Ai, este país é o da eterna aridez!
Se da altura a estrela não baixar o olhar ao pântano,
maior será a sua impiedade que o seu esplendor.

E só tu Vésper, só tu aplacarás o meu desejo,
só tu poderás depositar, nesta carne crispada,
o beijo que nas trevas dá ao sono a serenidade do repouso.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. Chumbote di Josè de la Cuandra

22 giovedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Chumbote, Emilio Capaccio, Josè de la Cuandra, Racconti, TRADUZIONI

 E C U A D O R

CHUMBOTE

(1931)

José de la Cuadra (1903-1941)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato uno dei più importanti narratori del suo paese. Studiò diritto, fu docente universitario, membro del partito socialista ecuadoriano e scrittore, appartenente al gruppo Guayaquil, il più importante movimento culturale del XX secolo, in Ecuador. Il suo stile di scrittura si distacca dai canoni del modernismo per tendere verso le tematiche del realismo sociale. Nei suoi racconti, caratterizzati a volte da una crudezza espressiva a cui si accompagna un’attitudine all’uso dell’ironia, si pone l’attenzione sulla natura dell’uomo comune, del “montuvio” che abita la costa e in generale si enfatizza la ricchezza culturale dei personaggi nell’ambito del loro contesto rurale.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La nave nera” di Abraham Valdelomar

08 giovedì Set 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Abraham Valdelomar, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, La nave nera, Racconti, TRADUZIONI

P E RU’

LA NAVE NERA

(1913)

Abraham Valdelomar (1888-1919)

Taduzione di Emilio Capaccio

Una delle figure più emblematiche della letteratura peruviana, insieme a César Vallejo, José María Eguren e José Santos Chocano. È stato narratore, poeta e critico letterario, esponente del postmodernismo, affine alla corrente dell’avanguardia, anche se sono presenti inclinazioni nella sua opera che denotano una nostalgia per la vita di provincia e tentativi di elaborare temi creoli e incaici. Il racconto seguente fa parte dei “cuentos criollos” (racconti creoli) ed è ambientato durante l’infanzia dell’autore nella cittadina natale di Pisco nei pressi di Ica. Il racconto fu scritto nel 1913 e originariamente inserito in una raccolta intitolata: “La aldea encantada”, opera che non fu mai portata a termine. Il racconto venne pubblicato solo più tardi, nel 1917, sulla rivista “Almanaque de La Prensa” e non figurò in nessuna raccolta antologica dell’autore.

I

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Giustizia india” di Ricardo Jaimes Freyre

23 giovedì Giu 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Giustizia india, Racconti, Ricardo Jaimes Freyre, TRADUZIONI

B O L I V I A

 GIUSTIZIA INDIA

(1906)

Ricardo Jaimes Freyre (1868-1933)

Traduzione di Emilio Capaccio

Soprannominato “principe dei poeti boliviani”, è uno dei rappresentanti più autorevoli del Modernismo, insieme a Rubén Darío, con il quale fondò nel 1893, a Buenos Aires, la “Revista de América”, considerata un manifesto della nuova corrente artistica e principale canale di propaganda. È stato poeta, scrittore, saggista e storico. Ricordato per essere stato uno dei primi artisti ad introdurre definitivamente il verso libero. Degna di interesse è anche la sua carriera politica. Figlio di un diplomatico di Potosí, città a sud della Bolivia, situata a un’altezza di oltre 4000 metri, è stato ambasciatore negli Stati Uniti e in Brasile, nonché rappresentante del suo paese, a Ginevra, all’interno delle Società delle Nazioni e, più tardi, Ministro degli Esteri.

I due forestieri stavano bevevano l’ultimo sorso di vino, stando in piedi accanto al fuoco. La brezza fredda del mattino faceva tremolare debolmente le tese dei loro larghi cappelli di feltro. La vampa scoloriva sotto la luce incerta e biancastra dell’aurora; si schiarivano indistintamente i recessi dell’ampio patio e si abbozzavano tra le ombre, sullo sfondo, le pesanti colonne di creta che reggevano la copertura fatta di canne e pagliuche.

Legati ad un anello di ferro fissato a una delle colonne, due cavalli imbrigliati aspettavano, a testa bassa, masticando con difficoltà lunghi fili d’erba. Accanto al muro, un giovane indio, accovacciato, con una scarsella piena di mais nella mano, faceva saltare in bocca i chicchi giallastri.

Quando i forestieri furono pronti per partire, altri due indios si accostarono davanti al grande cancello rustico. Sollevarono una delle grosse travi, incuneate nei muri per sbarrare il passaggio, e si addentrarono nel grande patio.

Il loro aspetto era umile e miserabile, e più umile e miserabile lo rendevano le giacchette strappate, le camicie grezze aperte sul petto e i lacci di cuoio pieni di nodi ai sandali.

Lentamente si accostarono ai forestieri che stavano montando sui loro cavalli, mentre la guida india sistemava alla cinta la scarsella di mais e annodava stretto alle gambe i lacci dei sandali. I forestieri erano giovani; alto uno, assai pallido, dallo sguardo freddo e duro; l’altro, piccolo, bruno, dalla fisionomia allegra.

— Signore… – mormorò uno degli indios.

Il forestiero pallido si voltò verso di lui.

— Che cosa vuoi, Tomás?

— Signore… lasciatemi il mio cavallo…

— Di nuovo, imbecille! Vuoi che mi metta in cammino a piedi? In cambio ti ho dato il mio, può bastare.

Ma il vostro cavallo è morto.

— Sicuro, che è morto! È morto perché l’ho fatto correre per quindici ore di fila. È stato un grande cavallo! Il tuo non vale niente. Pensi che farebbe le stesse ore di corsa?

— Ho venduto i miei lama per comprare quel cavallo alla festa di San Juan… Inoltre, signore, avete dato fuoco alla mia capanna.

— Giusto! È stato perché sei venuto a incomodarmi con i tuoi piagnistei. Io ti ho tirato un tizzone per farti andare via, tu hai spostato la faccia e il tizzone è caduto dentro un mucchietto di paglia. Non è colpa mia. Avresti dovuto ricevere con rispetto il mio tizzone. E tu cosa vuoi, Pedro? – domandò, rivolgendosi all’altro indio.

— Vengo a supplicarti, signore, di non portarmi via le mie terre. Sono mie. Io le ho seminate.

— Questo è affar tuo, Cordova – disse il cavaliere, rivolgendosi al suo accompagnatore.

— No, per certo, questo non è affar mio. Io ho fatto quello che mi è stato chiesto di fare. Tu, Pedro Quispe, non possiedi quelle terre. Dove sono i tuoi titoli? Voglio dire, dove sono i tuoi documenti?

— Io non ho documenti, signore. Mio padre non aveva documenti, né tanto meno il padre di mio padre. E nessuno ci ha portato via la terra. Voi volete darla a qualcun altro. Io non vi ho fatto alcun male.

— Hai da qualche parte una borsa di monete? Dammi la borsa e ti lascio la terra.

Pedro volse a Cordova uno sguardo d’angoscia.

— Non ho monete e non potrei mai racimolarne così tante,

— Allora non c’è altro da aggiungere. Lasciami in pace.

— Pagatemi ciò che mi dovete.

— Ma non finiremo mai! Pensi che sia tanto idiota da pagarti una pecora e qualche gallina che mi hai dato? Pensavi che saremmo morti di fame?

Il forestiero pallido, che cominciava a spazientirsi, esclamò:

— Se continuiamo ad ascoltare questi due imbecilli, restiamo qui per sempre…

La cima della montagna, sul fianco della quale poggiava l’ampia e rustica locanda, cominciava a brillare ferita dai primi raggi di sole. La desolata aridezza del paesaggio, tra le sierre nerastre, si illuminava lentamente e si distingueva sotto il blu del cielo, tagliuzzato a tratti da nubi plumbee che correvano veloci.

Cordova fece un segno alla guida, che si diresse verso il cancello. Dietro di lui uscirono i due cavalieri.

Pedro Quispe si precipitò verso di loro e afferrò le redini di uno dei cavalli. Un colpo di frusta sul volto lo fece indietreggiare. Allora i due indios uscirono dal patio, correndo velocemente verso una vicina altura, si arrampicarono con la rapidità e la destrezza di una vigogna, e quando giunsero alla sommità gettarono lo sguardo intorno.

Pedro Quispe avvicinò alle labbra la sua buccina che portava appesa sulla spalla e lanciò un suono grave e prolungato. Si fermò un istante, poi continuò con note rapidi e stridenti

I forestieri cominciarono a incamminarsi per il fianco della montagna; la guida, con passo sicuro e fermo, procedeva indifferente, divorando chicchi di mais. Quando risuonò la voce della buccina, l’indio si fermò, guardò i due cavalieri e cominciò a correre per una mulattiera aperta tra le colline. Pochi istanti dopo, scompariva nella lontananza.

Cordova, rivolgendosi al suo compagno, esclamò:

— Alvarez, quei furfanti ci portano via la nostra guida.

Alvarez fermò il suo cavallo e guardò con inquietudine in ogni direzione.

— La guida… E a che cosa ci serve, oramai? Temo qualcosa di peggio.

La buccina continuava a risuonare, sulla sommità della collina la figura di Pedro Quispe si disegnava sullo sfondo azzurro, sopra la rossastra nudità delle cime.

Sembrava che ai picchi e ai bivi passasse un sortilegio; dietro le grandi distese di pascoli, tra le impavide stoppie e le aspre erbacce, sotto le larghe strisce dei campi, alle porte delle capanne e in cima ai monti lontani, si vedevano comparire e scomparire rapidamente figure umane. Si fermavano un attimo, volgevano lo sguardo verso la collina dove Pedro Quispe strappava incessanti note dalla sua buccina, e poi si trascinavano su per le colline, arrampicandosi cautamente.

Alvarez e Cordova continuavano a discendere per la montagna; i loro cavalli ansimavano fra le asperità rocciose, per lo stretto sentiero, i due cavalieri, visibilmente inquieti, si lasciavano portare in silenzio.

Improvvisamente, un sasso enorme, staccato dalla cima della sierra, rotolò accanto a loro, con un lungo ruggito; poi un altro… poi un altro ancora…

Alvarez lanciò il suo cavallo alla fuga, costringendolo a fiancheggiare la montagna. Cordova seguì immediatamente il compagno; ma i massi rotolavano dietro di loro. Sembrava che la catena montuosa si stesse sgretolando. I cavalli, scagliati come una tempesta, balzarono sulle rocce, poggiando miracolosamente gli zoccoli sugli spuntoni, e vacillarono nello spazio, a un’altezza enorme. In breve tempo, le montagne furono coronate di indios. I cavalieri allora si precipitarono verso la stretta gola che serpeggiava ai loro piedi, attraverso la quale scorreva dolcemente un filo d’acqua sottile e cristallino.

Le profondità si popolarono di strane armonie; il suono roco e sgradevole dei corni spuntava dappertutto, e alla fine della gola, sopra la luce radiosa che si apriva tra due montagne, un gruppo di uomini si alzò all’improvviso.

In quel momento, un enorme macigno centrò il cavallo di Alvarez. Lo videro indugiare per un momento e poi cadere, rotolando giù per il fianco della montagna. Cordova balzò a terra e iniziò a strisciare verso il punto in cui si poteva vedere l’ammasso polveroso di cavallo e cavaliere.

Gli indios cominciarono a discendere le vette: dalle strettoie e da ogni recesso sbucavano ad uno ad uno, avanzando cauti e fermandosi in ogni momento con lo sguardo fisso sul fondo dello strapiombo. Quando raggiunsero la riva del torrente, avvistarono i due viaggiatori. Alvarez, steso a terra, era inerte. In piedi, accanto a lui, il suo compagno, con le braccia al petto, in preda alla disperazione per la sua impotenza, fissava la lenta e paurosa discesa degli indios.

In un piccolo pianoro ondulato, formato dalle depressioni dei monti che lo delimitavano alle quattro estremità con quattro larghi crinali, i vecchi e le donne attendevano l’esito della caccia all’uomo. Le donne indios, con le loro gonne corte e tonde, di stoffe ruvide, i mantelli attaccati sui seni, i cappelli scintillanti, le trecce ruvide che cadevano sulla schiena e i piedi nudi, si raggruppavano silenziose a un’estremità, e si vedeva tra le loro dita la danza vertiginosa del mandrino e dell’avvolgitore.

Quando gli inseguitori arrivarono, condussero con loro i viaggiatori legati sui loro cavalli. Furono portati al centro della spianata e gettati per terra, come due fagotti. Le donne allora si avvicinarono e li guardarono con curiosità, senza smettere di filare, parlando sottovoce. Gli indios rifletterono per un momento. Poi un gruppo si diressero verso i piedi della montagna. Tornarono portando due grandi orci e due grandi travi. E mentre alcuni scavavano la terra per fissare le travi, gli altri riempivano piccole brocche di terracotta con il liquore contenuto negli orci.

Bevvero finché il sole non cominciò a cadere all’orizzonte e non si udì altro che il mormorio delle conversazioni soffocate delle donne e il rumore del liquido che si riversava nelle brocche mentre esse venivano sollevate.

Pedro e Tomás presero i corpi dei cavalieri e li legarono ai pali. Alvarez, la cui spina dorsale era spezzata, emise un lungo gemito. I due indios li spogliarono, gettando a terra tutti i loro indumenti uno per uno. E le donne potettero guardare con ammirazione i loro corpi bianchi.

Dopo, iniziò il supplizio. Pedro Quispe strappò la lingua a Cordova e gli bruciò gli occhi. Tomás coprì il corpo di Álvarez di piccole ferite con un coltello. Poi, fu il turno degli altri indios che strapparono i loro capelli, li lapidarono e gli conficcarono delle schegge di legno nelle ferite. Una giovane donna india, ridendo, versò una gran brocca di chicha (1) sulla testa di Alvarez. La sera moriva. I due viaggiatori avevano già da tempo consegnato la loro anima al Gran Giustiziere; e gli indios, sfiniti, abbuffati, indifferenti, continuavano a colpire e a lacerare i corpi.

In seguito, fu necessario giurare il silenzio. Pedro Quispe tracciò una croce sulla terra, e uomini e donne s’avvicinarono per baciare la croce. Poi sfilò dal collo il rosario, che non abbandonava mai, e gli altri vi giurarono sopra, e dopo sputò per terra, e tutti passarono sulla terra sputata.

Quando le spoglie insanguinate scomparvero alla vista e si cancellarono le ultime tracce della scena che si era appena svolta nelle asperità dell’altipiano, l’immensa notte cadeva sulla solitudine delle montagne.

(1) È il nome dato a diversi tipi di bevande leggermente alcoliche o analcoliche, originarie del Sudamerica, derivate dalla fermentazione di cereali, frutta o manioca.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Il cane” di Rafael Barrett

09 giovedì Giu 2022

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P A R A G U A Y

 IL CANE

 (1911)

Rafael Barrett (1876-1910)

Traduzione di Emilio Capaccio

Scrittore, saggista e giornalista, nato in Spagna e morto in Francia, ma vissuto per il periodo più significativo della sua vita in Paraguay, tanto da essere considerato uno dei più influenti scrittori di questo paese e promotore della moderna letteratura paraguayana. Ebbe una vita estremamente avventurosa, e bohémienne, fatta di duelli, ristrettezze economiche, collaborazioni con riviste e giornali di vari paesi e continui viaggi per il mondo. In Paraguay arrivò nel 1904, come corrispondente del giornale “El Tiempo”, per documentare la rivolta politica del generale liberale Benigo Ferreira, futuro presidente del Paraguay, dal 1906 al 1908. Barrett riuscì a farsi portare all’accampamento dei ribelli e a restare con loro fino a quando, alla fine dell’anno, non entrò nella città di Asunción insieme a Benigo Ferreira, vittorioso contro le truppe del presidente in carica, Juan Antonio Escurra, che dovette fuggire in Argentina. Sotto il nuovo governo fu nominato direttore dell’Ufficio Generale di Statistica. Dal 1903 al 1910 fu inviato in Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay come corrispondente per vari giornali, coniando per sé il termine di “giornalista militante”. Quasi tutta la sua opera è stata pubblicata postuma. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta “Cuentos breves”.

Attraverso le ampie vetrate aperte della sala da pranzo dell’hotel, contemplavo, dal mio tavolo, l’orizzonte marino, sfumato nel lento crepuscolo. Vicino al molo riposavano le vele delle barche. Qualche silhouette elegante attraversava ad intervalli la sala, salendo la rampa; una cocotte che andava a rifarsi la toeletta per la cena, uno sportman pungolato dall’appetito. La sala si andava riempendo; il tintinnio di piatti e posate preludeva il pasto serale; i camerieri, di affettato e diplomatico aspetto, scorrevano in silenzio.
La luce elettrica, sopra la pila di tovaglie bianche come la neve, saltellava dal bordo di un calice alla convessità di un braccialetto d’oro per brillare all’angolo di una bocca sorridente. La brezza della notte smuoveva le piume dei ventagli, agitava i paralumi delle piccole lampade portatili, scopriva un braccio nudo sotto la flottante mussolina, e mescolava gli aromi del campo e del mare ai profumi delle donne. Si stava bene e non si pensava a niente.
All’improvviso un bel cane entrò nella sala da pranzo, e dietro di esso una giovane donna bionda e altezzosa che andò a sedersi assai lontano da me. Il suo accompagnatore si allontanò controllandoci. Era una specie di levriero, di razza incrociata. Il pelo, fine e dorato, brillava come quello di un pupazzo. La testa intelligente, degna di essere accarezzata da una di quelle mani che solo Van Dick ha compreso nelle sue tele, non si allungava in atteggiamento mendico. All’animale aristocratico non importava cosa succedesse sui tavoli. I suoi occhi alteri, gialli e trasparenti come due topazi, sembravano giudicarci sdegnosamente.
Giunto alla mia altezza, si fermò. Lusingato da questa preferenza, gli offrii un boccone di insaccato. Accettò e mi salutò con un discreto cenno della coda. Non ritenni corretto insistere e lo lasciai andare via. Istintivamente guardai verso la giovane bionda. Il blu intenso delle sue pupille sorrise benevolmente.
Dopo aver consumato la cena uscii sul terrazzo, dove c’era solitudine. Il faro proiettava un raggio di luce rotante, ora bianco, ora rosso, sulle acque nere dell’oceano. Il vento si era calmato. Un alito tiepido si levò dalla terra ancora calda.
Assorto davanti a quello spettacolo sentii, quando meno me lo sarei aspettato, le zampe nervose del mio nuovo amico che si posavano su di me. La giovane bionda mi era accanto.
— Che cane ammirevole, signorina…! o signora? – Domandai.
— Signora – disse la voce più dolce che abbia mai sentito.
Cominciammo così a vederci la sera, sulla terrazza solitaria, e durante alcuni pomeriggi facemmo lunghe passeggiate per i campi insieme a Tom, nostro unico testimone.
La signora di V. era russa. Mal sposata, ricca e malinconica, a volte riusciva a ottenere dal marito un periodo di libertà. Allora si abbandonava al fascino della natura e al sapore dei ricordi, e trascinava le sue delusioni per tutte le spiagge mondane.
— Non dovrei odiarlo – mormorava — ma lo odio; sì, lo odio, e Tom lo stesso; è arrogante, geloso, insopportabile; gli avrei perdonato le mie tristezze, se mi avesse dato un figlio. Neppure quello.
Il suo ombrello tracciava un leggero solco sul prato.
— Non posso permettermi un’amicizia, una simpatia. La sua intransigenza selvaggia mi tiene reclusa. Sarà qui fra quindici giorni.
Abbassò la testa dorata e continuò sottovoce:
— Amico mio; povera me se sospettasse questa innocente amicizia. Non potremo vederci più quando arriverà! Sarebbe troppo pericoloso, V. è uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Il suo braccio tremava sotto il mio, ma i suoi occhi umidi luccicavano teneramente. Tom saltava sulle farfalle e veniva a leccarci le mani. Lo accoglievamo con grandi risate e dopo lo consolavamo pieni di rammarico.
In altre occasioni la signora di V. mi riceveva nella sua camera. Tom si gettava sopra di me freneticamente. Lei, con gioia da bambina, mi mostrava i ritratti delle sue amiche, o mi raccontava storie della sua infanzia. Di quando in quando, si impossessava di noi un eccesso di sentimentalismo e con le dita intrecciate restavamo muti, lasciando parlare il nostro silenzio emozionato. Ma sempre prima di andarmene, io e Tom, giocavamo come due ragazzini.
Davanti alla gente facevamo finta di non conoscerci. Quando la signora di V. faceva il suo ingresso in sala da pranzo, a malapena inclinava la fronte. Tom faceva la sua solita passeggiata, e si fermava un attimo a ricevere qualche mia attenzione. Niente salti, niente feste! Il tatto di quell’animale era prodigioso! Un giorno in cui stavo pranzando con un conoscente, passò alla larga, come se non mi avesse mai visto. Ma il suo sguardo sembrava dire: “Non sono geloso; è quel signore che mi è antipatico”.
Venne il momento funesto. La signora di V. si presentò alle terme in compagnia del marito, la mia disperazione. L’uomo non lasciava la moglie un istante, come se si trattasse di una prigioniera. La donna portava Tom con loro, e io non riuscivo neppure ad accarezzare la testa del nostro fedele confidente.
Le settimane passavano e io cominciavo a scoraggiarmi, quando un giorno fui presentato al signor V. nel corso di una conversazione con i signori di H. Per una coincidenza uscimmo insieme, e insieme facemmo rientro nell’hotel.
Il signor V. era così come me lo avevano dipinto; il suo aspetto, aspro e sgradevole; la sua conversazione, autoritaria e asciutta. Scambiammo poche parole. Stringendomi la mano mi chiese con indifferenza:
— Volete conoscere mia moglie? Sarà ancora in piedi. È molto riservata, ma le piace discorrere in francese.
Che fare? Salimmo le scale, e ci fermammo davanti alla camera dove avevo trascorso tanti momenti deliziosi. All’improvviso mi assalì il terrore. Il cane! Avevo dimenticato il cane! Il cane mi avrebbe fatto le feste e leccato con tutta la sua anima! Che partito prendere? Povera amica mia! Povero me! Non mi piacque ricordare che il signor V. era uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Come chi va a suicidarsi, entrai nella stanza. La signora V., assalita dal mio stesso pensiero, divenne più pallida della morte. Tom, disteso con elegante indolenza, sollevò le orecchie al rumore dei nostri passi e aprì i suoi lucidi occhi giallastri…
Ma non si mosse neppure. Si accontentò di dimenare ironicamente la lunga coda impennacchiata.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La guercia” di Júlia Lopes de Almeida

26 giovedì Mag 2022

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B R A S I L E

LA GUERCIA

(1903)

Júlia Lopes de Almeida (1862-1934)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stata una delle ideatrici della “Accademia brasiliana delle lettere”. Avrebbe dovuto far parte dei 40 “immortali” che inizialmente la costituirono, ma fu scelto di mantenere l’Accademia completamente maschile, sull’esempio di quella francese, e al suo posto di dare la cattedra n. 3 al marito, il poeta Filinto de Almeida, che fu chiamato, per questo, “accademico consorte”. Solo nel 2017, è stato riconosciuto dall’Accademia il torto commesso ai danni della scrittrice e riconosciuta la stessa come cofondatrice dell’Accademia. È nota, oltre che per la sua considerevole opera letteraria, giornalistica e teatrale, di influenza prevalentemente naturalista, anche per essere stata una delle più tenaci abolizioniste della schiavitù e del commercio di persone africane nel suo paese, nonché sostenitrice della repubblica e dell’istruzione delle donne, del divorzio e dei diritti civili. Il racconto proposto è considerato un classico della letteratura brasiliana e inserito in molte antologie scolastiche.

Júlia Lopes de Almeida

La guercia era una donna alta, rinsecchita, macilenta, aveva il petto incavato, il busto ricurvo, le braccia lunghe e smilze, ma i gomiti e i polsi erano tozzi; le mani erano grandi, ossute, deformate da reumi e fatica; le unghie ispessite, opache e grigie, i capelli crespi, di un colore tra il bianco sporco e il biondo cinerino, che al tatto apparivano ruvidi e ispidi; la bocca cadente, in un’espressione di spregio, il collo lungo, raggrinzito, come quello degli avvoltoi; i denti, storti e marci.

Il suo aspetto infondeva terrore nei bambini e ribrezzo negli adulti; non tanto per la sua statura e per la straordinaria magrezza, quanto perché aveva un orribile difetto: le avevano cavato l’occhio sinistro; la palpebra scendeva avvizzita, lasciando, tuttavia, accanto al punto lacrimale, una fistola continuamente purulenta.

Era quella macchia giallastra nel fosco dell’occhiaia, quel distillare incessante di pus, che la rendeva ripugnante agli occhi degli altri.

Viveva in una vecchia casupola, il suo unico figlio, che faceva l’operaio in una sartoria, le pagava il fitto; lei si dava da fare lavando biancheria per gli ospedali e si arrabattava a fare qualunque faccenda domestica, compreso preparare da mangiare. Da bambino, il figlio trangugiava le misere pietanze fatte da lei, a volte anche nello stesso piatto sporco; poi crescendo, il disgusto per quel cibo si era manifestato pian piano sul suo viso; finché un giorno, con il pretesto di dover occuparsi di un ordine, aveva detto alla madre che, per comodità degli affari, di lì in avanti non avrebbe più mangiato a casa…

Lei finse di non capire la verità e si rassegnò.

Tutto il bene e tutto il male venivano da quel figlio.

Che importanza poteva avere che la gente la disprezzasse, se il suo amato figlio la ricompensava con un bacio per tutta l’amarezza dell’esistenza?

Un bacio del figlio era più bello di una giornata di sole, era la più dolce blandizia per il cuore triste di una madre. Ma anche i baci cominciarono a scarseggiare, con la crescita di Antonico. Da piccolo, la stringeva tra le braccia e la riempiva di baci; poi passò a baciarla solo sulla guancia destra, dove non c’era traccia della deformità della madre; ora si limitava a baciarle la mano.

Lei comprendeva tutto e taceva.

Il figlio non soffriva meno della madre.

Quando da bambino fece il suo ingresso nella scuola della parrocchia, i compagni di classe, che lo vedevano andare e venire con la madre, presto cominciarono a chiamarlo — il figlio della guercia.

Questo fatto lo indisponeva enormemente e ogni volta rispondeva:

— Io ho un nome!

Quelli ridevano e si prendevano gioco di lui; il bambino si lamentava con i maestri, i maestri rimproveravano gli alunni e qualche volta li punivano anche, ma il soprannome era rimasto, e presto non fu più soltanto a scuola a chiamarlo in quel modo.

Per strada, spesso, sentiva dire da questa o quella finestra: il figlio della guercia! Sta passando il figlio della guercia! Sta arrivando il figlio della guercia!

Erano le sorelle dei suoi compagni, più piccole e innocenti che, istruite dai loro fratelli, ferivano il cuore del povero Antonico ogni volta che lo adocchiavano.

Le fruttaiole, dove andavano a comprare le guava o le banane per la merenda, impararono rapidamente a chiamarlo allo stesso modo, e, molte volte, scostando gli altri bambini che si affollavano intorno a loro, dicevano con pietà e affetto, allungando una manciata di araçá (1):

— Queste sono per te, figlio della guercia!

Antonico avrebbe preferito non ricevere un bel nulla, al sentire tali parole; tanto più che gli altri bambini, con stizza, irrompevano ad alta voce, cantando in coro un motivo noto:

— Figlio della guercia, figlio della guercia!

Antonico chiese a sua madre che non andasse più a prenderlo a scuola; e rosso di vergogna, le raccontò la ragione; ogni volta che lo vedevano apparire sull’uscio della scuola i compagni bisbigliavano ingiurie, strizzavano l’occhio e gli facevano facce schifate.

La guercia sospirò e non andò più a prendere a scuola suo figlio.

All’età di undici anni, Antonico lasciò la scuola: era arrivato ormai ad azzuffarsi quotidianamente con i compagni che lo tormentavano e lo detestavano. Aveva chiesto di entrare nel laboratorio di un falegname. Ma nel laboratorio del falegname, ben presto impararono a chiamarlo — il figlio della guercia, e a umiliarlo, come quando andava a scuola.

Per di più, il lavoro era pesante e cominciò ad avere vertigini e malori. Trovò allora un impiego di addetto alle vendite, ma in breve tempo, i colleghi cominciarono a raggrupparsi davanti alla porta, per prenderlo in giro, e il venditore ritenne prudente mandarlo via, tanto più che arrivavano dalla strada dei teppistelli ad afferrare fagioli e riso nei sacchi davanti il negozio per gettarli addosso al ragazzo. Era una continua grandine di cereali sul povero Antonico.

Dopo questa esperienza si rintanò in casa, nauseato, smagrito, emaciato, disteso per terra alle mosche, sbadigliando di continuo e amareggiato da tutto. Evitava di uscire di giorno e non accompagnava mai la madre; lei lo risparmiava: aveva paura che in uno svenimento, il ragazzo gli morisse tra le braccia, e così non lo rimproverava mai. All’età di sedici anni, vedendolo più in salute, la guercia chiese e ottenne per lui un impiego in una sartoria. La povera donna raccontò al padrone tutta la storia di suo figlio e lo pregò di non lasciare che gli apprendisti lo umiliassero, ma che serbassero un po’ di carità per quel ragazzo.

Antonico incontrò un certo riserbo e una strana silenziosità da parte dei suoi compagni; quando il mastro diceva: — il signor Antonico – percepiva un malcelato risolino sulle labbra degli operai; ma a poco a poco questo sospetto, o questo risolino, cominciò a svanire, finché non iniziò a sentirsi bene nella sartoria.

Trascorse qualche anno e venne il momento che Antonico si prendesse una bella cotta per una ragazza. Fino ad allora, in questa o in quella inclinazione a infatuarsi, aveva trovato sempre una resistenza che lo aveva scoraggiato e lo aveva fatto indietreggiare senza troppe ferite. Ora, però, la cosa era diversa: si era innamorato veramente. Amava come un dissennato la bella morettina dell’isolato vicino, una ragazzetta adorabile dagli occhi neri come il velluto e la bocca fresca come un bocciolo. Antonico tornò un’altra volta a essere presente assiduamente in casa e si aprì alla madre con maggiore affetto; un giorno, quando ebbe scorso gli occhi della morettina fissarsi su di lui, entrò come un folle nella stanza della guercia e la baciò a lungo sul viso, anche sulla guancia sinistra, in un traboccare di scordata tenerezza.

Quel bacio fu per la donna un’inondazione di gioia. Aveva ritrovato il suo figlio caro. Si mise a canticchiare per tutto il pomeriggio, e quella notte, addormentandosi, confidò a sé stessa:

— Sono felice… mio figlio è un angelo!

Intanto Antonico scriveva, su carta fine, la sua dichiarazione d’amore. Il giorno seguente spedì la lettera di buonora. La risposta si fece attendere parecchio. Per molti giorni Antonico si perse in amare congetture.

All’inizio pensò: — È pudore.

Poi cominciò a sospettare qualcos’altro; alla fine ricevette una lettera in cui la bella morettina confessava di voler essere la sua innamorata, a patto che lui accettasse di separarsi da sua madre. Seguivano spiegazioni ingarbugliate, mal allineate: gli ricordava la necessità di cambiare quartiere; lì, era conosciuto come il figlio della guercia, e lei non voleva essere additata come la nuora della guercia, o qualcosa del genere.

Antonico si disperò. Non poteva credere che la sua casta e gentile morettina avesse pensieri così pratici.

Poi volse il suo rancore alla madre.

Lei era la causa di tutte le sue disgrazie. Aveva tormentato la sua infanzia, rovinato tutte le sue carriere, e ora il suo sogno più luminoso si sarebbe dissolto davanti a lui. Si sentì affliggersi per essere nato da una donna così brutta, e decise di cercare un modo per separarsi da lei; si sarebbe sentito umiliato se avesse continuato a vivere sotto lo stesso tetto; certo, avrebbe continuato ad accudire sua madre, ma lo avrebbe fatto da lontano, andando a trovarla qualche volta, di notte, furtivamente…

Salvava in questo modo la responsabilità di un figlio che deve prendersi cura della madre, e, al tempo stesso, poteva consacrare alla sua amata la felicità che le doveva in cambio del suo consenso e del suo amore…

Ebbe una giornata terribile; la sera, tornando a casa maturò il progetto e la decisione di riferirlo alla madre.

L’anziana donna, accovacciata davanti alla porticina del cortile, lavava alcune pentole con uno straccio unto. Antonico pensò: “Obbligherei veramente mia moglie a vivere con…una tale creatura?” Queste ultime parole furono strappate dal suo spirito con autentico dolore. La guercia sollevò il volto verso di lui, e Antonico, vedendo il pus che le colava sulla faccia, disse:

— Pulitevi la faccia, madre…

Lei affondò la testa nel grembiule e lui continuò:

— Alla fine, non mi avete mai spiegato a cosa è dovuto questo difetto!

— Fu una malattia – rispose la madre strozzando le parole — meglio non ricordarlo!

— Sempre la stessa risposta: meglio non ricordarlo! Perché?

— Perché non ne vale la pena; non c’è rimedio…

— Bene! Adesso ascoltate: ho da riferirvi una novità. Il padrone chiede che io vada a stare nelle vicinanze del negozio…ho già affittato una stanza; voi resterete qui, verrò tutti i giorni a trovarvi per sapere se avete bisogno di qualcosa… È per causa del lavoro; non abbiamo scelta, dobbiamo sottostare!…

Mingherlino, curvato per l’abitudine di cucire sulle ginocchia, asciutto e pallido come tutti i ragazzi cresciuti nell’ombra delle botteghe, dove il lavoro inizia presto e la sera finisce tardi, aveva gettato in quelle parole tutta la sua energia, e ora scrutava la madre con uno sguardo esitante e timoroso.

La guercia si alzò e, fissando il figlio con un’espressione tremenda, rispose con doloroso sdegno:

— Filibustiere! La verità e che ti vergogni di essere mio figlio! Vattene via! Che anch’io mi vergogno di essere la madre di un tale ingrato!

Il ragazzo se ne andò a testa bassa, dimesso e sorpreso dall’atteggiamento che aveva assunto la madre, fino ad allora sempre paziente e gentile, obbedendo meccanicamente a un ordine così ferocemente impartito.

Lei lo accompagnò fuori, serrò con un botto la porta, e vedendosi sola, si piegò contro il muro, scoppiando a piangere.

Antonico trascorse un pomeriggio e una notte di inquietudine.

La mattina seguente il suo primo pensiero fu quello di tornare a casa; ma non ebbe il coraggio di farlo; rivide il volto furioso della madre, le guance contratte, le labbra assottigliate dall’odio, le narici dilatate, il suo occhio destro sporgente, penetrante fino al fondo del suo cuore, il suo occhio sinistro formicolante, avvizzito e colmo di pus; rivide il suo atteggiamento altero, il suo dito ossuto, con le falangi sporgenti, che puntava energicamente verso la porta sulla strada.

Poteva sentire ancora il suono cavernoso della sua voce, il fiato che aveva preso per dire le vere e amare parole che gli aveva gettato in faccia; rivide tutta la scena del giorno prima e non osò affrontare un’altra volta il pericolo.

Si ricordò della madrina, l’unica amica della guercia, che, però, di rado andava a trovarla. Andò a chiederle di intercedere per lui, e le disse con franchezza tutto quello che era successo.

La madrina lo ascoltò commossa, poi disse:

— L’avevo previsto, quando consigliai a vostra madre di dirvi tutta la verità; lei non volle ascoltarmi, ed ecco!

— Quale verità, madrina?

Trovarono la guercia intenta a smacchiare il vestito elegante del figlio, voleva mandargli tutti gli indumenti lavati e puliti. La povera donna si era pentita delle parole che aveva pronunciato e aveva trascorso tutta la notte alla finestra, aspettando che Antonico tornasse o semplicemente passasse… Presagiva giorni avvenire vuoti e oscuri, e già si detestava. Quando l’amica e il figlio entrarono nella stanza, restò paralizzata: la sorpresa e la gioia le imbrigliarono ogni movimento.

La madrina di Antonico esordì subito:

— Il vostro ragazzo mi ha pregata di venire a chiedervi perdono per quanto è accaduto ieri e colgo l’occasione per dirgli quello che avreste dovuto dirgli voi, molto tempo fa.

— Non dite niente! – mormorò con voce spenta la guercia.

— Invece parlo! È proprio questa mollezza che vi sta facendo soffrire! Ascoltate, ragazzo! Chi accecò vostra madre foste voi!

Il figlioccio divenne livido in volto; la madrina continuò:

— Ah, non fu colpa vostra! Eravate molto piccolo quando, un giorno, a tavola, alzaste una forchetta nella mano; lei era distratta, e prima che potesse evitare la catastrofe, gliela conficcaste nell’occhio sinistro. Riesco ancora a sentire il suo grido di dolore.

Antonico cadde pesantemente a faccia in giù, in preda a uno svenimento; sua madre gli si avvicinò prontamente, borbottando tremante:

— Povero figlio! Vedi? Ecco perché non volevo dirti niente!

(1) È un frutto spontaneo autoctono del Brasile. La sua bacca è sferica, prevalentemente di colore giallo o rosso, mentre la polpa biancastra è di consistenza carnosa, di sapore dolce e lievemente acidula.

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