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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

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Archivi della categoria: Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados

Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Attraverso la serratura” di Josefina Peñate y Hernández

23 giovedì Mar 2023

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Attraverso la serratura, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Josefina Peñate y Hernández, Racconti, TRADUZIONI

E L  S A L V A D O R

ATTRAVERSO LA SERRATURA

(1930)

 (1901-1935)

 

Può essere considerata come la prima scrittrice di racconti nel suo paese. È stata anche poetessa e giornalista, allieva di Victoria Magaña de Fortín, prima scrittrice femminista e attivista dei diritti delle donne a El Salvador. Pubblicò in breve tempo, dal 1928 al 1930, tre volumi: “Esbozos”, raccolta di saggi e riflessioni; “Surtidores”, miscellanea di aforismi, prosa e poesia; “Caja de Pandora”, raccolta di racconti. Le tematiche trattate fanno ritenere l’autrice come una delle pioniere del femminismo sudamericano. Nei suoi racconti spesso l’ambiente familiare si trasforma in uno spazio di conflittualità in cui l’uomo opprime la donna attraverso la violenza domestica e una continua emarginazione da tutte le attività sociali, considerate tipicamente maschili per l’epoca.

 

Lesbia era giunta a trovare impiego in quella scuola. Perché? Solamente per capriccio. Non per urgente necessità. Era un’anima sensibile e fine. Brillantemente colta, capace di percepire anche le più vaghe sensazioni e di imprimerle nelle sue pagine predilette. Militava nella legione degli scrittori; non propriamente legione, perché gli scrittori votati a quest’arte si contano sulle dite della mano. Ma quella era la sua bandiera: la suprema idealità della bellezza conquistata dalla parola.

In breve tempo, giunse sotto la lente di quel crocchio di donnicciole volgari della scuola che la esaminavano dalla testa ai piedi e bisbigliavano alle sue spalle. “Pedante, altezzosa.” Ma Lesbia non era né pedante né altezzosa, aveva semplicemente un merito concreto e un valore intrinseco, e questa circostanza mandava le altre fuori dai gangheri. Inoltre, con il suo carattere schivo e ombroso, si teneva sempre a rispettosa distanza, cosa che quelle non gradivano. A questi spiriti gretti che si ritrovavano, scambiandosi sciocchezze e battute volgari, sembrava riprovevole il riserbo altero e dignitoso di Lesbia.

“Chi sei, veramente?” le sussurrava una voce interiore, come per metterla in guardia dalle maldicenze nella scuola. Lesbia si rispondeva: “Chi sono? Una che è molto al di sopra delle loro sciocchezze e delle loro volgarità. Uno spirito che non arriveranno mai a comprendere”.

Taceva, consapevole e fiera, già più volte ferita nel suo amor proprio e nella sua delicatezza.

Un pomeriggio quando andò, come di consueto, per consultare l’orologio, prima di iniziare il suo lavoro, era anche fumettista e caricaturista, si ritrovò con lo stupido mucchietto di carne umana, come sempre, a dire sciocchezze. Salutò educatamente e cercò con lo sguardo l’orologio. Una di loro, forse d’accordo con le altre, le disse:

— Lesbia, di voi dicono che scrivete anche, e che i vostri scritti siano molto belli. Mi piacerebbe leggere un racconto che mi hanno riferito s’intitola: “Attraverso la serratura”, che si deve alla vostra penna magistrale.

Lesbia si pose davanti a quella figura, negli occhi spuntò lo sguardo scrutatore delle sue nere pupille. Dietro il desiderio goffamente espresso si nascondeva un intento malvagio. Lesbia era come un punto luce attorno al quale si raccoglievano tutte le sue compagne, tutti gli artisti. Questo, in luoghi piccoli e calunniosi, suscita pettegolezzi, soprattutto quando la persona che si giudica ha talento e qualità tali da poter essere intaccata dalle coscienze altrui. Ma Lesbia sapeva anche essere perfettamente accattivante. Sapeva farsi lusingare senza mutare di una virgola la sua dignità. Era cresciuta in fretta nei circoli artistici e intellettuali della sua terra natale e la sua casa era sempre apparsa come un cenacolo dove tutti gli iniziati si radunavano per scambiarsi le proprie idee. Lesbia aveva la dote di saper vivere.

Ma quelle anime zuppe di fango cercavano di umiliarla, senza ricordare a loro stesse che tutti noi abbiamo minuscoli recessi nella nostra coscienza che sono molto poco illuminati. Perché se non fosse così, saremmo creature perfette, e dov’è la perfezione? Lesbia con spigliatezza rispose:

— Dite bene, Eleonora. Ho un bel racconto intitolato “Attraverso la serratura”. Non so se vi piacerà. Avevo il ritaglio del giornale da qualche parte ma l’ho perso. Tuttavia, poiché non voglio che rimaniate con il desiderio di conoscerlo, ve lo narrerò a grandi linee.

Così Lesbia iniziò a raccontare una piccola storiella sulla vita intima di Eleonora.

“Lei era una giovane carina e attraente che aveva viaggiato un po’ e per questo credeva di avere illuminazione e finezza, cosa molto difficile. Ebbene, la finezza si eredita, viene dall’anima e dai sentimenti, e l’illuminazione si ottiene quando si ha uno spirito esplorativo assetato di sapere, e quando si viaggia con la mente in talune circostanze. Ma Ifigenia, che è la protagonista della mia storia, non aveva viaggiato in tal modo: aveva semplicemente svolto mansioni gravose, umilianti, futili. Meglio, non aveva perpetrato i costumi generosi della sua gente, ma aveva messo in pratica solo quelli volgari e insignificanti, che si racchiudono nel lusso sfrenato, e imparato a parlare male di tutte le persone a portata di mano, raccontando menzogne e giudicando sempre sotto il prisma dell’invidia e della grettezza morale. Ebbene, senza imparare nulla di buono tornò per necessità in seno alla campagna. Cercò di farsi impiegare come addetta a un banco di rivendita senza riuscirci, fintantoché non la posero a lavorare in una officina dove trascorreva i suoi giorni senza allegria, occupandosi del carico che i carrettieri portavano alle stazioni e ascoltando la loro linguaccia da taverna. Con il cuore spezzato per i pochi spiccioli della paga e per l’umiliazione data dalla sua mansione, decise di cambiare ambiente ed entrò in una scuola superiore per ragazzi. Lì conobbe Edgardo, un maestro piccoletto e nero come una nocciola, ma molto intelligente e buono. Invaghirsi perdutamente l’uno dell’altra alla velocità della luce, fu un tutt’uno. I giorni passavano rapidi come fulmini e lei, ardente di febbre d’amore, aveva nella mente solo il pensiero di farsi sposare. Edgardo, però, non pareva mostrare la stessa determinazione. Un pomeriggio… (arriva la parte interessante) … si diedero appuntamento nei bagni della scuola. Il posto sembrava appropriato, era discreto, buio e chiuso a chiave. Lì si abbandonarono a una passione disperata e orribile. Lui, approfittando del momento e spinto dalle circostanze, aveva sollevato il vestito di raso e cominciava a toccarle il corpo, che tremava di passione. Lei gemeva, desiderando chissà quante altre cose. Naturalmente avevano dimenticato il rispetto che merita un luogo sacro come la scuola e il rispetto umano. Chissà fino a che punto si sarebbero spinti se non fosse stato per due occhi maliziosi e indagatori, che sembravano quelli di un felino, e che, premuti sul buco della serratura, si rallegravano dello spettacolo. Erano quelli di un vecchio insegnante, una vera canaglia, a cui piaceva per giunta impicciarsi dei fatti degli altri, e che, prevedendo l’imminenza di un fatto spiacevole per lui, come direttore, non aveva saputo trattenere un gemito. Edgardo, al sentire il rumore, era impallidito di paura, aveva allontanato l’invasata che era tornata in sé e stava per urtare contro uno dei pilastri della sala da bagno. Quanto avrebbe goduto ancora il vecchio insegnante, vera canaglia, vedendo quelle cosce bianche e chissà cos’altro! Ebbene, in seguito Ifigenia continuò a lavorare e a fingere una serietà senza limite e a giudicare male tutte le donne civettuole e allegre che ardivano esibire le loro cosce marmoree a un uomo che voleva solo divertirsi con loro, come con una bambola di alabastro.”

— Vi è piaciuto il racconto, Eleonora? – Disse Lesbia dolcemente, fissandola negli occhi.

Eleonora si morse le labbra, dissimulando l’imbarazzo, e dicendo:

— Lesbia, avete inventiva e immaginazione. Niente di più bello del racconto della maestra avventuriera. Ma per essere della combriccola voi avreste dovuto tacerlo. Sarà che non è finzione?

Lesbia salutò nuovamente e voltò le spalle ridendo dentro di sé per l’imbarazzo cagionato. Poi rifletté: se noi donne ci odiamo, se non troviamo in noi nulla di buono né di morale, come possiamo sperare di difenderci dagli attacchi degli uomini? Dov’è quel blocco che dovremmo formare per difenderci dall’ingiustizia? Ma se anche così fosse, lo sforzo di noi, donne consapevoli, deve tendere a ottenere la redenzione dopo la morte, a incanalare i passi di quelle donnette senza senno e odiose sul cammino di una bella solidarietà, di un sano e onesto cameratismo. Oggi, non è ancora tempo, ma arriverà. Le nostre mani, a caso, devono gettare nel solco il seme di un nuovo vangelo che parli di comprensione, amore, generosità, perdono. Io amo tutte loro nonostante tutto. Come il Battista nel Giordano delle liberazioni, dobbiamo innalzare l’acqua lustrale di tutti gli ideali di redenzione, sotto la gloria di cieli luminosi e all’ombra dei limoni in fiore.

Questo diceva tra sé, mentre lo sguardo penetrante dei suoi occhi neri si perdeva in lontananza, sui dorsi bui della montagna, dove i petali di un gigantesco crisantemo sanguinante, che orlava il vaso enorme del firmamento, si dissolvevano lentamente. E anche l’orologio lentamente dava i suoi rintocchi.

Con un profondo sospiro, Lesbia disse:

— È ancora presto. Manca ancora tutta la notte per il nuovo giorno, ma quando esso arriverà splendente con la sua faretra di raggi di luce, i miei giardini pensili dello spirito si troveranno copiosi di rose accese e di pallidi gigli di bene e di verità.

Il cielo sembrava di cobalto.

 

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Gli artigli della tigre” di Froylán Turcios

09 giovedì Mar 2023

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Froylán Turcios, Gli artigli della tigre, Racconti, TRADUZIONI

H O N D U R A S

GLI ARTIGLI DELLA TIGRE

(1930)

Froylán Turcios (1875 – 1943)

Traduzione di Emilio Capaccio

Già all’età di dodici anni cominciò a pubblicare versi in varie riviste locali, ma negli anni successivi fu nel racconto che diede i suoi migliori risultati, potendosi considerare come il vero e proprio iniziatore di tale genere nel suo paese. I racconti di Turcios si caratterizzano per la perizia della trama, per il finale molte volte inatteso e spiazzante, e per lo stile asciutto e preciso con chiari rimandi al decadentismo italiano di Gabriele D’Annunzio. Di rilievo fu anche la sua attività di redattore di varie riviste letterarie, oltreché la sua carriera di diplomatico: fu ministro dell’Interno, deputato al Congresso Nazionale e delegato honduregno davanti alla Società delle Nazioni, a Ginevra.

I

Nella casa di montagna risuonarono terribili pianti dentro la cupa notte di giugno. L’allegra Juanita, di appena undici anni, era stata vittima della bestiale lussuria del bandito José Garmendia, chiamato El tigre, che scorrazzava per pianure e paraggi montuosi, marcando la sua orma con ogni tipo di infamia.

La povera creatura era stata aggredita dal feroce criminale a cento metri dalla casa, sul sentiero per Ojo de Agua (1). Era stata sua madre e le sue sorelle ad accorrere alle grida acute della bambina, dal momento che gli uomini non erano ancora tornati dalle piantagioni di tabacco nella fertile pianura. Si attardavano, quella sera. Il selvaggio, dopo la vile soddisfazione del suo desiderio, era fuggito in fretta tra gli alberi. Juanita giaceva immobile sul sentiero, i suoi vestiti strappati, seminuda e coperta di sangue. Il bandito, nell’esasperazione della sua animalità, e accecato dalla resistenza della fanciulla, l’aveva picchiata orribilmente. Le dita ruvide si erano impresse nel candore del collo infantile e dalle tempie pallide stonavano rivoli di porpora. Juanita riuscì appena a pronunciare il nome del suo carnefice e spirò qualche ora dopo.

II

Passarono diverse settimane. Gli ispettori di polizia tremavano alla prospettiva di poter incontrare José Garmendia e nessuno osava inseguirlo. Era un temibile malfattore, forte come un toro, agile come il felino di cui portava il nome, e crudele come mai nessuno, considerando il terrore che aveva gettato, negli ultimi tempi al proseguimento dei suoi audaci oltraggi. Si diceva che avesse recentemente attraversato il confine nicaraguense, dopo aver ucciso e derubato due cinesi nella Cuesta de Azacualpa.

III

Juan Diego, il più giovane dei fratelli di Juanita e colui al quale la bambina era stata più affezionata, aveva mutato il suo carattere dalla sera dell’orrendo crimine. Aveva perso il suo solito buonumore e la volontà per il lavoro. Immerso in un tenace silenzio, trascorreva giornate intere disteso sulla sua robusta amaca di corda o vagando per i monti. Rispondeva con amarezza alle domande che gli venivano poste e, sopraffatto da un dolore nero, si dimenticava persino della sua innamorata, la ragazza più bella del villaggio vicino. Spesso dormiva all’aperto. Si gettava nella frescura delle valli e l’alba lo sorprendeva a guardare il pallore delle stelle. Era un giovanotto bruno, energico e muscoloso, dal viso altezzoso e dallo sguardo profondo. Una mattina di fine settembre scomparve dalla montagna. Nessuno seppe più niente. Suo padre e i suoi tre fratelli lo cercarono ovunque e dopo inutili ricerche lo credettero morto.

IV

Una notte all’abbaiare violento dei cani tutti si svegliarono. La famiglia si alzò sentendo che qualcuno stava aprendo l’uscio nel patio. Mentre essi aprirono la porta, Juan Diego apparve sulla soglia. Immediatamente lo circondarono e lo accolsero con esclamazioni di gioia. Sembrava più alto e barbuto, e i suoi occhi neri brillavano.

— Padre! – esclamò — Ecco a voi gli artigli feroci della tigre, che ho lasciato appeso a una quercia nella valle di Jamastran. E trasse dalla borsa di pelle, che gli pendeva dalle spalle, due oggetti orribili e nauseanti, due mani gonfie e mostruose, villose e nere, bagnate di fango e di sangue.

_______

(1) Comune del dipartimento Comayagua, in Honduras.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Morbo et umbra” di Rubén Darío

16 giovedì Feb 2023

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Morbo et umbra, Racconti, Rubén Darío, TRADUZIONI

N I C A R A G U A

MORBO ET UMBRA

(1888)

Rubén Darío (1867-1916)

Traduzione di Emilio Capaccio

Poeta, narratore, giornalista e diplomatico, è considerato il massimo esponente della cultura del suo paese. L’opera “Azul”, pubblicata nel 1888, un misto di poesia e di prosa, da cui è tratto il racconto proposto, viene unanimemente considerata l’atto di nascita della corrente letteraria del modernismo che gradualmente sostituirà gli schemi metrici rigidi ereditati dalla tradizione castigliana e dal romanticismo, con cadenze di una più accentuata musicalità, introducendo il verso libero, anche se non sarà abbandonata del tutto la rima, e ampliando il patrimonio linguistico, introducendo soggetti lirici e lemmi derivanti da una equilibrata fusione tra avanguardia europea e parnassianesimo francese. Collabora con i più grandi poeti e letterati dell’America Latina e con le riviste e i quotidiani più prestigiosi. Viaggia in quasi tutti i paesi del Sudamerica. In Argentina, collabora con la “La Nación” che nel 1898 lo assume come corrispondente e lo invia in Spagna. Successivamente è chiamato a rivestire la carica di console del Nicaragua a Parigi. In questi anni conosce grandi poeti e intellettuali del suo tempo, come: Miguel de Unamuno, Juan Ramón Jiménez, Ramón María del Valle-Inclán, Antonio Machado. Oggi, in virtù della sua eredità letteraria, è universalmente considerato cittadino di tutta l’America Latina.

Un burlone vendeva bare nel magazzino all’angolo della strada. Ai clienti era solito fare battute di spirito che lo avevano reso popolare tra i commercianti di pompe funebri.

La rosolia [1] devastò in una quindicina di giorni un intero mondo di bambini in città. Fu terribile, come immaginare che la morte, dura e crudele, passi per focolai domestici strappando fiori.

Quel giorno la pioggia minacciava di cadere. Nubi plumbee si ammassavano nell’enorme forma di più vasti nembi tenebrosi. L’aria umida soffiava dannosa, portando tosse ovunque, e i colli della gente ricca e pulita erano avvolti da foulard di seta o di lana.

Il diavolo, invece, ha sempre un polmone grande e sano. Si interessa poco che una folata gelida possa colpirlo o che il cielo, con le sue grandini, prenda a sassate quelle spalle nude e cotte dal sole dell’estate. Spossato e indomito. Il suo busto è come roccia per il morso della brezza gelata, la sua zucca grossolana ha due occhi sempre aperti superbamente sul caso, e un naso che aspira miasma come vento marino che sa di sale e fortifica il petto.
Dove andava la vecchia Nicasia?

Eccola passare con la fronte bassa, avvolta nel suo manto nero di merino grezzo. Inciampava a volte e quasi cadeva, se ne andava leggera, quasi impalpabile.

Dove andava la vecchia Nicasia?

Camminava senza salutare i conoscenti che la vedevano passare, e sembrava che il suo mento raggrinzito, la sola cosa che si percepisse nel nero del mantello, tremasse.

Entrò nello spaccio dove faceva di solito la spesa e ne uscì con un pacchetto di candele nella mano, annodando la punta di un fazzoletto in cui aveva riposto il resto.

Giunse davanti all’ingresso del magazzino delle pompe funebri. Il tipo allegro la salutò con una facezia.

Allora, come se gli avessero detto una parola dolorosa, di quelle che arrivano profondamente a commuovere l’anima, sciolse il pianto e varcò la porta.

Il tipo allegro, con le mani dietro la schiena, camminava davanti a lei.

La donna finalmente riuscì a parlare. Gli spiegò che cosa era venuta a fare.

Il bambino, il figlio di sua figlia, si era ammalato pochi giorni prima di una febbre atroce.

Due levatrici aveva prescritto dei rimedi, ma senza alcun effetto. L’angioletto si era aggravato ora dopo ora, e quella mattina aveva esalato tra le braccia l’ultimo respiro.

Che dolore!

— Signor impresario, l’ultima cosa che vorrei fare per il mio nipotino è comprargli una bara come quelle; non tanto costosa; deve essere foderata di blu, con nastri rosa. Voglio anche un mazzo di fiori. Pagherò in contanti. Qui ci sono i soldi. Volete vedere?

Le lacrime si erano asciugate, e come presa da un’improvvisa risolutezza, si era diretta a scegliere la piccola bara. Il locale era stretto e lungo, come una grande tomba. C’erano qui e là, casse di tutte le dimensioni, rivestite in nero o in altri colori, da quelle con lastre argentate, per i fedeli ricchi del quartiere, a quelle più semplici e dozzinali, per i poveri.

L’anziana cercava, tra tutto quel triste raggruppamento di feretri, uno che fosse degno dell’amato corpicino del nipote che giaceva a casa, cereo e senza vita, adagiato su un tavolo con la testa circondata da rose e con il suo vestitino più bello, quello con un ricamo grezzo, ma vistoso, di uccelli viola che portavano nel becco una ghirlanda rossa.

Trovò una bara che le piaceva.

— Quanto viene a costare?

Il tipo allegro camminando sempre con la sua risata incantata:

— Sette pesos. Andiamo, non siate avara, nonnina.

— Sette pesos? … No, no, no, è impossibile. Ne ho cinque.

Cominciò a slegare la punta del fazzoletto, dove risuonavano con ingannevole tintinnio le poche chauche [2].

— Cinque, è fuori discussione, signora. Due pesos in più ed è vostra. Volevate bene a vostro nipote! Lo conoscevo. Era attivo, vivace, indiavolato. Non era il biondino?

— Sì, era il biondino, signor impresario. Era il biondino, e voi state spezzando il cuore a questa vecchia, rinsecchita e addolorata.

Era quello attivo, quello birbante, che lei adorava così tanto, che coccolava, che lavava e al quale cantava, facendolo saltellare sulle sue ginocchia, vecchie cantilene, melopee monotone che fanno addormentare i bambini.

— Era il biondino, signor impresario. Sei pesos…

— Sette, nonna.

— E sia!

Gli diede i cinque pesos che aveva portato con sé. In seguito avrebbe pagato il resto. Era una donna onorata. Anche se fosse stato necessario non mangiare, avrebbe saldato il suo debito. L’impresario la conosceva bene, perciò si portò via la bara.

A passi rapidi andava la vecchia con la cassa attaccata al fianco, sopraffatta, con il respiro pesante, il mantello stropicciato, la testa canuta al vento gelido. Così arrivò a casa. Tutti dissero che la bara era molto bella. La guardarono, la esaminarono, mentre l’anziana se ne andò a baciare il piccolo corpicino, rigido sui suoi fiori, con i capelli arruffati da una parte, e dall’altra incollati alla fronte, con un vago ed enigmatico rictus sulle labbra, come qualcosa della misteriosa eternità.

Non voleva vegliarlo. Avrebbe voluto il suo nipotino, ma non così, no, no, era meglio che lo portassero via, al più presto!

Camminava da un posto all’altro. La gente del vicinato che era venuta a far visita, parlottava sottovoce. La madre del bambino, con la testa avvolta in una pezzuola azzurra, faceva il caffè in cucina.

Intanto la pioggia cadeva a poco a poco, cernita, fine, molesta. L’aria entrava da porte e fessure e faceva smuovere il tessuto bianco del tavolo sul quale giaceva il bambino; i fiori tremavano a ogni folata.

La sepoltura doveva avvenire quella sera, e la sera già cadeva. O tristezza! Sera d’inverno, nebbiosa, bagnata, malinconica, quelle sere in cui i mendicanti distesi per terra si coprono i torsi giganteschi con quei cenci ruvidi e rigati, e le vecchie succhiano il mate dalla cannuccia, sorseggiando la bevanda cocente che gorgoglia insieme ai borborigmi.

Nella casa vicina cantavano con voce stridula un’aria di zamacuca [3]; accanto al piccolo cadavere, un cane scuoteva le orecchie per le mosche, chiudendo gli occhi pacificamente e il rumore dell’acqua che cadeva a getti sparsi e modulati, dalle tegole al suolo, si confondeva con un leggero schiocco di labbra della nonna, che parlava tra sé singhiozzando.

Dietro le nubi della sera opaca stava morendo il sole. Si approssimava l’ora della sepoltura.
Una carrozza veniva sotto la pioggia, una carrozza quasi inservibile, trainata da due cavalli barcollanti, pelle e ossa. Arrancando nel fango della strada, giunse alla porta della casa del morticino.

— È ora? – chiese la nonna.

Lei stessa andò a deporre il bambino nella piccola bara; prima sistemò un materassino bianco di stracci, come se volesse assicurarsi che stesse a suo agio e volesse dargli conforto nella nera tenebra della sepoltura. Dopo adagiò il corpo e per ultimo i fiori, in mezzo ai quali si intravedeva il volto del bambino, come una grande rosa pallida e svanita. Si chiuse la bara.

Signor impresario, il birbante, il biondino, sta andando al camposanto. Sette pesos è costato la bara; cinque pesos sono stati pagati: signor impresario, anche se dovrà digiunare, la vecchia nonna, pagherà i pesos che mancano!

La pioggia incalzava, dalla vernice del vecchio e scorticato veicolo cadeva in gocce nel fango denso, e i cavalli con i fianchi bagnati sbuffavano dalle narici e facevano suonare i morsi tra i denti.

In casa, la gente finiva di bere il caffè.

Tac, tac, tac, risuonò il martello mentre piantava i chiodi sul coperchio. Povera vecchia!

Solo la madre doveva andare al cimitero a deporre il morticino; la nonna le preparava il mantello.

— Quando lo caleranno nel fosso, da’ un bacio alla bara da parte mia.

Si incamminarono dopo aver sistemata la bara nella carrozza e dopo che vi fu salita anche la madre.

Sempre più forte infuriava la pioggia. Schioccò la sferza e si mossero i cavalli, trainando per strada il loro catafalco.

La vecchia, allora, rimasta sola, sporse la testa da una apertura nel muro sbrecciato e vedendo perdersi in lontananza la carrozza malconcia, che traballava di buca in buca, quasi formidabilmente nella sua profonda tristezza, tese al cielo oscuro le braccia sottili e raggrinzite, e serrando i pugni, con un gesto terribile, esclamò a voce alta, tra gemito e imprecazione:

— Potrei parlare con qualcuna di voi, o Morte, o Provvidenza? …Farabutte! Farabutte!

__________________

[1]  Il virus della rosolia fu isolato per la prima volta dal dott. Paul Douglas Parkman (1932-vivente). I primi vaccini furono autorizzati negli Stati Uniti, a partire dal 1969.

[2] Monete da 20 centavos che equivalgono a 1/5 di peso.

[3]  Danza di corteggiamento molto allegra, di origine cilena, ma diffusa in tutta l’America Latina.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Per giustizia il tempo” di Manuel González Zeledón

02 giovedì Feb 2023

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Manuel González Zeledón, Per giustizia il tempo, Racconti, TRADUZIONI

C O S T A  R I C A

PER GIUSTIZIA IL TEMPO

(1913)

Manuel González Zeledón (1864-1936)

Traduzione di Emilio Capaccio

Conosciuto come “Magón”, fu scrittore, politico, educatore e grande promotore della cultura del suo paese, tale da essere considerato il creatore dell’immagine nazionale del Costa Rica. La sua opera si caratterizza per una narrazione in stile costumbrista, in cui emergono quadri di vita campesina e ambientazioni rurali, raccontati con una pungente ironia, lepidezza e arguzia che non sfocia mai nella beffa o nella derisione. I suoi racconti costumbristi furono pubblicati su vari giornali e riviste. Per volontà dell’autore, tali racconti furono raccolti e pubblicati nel 1913, con il titolo: “La propia y otros tipos y escenas costarricenses”. Nel 1920, fu pubblicata una seconda edizione con l’aggiunta di altri testi. Tuttavia, l’edizione più accurata e completa si ebbe postuma, nel 1968, quando fu pubblicata “Cuentos de Magón”, che può essere considerata la raccolta definitiva.

I

Era la vigilia di Natale del 1872 e se fosse stata quella dell’anno scorso, i miei ricordi non avrebbero potuto essere più chiari. Continua a leggere →

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Ipnotismo” di Darío Herrera

19 giovedì Gen 2023

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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P A N A M A

IPNOTISMO

(1903)

Darío Herrera (1870-1914)

Traduzione di Emilio Capaccio

Uno degli scrittori modernisti più rappresentativi del suo paese. Studiò con grandi sacrifici e privazioni da autodidatta. Fu diplomatico e collaborò con le più importanti riviste letterarie del Sudamerica. La sua opera narrativa, benché facente parte prevalentemente della corrente modernista, risente degli influssi di autori come: Leconte de Lisle, Stéphane Mallarmé, Paul Verlaine, e in generale dei parnassiani francesi. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta: “Horas lejanas y otros cuentos”. La raccolta fu pubblicata nel 1903 in Argentina ed è considerata la sua opera più importante, oltreché la prima raccolta di racconti della letteratura panamense.

Dopo cena, alla vigilia del nostro arrivo a Valparaíso, il dottor Fowland ed io penetrammo nella cabina fumatori. Era deserta. Sin dalla partenza da Coquimbo il mare si era mostrato furioso e i passeggeri, per la maggior parte, non riuscendo a sopportare le forti ondate, si erano rintanati nelle loro cabine. Il cielo era nero, il vento gemeva e sfzava aspramente il tendone da sole sul ponte, la nave danzava con violenza sulle onde e sulle sue fiancate risuonava il fragore incessante della schiuma. Tuttavia, non c’era pericolo, solo il malessere fisico per chi non era avvezzo.

Quella sera il dottor Fowland era straordinariamente nervoso e per la prima volta si coglieva sul suo viso, sempre impenetrabile, la parvenza di un qualche stato d’animo. Era alto, pieno di vigore nella sua asciuttezza, cereo, quasi esangue. Sarebbe stata una fisionomia impassibile, inespressiva, senza quei suoi occhi di un verde giallastro, grandi, profondi e di una luminosità quasi insopportabile, come se contenessero al suo interno un potente riflettore. In verità, producevano uno strano contrasto su quel viso incolore e freddo come il marmo. Di professione faceva il medico e negli Stati Uniti era considerato un’eminenza scientifica. Aveva viaggiato senza meta, a suo capriccio e il suo ritiro ermetico, nei venti giorni di navigazione, era stato infranto solo con me, chissà a causa, forse, di una delle stranezze del suo carattere, ovverosia di simpatie e antipatie istantanee.

— Domani – esclamò — ci salutiamo per seguire strade diverse; poi, sarà come se non ci fossimo mai incontrati. Le amicizie che si fanno durante i viaggi per mare o per terra hanno questo vantaggio: non impongono nulla. Avvicinano due estranei, uniscono i loro animi per qualche giorno, e dopo li separano senza lasciare alcun germe che possa comportare in seguito un ricominciare importuno. Continuerete la vostra marcia, con le inquietanti paure di un futuro ignoto e con la nostalgia ancora fresca degli affetti recentemente perduti. Io non porto neppure quelle paure e quelle invidiabili nostalgie nel mio incerto pellegrinaggio, giacché sono emozioni, emozioni profonde, e io non ho più una sola aspirazione, nemmeno quella del benessere materiale, perché la mia fortuna è maggiore dei miei bisogni. Viaggio per vedere scorrere continuamente le visioni del mondo, che è una distrazione per i miei occhi. Se questo alla fine mi annoierà, mi stabilirò in un luogo qualsiasi con la stessa indifferenza con cui vago ora da un clima all’altro.

Si fermò per mandare giù un sorso di whisky. Poi, continuò a dire:

— Mi avete raccontato qualcosa del vostro passato ed è giusto che faccia lo stesso. Sembrerà che io, moribondo, lo racconti a un altro moribondo. Perché la separazione dei due, alla fine di un viaggio, con la certezza di non rivedersi più, è come salutarsi eternamente dalle proprie tombe. Questa è per me il principale interesse del viaggiare: accompagnare continuamente amici defunti al cimitero, e la tristezza che risiede in questo è una scossa benefica per chi, come me, porta nello spirito una costante quietudine raggelata. Non ritrovarsi più nella vita è morire, e in questa morte fittizia c’è tanta verità e oblio quanto in quella reale. D’altro canto, sono passati molti anni da quegli eventi e voglio commemorarli rivelandoli a voi.

Parlava con la sua voce solita, con lentezza e con toni sordi; ma era diventato ancora più pallido e aveva un bagliore anche più vivo nelle sue pupille. Il suo volto appariva completamente anemico, mentre gli occhi ardevano per il fuoco di una febbre altissima. Fuori, in alto, il vento aveva squarciato il fitto arazzo delle nuvole. Nelle radure azzurre le costellazioni tremavano e la luna, simile a una roncola d’argento, andava a occidente, come per raccogliere messe astrali.

— Quando ebbi la certezza – proseguì il dottor Fowland — che tra mia moglie e il mio segretario (un giovane di ventitré anni che avevo accolto ed educato da bambino) stesse germogliando una passione, ancorché platonica, non meno delittuosa, iniziai a elaborare il mio piano. Entrambi erano già due traditori: una nell’amore, l’altro nella gratitudine, e i traditori si uccidono. In seguito, li sorpresi in un bacio, nient’altro che un bacio, ma abbastanza per procedere, perché il misfatto più grande, ora, dipendeva solo dal poter avere un’opportunità loro. Evitando la realizzazione cosciente di questo sporco proposito, evitavo la vergogna completa, provocando l’opportunità con la mia volontà, invece, ma aggiungendo al delitto la punizione, riabilitavo il mio onore.

Avevo letto di esperimenti di ipnotismo e suggestione, descritti da un medico norvegese e verificati a Parigi dai professori di La Salpetrière e di Nancy. Ebbene, ciò è possibile: io li facevo da molto tempo con risultati ancora più sorprendenti. Ma i veri possessori di questa scienza suprema sono i fachiri dell’India: lasciano nei viaggiatori l’impressione di essere stati testimoni di eventi soprannaturali. Da qui le affermazioni di poc’anzi, descritte, di eventi esistenti solo nelle menti, le quali sono sottoposte dallo sperimentatore a una potente influenza ipnotica. Per quei misteriosi operatori di miracoli dell’antico Oriente, l’ipnotismo e la suggestione su un singolo individuo sono facili tanto quanto quelli su una moltitudine di persone. Lo dimostrò uno di loro a Londra, prima in un concorso teatrale e poi durante un’assemblea di studiosi, in cui erano presenti le più alte celebrità di Oxford.

Il fachiro si sollevò in aria a un’altezza considerevole e rimase lì sospeso, senza alcun punto di appoggio. Seduto in mezzo al cerchio degli spettatori, annunciò che sarebbe sparito, e scomparve, ma la sua voce continuava ad espandersi dalla sedia vuota. Piantò un seme nel terreno, una pianta germogliò, l’albero crebbe, i rami si coprirono di foglie, le foglie di fiori e poi tutto svanì come in una scena di magia. Fece bollire l’acqua di uno stagno e la fece evaporare in un minuto; ad alcuni metri di altezza si allungò una nube densa, e la nube, alla fine, si trasformò in una pioggia copiosa, riempiendo di nuovo lo stagno.

Queste e altre cose, non erano prodigi, ma casi di ipnotismo e di suggestione simultanei, prodotti in concomitanza. Le leggi cosmiche sono immutabili e la loro violazione non è che il semplice frutto dell’allucinazione delle menti dominate da un uomo solo. Come fanno i fachiri a raggiungere una conoscenza così perfetta di quella scienza? Ecco quello che ancora ignoriamo. Ma se non è ancora possibile a un occidentale uguagliarlo, può arrivare, se si propone, molto vicino. E io, votato a questo studio, quasi esclusivamente, sono riuscito a fare conquiste incoraggianti. Così, accorgendomi di quella nascente passione delittuosa, il modo di punire i colpevoli nacque in me naturalmente in linea con le mie indagini e scoperte; e il piano lo concepii velocemente.

Entrambi erano già stati ipnotizzati altre volte per esperimenti importanti. Orbene, sopprimere nei due, in lei soprattutto, la volontà, anche contro i suoi più forti sentimenti, anche contro l’istinto della propria conservazione, era un compito arduo. Cominciai perciò a ordinarle di compiere piccole azioni; poi divennero azioni più importanti, ne aggiunsi una più complessa: già con questa ero sicuro dell’esito di quella ancora più grande. Era la penultima e consistette nell’ordinarle di tagliarsi i capelli. Erano il suo orgoglio: fini, neri, magnifici. Dopo due ore si presentò nella mia camera-studio, con i capelli corti. Era confusa, imbarazzata.

— Non sono riuscita a contenermi – mi disse — non volevo, eppure, a dispetto di me, ho preso le forbici e li ho tagliati. Ho dovuto chiamare un acconciatore per aggiustarli alla meno peggio; devo sembrarti orribile.

Mi sembrava affascinante con quel taglio mascolino e con quel viso che era emerso, delicato e ambiguo come quello di un efebo. Tuttavia, le risposi:

— Stavi meglio con i tuoi capelli… – E aggiunsi imperiosamente: — Rimani qui.

Obbedì come una bambina e cominciai l’ultimo esperimento.

Riposi nella preparazione tutta la mia energia, tutto il flusso che i nervi, duramente scossi durante quella settimana, avevano accumulato, concentrandolo, nella mia mente. La destai e si ritirò. Da quel momento non era più una persona, ma un congegno docile, completamente sottomesso a una forza superiore. Quella forza avrebbe agito nelle sue idee come un feroce tiranno. Dopo chiamai l’altro: il lavoro era semplice, perché la suggestione tendeva come un sostegno efficace per la passione, già indomabile. Nella scena del bacio, li avevo sorpresi da dietro una tenda, c’era stata una grande audacia da parte sua e in lei solo un timido consenso passivo.

Erano le sei del pomeriggio, quando terminai ogni cosa. Ritirato nello studio, alla soave penombra crepuscolare, il mio spirito poté riposarsi dopo otto giorni di collera repressa, di gelosia dissimulata, di tutto un mondo di cose amare e pungenti. La cena fu deprimente, nonostante i miei sforzi per animarla. I due erano silenziosi, assorti: non si guardavano neppure. Senza dubbio qualcosa, troppo debole per essere un’idea precisa, ma abbastanza da generare un vago e ansioso presentimento, palpitava nelle loro anime, prive già del libero raziocinio. La carne, isolata dallo spirito, deve conservare nel suo inconscio un’esistenza larvale che le impedisce la ribellione, ma gli lascia la nozione del pericolo di fronte alla prossimità dell’annientamento. Questo terrore paziente della materia è come una protesta contro la fatalità. Allora lo spirito, nel suo letargo, soffre e si popola di presagi misteriosi, presentimento oscuro di disgrazie vicine, sconosciute, inevitabili.

Al termine della cena, mi congedai, annunciando che sarei ritornato molto tardi. Uscii, lasciando la mia pistola, carica, nel cassetto del comodino della camera da letto. Mi diressi al teatro: volevo che la gente mi vedesse fuori di casa. Al “Metropolitano” si rappresentava Otello. La gelosia e la vendetta del moro mi parsero semplici e bestiali, come quelle di un primitivo dell’epoca paleolitica, e indegne per la mente raffinata dell’uomo moderno. Rincasai alle 23:30, salii le scale, penetrai nello studio, sedendomi davanti alla scrivania. Di fronte a me, dall’altra parte dell’anticamera, attraverso la porta vetrata, si intravedeva la camera da letto, dove si cerneva una luce fioca. Dovevano essere stati in quella camera due ore prima. Ricostruivo il colloquio di lei come se fossi stato presente: si ritrovavano congiunti senza stupore, automi guidati da un impulso irresistibile e il bacio iniziale, di certo più lungo di quello che avevo sorpreso, non aveva avuto alcun effetto emotivo sulle loro facoltà psichiche.

Ora, distesi nel letto, lui scivolava nel sonno gradualmente, per immergersi in un torpore profondo, mentre lei lo contemplava. Erano passati dieci minuti, venti, venticinque. I miei nervi vibravano scossi dall’impazienza febbrile. Senza rendermene conto, ero arrivato, attraverso i vani interni, ad una delle porte della camera da letto. Le tende dei vetri mi impedivano di vedere, ma la mia immaginazione era dentro la camera, al lato del letto e vedevo tutto chiaramente. Il braccio di lei scivolò furtivamente fuori dalle lenzuola, tirò il cassetto, prese la pistola e la puntò all’orecchio del suo amante. Gli spari furono quasi simultanei; penetrai dentro, strappai dalla mano contratta l’arma, la tenni nella mia e aspettai al centro della camera, eretto e sereno.

In seguito, apparvero i domestici, un agente di polizia e alcune persone. Sulla bianchezza del letto si stendeva, allargandosi, una macchia purpurea. Il corpo del ragazzo era già rigido, mentre sgorgava dall’orecchio sinistro un filo di sangue nerastro; quello di lei, con la tempia sconquassata, si agitava in una fievole agonia. Poi, anche lei si immobilizzò. Entrambi, irrigiditi, nella quasi nudità delle loro carni, pallide e insanguinate, riproducevano il simbolo scultoreo del delitto punito. Il quadro non aveva bisogno di chiarificazioni. Tutti restarono in silenzio, guardandomi con affetto compassionevole e quando l’agente ruppe il mutismo per dirmi di seguirlo, la sua voce apparve rispettosa come una invocazione.

 

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Il crimine di Julian Ensor” di Alfonso Hernández Catá

22 giovedì Dic 2022

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Alfonso Hernández Catá, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Il crimine di Julian Ensor, Racconti, TRADUZIONI

C U B A

(1918)

Alfonso Hernández Catá (1885-1940)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di un militare spagnolo distaccato a Salamanca, località di Santiago di Cuba e di una cubana. Nasce in Spagna, si trasferisce pochi mesi dopo a Cuba con la famiglia e ritorna in Spagna all’età di 16 anni per intraprendere i suoi studi. Traduce e approfondisce autori inglesi e francesi, mentre lavora come apprendista ebanista. Tornato nuovamente a Cuba, dirige 2 periodici a La Avana: “El diario de la marina” e “La discusión”. Più tardi, abbraccia la carriera diplomatica rivestendo la carica di console e di ambasciatore in vari paesi europei e sudamericani. La sua opera è caratterizzata da una grande ecletticità di generi: novella, lirica, saggistica, giornalismo, drammaturgia. Tuttavia, il riconoscimento più grande e l’elogio della critica, sia in Spagna che in America Latina, deriva indubbiamente dagli innumerevoli racconti, nei quali sono evidenti il suo spirito critico e cosmopolita, le contraddizioni sociali e umani, le tematiche amorose ed erotiche.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La giacca” di Jacques Roumain

08 giovedì Dic 2022

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  H A I T I

LA GIACCA (1)

(1930)

Jacques Roumain (1907-1944)

Traduzione di Emilio Capaccio

 

Scrittore, poeta e politico. Suo nonno, Tancrède Auguste, fu Presidente della Repubblica di Haiti, dal 1912 al 1913. Nel 1934, fu fondatore del partito comunista del suo paese e a causa delle sue continue attività politiche di resistenza contro l’occupazione americana nell’ambito delle c.d. “guerre della banana”, fu molte volte arrestato ed esiliato dal presidente Sténio Vincent. Viaggiò in Francia, Spagna, Svizzera, Belgio, conoscendo molti intellettuali europei dell’epoca. Nelle sue opere, impregnate dei suoi studi di etnologia, esprime la frustrazione del popolo haitiano, sfruttato per secoli dai coloni e in generale tutti i temi peculiari dell’indigenismo. Il racconto scelto è tratto dalla raccolta di racconti: “La proie de l’ombre”.

 

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La lezione sul caos” di Fabio Fiallo

24 giovedì Nov 2022

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  R E P U B B L I C A  D O M I N I C A N A

LA LEZIONE SUL CAOS

(1908)

Fabio Fiallo (1866-1942)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di un deputato al congresso del paese, si dedica alla politica e alla poesia fin dalla giovane età. È stato un accanito sostenitore del nazionalismo e assume un atteggiamento di netta opposizione nei confronti dell’occupazione degli Stati Uniti, dal 1916 al 1924, all’interno del più vasto conflitto c.d. “guerre della banana”. La sua produzione risente dei canoni del modernismo di Rubén Darío, di cui fu intimo amico, anche se non abbandona totalmente gli archetipi del romanticismo spagnolo e tedesco e un acceso lirismo sentimentale, seguendo l’influenza di Heinrich Heine e di Gustavo Adolfo Bécquer. Continua a leggere →

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. ” Il malo uccello” di Manuel Antonio Alonso Pacheco

10 giovedì Nov 2022

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 P O R T O R I C O 

IL MALO UCCELLO

(1849)

Manuel Antonio Alonso Pacheco (1822-1889)

Traduzione di Emilio Capaccio

Medico, scrittore e giornalista. Studiò medicina all’università di Barcellona. È ritenuto una delle prime figure del romanticismo antillano. La sua opera più importante, “El Gíbaro”, può essere considerata come un quadro delle tradizioni e della vita rurale e campesina dell’epoca, dalle chiare influenze della corrente costumbrista.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Sant’Antonio la canaglia” di Rufino Blanco Fombona

20 giovedì Ott 2022

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V E N E Z U E L A 

SANT’ANTONIO LA CANAGLIA

(1904)

Rufino Blanco Fombona (1874-1944)

Traduzione di Emilio Capaccio

Nella sua opera si alternano vari generi letterari: poesia, narrativa, saggistica, libri di viaggi. Fervido oppositore della dittatura del generale Juan Vicente Gómez e per questo incarcerato e in seguito esiliato in Spagna e in Francia. Figura distaccata del modernismo, il suo stile abbraccia anche altre correnti artistiche degli inizi del XX secolo: positivismo, realismo, naturalismo. In particolare, nei racconti e nelle novelle, oltre al suo fervore politico, è chiara l’influenza di Maupassant e di Balzac ed è quasi sempre presente una concezione pessimistica della società attraverso la rappresentazione e l’enfatizzazione dei suoi elementi più tipicamente ignobili e corrotti. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta: “Cuentos americanos”.

 Rufino Blanco Fombona

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Carne” di Efé Gómez

06 giovedì Ott 2022

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 C O L O M B I A

CARNE

(1925)

Efé Gómez (1867-1938)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stato narratore, matematico, ingegnere e docente dell’Università di Antioquia. Insieme a Tomás Carrasquilla e a Francisco de Paula Rendón, ha fatto parte del gruppo degli intellettuali di Antioquia e ha collaborato a varie riviste, tra le quali: “El montañés”, “El repertorio”, “Alpha y Cirirí”. Il suo stile si discosta dal modernismo predominante alla fine del XIX secolo per anticipare un realismo critico e spietato, frutto dell’influenza esercitata soprattutto dagli studi fatti sulle opere di Nietzsche e di Schopenhauer. Spesso i personaggi dei suoi racconti, per una imprinting pessimistico delle condizioni esistenziali dell’uomo, conducono una vita senza scopo, senza porsi domande sul domani né fare niente per tendere a qualcosa altro che non sia al mero presente in cui intessere le loro trame ingannevoli, meschine, egoiste.

La notte era fredda e uggiosa. Continua a leggere →

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. Chumbote di Josè de la Cuandra

22 giovedì Set 2022

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 E C U A D O R

CHUMBOTE

(1931)

José de la Cuadra (1903-1941)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato uno dei più importanti narratori del suo paese. Studiò diritto, fu docente universitario, membro del partito socialista ecuadoriano e scrittore, appartenente al gruppo Guayaquil, il più importante movimento culturale del XX secolo, in Ecuador. Il suo stile di scrittura si distacca dai canoni del modernismo per tendere verso le tematiche del realismo sociale. Nei suoi racconti, caratterizzati a volte da una crudezza espressiva a cui si accompagna un’attitudine all’uso dell’ironia, si pone l’attenzione sulla natura dell’uomo comune, del “montuvio” che abita la costa e in generale si enfatizza la ricchezza culturale dei personaggi nell’ambito del loro contesto rurale.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La nave nera” di Abraham Valdelomar

08 giovedì Set 2022

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≈ 1 Commento

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Abraham Valdelomar, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, La nave nera, Racconti, TRADUZIONI

P E RU’

LA NAVE NERA

(1913)

Abraham Valdelomar (1888-1919)

Taduzione di Emilio Capaccio

Una delle figure più emblematiche della letteratura peruviana, insieme a César Vallejo, José María Eguren e José Santos Chocano. È stato narratore, poeta e critico letterario, esponente del postmodernismo, affine alla corrente dell’avanguardia, anche se sono presenti inclinazioni nella sua opera che denotano una nostalgia per la vita di provincia e tentativi di elaborare temi creoli e incaici. Il racconto seguente fa parte dei “cuentos criollos” (racconti creoli) ed è ambientato durante l’infanzia dell’autore nella cittadina natale di Pisco nei pressi di Ica. Il racconto fu scritto nel 1913 e originariamente inserito in una raccolta intitolata: “La aldea encantada”, opera che non fu mai portata a termine. Il racconto venne pubblicato solo più tardi, nel 1917, sulla rivista “Almanaque de La Prensa” e non figurò in nessuna raccolta antologica dell’autore.

I

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Giustizia india” di Ricardo Jaimes Freyre

23 giovedì Giu 2022

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B O L I V I A

 GIUSTIZIA INDIA

(1906)

Ricardo Jaimes Freyre (1868-1933)

Traduzione di Emilio Capaccio

Soprannominato “principe dei poeti boliviani”, è uno dei rappresentanti più autorevoli del Modernismo, insieme a Rubén Darío, con il quale fondò nel 1893, a Buenos Aires, la “Revista de América”, considerata un manifesto della nuova corrente artistica e principale canale di propaganda. È stato poeta, scrittore, saggista e storico. Ricordato per essere stato uno dei primi artisti ad introdurre definitivamente il verso libero. Degna di interesse è anche la sua carriera politica. Figlio di un diplomatico di Potosí, città a sud della Bolivia, situata a un’altezza di oltre 4000 metri, è stato ambasciatore negli Stati Uniti e in Brasile, nonché rappresentante del suo paese, a Ginevra, all’interno delle Società delle Nazioni e, più tardi, Ministro degli Esteri.

I due forestieri stavano bevevano l’ultimo sorso di vino, stando in piedi accanto al fuoco. La brezza fredda del mattino faceva tremolare debolmente le tese dei loro larghi cappelli di feltro. La vampa scoloriva sotto la luce incerta e biancastra dell’aurora; si schiarivano indistintamente i recessi dell’ampio patio e si abbozzavano tra le ombre, sullo sfondo, le pesanti colonne di creta che reggevano la copertura fatta di canne e pagliuche.

Legati ad un anello di ferro fissato a una delle colonne, due cavalli imbrigliati aspettavano, a testa bassa, masticando con difficoltà lunghi fili d’erba. Accanto al muro, un giovane indio, accovacciato, con una scarsella piena di mais nella mano, faceva saltare in bocca i chicchi giallastri.

Quando i forestieri furono pronti per partire, altri due indios si accostarono davanti al grande cancello rustico. Sollevarono una delle grosse travi, incuneate nei muri per sbarrare il passaggio, e si addentrarono nel grande patio.

Il loro aspetto era umile e miserabile, e più umile e miserabile lo rendevano le giacchette strappate, le camicie grezze aperte sul petto e i lacci di cuoio pieni di nodi ai sandali.

Lentamente si accostarono ai forestieri che stavano montando sui loro cavalli, mentre la guida india sistemava alla cinta la scarsella di mais e annodava stretto alle gambe i lacci dei sandali. I forestieri erano giovani; alto uno, assai pallido, dallo sguardo freddo e duro; l’altro, piccolo, bruno, dalla fisionomia allegra.

— Signore… – mormorò uno degli indios.

Il forestiero pallido si voltò verso di lui.

— Che cosa vuoi, Tomás?

— Signore… lasciatemi il mio cavallo…

— Di nuovo, imbecille! Vuoi che mi metta in cammino a piedi? In cambio ti ho dato il mio, può bastare.

Ma il vostro cavallo è morto.

— Sicuro, che è morto! È morto perché l’ho fatto correre per quindici ore di fila. È stato un grande cavallo! Il tuo non vale niente. Pensi che farebbe le stesse ore di corsa?

— Ho venduto i miei lama per comprare quel cavallo alla festa di San Juan… Inoltre, signore, avete dato fuoco alla mia capanna.

— Giusto! È stato perché sei venuto a incomodarmi con i tuoi piagnistei. Io ti ho tirato un tizzone per farti andare via, tu hai spostato la faccia e il tizzone è caduto dentro un mucchietto di paglia. Non è colpa mia. Avresti dovuto ricevere con rispetto il mio tizzone. E tu cosa vuoi, Pedro? – domandò, rivolgendosi all’altro indio.

— Vengo a supplicarti, signore, di non portarmi via le mie terre. Sono mie. Io le ho seminate.

— Questo è affar tuo, Cordova – disse il cavaliere, rivolgendosi al suo accompagnatore.

— No, per certo, questo non è affar mio. Io ho fatto quello che mi è stato chiesto di fare. Tu, Pedro Quispe, non possiedi quelle terre. Dove sono i tuoi titoli? Voglio dire, dove sono i tuoi documenti?

— Io non ho documenti, signore. Mio padre non aveva documenti, né tanto meno il padre di mio padre. E nessuno ci ha portato via la terra. Voi volete darla a qualcun altro. Io non vi ho fatto alcun male.

— Hai da qualche parte una borsa di monete? Dammi la borsa e ti lascio la terra.

Pedro volse a Cordova uno sguardo d’angoscia.

— Non ho monete e non potrei mai racimolarne così tante,

— Allora non c’è altro da aggiungere. Lasciami in pace.

— Pagatemi ciò che mi dovete.

— Ma non finiremo mai! Pensi che sia tanto idiota da pagarti una pecora e qualche gallina che mi hai dato? Pensavi che saremmo morti di fame?

Il forestiero pallido, che cominciava a spazientirsi, esclamò:

— Se continuiamo ad ascoltare questi due imbecilli, restiamo qui per sempre…

La cima della montagna, sul fianco della quale poggiava l’ampia e rustica locanda, cominciava a brillare ferita dai primi raggi di sole. La desolata aridezza del paesaggio, tra le sierre nerastre, si illuminava lentamente e si distingueva sotto il blu del cielo, tagliuzzato a tratti da nubi plumbee che correvano veloci.

Cordova fece un segno alla guida, che si diresse verso il cancello. Dietro di lui uscirono i due cavalieri.

Pedro Quispe si precipitò verso di loro e afferrò le redini di uno dei cavalli. Un colpo di frusta sul volto lo fece indietreggiare. Allora i due indios uscirono dal patio, correndo velocemente verso una vicina altura, si arrampicarono con la rapidità e la destrezza di una vigogna, e quando giunsero alla sommità gettarono lo sguardo intorno.

Pedro Quispe avvicinò alle labbra la sua buccina che portava appesa sulla spalla e lanciò un suono grave e prolungato. Si fermò un istante, poi continuò con note rapidi e stridenti

I forestieri cominciarono a incamminarsi per il fianco della montagna; la guida, con passo sicuro e fermo, procedeva indifferente, divorando chicchi di mais. Quando risuonò la voce della buccina, l’indio si fermò, guardò i due cavalieri e cominciò a correre per una mulattiera aperta tra le colline. Pochi istanti dopo, scompariva nella lontananza.

Cordova, rivolgendosi al suo compagno, esclamò:

— Alvarez, quei furfanti ci portano via la nostra guida.

Alvarez fermò il suo cavallo e guardò con inquietudine in ogni direzione.

— La guida… E a che cosa ci serve, oramai? Temo qualcosa di peggio.

La buccina continuava a risuonare, sulla sommità della collina la figura di Pedro Quispe si disegnava sullo sfondo azzurro, sopra la rossastra nudità delle cime.

Sembrava che ai picchi e ai bivi passasse un sortilegio; dietro le grandi distese di pascoli, tra le impavide stoppie e le aspre erbacce, sotto le larghe strisce dei campi, alle porte delle capanne e in cima ai monti lontani, si vedevano comparire e scomparire rapidamente figure umane. Si fermavano un attimo, volgevano lo sguardo verso la collina dove Pedro Quispe strappava incessanti note dalla sua buccina, e poi si trascinavano su per le colline, arrampicandosi cautamente.

Alvarez e Cordova continuavano a discendere per la montagna; i loro cavalli ansimavano fra le asperità rocciose, per lo stretto sentiero, i due cavalieri, visibilmente inquieti, si lasciavano portare in silenzio.

Improvvisamente, un sasso enorme, staccato dalla cima della sierra, rotolò accanto a loro, con un lungo ruggito; poi un altro… poi un altro ancora…

Alvarez lanciò il suo cavallo alla fuga, costringendolo a fiancheggiare la montagna. Cordova seguì immediatamente il compagno; ma i massi rotolavano dietro di loro. Sembrava che la catena montuosa si stesse sgretolando. I cavalli, scagliati come una tempesta, balzarono sulle rocce, poggiando miracolosamente gli zoccoli sugli spuntoni, e vacillarono nello spazio, a un’altezza enorme. In breve tempo, le montagne furono coronate di indios. I cavalieri allora si precipitarono verso la stretta gola che serpeggiava ai loro piedi, attraverso la quale scorreva dolcemente un filo d’acqua sottile e cristallino.

Le profondità si popolarono di strane armonie; il suono roco e sgradevole dei corni spuntava dappertutto, e alla fine della gola, sopra la luce radiosa che si apriva tra due montagne, un gruppo di uomini si alzò all’improvviso.

In quel momento, un enorme macigno centrò il cavallo di Alvarez. Lo videro indugiare per un momento e poi cadere, rotolando giù per il fianco della montagna. Cordova balzò a terra e iniziò a strisciare verso il punto in cui si poteva vedere l’ammasso polveroso di cavallo e cavaliere.

Gli indios cominciarono a discendere le vette: dalle strettoie e da ogni recesso sbucavano ad uno ad uno, avanzando cauti e fermandosi in ogni momento con lo sguardo fisso sul fondo dello strapiombo. Quando raggiunsero la riva del torrente, avvistarono i due viaggiatori. Alvarez, steso a terra, era inerte. In piedi, accanto a lui, il suo compagno, con le braccia al petto, in preda alla disperazione per la sua impotenza, fissava la lenta e paurosa discesa degli indios.

In un piccolo pianoro ondulato, formato dalle depressioni dei monti che lo delimitavano alle quattro estremità con quattro larghi crinali, i vecchi e le donne attendevano l’esito della caccia all’uomo. Le donne indios, con le loro gonne corte e tonde, di stoffe ruvide, i mantelli attaccati sui seni, i cappelli scintillanti, le trecce ruvide che cadevano sulla schiena e i piedi nudi, si raggruppavano silenziose a un’estremità, e si vedeva tra le loro dita la danza vertiginosa del mandrino e dell’avvolgitore.

Quando gli inseguitori arrivarono, condussero con loro i viaggiatori legati sui loro cavalli. Furono portati al centro della spianata e gettati per terra, come due fagotti. Le donne allora si avvicinarono e li guardarono con curiosità, senza smettere di filare, parlando sottovoce. Gli indios rifletterono per un momento. Poi un gruppo si diressero verso i piedi della montagna. Tornarono portando due grandi orci e due grandi travi. E mentre alcuni scavavano la terra per fissare le travi, gli altri riempivano piccole brocche di terracotta con il liquore contenuto negli orci.

Bevvero finché il sole non cominciò a cadere all’orizzonte e non si udì altro che il mormorio delle conversazioni soffocate delle donne e il rumore del liquido che si riversava nelle brocche mentre esse venivano sollevate.

Pedro e Tomás presero i corpi dei cavalieri e li legarono ai pali. Alvarez, la cui spina dorsale era spezzata, emise un lungo gemito. I due indios li spogliarono, gettando a terra tutti i loro indumenti uno per uno. E le donne potettero guardare con ammirazione i loro corpi bianchi.

Dopo, iniziò il supplizio. Pedro Quispe strappò la lingua a Cordova e gli bruciò gli occhi. Tomás coprì il corpo di Álvarez di piccole ferite con un coltello. Poi, fu il turno degli altri indios che strapparono i loro capelli, li lapidarono e gli conficcarono delle schegge di legno nelle ferite. Una giovane donna india, ridendo, versò una gran brocca di chicha (1) sulla testa di Alvarez. La sera moriva. I due viaggiatori avevano già da tempo consegnato la loro anima al Gran Giustiziere; e gli indios, sfiniti, abbuffati, indifferenti, continuavano a colpire e a lacerare i corpi.

In seguito, fu necessario giurare il silenzio. Pedro Quispe tracciò una croce sulla terra, e uomini e donne s’avvicinarono per baciare la croce. Poi sfilò dal collo il rosario, che non abbandonava mai, e gli altri vi giurarono sopra, e dopo sputò per terra, e tutti passarono sulla terra sputata.

Quando le spoglie insanguinate scomparvero alla vista e si cancellarono le ultime tracce della scena che si era appena svolta nelle asperità dell’altipiano, l’immensa notte cadeva sulla solitudine delle montagne.

(1) È il nome dato a diversi tipi di bevande leggermente alcoliche o analcoliche, originarie del Sudamerica, derivate dalla fermentazione di cereali, frutta o manioca.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Il cane” di Rafael Barrett

09 giovedì Giu 2022

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P A R A G U A Y

 IL CANE

 (1911)

Rafael Barrett (1876-1910)

Traduzione di Emilio Capaccio

Scrittore, saggista e giornalista, nato in Spagna e morto in Francia, ma vissuto per il periodo più significativo della sua vita in Paraguay, tanto da essere considerato uno dei più influenti scrittori di questo paese e promotore della moderna letteratura paraguayana. Ebbe una vita estremamente avventurosa, e bohémienne, fatta di duelli, ristrettezze economiche, collaborazioni con riviste e giornali di vari paesi e continui viaggi per il mondo. In Paraguay arrivò nel 1904, come corrispondente del giornale “El Tiempo”, per documentare la rivolta politica del generale liberale Benigo Ferreira, futuro presidente del Paraguay, dal 1906 al 1908. Barrett riuscì a farsi portare all’accampamento dei ribelli e a restare con loro fino a quando, alla fine dell’anno, non entrò nella città di Asunción insieme a Benigo Ferreira, vittorioso contro le truppe del presidente in carica, Juan Antonio Escurra, che dovette fuggire in Argentina. Sotto il nuovo governo fu nominato direttore dell’Ufficio Generale di Statistica. Dal 1903 al 1910 fu inviato in Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay come corrispondente per vari giornali, coniando per sé il termine di “giornalista militante”. Quasi tutta la sua opera è stata pubblicata postuma. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta “Cuentos breves”.

Attraverso le ampie vetrate aperte della sala da pranzo dell’hotel, contemplavo, dal mio tavolo, l’orizzonte marino, sfumato nel lento crepuscolo. Vicino al molo riposavano le vele delle barche. Qualche silhouette elegante attraversava ad intervalli la sala, salendo la rampa; una cocotte che andava a rifarsi la toeletta per la cena, uno sportman pungolato dall’appetito. La sala si andava riempendo; il tintinnio di piatti e posate preludeva il pasto serale; i camerieri, di affettato e diplomatico aspetto, scorrevano in silenzio.
La luce elettrica, sopra la pila di tovaglie bianche come la neve, saltellava dal bordo di un calice alla convessità di un braccialetto d’oro per brillare all’angolo di una bocca sorridente. La brezza della notte smuoveva le piume dei ventagli, agitava i paralumi delle piccole lampade portatili, scopriva un braccio nudo sotto la flottante mussolina, e mescolava gli aromi del campo e del mare ai profumi delle donne. Si stava bene e non si pensava a niente.
All’improvviso un bel cane entrò nella sala da pranzo, e dietro di esso una giovane donna bionda e altezzosa che andò a sedersi assai lontano da me. Il suo accompagnatore si allontanò controllandoci. Era una specie di levriero, di razza incrociata. Il pelo, fine e dorato, brillava come quello di un pupazzo. La testa intelligente, degna di essere accarezzata da una di quelle mani che solo Van Dick ha compreso nelle sue tele, non si allungava in atteggiamento mendico. All’animale aristocratico non importava cosa succedesse sui tavoli. I suoi occhi alteri, gialli e trasparenti come due topazi, sembravano giudicarci sdegnosamente.
Giunto alla mia altezza, si fermò. Lusingato da questa preferenza, gli offrii un boccone di insaccato. Accettò e mi salutò con un discreto cenno della coda. Non ritenni corretto insistere e lo lasciai andare via. Istintivamente guardai verso la giovane bionda. Il blu intenso delle sue pupille sorrise benevolmente.
Dopo aver consumato la cena uscii sul terrazzo, dove c’era solitudine. Il faro proiettava un raggio di luce rotante, ora bianco, ora rosso, sulle acque nere dell’oceano. Il vento si era calmato. Un alito tiepido si levò dalla terra ancora calda.
Assorto davanti a quello spettacolo sentii, quando meno me lo sarei aspettato, le zampe nervose del mio nuovo amico che si posavano su di me. La giovane bionda mi era accanto.
— Che cane ammirevole, signorina…! o signora? – Domandai.
— Signora – disse la voce più dolce che abbia mai sentito.
Cominciammo così a vederci la sera, sulla terrazza solitaria, e durante alcuni pomeriggi facemmo lunghe passeggiate per i campi insieme a Tom, nostro unico testimone.
La signora di V. era russa. Mal sposata, ricca e malinconica, a volte riusciva a ottenere dal marito un periodo di libertà. Allora si abbandonava al fascino della natura e al sapore dei ricordi, e trascinava le sue delusioni per tutte le spiagge mondane.
— Non dovrei odiarlo – mormorava — ma lo odio; sì, lo odio, e Tom lo stesso; è arrogante, geloso, insopportabile; gli avrei perdonato le mie tristezze, se mi avesse dato un figlio. Neppure quello.
Il suo ombrello tracciava un leggero solco sul prato.
— Non posso permettermi un’amicizia, una simpatia. La sua intransigenza selvaggia mi tiene reclusa. Sarà qui fra quindici giorni.
Abbassò la testa dorata e continuò sottovoce:
— Amico mio; povera me se sospettasse questa innocente amicizia. Non potremo vederci più quando arriverà! Sarebbe troppo pericoloso, V. è uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Il suo braccio tremava sotto il mio, ma i suoi occhi umidi luccicavano teneramente. Tom saltava sulle farfalle e veniva a leccarci le mani. Lo accoglievamo con grandi risate e dopo lo consolavamo pieni di rammarico.
In altre occasioni la signora di V. mi riceveva nella sua camera. Tom si gettava sopra di me freneticamente. Lei, con gioia da bambina, mi mostrava i ritratti delle sue amiche, o mi raccontava storie della sua infanzia. Di quando in quando, si impossessava di noi un eccesso di sentimentalismo e con le dita intrecciate restavamo muti, lasciando parlare il nostro silenzio emozionato. Ma sempre prima di andarmene, io e Tom, giocavamo come due ragazzini.
Davanti alla gente facevamo finta di non conoscerci. Quando la signora di V. faceva il suo ingresso in sala da pranzo, a malapena inclinava la fronte. Tom faceva la sua solita passeggiata, e si fermava un attimo a ricevere qualche mia attenzione. Niente salti, niente feste! Il tatto di quell’animale era prodigioso! Un giorno in cui stavo pranzando con un conoscente, passò alla larga, come se non mi avesse mai visto. Ma il suo sguardo sembrava dire: “Non sono geloso; è quel signore che mi è antipatico”.
Venne il momento funesto. La signora di V. si presentò alle terme in compagnia del marito, la mia disperazione. L’uomo non lasciava la moglie un istante, come se si trattasse di una prigioniera. La donna portava Tom con loro, e io non riuscivo neppure ad accarezzare la testa del nostro fedele confidente.
Le settimane passavano e io cominciavo a scoraggiarmi, quando un giorno fui presentato al signor V. nel corso di una conversazione con i signori di H. Per una coincidenza uscimmo insieme, e insieme facemmo rientro nell’hotel.
Il signor V. era così come me lo avevano dipinto; il suo aspetto, aspro e sgradevole; la sua conversazione, autoritaria e asciutta. Scambiammo poche parole. Stringendomi la mano mi chiese con indifferenza:
— Volete conoscere mia moglie? Sarà ancora in piedi. È molto riservata, ma le piace discorrere in francese.
Che fare? Salimmo le scale, e ci fermammo davanti alla camera dove avevo trascorso tanti momenti deliziosi. All’improvviso mi assalì il terrore. Il cane! Avevo dimenticato il cane! Il cane mi avrebbe fatto le feste e leccato con tutta la sua anima! Che partito prendere? Povera amica mia! Povero me! Non mi piacque ricordare che il signor V. era uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Come chi va a suicidarsi, entrai nella stanza. La signora V., assalita dal mio stesso pensiero, divenne più pallida della morte. Tom, disteso con elegante indolenza, sollevò le orecchie al rumore dei nostri passi e aprì i suoi lucidi occhi giallastri…
Ma non si mosse neppure. Si accontentò di dimenare ironicamente la lunga coda impennacchiata.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La guercia” di Júlia Lopes de Almeida

26 giovedì Mag 2022

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B R A S I L E

LA GUERCIA

(1903)

Júlia Lopes de Almeida (1862-1934)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stata una delle ideatrici della “Accademia brasiliana delle lettere”. Avrebbe dovuto far parte dei 40 “immortali” che inizialmente la costituirono, ma fu scelto di mantenere l’Accademia completamente maschile, sull’esempio di quella francese, e al suo posto di dare la cattedra n. 3 al marito, il poeta Filinto de Almeida, che fu chiamato, per questo, “accademico consorte”. Solo nel 2017, è stato riconosciuto dall’Accademia il torto commesso ai danni della scrittrice e riconosciuta la stessa come cofondatrice dell’Accademia. È nota, oltre che per la sua considerevole opera letteraria, giornalistica e teatrale, di influenza prevalentemente naturalista, anche per essere stata una delle più tenaci abolizioniste della schiavitù e del commercio di persone africane nel suo paese, nonché sostenitrice della repubblica e dell’istruzione delle donne, del divorzio e dei diritti civili. Il racconto proposto è considerato un classico della letteratura brasiliana e inserito in molte antologie scolastiche.

Júlia Lopes de Almeida

La guercia era una donna alta, rinsecchita, macilenta, aveva il petto incavato, il busto ricurvo, le braccia lunghe e smilze, ma i gomiti e i polsi erano tozzi; le mani erano grandi, ossute, deformate da reumi e fatica; le unghie ispessite, opache e grigie, i capelli crespi, di un colore tra il bianco sporco e il biondo cinerino, che al tatto apparivano ruvidi e ispidi; la bocca cadente, in un’espressione di spregio, il collo lungo, raggrinzito, come quello degli avvoltoi; i denti, storti e marci.

Il suo aspetto infondeva terrore nei bambini e ribrezzo negli adulti; non tanto per la sua statura e per la straordinaria magrezza, quanto perché aveva un orribile difetto: le avevano cavato l’occhio sinistro; la palpebra scendeva avvizzita, lasciando, tuttavia, accanto al punto lacrimale, una fistola continuamente purulenta.

Era quella macchia giallastra nel fosco dell’occhiaia, quel distillare incessante di pus, che la rendeva ripugnante agli occhi degli altri.

Viveva in una vecchia casupola, il suo unico figlio, che faceva l’operaio in una sartoria, le pagava il fitto; lei si dava da fare lavando biancheria per gli ospedali e si arrabattava a fare qualunque faccenda domestica, compreso preparare da mangiare. Da bambino, il figlio trangugiava le misere pietanze fatte da lei, a volte anche nello stesso piatto sporco; poi crescendo, il disgusto per quel cibo si era manifestato pian piano sul suo viso; finché un giorno, con il pretesto di dover occuparsi di un ordine, aveva detto alla madre che, per comodità degli affari, di lì in avanti non avrebbe più mangiato a casa…

Lei finse di non capire la verità e si rassegnò.

Tutto il bene e tutto il male venivano da quel figlio.

Che importanza poteva avere che la gente la disprezzasse, se il suo amato figlio la ricompensava con un bacio per tutta l’amarezza dell’esistenza?

Un bacio del figlio era più bello di una giornata di sole, era la più dolce blandizia per il cuore triste di una madre. Ma anche i baci cominciarono a scarseggiare, con la crescita di Antonico. Da piccolo, la stringeva tra le braccia e la riempiva di baci; poi passò a baciarla solo sulla guancia destra, dove non c’era traccia della deformità della madre; ora si limitava a baciarle la mano.

Lei comprendeva tutto e taceva.

Il figlio non soffriva meno della madre.

Quando da bambino fece il suo ingresso nella scuola della parrocchia, i compagni di classe, che lo vedevano andare e venire con la madre, presto cominciarono a chiamarlo — il figlio della guercia.

Questo fatto lo indisponeva enormemente e ogni volta rispondeva:

— Io ho un nome!

Quelli ridevano e si prendevano gioco di lui; il bambino si lamentava con i maestri, i maestri rimproveravano gli alunni e qualche volta li punivano anche, ma il soprannome era rimasto, e presto non fu più soltanto a scuola a chiamarlo in quel modo.

Per strada, spesso, sentiva dire da questa o quella finestra: il figlio della guercia! Sta passando il figlio della guercia! Sta arrivando il figlio della guercia!

Erano le sorelle dei suoi compagni, più piccole e innocenti che, istruite dai loro fratelli, ferivano il cuore del povero Antonico ogni volta che lo adocchiavano.

Le fruttaiole, dove andavano a comprare le guava o le banane per la merenda, impararono rapidamente a chiamarlo allo stesso modo, e, molte volte, scostando gli altri bambini che si affollavano intorno a loro, dicevano con pietà e affetto, allungando una manciata di araçá (1):

— Queste sono per te, figlio della guercia!

Antonico avrebbe preferito non ricevere un bel nulla, al sentire tali parole; tanto più che gli altri bambini, con stizza, irrompevano ad alta voce, cantando in coro un motivo noto:

— Figlio della guercia, figlio della guercia!

Antonico chiese a sua madre che non andasse più a prenderlo a scuola; e rosso di vergogna, le raccontò la ragione; ogni volta che lo vedevano apparire sull’uscio della scuola i compagni bisbigliavano ingiurie, strizzavano l’occhio e gli facevano facce schifate.

La guercia sospirò e non andò più a prendere a scuola suo figlio.

All’età di undici anni, Antonico lasciò la scuola: era arrivato ormai ad azzuffarsi quotidianamente con i compagni che lo tormentavano e lo detestavano. Aveva chiesto di entrare nel laboratorio di un falegname. Ma nel laboratorio del falegname, ben presto impararono a chiamarlo — il figlio della guercia, e a umiliarlo, come quando andava a scuola.

Per di più, il lavoro era pesante e cominciò ad avere vertigini e malori. Trovò allora un impiego di addetto alle vendite, ma in breve tempo, i colleghi cominciarono a raggrupparsi davanti alla porta, per prenderlo in giro, e il venditore ritenne prudente mandarlo via, tanto più che arrivavano dalla strada dei teppistelli ad afferrare fagioli e riso nei sacchi davanti il negozio per gettarli addosso al ragazzo. Era una continua grandine di cereali sul povero Antonico.

Dopo questa esperienza si rintanò in casa, nauseato, smagrito, emaciato, disteso per terra alle mosche, sbadigliando di continuo e amareggiato da tutto. Evitava di uscire di giorno e non accompagnava mai la madre; lei lo risparmiava: aveva paura che in uno svenimento, il ragazzo gli morisse tra le braccia, e così non lo rimproverava mai. All’età di sedici anni, vedendolo più in salute, la guercia chiese e ottenne per lui un impiego in una sartoria. La povera donna raccontò al padrone tutta la storia di suo figlio e lo pregò di non lasciare che gli apprendisti lo umiliassero, ma che serbassero un po’ di carità per quel ragazzo.

Antonico incontrò un certo riserbo e una strana silenziosità da parte dei suoi compagni; quando il mastro diceva: — il signor Antonico – percepiva un malcelato risolino sulle labbra degli operai; ma a poco a poco questo sospetto, o questo risolino, cominciò a svanire, finché non iniziò a sentirsi bene nella sartoria.

Trascorse qualche anno e venne il momento che Antonico si prendesse una bella cotta per una ragazza. Fino ad allora, in questa o in quella inclinazione a infatuarsi, aveva trovato sempre una resistenza che lo aveva scoraggiato e lo aveva fatto indietreggiare senza troppe ferite. Ora, però, la cosa era diversa: si era innamorato veramente. Amava come un dissennato la bella morettina dell’isolato vicino, una ragazzetta adorabile dagli occhi neri come il velluto e la bocca fresca come un bocciolo. Antonico tornò un’altra volta a essere presente assiduamente in casa e si aprì alla madre con maggiore affetto; un giorno, quando ebbe scorso gli occhi della morettina fissarsi su di lui, entrò come un folle nella stanza della guercia e la baciò a lungo sul viso, anche sulla guancia sinistra, in un traboccare di scordata tenerezza.

Quel bacio fu per la donna un’inondazione di gioia. Aveva ritrovato il suo figlio caro. Si mise a canticchiare per tutto il pomeriggio, e quella notte, addormentandosi, confidò a sé stessa:

— Sono felice… mio figlio è un angelo!

Intanto Antonico scriveva, su carta fine, la sua dichiarazione d’amore. Il giorno seguente spedì la lettera di buonora. La risposta si fece attendere parecchio. Per molti giorni Antonico si perse in amare congetture.

All’inizio pensò: — È pudore.

Poi cominciò a sospettare qualcos’altro; alla fine ricevette una lettera in cui la bella morettina confessava di voler essere la sua innamorata, a patto che lui accettasse di separarsi da sua madre. Seguivano spiegazioni ingarbugliate, mal allineate: gli ricordava la necessità di cambiare quartiere; lì, era conosciuto come il figlio della guercia, e lei non voleva essere additata come la nuora della guercia, o qualcosa del genere.

Antonico si disperò. Non poteva credere che la sua casta e gentile morettina avesse pensieri così pratici.

Poi volse il suo rancore alla madre.

Lei era la causa di tutte le sue disgrazie. Aveva tormentato la sua infanzia, rovinato tutte le sue carriere, e ora il suo sogno più luminoso si sarebbe dissolto davanti a lui. Si sentì affliggersi per essere nato da una donna così brutta, e decise di cercare un modo per separarsi da lei; si sarebbe sentito umiliato se avesse continuato a vivere sotto lo stesso tetto; certo, avrebbe continuato ad accudire sua madre, ma lo avrebbe fatto da lontano, andando a trovarla qualche volta, di notte, furtivamente…

Salvava in questo modo la responsabilità di un figlio che deve prendersi cura della madre, e, al tempo stesso, poteva consacrare alla sua amata la felicità che le doveva in cambio del suo consenso e del suo amore…

Ebbe una giornata terribile; la sera, tornando a casa maturò il progetto e la decisione di riferirlo alla madre.

L’anziana donna, accovacciata davanti alla porticina del cortile, lavava alcune pentole con uno straccio unto. Antonico pensò: “Obbligherei veramente mia moglie a vivere con…una tale creatura?” Queste ultime parole furono strappate dal suo spirito con autentico dolore. La guercia sollevò il volto verso di lui, e Antonico, vedendo il pus che le colava sulla faccia, disse:

— Pulitevi la faccia, madre…

Lei affondò la testa nel grembiule e lui continuò:

— Alla fine, non mi avete mai spiegato a cosa è dovuto questo difetto!

— Fu una malattia – rispose la madre strozzando le parole — meglio non ricordarlo!

— Sempre la stessa risposta: meglio non ricordarlo! Perché?

— Perché non ne vale la pena; non c’è rimedio…

— Bene! Adesso ascoltate: ho da riferirvi una novità. Il padrone chiede che io vada a stare nelle vicinanze del negozio…ho già affittato una stanza; voi resterete qui, verrò tutti i giorni a trovarvi per sapere se avete bisogno di qualcosa… È per causa del lavoro; non abbiamo scelta, dobbiamo sottostare!…

Mingherlino, curvato per l’abitudine di cucire sulle ginocchia, asciutto e pallido come tutti i ragazzi cresciuti nell’ombra delle botteghe, dove il lavoro inizia presto e la sera finisce tardi, aveva gettato in quelle parole tutta la sua energia, e ora scrutava la madre con uno sguardo esitante e timoroso.

La guercia si alzò e, fissando il figlio con un’espressione tremenda, rispose con doloroso sdegno:

— Filibustiere! La verità e che ti vergogni di essere mio figlio! Vattene via! Che anch’io mi vergogno di essere la madre di un tale ingrato!

Il ragazzo se ne andò a testa bassa, dimesso e sorpreso dall’atteggiamento che aveva assunto la madre, fino ad allora sempre paziente e gentile, obbedendo meccanicamente a un ordine così ferocemente impartito.

Lei lo accompagnò fuori, serrò con un botto la porta, e vedendosi sola, si piegò contro il muro, scoppiando a piangere.

Antonico trascorse un pomeriggio e una notte di inquietudine.

La mattina seguente il suo primo pensiero fu quello di tornare a casa; ma non ebbe il coraggio di farlo; rivide il volto furioso della madre, le guance contratte, le labbra assottigliate dall’odio, le narici dilatate, il suo occhio destro sporgente, penetrante fino al fondo del suo cuore, il suo occhio sinistro formicolante, avvizzito e colmo di pus; rivide il suo atteggiamento altero, il suo dito ossuto, con le falangi sporgenti, che puntava energicamente verso la porta sulla strada.

Poteva sentire ancora il suono cavernoso della sua voce, il fiato che aveva preso per dire le vere e amare parole che gli aveva gettato in faccia; rivide tutta la scena del giorno prima e non osò affrontare un’altra volta il pericolo.

Si ricordò della madrina, l’unica amica della guercia, che, però, di rado andava a trovarla. Andò a chiederle di intercedere per lui, e le disse con franchezza tutto quello che era successo.

La madrina lo ascoltò commossa, poi disse:

— L’avevo previsto, quando consigliai a vostra madre di dirvi tutta la verità; lei non volle ascoltarmi, ed ecco!

— Quale verità, madrina?

Trovarono la guercia intenta a smacchiare il vestito elegante del figlio, voleva mandargli tutti gli indumenti lavati e puliti. La povera donna si era pentita delle parole che aveva pronunciato e aveva trascorso tutta la notte alla finestra, aspettando che Antonico tornasse o semplicemente passasse… Presagiva giorni avvenire vuoti e oscuri, e già si detestava. Quando l’amica e il figlio entrarono nella stanza, restò paralizzata: la sorpresa e la gioia le imbrigliarono ogni movimento.

La madrina di Antonico esordì subito:

— Il vostro ragazzo mi ha pregata di venire a chiedervi perdono per quanto è accaduto ieri e colgo l’occasione per dirgli quello che avreste dovuto dirgli voi, molto tempo fa.

— Non dite niente! – mormorò con voce spenta la guercia.

— Invece parlo! È proprio questa mollezza che vi sta facendo soffrire! Ascoltate, ragazzo! Chi accecò vostra madre foste voi!

Il figlioccio divenne livido in volto; la madrina continuò:

— Ah, non fu colpa vostra! Eravate molto piccolo quando, un giorno, a tavola, alzaste una forchetta nella mano; lei era distratta, e prima che potesse evitare la catastrofe, gliela conficcaste nell’occhio sinistro. Riesco ancora a sentire il suo grido di dolore.

Antonico cadde pesantemente a faccia in giù, in preda a uno svenimento; sua madre gli si avvicinò prontamente, borbottando tremante:

— Povero figlio! Vedi? Ecco perché non volevo dirti niente!

(1) È un frutto spontaneo autoctono del Brasile. La sua bacca è sferica, prevalentemente di colore giallo o rosso, mentre la polpa biancastra è di consistenza carnosa, di sapore dolce e lievemente acidula.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “L’immagine” di José Pedro Bellán

12 giovedì Mag 2022

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U R U G U A Y

L’IMMAGINE

(1914)

José Pedro Bellán (1889-1930)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stato drammaturgo, per il quale è maggiormente conosciuto, insegnante in varie scuole e corsi serali, scrittore, politico, esponente del partito “Colorado”, uno dei partiti politici che ha governato per più anni il paese. È stato deputato dal 1926 al 1930. Ha fatto parte del movimento artistico e letterario che ha dato vita, nella città di Montevideo, alla rivista “Bohemia”, pubblicata dal 1908 al 1910, diretta da Louis Alberto Lista e, in seguito, da Edmundo Bianchi. Le sue opere teatrali e le sue raccolte di racconti rispecchiano in prevalenza la corrente del realismo con grande capacità di introspezione dei personaggi, affrontando tematiche attinenti il puritanesimo, il ruolo della donna, l’educazione cattolica, e la cultura borghese. In generale, i personaggi di Bellán, spesso, si fanno portatori di conflitti interiori che scaturiscono dal nuovo modello spaziale di aggregazione sociale, che è la grande città, degli inizi del ‘900 a scapito dell’ambiente rurale. Il racconto proposto è tratto da una delle prime raccolte: “Huerco”.

In una delle ultime casette del barrio dei pescatori, quasi sulla riva del mare, il vecchio Leopoldo, settantenne, fuma la pipa carica di virginia (1). Davanti a lui, la moglie del figlio, pungolata da un pensiero tenace, rammenda una calza grigia bucata sul tallone. Restano così per molto tempo: muti, senza guardarsi, come se fossero soli. Certamente hanno lo stesso pensiero.

La tempesta non si ferma. Per tre ore ha sconquassato il barrio e lo ha riempito di paura.

Il mare è una tempesta immensa che stordisce. I suoi promontori d’acqua durano per un istante, convulsi, inquieti, poi crollano nello stesso momento. Sembrano ribollire.

Tutte le barche sono tornate fuorché una.

— Maria ci mette troppo, dice Leopoldo, rompendo il silenzio.

Si riferisce alla nipote di dieci anni, una bella bambina con gli occhi azzurri, bianca e delicata. L’hanno mandata già tre volte a chiedere notizie e per tre volte ha cercato i compagni di suo padre, i pescatori salvi, implorandoli di riferire qualche informazione, anche la più semplice, la più insignificante.

Quando è tornata, ha risposto nello stesso modo delle volte precedenti.

— Nessuno sa niente… nessuno lo ha visto.

Si è seduta vicino al tavolo e vi si è appoggiata. Le sue piccole mani esangui si sono congiunte come in preghiera.

La scena si è ripetuta. L’immagine fredda del raccoglimento stretto alle cose ha permeato la stanza. È passato un po’ di tempo.

Leopoldo parla di nuovo. La sua voce si fa inquieta e spaventa.

— Questo vento!

Elena ascolta con ansia. Poi, spinta dai suoi pensieri, domanda:

— Quanti erano nella barca?

— I soliti. Lui e i due ragazzi.

Si ferma. Poi sbotta:

— Una volta sono quasi annegato.

Elena chiede con interesse:

— E come vi siete salvato?

— Ascolta tu stessa. Era notte. Il vento si infilava tra il velame in una maniera tale che ebbi paura avrebbe rovesciato la barca. Allora mi legai a essa, annodai le corde agli anelli e, non potendo sciogliere le vele, le squarciai con il coltello. In seguito, stemmo più di sette ore sulla barca, come su una boa alla deriva. Un vaporetto ci soccorse.

— Se solo Renato avesse quest’idea – dice Elena, con l’immaginazione che corre.

— Sì… lui sa di queste cose…

Elena non pensa che lui lo sappia; ha dato uno sguardo attento al suo passato e non ricorda che Renato abbia mai parlato di qualcosa di simile. Da ciò intuisce che non saprebbe salvarsi e un’angoscia più grande le preme sulla gola. In tutto questo, la bambina sembra addormentata sul tavolo.

Senza rendersene conto, Elena giunge a una crudele tenerezza. Esclama tristemente:

— Povero Renato… ricordate quando vi siete andato in collera con lui? Nessun figlio si sarebbe comportato così.

— È vero ragazza, avete ragione. Ricordo anche che in seguito ho pianto per la prima volta. Che cuore!…

Elena continua:

— Non se la prende mai per niente. Vedeste la guerra che gli fece mio padre. Tuttavia, dopo che ci siamo sposati, Renato non ha smesso di fargli favori. Se n’è preso cura e lo ha mantenuto. Si può dire che mio padre ha vissuto a sue spese.

Ora non riesce a trattenersi. Emette un singhiozzo.

— Andiamo ragazza; non c’è motivo di piangere…

Entrambi si fanno silenziosi per paura di farsi prendere troppo dall’inquietudine. Leopoldo afferra un palangaro e lo svolge quanto gli consente lo spazio intorno a lui. Dopo lo rimette a posto, controllando amo dopo amo, sughero dopo sughero. Qualcosa di strano passa attraverso il palangaro, tra le sue dita febbrili.

Elena mette da parte il rammendo senza rendersene conto. Guarda il vecchio e lo osserva a lungo con ansia, cercando una risposta alla sua muta domanda, insistendo su quel volto rinsecchito che resta tranquillo. È convinta che il vecchio lo sa, necessariamente. Trent’anni in mare, non gli danno il diritto di conoscerlo bene?…

Si alza e prendendolo per le spalle gli dice in una supplica disperata:

— Voi lo sapete… voi lo sapete…

Il vecchio spalanca gli occhi per lo stupore. In quel momento il suo Renato è un ragazzino che ha appena finito di gattonare, che ha disordinato tutto rompendo i ninnoli, che dice, mamma, papà, e che piange quando non lo baciano. Tarda solo pochi secondi per capire cosa vuole quella ragazza. Allora il rude scuotimento gli fa umidire gli occhi, e risponde in modo ottuso:

— Non lo so… come faccio a saperlo?…

Questa volta è lei a usare parole di conforto.

— Ora siete voi che vi ponete male — dice affettuosamente. — Aspettiamo. È possibile che non sia accaduto nulla di grave.

Ma, sentendo che Leopoldo respira violentemente, continua con maggiore tenerezza:

— Calmatevi… vi farà male. E poi… Maria è lì. Se si svegliasse e ci sorprendesse… La povera piccola è felice dormendo.

Leopoldo bacia la ragazza e lei si siede al suo fianco, sfiorandolo quasi con la gonna. Così, messi uno accanto all’altro, si sentono meglio.

Tornano a parlare di Renato. All’inizio lo fanno con animo sereno, con più fermezza. Tuttavia, nel momento in cui i dettagli dei ricordi emergono, un tono commosso sale dalle loro gole.

Parlano di lui come se non esistesse.

Maria li interrompe bruscamente. Dal suo sogno esclama a mezza voce:

— Sì, la barca… la barca… – Poi un grande grido, angoscioso, indefinito.

— Avete sentito? — Dice convulsivamente Elena — Sarà qualche incubo.

— Chi lo sa. Sogna… che cosa sognerà?…

— Dovrei svegliarla?

— No no, lasciatela dormire tranquilla. Sarà felice. Immagino che sogni suo padre!

I due si alzano per osservarla meglio. Elena arriva prima. Una sensazione di freddo le rende difficile la respirazione. Rimane immobile, insieme al vecchio, che patisce la stessa difficoltà. Entrambi sembrano trattenuti da una straordinaria visione.

Leopoldo, con la mano ad artiglio si preme una guancia. La pelle della fronte, in profondi solchi, si stende e la sua bocca resta aperta, anelante, pietosa, come un becco assetato.

A sua volta, Elena mostra una sorpresa lampante. Si regge la fronte e stringe le palpebre, muovendo la testa da un lato all’altro, come se volesse sfuggire ad un’immagine che la investe da ogni parte. Sente le gambe afflosciarsi e cade sulla panca, vicino al tavolo.

Mormora:

— È possibile… solo… solo…!

Regna il silenzio dell’emozione. I due fanno un gesto. Una moltitudine di espressioni appare sui loro volti, con sorprendente rapidità. Terrore, angoscia, veemenza, panico, contentezza, paura, delusione, impotenza, tutto accelerato, fuggente, tutto convulso. Pare che abbiano visto qualcosa di tremendo dalla finestra.

— Che onda formidabile — esclama Elena, come una dissennata. — Lo ucciderà, lo ucciderà! Oh!…

Sta per continuare ma Leopoldo le copre la bocca.

— Zitta… zitta… — e le afferra la testa con entrambe le mani. Il cuore dei due si sente battere con strepitio. Maria continua a dormire nella stessa posizione, con il viso nascosto tra le braccia acciambellate a forma di nido. La candela accesa poco prima da Elena illumina metà della stanza. Un’ombra spessa e irregolare ricade pesantemente sulla testa della bambina.

— La tempesta è più forte lì. Avete sentito?… È più forte lì.

Leopoldo cerca di frenarla per impedirle di dire ciò che vorrebbe dire.

— Ti inganni, ti inganni… – risponde con spontaneità. — Ne so più di te. La barca resiste perché…

Tace, chiude gli occhi, fa uno sforzo mentale e dice con implorante incoerenza.

— No, no; se avesse forza, se potesse ancora…se ha perso i sensi?

Elena abbraccia il vecchio.

— Papà – chiama il suocero — Papà… il mio Renato sta morendo… Guardate, guardate… che colpo di mare… lo ha trascinato dentro.

— Ah! Ah!… uscite fuori…uscite fuori…venite a vedere?

Elena… le sue gambe pendono dalla balaustra. Si regge. E i due, abbracciati più forte, guardandosi negli occhi, continuano fatalmente la narrazione di un fatto che si produce nello stesso istante, a qualche miglio in mezzo al mare.

— Oh… non reggerà…

— Sì… vi dico di sì…

— No, no… oh… come si solleva il mare…

— Cade, cade… si sgonfia…

— La barca è scomparsa, la barca è affondata… dov’è?…

— Appare… l’onda è passata sopra…

— E Renato è lì… ha gli occhi chiusi… è tutto livido.

Elena si scuote con violenza.

— Oh!… che orrore… che bestia grande… terribile… la bocca… la bocca… si avvicina a Renato… mio Dio!…

— Renato… tirati su, tirati su… – grida Leopoldo, come se l’altro potesse sentirlo.

— Se lo prende… se lo prende – esclama Elena — ha ingoiato una gamba… se lo porta… cade in mare… cade in mare…ormai… è caduto… è caduto… è caduto… non si vede più… è affondato… è affondato Renato! Renato… – conclude con voce strozzata e il suo corpo ondeggia come una colonna colpita alla base.

In quel momento, Maria si sveglia. Senza notare fuori sua madre e suo nonno, setaccia la stanza con un’occhiata. Poi, gira per tutta la casa, gridando dolorosamente, chiamando con angosciosa impazienza, come se l’essere che cerca volesse fuggirle con spietatezza.

— Papà… papà…

Un gatto nero sfreccia per la stanza.

(1) Indica per omonimia il tipo di tabacco che viene prodotto nello stato della Virginia negli Stati Uniti d’America.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Io non so se sono lei” di Roberto Arlt

28 giovedì Apr 2022

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A R G E N T I N A

IO NON SO SE SONO LEI

(1935)

Roberto Arlt (1900-1942)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di emigrati, padre prussiano e madre triestina, è stato uno scrittore, drammaturgo e giornalista di grande talento. I suoi reportage, come corrispondente della guerra civile spagnola, appaiono sul quotidiano “El Mundo”, di Buenos Aires, diretto da Alberto Gerchunoff. Su una colonna dello stesso, puntualmente, appaiono anche resoconti di viaggi all’interno dei confini del paese e in paesi come Brasile, Uruguay e Nordafrica. Molta popolarità assumono le sue “aguafuertes”, cronache, a volte, dalle tinte “costumbriste”, che trattano temi sociali e politici, con spirito critico e condanna delle condizioni dei più derelitti nei “barrios” miseri e popolosi. I suoi personaggi, spesso donne, sono permeati da atmosfere cupe e spietate della Buenos Aires dei primi anni del XX secolo. La sua scrittura rompe gli schemi della narrativa tradizionale modernista, mediante l’utilizzo di un linguaggio più duro e asciutto e di temi connessi con le problematiche del progresso tecnologico e dell’espansione caotica e allucinante dei centri di agglomerazione urbana. È considerato uno dei fondatori della moderna letteratura argentina e padre spirituale di un’intera generazione di scrittori sudamericani, come: Riccardo Piglia, Gabriel García Márquez, Isabel Allende e altri. Il racconto proposto è apparso sulla rivista “El Hogar” il 23 febbraio del 1935. Non è contemplato nelle due raccolte di racconti che Arlt ha pubblicato in vita. Solo nel 2018, il racconto è stato inserito nella raccolta completa: “El bandido en el bosque de ladrillo”, a cura di Gastón S. Gallo, edito da Simurg.

Fred, stupito, piantò lo sguardo su un’immagine della rivista, scritta in una lingua che non comprendeva. Greta Garbo, guardandosi allo specchio, con la mano destra immortalava lo spazzolino con cui si lavava i denti. Ai lati della fotografia, una boccetta di stagno versava un lago color rosa di pasta dentifricia: Crystaldent.

La diva, avvolta in una vestaglia da camera di velluto, ruotava la testa sorridendo con le sue labbra simili ai petali di un’orchidea. Per un attimo, Fred rimase curvo sulla rivista americana, poi, seduto sul ciglio del letto, rifletté:

“È assurdo che Greta Garbo si presti a fare la pubblicità di un dentifricio, nessuna attrice che si rispetti arriverebbe a tanto. A meno che non abbia grane finanziarie. Ma in che cosa spende ciò che guadagna? Ad ogni modo, chi si salva dal fare cose stupidi? Se io, tre anni fa, come avevo pensato, mi fossi messo a studiare inglese, la mia situazione sarebbe un po’ diversa.”

Avvicinò la testa all’immagine. Indubbiamente, la ragazza della pasta dentifricia era Greta Garbo. Sollevò gli occhi per confrontare l’immagine della rivista con una fotografia che aveva attaccato al muro molto tempo prima. Era lei, con i suoi capelli di vetro biondo, le palpebre socchiuse, gli occhi rivolti al cielo, le labbra simili ai petali di un’orchidea, con la molla dei baci rotta per sempre, come se pretendesse in un desiderio inestinguibile risucchiare tutti i piaceri che soffiano le brezze da ogni direzione del mondo.

Ripeté tra sé:

“Soffrirebbe di ristrettezze economiche. Ma è assurdo. Forse, al momento opportuno, una mattina è arrivato un agente pubblicitario, uno di quei promotori dall’aria gioviale che, offrendo grossi sigari, avrà snocciolato un motivo di facile comprensione. Le avrà detto:

— Vi occorre qualcosa, miss Greta? Posi per Crystaldent. Centomila dollari, all right?”

Staccandosi dal tavolo, Fred si sistemò su una sedia accanto allo spigolo del letto. Nonostante l’ordine, la sua camera dava l’impressione di essere stata smantellata. Osservò con la coda dell’occhio il ritratto dell’attrice, appeso al muro, ombreggiato nelle parti scure, e in cui l’iposolfito del bagno, che cominciava a decomporsi, ingialliva le zone chiare. Si chiese per la centesima volta, parlando a voce alta:

— Che uomo potrebbe mai essere l’amante di una donna così? In lei tutto è commedia.

All’improvviso accade qualcosa di straordinario.

— Commedia in me! – ripeté una voce.

Fred alzò precipitosamente le palpebre.

La rivista era caduta per terra. Dalle pagine spiegazzate, la scia di un vestito saliva verticalmente nell’aria, come falpalà di fumo di un abito astrale. Sulla gorgiera bianca del vestito di raso nero fioriva un’adorabile testa.

La riconobbe all’istante. Era lei, con un copricapo di castoro che lasciava spuntare qualche ricciolo inanellato dietro i lobi delle orecchie. Tra le fioriture delle sue ciglia, osservava l’uomo dentro la stanza con una leggera ruga a forma di forcina sulla fronte, mentre Fred, con le mani appoggiate sul bordo del tavolo, si immobilizzava nel proprio stupore. Greta Garbo sorrideva scoprendo la fila dei denti, con gli occhi grigio-verdi illuminati come dagli ultimi bagliori del sole di un luogo esotico.

Fred rispose, senza sapere ciò che diceva:

— Non parlate così forte. La padrona di casa dorme nella stanza accanto. È una vecchia perversa.

Lei ancora non aveva ripreso a parlare.

Lo fissava gravemente. Sembrava di ritrovarsi in una steppa nevosa. A Fred, involontariamente, affiorò alla mente Anna Karenina (1). La donna si voltò bruscamente su sé stessa e si fermò davanti alla sua fotografia, attaccata alla buona sulla parete. Fred indovinò il suo pensiero e cercò di discolparsi.

— Non ho mai avuto abbastanza denaro per comprargli una cornice adeguata.

L’attrice sollevò il cuscino. Fred, sorridendo, continuò, guardando come lo lasciava cadere.

— È un buon metodo per capire se i letti siano puliti. Gli insetti hanno un debole per i cuscini.

Finalmente lei disse:

— Quindi, voi vivete qui?

— È più tetro di una galera, vero?

— Sì.

Ora apriva l’anta dell’armadio. Curiosava all’interno, mentre il suo corpo ondulava leggermente, come se sorreggesse il ricordo ancora recente di una piacevole danza.

— Tutti questi abiti sono invernali – commentò Fred. — Per di più, sono pieni di tarme.

Greta Garbo buttava l’occhio qua e là.

— Cercate una sedia? – Fece segno di cederle la sua. — È l’unica che c’è… La padrona di casa è una donna meschina.

Subito, la sua voce si arrochì nel fondo della gola. Le sue parole sembrarono sgorgare da più in profondità, pensò:

“Possibile che non abbia niente da dirle? Ora che lei è qui!”

Quando parlò nuovamente, il suo timbro rivelò una tale sofferenza che la diva nordica rimase immobile davanti all’armadio, con la schiena riflessa nello specchio.

— È meraviglioso e assai triste – proseguì Fred. — Voi, la donna che suscita soggezione nella moltitudine delle platee, siete qui, ora. Qui, realmente con il vostro corpo, con il vostro volto impossibile da concepire accanto al nostro.

Poi, si alzò dalla sedia e, afferratala per un braccio, la fece sedere sul bordo del letto. Come dal ciglio di un sogno, si domandò:

— È mai possibile tutto questo?

Greta Garbo contemplava le punte delle sue scarpe di raso.

— Siete qui, umile e triste come Susan Lenox, come Anna Christie, come la dolorosa amante de “La modella”(2). E io non so concepire altro da dirvi che silenzio. Riverserei nelle vostre orecchie parole meravigliose, ma mi accorgo solo ora che le parole sono meravigliose quando si rivolgono a un fantasma, non a una donna in carne e ossa. Mi ascoltate?

Con le gambe accavallate, poggiata sul sostegno del letto, la donna dai capelli di cristallo restava fredda e distante.

Fred proseguì:

— Mi guardate come un gatto che ha rubato il pesce, è così? Non mi importa. Perché siete venuta? Il vostro ambiente non è questo, e non comprendo la vostra lingua. Vi detesto. Questa è la verità. Vi detesto. Non conosco uno solo dei vostri ammiratori che non sia affamato del vostro amore. Non per godere di esso, siete così magra, ossuta e isterica, ma per avere la rifusione di umiliarvi, il piacere di piegarvi. Così con quell’unica moneta potremmo riscattare l’amara ammirazione che avete seminato nel cuore di tutte le donne.

Greta Garbo lo ascoltava come affacciata sull’orlo di un precipizio, con l’ombra di una montagna sul viso e alle spalle un vento gelido.

Il pensiero rimestava in Fred grandi folate di odio.

— Oh, lo so! Se qualcuno potesse vedervi in questa misera stanza in affitto, davanti a queste fotografie macchiate dalle mosche, con il vostro aspetto di viaggiatrice stanca, vi compatirebbe.

Camminava lentamente da un punto all’altro della stanza.

— Lo so. Vi compatirebbero. Correrebbero a offrirvi un bicchiere di limonata, a cambiare le lenzuola. Ma perché ve ne state con la testa china? È per umiltà? No, non lo è. È perché conoscete la semplice meccanica dell’odio, e sperate che la sua raffica si disperda nell’aria. Quando avrò riversato ai vostri piedi tutto il risentimento che fa ribollire la mia indignazione, e la mia ira si sarà esaurita, solleverete il viso, e le vostre braccia fresche e indolenti ricadranno sulle mie spalle. Così avete fatto anche con gli altri, ed è per questo che vi odio, perché i nostri rancori si sciolgono come neve sul fiore delle vostre labbra.

L’attrice non sollevò le palpebre. Fissava la punta delle sue scarpe. Restò così, intristita, come sull’orlo di un precipizio, nelle cui profondità correva un nero torrente.

Fred si avvicinò e le disse sottovoce come se stesse rilevando un segreto:

— Ipocrita… la più ipocrita e perfida di tutte le donne! Provocatrice! Ora comprendete perché le donne corrono, come quando si va al mercato, ad esaltare per qualche moneta le peripezie della vostra esistenza di celluloide? Perché in ognuno di quei torbidi episodi, che voi siate meretrice, spia o demi-mondaine, riscoprono al sole le arterie della loro vita. Per questo vi amano e vi esaltano. Non potrebbe che essere così. Alla fine di ogni avventura, corre incontro a voi un disperato che, con il viso rivolto alla luce, trasforma in estasi la sua infamia, esclamando:

Ti ringrazio, Dio, di amare e di poter ricevere come un’elemosina lo sguardo di questa donna che ha trascinato per tuguri la sua bellezza immortale!

Ve ne rendete conto? Avete la virtù di trasformare in bellezza il sudiciume del mondo! Non volete rispondermi!? È chiaro! Risulta molto più comodo.

Fred accese una sigaretta e contemplò, per brevi istanti, come si spegneva nello specchio la fiamma del cerino.

— Eppure ci sono degli illusi che credono veramente in questo, nel vostro amore!… senza rendersi conto che non potrete mai amare nessuno, se non il vostro successo. Siete sempre stata così rabbiosamente egoista, che il vostro petto è rimasto senza sentimenti. Non mi meraviglia che finiate per mettere in bella mostra un dentifricio. Non c’è da stupirsi Oh! È ridicolo. Ridicolo e spaventoso.

Siete egoista e dura come la mala pietra contro cui si ferisce il piede lungo la strada. La vostra ingordigia e la violenza dei gesti, la falsa febbre dei vostri occhi, con ciglia ugualmente false, e le labbra spudorate che sono rimaste fiacche e inerti nel baciare così tante bocche senza baci, si traducono in pellicce, in collane, in viaggi lunghi come sogni e nello stritolare cuori semplici. Siete diventata un simbolo del secolo. Per questo meritereste di morire lapidata sulla riva del mare, affinché le acque vi purifichino. No… Sarebbe una morte fin troppo dolce. Dovrebbero legarvi a un palo, sopra un mucchio di legna secca, e come le streghe di un tempo, bruciarvi viva. E così le vostre ceneri sarebbero ripulite.

Fred si accasciò e, seduto accanto al tavolo, pose la fronte sulle dita di una mano.

La diva scostò un ricciolo dalle tempie, avanzò verso di lui, e in piedi, curva sulla sua spalla sinistra, gli parlò come a un vecchio amico:

— Tutti quegli uomini che caddero ai miei piedi e dissero: “Ti ringrazio, Dio, di amare e di poter ricevere come un’elemosina lo sguardo di questa donna che ha trascinato per tuguri la sua bellezza immortale!”. Tutti quegli uomini che ho incatenato per il collo e che ho accostato amorosamente al mio collo, tutti gli uomini le cui fronti febbrili si sono raffreddate al tocco delle mie labbra, mi hanno già detto anche queste parole che avete pronunciato voi: che meritavo di essere lapidata o che meritavo di essere bruciata viva. Ora capite? E in questo odio inestinguibile verso di me, sta la mia grandezza. Questo odio è la mia schiva bellezza. Non ho conosciuto uno solo di quegli uomini che hanno bevuto dalla mia bocca, come in un calice di seta, baci che fanno svaporare il cervello, che non abbia voluto lacerarmi sotto le sue unghie, incenerirmi con un bacio maledetto. Vi rendete conto di quanto è grande il vostro amore, tesoro mio?

Fred protestò furiosamente.

— Non chiamatemi tesoro… – Poi, senza poter trattenere un sorriso, borbottò: — Questa è bella.

La donna nordica ugualmente sorrise:

— D’altra parte, io non sono Greta Garbo.

— Non siete Greta Garbo? Ma come?

— Sono la ragazza della rivista.

— Ma siete uguale a lei.

— Così somigliante, sì, che a volte credo che io non sia io ma lei.

— Questa è davvero buona per una bella storia.

— Vi crea disturbo?

— Oh no! Nel modo più assoluto. Come potrei sentirmi a disagio dentro questo sortilegio?

A sua volta, la ragazza si mise a camminare per la stanza, lanciando in aria volute di fumo dalla sigaretta che aveva tra le mani.

— Un commerciante si accorse della mia somiglianza con la diva. Mi assunse per promuovere il suo banco. Un mese dopo i proventi erano cresciuti del trenta per cento. Quando si decise di prolungarmi il contratto, una casa di moda mi aveva già offerto venti volte di più. Viaggi, interviste con manager… La mia carriera è stata rapida, prodigiosa. Ho contratti con aziende di prodotti chimici, catene di grandi alberghi. Un impianto termale che era quasi sul lastrico mi assunse per una stagione e la pubblicità, abilmente orchestrata, riversò frotte di visitatori verso il lido deserto.

— Non avete girato qualche film?

— Mai!… Alcuni produttori cinematografici hanno chiesto di incontrarmi. Ho sempre rifiutato di fare cinema. A cosa servirebbe? Il mio successo dipende da quello della vera Greta Garbo.

— La vanità non vi ha tentata?

— Perché la vanità? Sono arrivata a non sapere se io sono io o sono lei. Nel mio guardaroba ho tutta la collezione dei costumi che Greta Garbo ha usato per girare i suoi film. Adrian, il sarto di Hollywood, mi manda sempre una copia dei modelli destinati a lei. Come Greta, mi hanno fotografato tra bambine bionde con mazzi di fiori, come Greta, mi hanno fotografato in mezzo a truffatori, marinai, trafficanti di gomma, avventurieri; come Greta, mi hanno fotografata a pesca, giocando sulla neve, guardando, desolata, dal parapetto di una nave, la costa che si dissolve nell’orizzonte… Ho finito per confondermi…io non so se sono lei. A volte mi sembra di sì…che sono Greta Garbo in uno dei suoi attacchi di nevrastenia, i quali, come nebbiolina, velano i contorni dei suoi successi.

E di lei, quella vera, che mi dite?…

— Non lo so… Non voglio vederla, non voglio sapere niente di lei come donna. Dicono che le sue ciglia siano finte, che i suoi piedi siano grandi, e che la sua mancanza di intelligenza sia molta. Niente di tutto questo mi riguarda e non mi interessa. Io sono Greta, la Greta perfezionata e filtrata attraverso l’arte degli stilisti, degli esperti dei laboratori fotografici e dei produttori di pasta dentifricia. E questo mi basta.

— Sì, credo che basti.

Fred osservava il profilo della ragazza, la linea del naso, il sopracciglio energico, le labbra come sfiorate da una folata di etere.

Lei continuò:

— Che cosa mi importa di tutto! Mi hanno adorata tanto! Lo sapete, uomo della stanza di questa pensione? Tutti! Come se fossi lei. E poi, io lo sono. Mi hanno amata per tanto tempo. Impiegati che hanno una moglie sgradevole, solitari che percorrono il mare in fuga da un fallimento fraudolento, lestofanti, fantasiosi. Nessuno ha voluto vedere in me la donna che fa la pubblicità di un modello di Gaster o dei profumi di Nieber. Io e l’altra ci siamo mescolate in un solo, indissolubile sogno. E tutti ci hanno dato il loro amore, anche le donne!

Parlava sempre come se fosse affacciata sull’orlo di un precipizio, con l’ombra di una montagna sul viso e alle spalle un vento gelido venuto da lontano.

— Essere amata! Sapete perché mi sono staccata dalla pagina della rivista, uomo della stanza di questa pensione? Perché il vostro amore mi ha chiamata. Sì, mio caro! Il vostro grande amore! Avete passato ore e ore seduto ai piedi di questo letto a guardarmi negli occhi. E quando dicevate: “Io non potrei mai amarla”, era perché sapevate che io, o lei, o noi due, non saremmo mai venute qui, al vostro fianco. E ora lasciate che vi baci.

Poggiata come stava sul bordo del tavolo, corse al centro. Fred sollevò il viso e avvicinò la bocca. I petali di carne aderirono lentamente ai suoi, la sua anima veniva risucchiata in un sospiro che restava sospeso all’infervorarsi del cuore. L’odore salato del mare copriva le loro teste, i grandi occhi erano così vicini ai suoi che sentì perdersi dentro di loro. All’improvviso uno strepito terribile risuonò accanto, poté vedere come la figura della donna si rimpiccioliva, fino a che una piccola sagoma di bambola penetrò tra i fogli della rivista, e allora rialzò il viso con sonno e sofferenza. Un piacere era morto.


[1] Greta Garbo fu la protagonista di due versioni tratte dal romanzo di Lev Tolstoj: una versione senza sonoro diretta, nel 1927, da Edmund Goulding, dal titolo “Love”, e un rifacimento sonoro diretto, nel 1935, da Clarence Brown, dal titolo: “Anna Karenina”.

[2] Greta Garbo interpretò Susan Lenox nel film “Cortigiana” del 1931, diretto da Robert Zigler Leonard. Interpretò Anna Christie nell’omonimo film del 1930, diretto da Clarence Brown; di questo film, l’anno successivo venne girato una versione tedesca, diretta da Jacques Feyder, con protagonista la stessa Garbo, ma con un cast di attori diverso. Il film “La modella” fu girato nel 1930, diretto ancora da Clarence Brown.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La perquisizione” di Baldomero Lillo

14 giovedì Apr 2022

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C I L E

LA PERQUISIZIONE

(1917)

Baldomero Lillo (1867-1923)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato il principale esponente del naturalismo sociale nella letteratura cilena. Il suo stile preciso ed espressivo, dai chiari echi modernisti, con descrizioni minuziose dei paesaggi, risente dell’influenza dei grandi naturalisti europei, quali: Honoré de Balzac, Émile Zola, Lev Tolstoj. Collaborò con varie riviste e giornali, tra i quali la rivista “Zig-Zag” e i quotidiani “El Mercurio” e “Las Últimas Noticias”. I suoi personaggi appartengono ai ceti sociali più poveri e sfruttati, irretiti nel loro destino, in una squallida miseria. Al lavoro nelle miniere e all’aspra vita delle comunità minerarie dedica una raccolta di racconti, intitolata “Sub Terra”, pubblicata nel 1904. L’opera è il frutto della conoscenza delle dure condizioni di vita dei minatori di carbone del suo villaggio, fatta attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, e dell’esperienza che Lillo stesso fece in uno spaccio di una miniera negli anni giovanili. Il racconto proposto è tratto dalla seconda edizione della raccolta, pubblicata nel 1917, con l’aggiunta di cinque racconti, tra cui “El registro”, ovvero “La perquisizione”.

La mattina era fredda e nebbiosa, una sottile pioggerella bagnava i grossi cespugli di vecchi boldi (1) e di litracee (2) rachitiche. L’anziana donna, con la gonna arrotolata e i piedi scalzi, andava a passo svelto per l’angusto sentiero, evitando per quanto possibile l’unghiata dei rami, dai quali scorrevano grossi goccioloni, che foravano il terreno molle e spugnoso della scorciatoia. Era un sentiero solitario e poco battuto che, deviando dalla strada scura, conduceva a un piccolo insediamento distante una lega e mezza dall’imponente stabilimento carbonifero, le cui costruzioni apparivano, di tanto in tanto, fra le radure della boscaglia, nella distanza sfocata dell’orizzonte.

Nonostante il freddo e la pioggia, il viso della donna era intriso di sudore e il suo respiro, rotto e affannoso. Stretto al petto, portava un fagotto avviluppato tra le pieghe del logoro scialle di lana.

Piccola, esile, rinsecchita. Il suo volto, pieno di rughe con occhi scuri e tristi, aveva un’espressione umile, rassegnata. Si mostrava molto inquieta e sospettosa, e man mano che gli alberi diventavano più radi, si faceva più visibile la paura e l’agitazione.

Quando sboccò sul margine del bosco, si fermò un istante a guardare con attenzione lo spazio scoperto che si estendeva davanti a lei, come un immenso lenzuolo grigio, sotto il cielo d’ardesia, quasi nero in direzione del nordest.

La pianura sabbiosa e sterile era deserta. A diritta, interrompendo la loro monotona uniformità, si alzavano i muri bianchi dei capannoni coronati dalle lisce soffittature di zinco, che scintillavano sotto la pioggia. E più in là, toccando quasi le pesanti nubi, saliva dall’enorme ciminiera della miniera il nero ciuffo di fumo, contorto, sbrindellato dalle raffiche furibonde del settentrione. L’anziana donna, sempre timorosa e irrequieta, dopo un istante di osservazione fece passare il suo corpo sottile tra i fili di ferro della recinzione che delimitava da quel lato i terreni della struttura, e si incamminò in linea retta verso le abitazioni. Di tanto in tanto si chinava a raccogliere il biodo umido, stecchi di legno, rametti, radici secche disseminate nella sabbia, con cui realizzò un piccolo fastello che fissò con uno spago e adagiò sulla testa.

Con questo trofeo fece il suo ingresso lungo i corridoi degli alloggi, ma gli sguardi ironici, i sorrisetti e le parole a doppio senso indirizzate al suo passaggio, le fecero capire che lo stratagemma era noto e non ingannava gli occhi penetranti delle vicine.

Sicura del riserbo di quella brava gente, non diede importanza a quelle frecciatine e si fermò solo quando si trovò davanti la porta del suo alloggio. Infilò la chiave nella serratura, fece girare i cardini e una volta dentro passò il catenaccio.

Dopo aver sistemato in un angolo il fastello e adagiato accuratamente il fagotto sul letto, si tolse lo scialle e lo appese a una cordicella che attraversava la stanza all’altezza della testa.

Più tardi, diede fuoco a un mucchietto di sterpi e di carbone che era pronto nel camino e sedendosi su una piccola panca davanti al focolare, attese. Una fiamma scintillante si alzò e illuminò la stanza sui cui muri nudi e freddi si disegnò l’ombra surreale e spigolosa dell’anziana. Quando credette che il calore fosse sufficiente, mise sui ferri la teiera con l’acqua per il mate, afferrò il pacco sul letto, lo slegò e collocò il suo contenuto, una libbra di erba e una libbra di zucchero, sull’estremità della panca, dove si trovavano già la tazza di maiolica sbreccata e la cannuccia di latta.

Mentre il fuoco scoppiettava, la donna accarezzò con le dita secche l’erba sottile e lucida di un bel colore verde, pregustandosi la squisita bevanda che il suo palato goloso era impaziente di provare.

Era da molto tempo che il desiderio di assaporare un mate di quell’erba odorosa e fragrante era diventato un’ossessione, un chiodo fisso nel suo cervello di sessagenaria. Ma quanto le era stato difficile soddisfare quel “vizio”, come lo chiamava lei; perché suo nipote José, che faceva il custode della miniera, guadagnava appena quel poco per non morire di fame, ed era l’unico a lavorare.

L’erba dello spaccio era scadente e aveva un cattivo gusto, mentre nel villaggio, ce n’era una finissima, con foglioline così pure e aromatiche che solo a ricordarla veniva l’acquolina in bocca. Ma costava quaranta centavos (3) alla libbra! È vero che per l’erba dello spaccio pagava il doppio, ma il pagamento lo poteva fare con fiche o buoni che poteva trarre dallo stipendio del nipote, mentre per acquistare l’altra erba era necessario moneta sonante.

Ma questo non era l’unico problema. C’era anche il severo divieto per tutti i lavoratori della miniera di comprare anche un solo spillo, al di fuori dallo spaccio della Compagnia. Ogni articolo che proveniva da un’altra fonte veniva immediatamente dichiarato di contrabbando e confiscato, e il contrabbandiere punito con l’immediata espulsione dalle residenze.

Per lunghi mesi aveva accumulato centavo dopo centavo, in un angolo del letto, sotto il materasso, la somma che le occorreva. Aveva badato che a suo nipote non fosse mancato l’essenziale, privandosi lei stessa del necessario e, a poco a poco, la quantità di monete era aumentata fino a quando finalmente la somma raccolta fu sufficiente non solo a comprare un chilo d’erba, ma anche un po’ di zucchero, di quello bianco e cristallino che nello spaccio non si vedeva mai.

Dopo, però, sarebbe venuta la parte più difficile. Andare fino al villaggio, fare la spesa senza destare sospetti nei guardiani, che come degli Argo sorvegliavano con cento occhi il viavai della gente.
Al pensiero, la donna si impauriva. Perdeva tutto il coraggio. Che ne sarebbe stato di lei e del ragazzo in quell’inverno che si presentava così crudo se li avessero buttati fuori dalla stanza, lasciandoli senza pane e senza un tetto dove ripararsi?

Ma il denaro era lì, che la tentava, come a sussurrarle:

— Andiamo, prendimi, non aver paura.

Scelse un giorno di pioggia, in cui la sorveglianza era meno attenta, e alle prime luci del mattino. Non appena il ragazzo se ne fu andato alla miniera, prese le monete, diede un giro di chiavi alla porta, e si addentrò nella pianura, portando il rotolo di cordicelle che le serviva per legare i fastelli di legna, quando andava a raccoglierla di tanto in tanto nel bosco.

Ma una volta che si fu allontanata abbastanza, scavalcò la recinzione di fili di ferro e prese lo stretto sentiero che, evitando il lungo giro della strada, conduceva in linea retta verso il villaggio. La distanza era lunga, molto lunga per le sue povere gambe; ma la percorse senza troppa fatica grazie al clima gradevole e all’eccitazione nervosa che la possedeva.

Non fu così al ritorno. La via le sembrò aspra, interminabile, e dovette fermarsi più volte per riprendere fiato. Poi sperimentò una grande angoscia per il compimento di quel reato a cui la coscienza colpevole dava proporzioni inquietanti.

La presa in giro del temuto divieto di fare acquisti fuori dallo spaccio, la terrorizzava come se avesse commesso un latrocinio mostruoso. E a ogni istante le sembrava di vedere dietro un albero la sagoma minacciosa di qualche sorvegliante che improvvisamente si gettava su di lei e le strappava il pacchetto.

Più volte fu tentata di gettare l’involucro compromettente a un lato della strada per liberarsi di quell’angoscia, ma la fragranza aromatica dell’erba che attraverso la carta solleticava il suo olfatto, la faceva desistere dal prendere una decisione così dolorosa. Perciò, quando si trovò da sola dentro la stanza, al sicuro da qualunque sguardo indiscreto, la colse un attacco d’infantile allegria.

E mentre l’acqua pronta per bollire diffondeva il gorgoglio che precede l’ebollizione, con le mani incrociate sulle ginocchia seguiva con gli occhi le tenui volute del vapore che cominciavano a uscire dal becco curvo della teiera.

Nonostante l’atroce stanchezza della lunga camminata, provava una dolce sensazione di contentezza. Stava per gustare nuovamente gli squisiti mati di un tempo, che erano stati la sua delizia quando ancora c’erano intorno a lei le persone che le furono sottratte da quell’insaziabile divoratrice di giovani: la miniera, che sotto le piante, nel profondo della terra, stendeva la nera rete dei suoi passaggi, inferno e ossario di tante generazioni.

All’improvviso un colpo brusco alla porta la strappò dalle sue meditazioni. Una paura terribile si impossessò di lei e quasi senza accorgersi di ciò che stava facendo, prese il pacco e lo nascose sotto la panca. Un secondo colpo più forte del primo, seguito da una voce ruvida e imperiosa che gridava: “Aprite, nonna, presto, presto!”, la tirò fuori dalla sua immobilità. Si alzò in piedi e girò la serratura.

Il padrone dello spaccio e il suo giovane dipendente furono i primi a oltrepassare la soglia, seguiti da due inservienti con alcuni sacchi sulle spalle che depositarono sul pavimento ammattonato. L’anziana si lasciò cadere sulla panca.

Paralizzata, guardava davanti a sé con un’espressione da ebete; la bocca semichiusa e la mascella appesa rivelavano il culmine della sorpresa e dello spavento. Mentre il suo corpo si liquefaceva, si riduceva fino a diventare qualcosa di piccolissimo e impalpabile, l’imponente figura di quell’uomo dalla barba bionda e dai baffi attorcigliati, avvolto nel suo lussuoso cappotto, assumeva proporzioni colossali, riempiva la stanza, impedendo ogni tentativo di sgattaiolare via e di nascondersi.

Nel frattempo, il dipendente, un giovinastro sveglio e agile, aiutato dagli inservienti, aveva iniziato la perquisizione. Dopo aver gettato da un lato le coperte del letto, girato il materasso e tastato la paglia attraverso il tessuto, aprirono il piccolo baule e, a uno a uno, gettarono al centro della stanza gli stracci che vi erano contenuti, lasciandosi andare ad apprezzamenti sgradevoli per quei vestiti, talmente strappati e cenciosi, che non si sapeva come afferrarli. Poi, rovistarono negli angoli, rimossero i pochi e miseri utensili dal loro posto e d’improvviso si fermarono a guardarsi disorientati.

Il padrone, in piedi davanti alla porta, in atteggiamento severo e distinto osservava i movimenti dei suoi subalterni senza scucire una parola.

Il giovane dipendente si rivolse a uno degli uomini, chiedendogli:

— Sei sicuro di averla vista passare attraverso il filo spinato?

L’interpellato rispose:

— Sicuro, signore, come ora sto vedendo voi davanti ai miei occhi. Spuntava dalla scorciatoia e scommetterei dieci a uno che veniva dal villaggio.

Ci fu un breve silenzio, poi la voce del padrone dello spaccio proruppe:

— Beh, perquisite lei.

Mentre i due uomini afferrarono l’anziana per le braccia e la tennero in piedi, il giovane eseguì in fretta la ripugnante operazione.

— Non ha nulla – disse, asciugandosi le mani che si erano inumidite nei risvolti dei vestiti bagnati.

E tutto sarebbe finito bene per la donna se quel giovane, nel suo desiderio di perquisire in ogni luogo, non si fosse avvicinato alla panca e guardato sotto.

Appena si fu abbassato, si voltò verso il padrone con sguardo raggiante.

— Guardate dove l’ho trovata, signore, questa vecchia dei diavoli!

Il padrone ordinò secco:

— Requisite il pacco e uscite.

Quando il giovane dipendente e gli inservienti se ne furono andati, il padrone osservò un istante la piccola e misera figura dell’anziana, raggomitolata sulla panca, poi, assumendo un aspetto imponente, avanzò di qualche passo e con voce severa la rimproverò:

— Se non foste una povera vecchia, vi farei sbrattare la stanza, gettandovi in strada. E questo, in coscienza, sarebbe giusto, perché lo sapete bene che comprare qualcosa fuori dallo spaccio è un furto che si fa alla Compagnia. Per ora, poiché è la prima volta, voglio essere indulgente, ma se dovesse accadere un’altra volta, adempirò rigorosamente al mio dovere. Andate con Dio e chiedetegli di perdonarvi questo peccato indegno per i vostri capelli grigi.

L’anziana rimase da sola. Il suo petto traboccava di gratitudine per la bontà del padrone e sarebbe caduta in ginocchio ai suoi piedi se la sorpresa e la paura non l’avessero paralizzata. Senza alzarsi dalla panca, si girò verso il camino e piegò pesantemente la testa.

Fuori, il maltempo aumentava a poco a poco; una raffica aprì la porta e alimentò il fuoco morente, scompigliando sulla nuca della donna le rade ciocche grigie che mettevano a nudo il collo lungo e sottile, con la pelle raggrinzita attaccata alle vertebre.


[1] Alberello spontaneo, sempreverde, originario del Cile, con fiori bianchi e foglie aromatiche, ruvide e ricoperte di peluria.

[2] Famiglia di piante erbacee o legnose, diffuse in tutto il mondo, principalmente nelle fascia tropicale e temperata. Vivono indistintamente in ambienti aridi, umidi e acquei, con caratteristiche peculiari, per ogni specie, in relazione a tali ambienti.

[3] Unità di misura di diverse monete dell’America Latina, corrispondente alla centesima parte. Si traduce letteralmente “centesimo”.

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“Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados” Introduzione

07 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, LETTERATURA E POESIA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Racconti, TRADUZIONI

Dal 14 aprile su Limina Mundi la rubrica “Cuentos Olvidados”. In esclusiva per i lettori del sito.

Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Che le foglie siano più lucide al comincio e più ingiallite all’arrivo, già basterebbe questo continuo atto d’amor proprio del tempo, devoto a sé stesso, che non diniega neppure il più cieco o il più visionario. Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Altri ritagli di noi stessi a un punto di destino ci tendono il palmo o ci vengono incontro con aria di teneri cospiratori e non vedono l’ora di svelarci un recondito cambiamento. “Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambia in noi”, scrive un tale che narra di un visconte dimezzato. Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Timori con i quali stringiamo amicizia oltre la curva della strada e certezze dietro il terrapieno di cosiffatti timori che aspettano conferme che si farebbero raccogliere come fasci di spighe. Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa. Il primo passo con la scarpa lustra, da Capo Horn, l’ultimo con la scarpa polverosa, nelle babilonie di Tijuana.
Sulla strada molte cose. Greta Garbo e la controfigura, la vecchia e il suo mate, l’acquaiolo e “Grazia di Dio”, il circo Ciarini e il gran Léotard, il piccolo cambujo masturbatore, la pazza che si perdette lo sposo, la gatta sivigliana che ci scapitò…e discosti nella fitta boscaglia, i loro padri e le loro madri. Ventuno agonizzanti in terra latina. Due gentil sesso, primigenie femministe. Soccorriamoli! Soccorriamoli, i dimenticati dei barrios e delle calle pietrose della vecchia epoca! Soccorriamoli! Soccorriamoli, che tutto è finzione, ma qui, sulla pagina scritta, ogni finzione è realtà. Portiamoli sotto la croce del Nazzareno, al riparo dai dittatori, dai colonizzatori, dai bravos, dai picari, dai bucanieri, dagli smemorati.
Portiamo gli scomparsi sul bell’ isolotto della Buona Memoria!
Un cammino è un cammino. Accade sempre qualcosa.

Emilio Capaccio

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