• ABOUT
  • CHI SIAMO
  • AUTORI
    • MARIA ALLO
    • ANNA MARIA BONFIGLIO
    • EMILIO CAPACCIO
    • MARIA GRAZIA GALATA’
    • ADRIANA GLORIA MARIGO
    • DEBORAH MEGA
    • FRANCESCO PALMIERI
    • ANTONELLA PIZZO
    • LOREDANA SEMANTICA
  • HANNO COLLABORATO
    • ALESSANDRA FANTI
    • MARIA RITA ORLANDO
    • FRANCESCO SEVERINI
    • RAFFAELLA TERRIBILE
    • FRANCESCO TONTOLI
  • AUTORI CONTEMPORANEI (letteratura e poesia)
  • AUTORI DEL PASSATO (letteratura e poesia)
  • ARTISTI CONTEMPORANEI (arte e fotografia)
  • ARTISTI DEL PASSATO (arte e fotografia)
  • MUSICISTI
  • CONTATTI
  • RESPONSABILITÀ
  • PRIVACY POLICY

LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Incipit

Incipit 24: La casa degli spiriti

12 lunedì Nov 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 24: La casa degli spiriti

Tag

Deborah Mega, Isabel Allende, La casa degli spiriti

Man Ray, Zero

Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia.
In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto.
Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.

 […]

Isabel Allende, La casa degli spiriti, Feltrinelli, 1983

 

La casa degli spiriti è il primo romanzo di Isabel Allende, pubblicato a Buenos Aires nel 1982 e tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1983. Pare che faccia parte di una trilogia ideale, gli altri romanzi, scritti successivamente, furono  La figlia della fortuna e Ritratto in seppia. La Allende si trovava già a Caracas, in autoesilio dopo il golpe del generale Pinochet in cui aveva trovato la morte il cugino di suo padre, il presidente Salvador Allende. Il golpe di Pinochet era stato un grave colpo per la famiglia Allende e Isabel era stata costretta a riparare con il marito e i due figli a Caracas. Il libro affronta la storia del Cile, vista attraverso gli occhi e le emozioni delle donne di tre differenti generazioni. Inizia negli anni venti del Novecento, con la morte di Rosa del Valle, avvelenata accidentalmente dagli avversari politici del padre. La morte di Rosa è un evento traumatico per la sorella più piccola, Clara, che fin da bambina manifesta il dono della preveggenza e della telepatia. Esteban Trueba, già innamorato di Rosa, stava lavorando duramente per poter sposare la ragazza, ma, dopo aver appreso la notizia della sua morte, si trasferisce nella sua tenuta di campagna, “Le Tre Marie” e, dopo anni di decadenza e di incuria la riporta allo splendore, imponendosi come uno dei proprietari terrieri più eminenti della zona. Lì, però, risente della solitudine e compie violenze contro le figlie dei contadini delle sue campagne. Nove anni dopo Clara prevede che Esteban Trueba chiederà la sua mano, e questo succede quando l’uomo torna nella capitale per dire addio alla madre malata. Convinto di doversi sposare, infatti, Esteban chiede la mano di Clara del Valle, sorella della defunta Rosa, la quale, accetta la proposta e rompe il silenzio di diversi anni di mutismo volontario. Dopo pochi mesi si celebra il matrimonio. Esteban si innamora di Clara tuttavia capisce subito che lei non ricambierà mai il suo amore perché è un essere angelico appartenente più all’altro mondo, quello delle anime, che a quello dei mortali. È allo scopo di farla innamorare che decide di costruire la “Grande casa dell’angolo”, una bellissima casa di lusso che costituirà lo sfondo per le avventure delle future generazioni. Trasferitasi nella casa di campagna, con loro va a vivere Férula, sorella di Esteban che aveva accudito la loro madre fino alla sua morte e che instaura una grande amicizia con Clara, che si protrae fino a quando l’uomo, disturbato e geloso delle cure e dell’adorazione dimostrata da Férula nei confronti di sua moglie, la caccia di casa. Férula morirà emarginata e povera, e il suo spirito si presenterà a salutare per l’ultima volta l’amata cognata. Clara intanto aveva dato alla luce Blanca, ma dopo alcuni anni il padre la manda in collegio per farle avere un’educazione adeguata al suo status sociale. Durante uno dei suoi rientri a casa, Blanca incontra Pedro Terzo Garcìa, il figlio di uno dei contadini delle Tre Marie. Con gli anni Blanca coltiva per lui un amore profondo e indissolubile quanto impossibile. La storia tra lei e Pedro è senza speranza perché lei è la figlia di un nobile e lui il figlio di un mezzadro. Un giorno Trueba, preso dall’ira, colpisce al volto la moglie che si era pronunciata in difesa della figlia, e Clara decide di non rivolgergli mai più la parola e di andarsene dalla campagna per tornarsene in città. Dopo alcuni anni Blanca torna a casa e sfida l’autorità del padre per amore del ribelle Pedro Terzo García, che conosceva fin da quando era bambino.  Blanca rimane incinta di Alba, che viene però considerata figlia del conte de Satigny al quale Esteban aveva dato in sposa Blanca. La giovane era fuggita dal proprio marito, nel momento in cui aveva scoperto gusti libertini non compatibili con il matrimonio. Un giorno Clara dice ad Alba che le anime la stanno chiamando dall’altro mondo, e che è finita la sua permanenza in quello dei mortali. Clara muore il giorno del settimo compleanno della piccola, ma Alba, Blanca ed Esteban continuano a sentire la sua presenza tra i muri della casa. Clara non lascia mai veramente la storia, è sempre un’anima che guida la famiglia nei momenti difficili. L’amarezza di Trueba si attenua solo quando Blanca dà alla luce Alba che, soprattutto dopo la morte di Clara, per l’ormai vecchio Trueba rappresenta l’ultimo affetto, dopo che aveva allontanato anche i due fratelli più piccoli di Blanca, i gemelli Jaime e Nicolás. Esteban si affeziona alla nipote più di quanto avesse mai fatto con i suoi figli. Quando Esteban entra in politica, i suoi rapporti con Pedro si inaspriscono ancora di più, perché il ragazzo sostiene la rivoluzione, mentre Esteban è un esponente della Destra Conservatrice. Nel 1970 vince le elezioni per la carica di presidente Salvador Allende, un socialista. Esteban Trueba si oppone con forza al presidente e fa parte del gruppo di politici che organizzano il golpe cileno, con l’aiuto della CIA. Alle spalle di Trueba, Jamie diventa amico del presidente Allende, mentre nel paese si moltiplicano gli scontri tra ceto medio e aristocrazia e gli atti di terrorismo imperversano nel paese. Nel 1973 viene realizzato il Colpo di Stato cileno. Quando i militari entrano nel Palazzo della Moneda, sequestrano tutti, compreso Jamie, che viene torturato e poi ucciso. L’Esercito non restituisce il potere alla Destra politica, come pensava Esteban, una volta al potere, estromette i politici conservatori da cui aveva ricevuto impulso e finanziamenti e affida il potere a Pinochet. Jaime, imprigionato durante il golpe, si rifiuta di mentire sulla fine del Presidente, di cui era amico, e viene torturato e ucciso. Trueba riesce a far espatriare in Canada Blanca e Pedro Terzo García. Alba intanto offre rifugio ai perseguitati dal regime, che come fantasmi popolano la casa dell’angolo, confusi da Esteban con le altre ombre, quelle degli spiriti della famiglia, che avevano frequentato i circoli esoterici di Clara. A causa della sua relazione con il rivoluzionario Miguel e del suo appoggio ai guerriglieri e ai latitanti, la giovane viene arrestata, torturata e stuprata dai militari che vogliono sapere dove si nasconda il suo amante, e in particolare da uno dei tanti nipoti illegittimi di Trueba, Esteban García, che covava sin da piccolo il rancore della nonna, una delle contadine violentate dal padrone, e l’invidia per la padroncina. Esteban Trueba riesce a liberare la nipote, grazie alla sua amicizia con Tránsito Soto, una prostituta nota tra i funzionari militari. Alba, infine, in attesa di Miguel e di mettere al mondo la propria figlia, riscopre i vecchi quaderni dove Clara annotava minuziosamente la sua vita durante i lunghi silenzi, e con essi ricostruisce la storia della sua famiglia e del suo paese. Esteban Trueba, in punto di morte, verrà salutato dal fantasma di Clara, poi muore tra le braccia di Alba, dopo averle raccontato tutta la storia della famiglia a partire dalla morte di Rosa. Il romanzo si conclude come era iniziato, con la differenza che non è più Clara a narrare le vicende della famiglia, ma la giovane Alba, che è il simbolo della vita che continua, nonostante gli errori e le disgrazie. Con La casa degli spiriti la Allende si è affermata come una delle più importanti voci della letteratura sudamericana. Il romanzo descrive eventi effettivamente accaduti, notevole è inoltre nel libro la presenza di elementi di realismo soprannaturale, come gli spiriti, da cui il titolo. Con un linguaggio semplice e a volte crudo si descrivono il dolore, le passioni, la dittatura, la colpa, la vendetta, l’ingiustizia e si analizzano tipologie umane differenti come quella di Esteban, ossessionato dal senso di possesso di persone e cose, agli antipodi rispetto alla personalità di Clara, immersa in un mondo parallelo, fatto di mutismi volontari, di spiriti, di visioni. Il romanzo è un misto tra realtà e fantasia, tra ricordi e racconti, tra politica e situazioni familiari. Il realismo magico è un tratto caratteristico di tutta la letteratura sudamericana ed è interessante notare che, nell’opera della Allende, le donne, Rosa, Clara, Blanca, Alba sono il motore dell’azione e i catalizzatori di tutta la magia.

Deborah Mega

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 23: Moby Dick

17 lunedì Set 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 23: Moby Dick

Tag

Deborah Mega, Herman Melville, Moby Dick

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un gran gesto filosofico Catone si butta sulla spada: io zitto zitto m’imbarco. E non c’è niente di strano. Se soltanto lo sapessero, prima o poi quasi tutti nutrono, ciascuno a suo modo, su per giù gli stessi miei sentimenti per l’oceano.  […]

Herman Melville, Moby Dick, Bentley, Harper & Brothers, 1851

Il romanzo Moby Dick fu scritto in un anno e mezzo da Hermann Melville e fu dedicato all’amico Nathaniel Hawthorne. Capolavoro della letteratura americana della American Renaissance,  fu pubblicato in due versioni differenti nel 1851: in ottobre a Londra dall’editore Bentley con il titolo The Whale (“La balena”) con modifiche fatte dall’autore e dall’editore per ripulire il testo dalle parti considerate offensive nei confronti della Corona britannica; in novembre a New York presso l’Editore Harper & Brothers con il titolo definitivo Moby-Dick. Alla morte di Melville però, nel 1891, l’opera era fuori stampa, fu riscoperta solo negli anni Venti del ‘900.

La vicenda narrata da Ismaele, nome di origine biblica, nella Genesi infatti Ismaele è il figlio di Abramo e della schiava Agar, tratta il tema del viaggio della baleniera Pequod, comandata dal capitano Achab e della maledizione perchè la nave è condannata ad essere affondata da un’enorme balena bianca, in realtà un capodoglio, verso il quale Achab nutre una smisurata sete di vendetta. In Moby Dick oltre alle scene di caccia alla balena, si affronta il dilemma dell’ignoto, il senso di speranza, la possibilità di riscattarsi. Il narratore Ismaele, alter ego dell’autore, tratta riflessioni scientifiche, religiose, filosofiche sulla verità e la giustizia e trasforma il viaggio in un’allegoria della condizione della natura umana. Il contenuto enciclopedico e digressivo richiede che la lettura sia accompagnata dall’interpretazione, in quanto l’autore utilizza un gran numero di citazioni di storie epiche, shakespeariane, bibliche. Moby Dick fu tradotto in italiano per la prima volta nel 1930 dallo scrittore Cesare Pavese che non riuscì a farlo pubblicare. Solo nel 1932 l’editore Carlo Frassinelli lo fece stampare nella sua neonata casa editrice come primo titolo della collana Biblioteca europea diretta da Franco Antonicelli. Il narratore Ismaele è un marinaio che nonostante «sia oramai piuttosto vecchio del mestiere» ha deciso che per il suo prossimo viaggio s’imbarcherà su una baleniera. In una notte di dicembre giunge alla Locanda dello Sfiatatoio, presso New Bedford, accettando di dividere un letto con uno sconosciuto al momento assente. Quando il suo compagno di branda, un tatuatissimo ramponiere polinesiano chiamato Queequeg, fa ritorno a ora tarda e scopre Ismaele sotto le sue coperte, i due uomini si spaventano reciprocamente. Diventati amici, i due decideranno di imbarcarsi assieme dall’isola di Nantucket sulla Pequod. La nave è comandata da un inflessibile capitano chiamato Achab ed è equipaggiata da 30 marinai di ogni razza e provenienti da ogni angolo del pianeta. Sul molo i due amici s’imbattono in un misterioso uomo dal nome biblico di Elia che allude a future disgrazie che colpiranno Achab. L’atmosfera di mistero si amplifica la mattina di Natale quando Ismaele vede delle oscure figure nella nebbia vicine al Pequod, che proprio quel giorno spiega le vele. All’inizio sono gli ufficiali della nave a dirigere la rotta, mentre Achab se ne sta rinchiuso nella sua cabina. Il primo ufficiale è Starbuck, un uomo severo e coscienzioso che si dimostra anche un abile comandante; il secondo ufficiale è Stubb, spensierato e allegro, collezionista e fumatore di pipe; il terzo ufficiale è Flask, tozzo e di bassa statura e del tutto affidabile. Una mattina, qualche tempo dopo la partenza, finalmente Achab compare sul cassero della nave. La sua è una figura imponente priva di una gamba dal ginocchio in giù, rimpiazzata da una protesi realizzata con la mascella di un capodoglio. Achab svela all’equipaggio che il vero obiettivo della caccia è Moby Dick, un vecchio ed enorme capodoglio, dalla pelle chiazzata che lo ha menomato durante il suo ultimo viaggio a caccia di balene. Egli non si fermerà davanti a niente nel suo tentativo di uccidere la balena bianca. Durante la prima calata della lance per inseguire un gruppo di balene, Ismaele riconosce gli uomini intravisti nella foschia prima che il Pequod salpasse. Achab aveva in segreto portato con sé il proprio equipaggio, incluso un ramponiere chiamato Fedallah, un enigmatico personaggio che esercita una sinistra influenza su di lui. Il romanzo descrive numerosi incontri con altre navi in mare aperto durante i quali Achab rivolge sempre la stessa domanda all’equipaggio delle altre navi: «Avete visto la Balena Bianca?». Quando il Pequod entra nell’Oceano Pacifico Queequeg si ammala e chiede al carpentiere della nave che gli venga costruita una bara che non gli servirà poiché alla fine deciderà di continuare a vivere. Quando Achab non accoglie richieste di aiuto da altre navi perché è davvero vicino a Moby Dick e non si fermerà di certo per soccorrerli, Starbuck lo implora invano di riconsiderare la sua sete di vendetta. Il giorno dopo, il Pequod avvista Moby Dick. Per due giorni l’equipaggio insegue la balena, che infligge loro numerosi danni, compresa la scomparsa in mare del ramponiere Fedallah. Il terzo giorno Moby Dick, riemergendo, lo mostra ormai morto avviluppato dalle corde dei ramponi. Il capodoglio che nuota lontano dal Pequod non cerca la morte dei balenieri mentre Achab vuole la sua vendetta. Achab ignora per l’ennesima volta la voce della ragione e continua con la sua caccia sventurata. Poiché Moby Dick aveva danneggiato due delle tre lance che erano salpate per cacciarlo, l’imbarcazione di Achab è l’unica rimasta intatta. Achab rampona la balena, ma la corda del rampone si rompe. Moby Dick si scaglia allora contro il Pequod stesso, il quale, danneggiato gravemente, comincia ad affondare. Achab rampona nuovamente la balena ma questa volta il cavo gli si impiglia al collo e il capitano viene trascinato negli abissi oceanici dall’immersione di Moby Dick. La lancia viene quindi inghiottita dal vortice generato dall’affondamento della nave, nel quale quasi tutti i membri dell’equipaggio trovano la morte. Soltanto Ismaele riesce a salvarsi, aggrappandosi alla bara di Queequeg. Il romanzo di Melville ha notevolmente influenzato gli autori successivi dando origine a innumerevoli citazioni in altre opere e ad una ricca cinematografia.  La caccia alle balene ai tempi di Melville era divenuta un’attività idealizzata, rappresentava la vitalità dello spirito americano che si espande sugli oceani e il conflitto primordiale tra l’uomo e le forze misteriose della Natura. Il viaggio diventa per Ismaele e per Melville alternativa alla morte, processo di accostamento al Vero. È impresa eroica, ma anche processo di colpa e punizione. Qualcuno ha sottolineato l’aspetto faustiano di Achab, il fatto che rappresenti la maledizione dell’uomo moderno, escluso dalla Natura che rimpiange; altri hanno visto in lui l’eroe folle di Byron e dei romantici, il superuomo o il dittatore che spinge una ciurma di automi al suicidio collettivo. Nel rispettare l’altro da sé e il mistero delle cose Ismaele è l’unico che si avvicini a capire la balena bianca e l’unico capace di sopravvivenza e di rinascita. Forse per questo è l’unico a salvarsi e a poter testimoniare. Moby Dick è per ciascuno ciò che vuol credere: per Achab l’incarnazione del male metafisico, per Queequeg uno dei demoni contro cui si deve lottare, per Ismaele una creatura ambigua come la Natura, benigna e malvagia, vulnerabile e allo stesso tempo immortale. Per Melville la lotta epica tra Achab e la balena rappresenta l’eterna sfida tra il Bene e il Male e Moby Dick il Male dell’universo.  Ma la balena rappresenta anche l’Assoluto che l’uomo insegue e non può conoscere mai.

Deborah Mega

 

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 22: Ragazzi di vita

28 lunedì Mag 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Deborah Mega, Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita

  1. Il Ferrobedò

E sotto er monumento de Mazzini…
Canzone popolare

Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante. Appena finito il sermoncino del Vescovo, Don Pizzuto e due tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei ragazzi che s’inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto si sentiva rodere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa vado,» fece il Riccetto, «tengo fame.» «Vie’ a casa mia, no, a fijo de na mignotta,» gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo.» Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull’asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c’era silenzio, ma era carico come una mina. Il Riccetto s’andò a cambiare.
Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d’immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s’imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini. 
Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza o d’un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare s’aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette regolari di legno, dall’altra i magazzini. Il Riccetto col branco di gente attraversò il Ferrobedò quant’era lungo, in mezzo alla folla urlante, e giunse davanti a una delle casette. Ma lì c’erano quattro Tedeschi che non lasciavano passare. Accosto la porta c’era un tavolino rovesciato: il Riccetto se l’incollò e corse verso l’uscita. Appena fuori incontrò un giovanotto che gli disse: «Che stai a fa?» «Me lo porto a casa, me lo porto,» rispose il Riccetto. «Vie’ con me, a fesso, che s’annamo a prenne la robba più mejo.»  QUESTO TESTO E’ STATO COPIATO DAL BLOG LIMINA MUNDI.  Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 21: Elogio della follia

07 lunedì Mag 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 21: Elogio della follia

Tag

Deborah Mega, Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam

                                                       Erasmo da Rotterdam al suo Tommaso Moro

Alcuni giorni fa, tornando dall’Italia in Inghilterra, per non sprecare in chiacchiere banali il tempo che dovevo passare a cavallo, preferii riflettere un poco sui nostri studi comuni e godere del ricordo degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra i primi che mi sono tornati alla mente c’eri tu, Moro carissimo. Anche da lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava, nella consueta intimità, la tua presenza che è stata, te lo giuro, la cosa più bella della mia vita. Visto, dunque, che ritenevo di dover fare ad ogni costo qualcosa, e che il momento non sembrava adatto a una meditazione seria, mi venne in mente di tessere un elogio scherzoso della Follia. “Ma quale capriccio di Pallade – ti chiederai – ti ha ispirato un’idea del genere?” In primo luogo, il tuo nome di famiglia, tanto vicino al termine morìa, quanto tu sei lontano dalla follia. E ne sei lontano a parere di tutti. Immaginavo inoltre che la mia trovata scherzosa sarebbe piaciuta soprattutto a te, che di solito ti diletti in questo genere scherzi, non privi, mi sembra, di dottrina e di sale, perchè nella vita di tutti i giorni fai in qualche modo la parte di Democrito. Sebbene, infatti, per singolare acume d’ingegno tu sia tanto lontano dal volgo, con la tua incredibile benevolenza e cordialità puoi trattare familiarmente con uomini d’ogni genere, traendone anche godimento. Quindi, non solo accoglierai di buon grado questo mio modesto esercizio retorico, per ricordo del tuo amico, ma anche lo prenderai sotto la tua protezione; dedicato a te, non mi appartiene più: è tuo. E’ probabile, infatti, che non mancheranno voci rissose di calunniatori ad accusare i miei scherzi, ora di una futilità sconveniente per un teologo, ora di un tono troppo pungente per la mansuetudine cristiana; e grideranno che prendo a modello la commedia antica e Luciano, mordendo tutto senza lasciare scampo. Vorrei però che quanti si sentono offesi dalla scherzosa levità del mio tema, si rendessero conto che non sono l’inventore del genere, e che già nel passato molti grandi autori hanno fatto lo stesso. Tanti secoli fa, Omero cantò per scherzo “la guerra dei topi con le rane”, Virgilio la zanzara e la focaccia, Ovidio la noce. Policrate incorrendo nelle critiche di Ippocrate fece l’elogio di Busiride, Glaucone quello dell’ingiustizia, Favorino di Tersite, della febbre quartana, Sinesio della calvizie, Luciano della mosca e dell’arte del parassita. Sono scherzi l’apoteosi di Claudio scritta da Seneca, il dialogo fra Grillo e Ulisse di Plutarco, l’asino di Luciano e di Apuleio, e il testamento – di cui ignoro l’autore – del porcello Grunnio Corocotta menzionato anche da san Girolamo. Lasciamo perciò che certa gente, se crede, vada fantasticando che, per svago, a volte, ho giocato a scacchi, o, se preferisce, che sono andato a cavallo di un lungo bastone. Certo, è una bella ingiustizia concedere a ogni genere di vita i suoi svaghi, e non consentirne proprio nessuno ai letterari, soprattutto poi quando gli scherzi portano a cose serie, e gli argomenti giocosi sono trattati in modo che un lettore non del tutto privo di senno può trarne maggior profitto che non da tante austere e pompose trattazioni. Come quando con mucchi di parole si tessono le lodi della retorica o della filosofia, o si fa l’elogio di un principe, o si esorta a fare la guerra ai Turchi, mentre qualcuno predice il futuro, o va formulando questioncelle di lana caprina. In realtà, come niente è più frivolo che trattare in modo frivolo cose serie, così niente è più gradevole che trattare argomenti leggeri in modo da dare l’impressione di non avere affatto scherzato. Di me giudicheranno gli altri; eppure se la presunzione non mi accieca completamente, ho fatto sì l’elogio della Follia, ma non certo da folle. Quanto poi all’accusa di spirito mordace, rispondo che si è sempre concessa agli scrittori la libertà d’esercitare impunemente la satira sul comune comportamento degli uomini, purché non diventasse attacco rabbioso. Per questo mi meraviglia tanto di più la delicatezza delle orecchie d’oggi, che riescono a sopportare ormai solo titoli solenni. In taluni, anzi, trovi una religione così distorta che passano sopra alle più gravi offese a Cristo prima che alla minima battuta ironica sul conto di un pontefice o di un principe, soprattutto poi se entrano in gioco i loro privati interessi. D’altra parte, uno che critica il modo di vivere degli uomini così da evitare del tutto ogni accusa personale, si presenta come uno che morde, o non, piuttosto, come chi ammaestra ed educa? E, di grazia, non investo anche me stesso con tanti appellativi poco lusinghieri? Aggiungi che, chi non risparmia le sue critiche a nessun genere di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare tutti i vizi. Se, dunque, ci sarà qualcuno che si lamenterà d’essere offeso, sarà segno di cattiva coscienza o per lo meno di paura. Satire di questo genere, e molto più libere e mordenti, troviamo in san Girolamo, che talvolta fece anche i nomi. Io non solo non ho mai fatto nomi, ma ho adottato un tono così misurato che qualunque lettore avveduto si renderà conto che mi sono proposto la piacevolezza piuttosto che l’offesa. Né ho seguito l’esempio di Giovenale: non ho mai smosso l’oscuro fondo delle scelleratezze; ho cercato di colpire quanto è risibile piuttosto che le turpitudini. Se poi c’è ancora qualcuno che nemmeno così è contento, ricordi almeno questo: che è bello essere vituperati dalla Follia e che avendola introdotta a parlare, dovevo rimanere fedele al personaggio. Ma perché dire queste cose a te, avvocato così straordinario da difendere in modo egregio anche cause non egregie? Addio, eloquentissimo Moro, e difendi con zelo la tua Morìa. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 20: Demian

12 lunedì Mar 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 20: Demian

Tag

Deborah Mega, Demian, Hermann Hesse

Demian_Erstausgabe

Eppure, non volevo tentar di vivere

se non ciò che spontaneamente

voleva erompere da me.

Perché? Era tanto mai difficile?

 

Per raccontare la mia storia devo incominciare dal lontano inizio. Se mi fosse possibile, dovrei risalire molto più addietro, fino ai primissimi anni della mia infanzia, e più oltre ancora nelle lontananze della mia origine. Quando scrivono romanzi, gli scrittori fanno come fossero Dio e potessero abbracciare con lo sguardo e comprendere la storia di un uomo e riprodurla quasi Dio la narrasse a se stesso, sempre essenziale e senza veli. Io non ne sono capace, come non ne sono capaci gli scrittori. La mia storia però ha per me più importanza di quanto non ne abbia per altri scrittori la loro; è infatti la mia vita, è la storia di un uomo non inventato e possibile, non ideale o in qualche modo non esistente, ma di un uomo vero, unico, vivente. Certo che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai, e perciò si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso e unico della natura. Se non fossimo qualcosa in più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie. Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore. Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggior facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia. Non posso dire di essere un sapiente. Fui un cercatore e ancora lo sono, ma non cerco più negli astri e nei libri: incomincio a udire gli insegnamenti che fervono nel mio sangue. La mia storia non è amena, non è dolce e armoniosa come le storie inventate, sa di stoltezza e confusione, di follia e sogno, come la vita di tutti gli uomini che non intendono più mentire a se stessi. La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità. Ognuno reca con sè, sino alla fine, residui della propria nascita, umori e gusci d’uovo d’un mondo primordiale. Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l’uomo. Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso; ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso.

[…]

Hermann Hesse, Demian, Fisher, 1919

Demian – Storia della giovinezza di Emil Sinclair, è un romanzo di formazione scritto in pochi mesi da Hermann Hesse durante la prima guerra mondiale e pubblicato per la prima volta nel 1919 presso l’editore Fischer, sotto lo pseudonimo di “Emil Sinclair”. È la storia di un uomo combattuto tra due mondi, quello retto, “chiaro e giusto” e quello proibito e cattivo, problematica che esercitava grande impressione sui giovani reduci della guerra. Probabilmente il nome di Sinclair è stato suggerito allo scrittore da un Eduard von Sinclair, amico e benefattore di Friedrich  Hölderlin. Il romanzo dovette piacere molto anche a Thomas Mann che lo definì un piccolo capolavoro e che per qualche tempo credette all’esistenza di un Sinclair, uno scrittore giovane e malato che risiedeva in Svizzera. L’opera di Hesse fu il risultato di una profonda crisi interiore vissuta dall’autore, sono presenti infatti echi autobiografici della propria adolescenza tormentata, che affermò di aver compreso razionalmente solo vent’anni dopo, grazie a quest’opera. Appaiono anche frequenti citazioni e richiami biblici, riflesso dell’educazione cristiana ricevuta durante l’infanzia. Sono presenti anche gli influssi culturali del tempo, come la filosofia di Friedrich Nietzsche e la psicologia analitica di Carl Gustav Jung nonché il tema tipicamente hessiano della polarità, che si ritroverà in molti lavori successivi. Durante gli anni vissuti a Berna, Hesse potè approfondire anche lo studio delle opere di Freud e la conoscenza della teoria degli istinti, dell’inconscio, dell’interpretazione dei sogni. Nel romanzo i fatti sono descritti in prima persona: Emil Sinclair narra la propria  evoluzione spirituale attraverso gli anni della crescita. Sin dall’inizio Emil  è diviso tra due opposte visioni della vita: la luce e il bene da un lato, l’oscurità e il male dall’altro. Il primo gli proviene dalla famiglia; il secondo è invece quello “proibito”, che Emil, suo malgrado, trova emozionante e attraente. Egli vorrebbe condurre una vita esemplare sul modello dei genitori, ma la sua inclinazione lo conduce sempre più verso la perdizione. Diviene così  succube di Franz Kromer, un ragazzo malvagio e prepotente, dal quale subisce ripetuti episodi di bullismo, violenza ed estorsione. Il giovane Emil arriva a rubare soldi a casa non osando confessare la verità ai propri familiari. Diventa sempre più introverso e scontroso e pare quasi attendere la distruzione del mondo, unica possibilità di salvezza. Si rivela provvidenziale però l’arrivo di un nuovo compagno di scuola, Max Demian, che lo libera dalla dipendenza negativa di Kromer. All’inizio, il nuovo ragazzo suscita l’interesse di molti tra i coetanei, dando l’impressione di essere molto intelligente e maturo per la sua età. Durante una passeggiata Max racconta a Emil la propria interpretazione della leggenda biblica di Caino e Abele: il marchio impresso sulla fronte del fratricida, non era il segno della sua colpevolezza ma simbolo di superiorità e di forza. Quando Max scopre che Emil soffre a causa di Franz, contribuisce a risolvergli il problema ma Emil si ritira nella ritrovata serenità della sua fanciullezza, perdendolo di vista. Qualche anno dopo, tra i partecipanti alle lezioni del catechismo, ritrova Demian, a cui si avvicina nuovamente, perché a lui affine. Egli influenza sempre più Emil con le sue opinioni filosofiche e le sue critiche ad alcuni concetti religiosi e simbologie bibliche, tanto che Emil comincia a rendersi conto che  Dio è rappresentato come “buono” solo a metà, mentre l’altra metà viene attribuita al demonio. Il giovane ripensa così al conflitto insanabile tra due mondi paralleli presenti in ciascun essere umano, si tratta dunque di un problema riguardante l’intera umanità. Max gli spiega che anche i pensieri della metà oscura devono essere realizzati: ogni individuo deve decidere da solo  ciò che è giusto e ciò che è proibito per lui in ogni momento, perchè le stesse convenzioni sociali cambiano e si modificano nel corso del tempo. Dopo l’estate Emil si separa dal suo ambiente e da Demian, per proseguire gli studi in collegio. Dopo più di un anno vissuto in maniera solitaria e ritirata, compiuti i sedici anni, diventa un assiduo frequentatore di taverne e, mentre si vede scivolare sempre più verso il mondo oscuro, avverte l’urgenza di un amore. I genitori, che si son recati da lui a fargli visita, quasi non lo riconoscono tanto appare scontroso e indisciplinato. Il suo conflitto interiore comincia a risolversi quando incontra una donna e se ne innamora. La chiama Beatrice, come la Portinari amata da Dante Alighieri.  Prova perfino a dipingere dei ritratti della sua amata in cui però riconosce la fisionomia di Demian. In un momento d’ispirazione disegna un uccello che sembra uscire da un gigantesco uovo e lo spedisce al vecchio amico. Poco dopo, durante una lezione, Emil trova all’interno d’un libro un piccolo pezzo di carta con incise alcune parole vergate da Max che fanno riferimento all’uccello che lotta per uscire dal suo guscio cioè dal suo mondo in direzione della divinità Abraxas, che appunto unisce in sé sia il divino che il diabolico. A questo punto Emil conosce un organista di nome Pistorius, cultore di mitologie e religioni antiche in cui trova un confidente e una guida, nel quale si può ravvisare lo psicanalista del sanatorio dove Hesse fu ricoverato per un esaurimento nervoso e successivamente conosce un giovane di nome Knauer.  Una sera, Emil, trascinato da una profonda forza interiore, si reca alla periferia della città immersa nella neve, e dopo aver riconosciuto il nuovo amico Knauer, riesce a farlo desistere dal suicidio. Capisce così che la cosa più importante è che le persone individuino il  cammino da percorrere, assegnatogli dal destino  e lo perseguano senza fermarsi. In procinto di intraprendere l’università, e superati ormai i diciotto anni, Emil incontra Max Demian; dopo una visita alla madre di Demian, la signora Eva, con stupore riconosce in lei l’oggetto d’amore delle sue fantasie. La donna diventa per il giovane il suo punto di riferimento ed egli comincia a frequentare assiduamente la sua casa e suo figlio Max. I tre formano sempre più una specie di ristretta comunità in cui vige una costante armonia. Allo scoppio della guerra tra la Germania e la Russia, i due amici però si vedono costretti a partire. L’ultima volta che Emil incontra Max è in un ospedale militare, dove si trova ricoverato in quanto gravemente ferito dallo scoppio di una granata. Si salutano e Max gli dice che, se non dovesse mai più rivederlo, lo ritroverà dentro se stesso. Durante la stesura dell’opera Hesse si trovava in conflitto con la prima moglie, aveva da poco perso il padre e si era dovuto rifugiare in Svizzera dalla Germania a causa della guerra. Per tutto il 1917 svolse presso il dottor Lang, allievo di Carl Gustav Jung, una novantina di sedute per potersi riprendere dal brutto stato in cui versava. Tutto il romanzo invita i giovani a ripercorrere il cammino dell’interiorità alla ricerca della verità nascosta tra le pieghe dell’inconscio. È  imperniato sul raggiungimento del sé attraverso cinque tappe fondamentali: conoscenza dell’ombra, parte nascosta dell’Io che lotta per emergere (Franz Kromer), conoscenza della guida che può essere considerato il deimon del ragazzo(Max Demian), conoscenza dell’anima, proiezione dell’amore interno (Beatrice), conoscenza dell’inconscio collettivo ricorrente nei popoli antichi e nelle religioni (Pistorius), conoscenza della grande madre (Eva). Il Demian è anche un inno all’amicizia, come appare chiaro dai rapporti tra Sinclair e Demian o tra Sinclair e Pistorius. Quando uscì nel 1919 Demian coinvolse profondamente il pubblico giovanile, fortemente scosso e disorientato dall’esperienza della prima guerra mondiale. Il successo del libro fu enorme, Hesse utilizzò uno pseudonimo forse per il desiderio di rivelare un mondo nuovo, diverso da quello delle poesie e dei racconti precedenti. L’entusiasmo dei giovani era dovuto alla convinzione che lo scrittore fosse uno di loro, tanto era spontanea la narrazione, fresco e vivace lo stile. Allo scrittore fu perfino commissionato un premio letterario, dedicato all’opera prima di un autore emergente, il premio Fontane, che Hesse, ormai quarantenne, volle restituire. Soltanto la nona edizione uscì con il nome di Hermann Hesse.

Deborah Mega

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 19: Un uomo

05 lunedì Feb 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, COSTUME E SOCIETA', Cronache della vita, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Alekos Panagulis, Deborah Mega, Oriana Fallaci, Un uomo

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione.

[…] 

Oriana Fallaci, Un uomo, Rizzoli, 1979

Un uomo è un libro scritto da Oriana Fallaci e pubblicato nel 1979, in cui la scrittrice racconta la storia di Alekos Panagulis, suo compagno tra il 1973 e il 1976 e simbolo di libertà e democrazia. “La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principi assoluti da qualsiasi parte vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti.” In questo modo la Fallaci presenta la sua opera nel prologo, attribuisce al suo personaggio i connotati emotivi e caratteriali dell’eroe classico e racconta una vicenda che presenta le caratteristiche mitopoietiche dell’epopea. Il romanzo si apre con i funerali di Alekos che avevano radunato un’enorme folla di persone, paragonata ad una piovra, i cui tentacoli avevano intasato le strade adiacenti. La storia prende avvio dal tentativo da parte del giovane studente di ingegneria, Alekos Panagulis, di uccidere il tiranno della Grecia, Georgios Papadopoulos. L’attentato fallisce ed Alekos viene catturato, torturato e infine condannato a morte il 17 novembre 1968 dunque trasportato all’isola di Egina per l’esecuzione. La sentenza viene rinviata più volte e infine mai eseguita grazie alle pressioni della comunità internazionale e al timore da parte del regime che l’attentatore diventi un martire e così, il 25 novembre 1968, Panagulis viene tradotto nelle prigioni militari di Boiati. Panagulis continua ad essere torturato per cinque anni ma non si piega al progetto dei suoi carcerieri affinchè diventi collaboratore della dittatura. Durante la prigionia tenta più volte di evadere dal carcere di Boiati, ma tutti i tentativi vanno a vuoto. Negli ultimi due anni di carcerazione, i più duri, è imprigionato in una cella di pochi metri quadrati denominata “La Tomba”.  Dopo anni di prigionia e maltrattamenti tornerà libero a seguito della grazia ricevuta dal governo democratico che si instaura alla caduta del regime di Papadopoulos. Qualche giorno dopo incontrerà la Fallaci che si era recata a fargli visita per intervistarlo. Da quell’incontro, prenderà avvio la loro storia d’amore che durerà fino alla sua morte, avvenuta il 1º maggio 1976. Uscito di prigione, Panagulis, viene conteso dalla destra e dalla sinistra ma si rende conto che la democrazia di quel tempo era una farsa e che il parlamento era soggiogato dal potere della dittatura militare, rappresentata da un nuovo colonnello. Sorvegliati dai servizi segreti, Panagulis e la Fallaci riescono a rifugiarsi in Italia, da cui cercano, senza risultati, confidando nell’appoggio dei politici italiani, di rovesciare il dittatore greco. La storia d’amore procede tra alti e bassi, la giornalista in questi anni perde il bambino che aspetta da lui. Qualche tempo dopo Panagulis si rende conto che dall’estero non ha il potere di cambiare la situazione in Grecia e decide di ritornare in patria, tenta di fondare un proprio partito politico ma la sua iniziativa fallisce.  Con il partito Unione del Centro – Nuove forze, riesce a farsi eleggere deputato. Negli anni successivi Panagulis tenta di raccogliere documenti e testimonianze per dimostrare la natura corrotta della democrazia greca ma si mette in contrasto con il ministro della difesa Evangelos Averoff. Quando comincia a diffondere i documenti segreti di cui è venuto in possesso, viene ucciso in un incidente stradale, provocato da due sicari. Nei mesi successivi alla sua morte il governo greco non supporterà l’evidenza dell’omicidio, ignorando le perizie italiane effettuate sull’automobile di Panagulis che dimostravano i chiari segni degli speronamenti e dei tamponamenti. Il libro si conclude riprendendo l’incipit in modo ciclico, con il funerale di Panagulis accompagnato dalle grida dell’enorme massa di persone che urlano: “Zi! Zi! Zi!” (Vive! Vive! Vive!), segno che il popolo ha intuito le verità scomode che Panagulis tentava di far emergere. La Fallaci scrive una storia romanzata in cui si pone come narratore interno, avendo vissuto in prima persona diverse esperienze; talvolta diventa, invece, narratore esterno, quando il suo punto di vista non coincide con quello del suo protagonista. Negli ultimi mesi della sua vita, Panagulis aveva insistito con la scrittrice affinché lei scrivesse un libro sulla sua vita, una volta morto e lei realizzò questo desiderio delineando una figura di eroe moderno che si batte per la libertà e per la verità contro tutto e tutti. Il romanzo è diventato un best seller tradotto in ben diciannove paesi. La Fallaci è riuscita a rendere Panagulis  immortale ed eterno e a trasmettere un insegnamento ancora attuale: “non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere”.

Deborah Mega

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 18: Dell’amore e di altri demoni

08 lunedì Gen 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 18: Dell’amore e di altri demoni

Tag

Deborah Mega, Dell'amore e di altri demoni, Gabriel Garcìa Màrquez

Il 26 ottobre 1949 non fu una giornata con grandi notizie. Il professor Manuel Clemente Zabala, caporedattore del quotidiano dove facevo i miei primi passi come giornalista, mise fine alla riunione del mattino con due o tre suggerimenti di prammatica. Non affidò un lavoro concreto ad alcun redattore. Qualche minuto dopo venne informato per telefono che stavano svuotando le cripte funerarie dell’antico convento di Santa Clara, e mi ordinò senza illusioni:

«Va’ a fare un giro da quelle parti e vedi un po’ cosa riesci a cavarne».

Lo storico convento delle clarisse, trasformato in ospedale da un secolo, doveva essere venduto affinché al suo posto si costruisse un albergo a cinque stelle. La preziosa cappella era quasi scoperchiata per via del crollo progressivo del tetto, ma nelle sue cripte rimanevano sepolte tre generazioni di vescovi e badesse e altri personaggi di rango. Il primo passo consisteva nello sgomberarle, nel consegnare i resti a chi li avesse reclamati, e nel buttare i rimanenti nella fossa comune. Mi stupì il primitivismo del metodo. Gli operai sventravano le fosse a colpi di zappa e piccone, tiravano fuori le bare marce, che si sfasciavano appena venivano spostate, e separavano le ossa dall’impiastro di polvere con brandelli di abiti e capelli avvizziti. Più il morto era illustre e più il lavoro era arduo, perché bisognava frugare tra le vestigia dei corpi e cernere con sottigliezza i residui per recuperarne le pietre preziose e i pezzi di gioielleria.

Il capomastro copiava i dati della lapide su un quaderno da scolaro, sistemava le ossa in mucchietti separati, e metteva il foglio col nome sopra ognuno per evitare che si confondessero. Sicché la mia prima visione quando entrai nel tempio fu una lunga fila di cumuli di ossa, riscaldate dall’inclemente sole di ottobre che penetrava a fiotti attraverso gli spiragli del soffitto, e senz’altra identità che il nome scritto a matita su un pezzo di carta. Quasi mezzo secolo dopo sento ancora lo stupore che mi causò quella testimonianza terribile del passaggio devastante degli anni. C’erano,  fra molti altri,  un viceré del Perù e la sua amante segreta;  don Toribio de Cáceres y Virtudes,  vescovo di questa diocesi;  diverse badesse del convento,  fra cui madre Josefa Miranda,  e il baccelliere in belle arti don Cristóbal de Eraso,  che aveva consacrato metà della sua vita a fabbricare i soffitti a cassettoni.  C’era pure una cripta chiusa con la lapide del secondo marchese di Casalduero,  don Ygnacio de Alfaro y Dueñas,  ma quando l’aprirono si vide che era vuota e mai usata.  Invece i resti della sua marchesa,  donna Olalla de Mendoza,  avevano una lapide propria nella cripta accanto.  Il capomastro non vi diede importanza:  era normale che un nobile creolo si fosse allestito la sua tomba e che l’avessero sepolto in un’altra. Ma, nella terza nicchia dell’altare maggiore, dalla parte del Vangelo, ecco la notizia.

La lapide schizzò via in pezzi al primo colpo della zappa, e una chioma viva di un color rame intenso si sparse fuori dalla cripta. Il capomastro volle estrarla intera con l’aiuto dei suoi operai, e più la tiravano e più sembrava lunga e abbondante, finchè non uscirono gli ultimi capelli ancora attaccati a un cranio di ragazzina. Nella nicchia non rimasero che pochi ossicini minuti e dispersi, e sulla lapide di marmo corroso dal salnitro era leggibile solo un nome senza cognomi: Sierva Marìa de Todos los Angeles. Dispiegata a terra, la chioma splendida era lunga ventidue metri e undici centimetri. Il capomastro mi spiegò senza stupore che i capelli umani crescevano di un centimetro al mese anche dopo la morte, e ventidue metri gli sembrarono una buona media per duecento anni. A me, invece, non sembrò così comune, perché da bambino mia nonna mi raccontava la leggenda di una marchesina di dodici anni la cui chioma le strascicava appresso come la coda di un abito da sposa, che era morta di mal di rabbia in seguito al morso di un cane, e che era venerata nei paesi dei Caraibi per i suoi molti miracoli. L’idea che quella tomba potesse essere la sua fu la mia notizia di quel giorno, e l’origine di questo libro.”

Cartagena de Indias, 1994

Un cane cenerognolo con una stella sulla fronte irruppe nei budelli del mercato la prima domenica di dicembre, travolse rivendite di fritture, scompigliò trabacche di indiani e banchetti della lotteria, e passando morse quattro persone che si trovarono sul suo percorso. Tre erano schiavi negri. L’altra fu Sierva Marìa de Todos los Angeles, figlia unica del marchese di Casalduero, che si era recata con una domestica mulatta a comprare una filza di sonagli per la festa dei suoi dodici anni.

[…] 

Gabriel Garcìa Màrquez, Dell’amore e di altri demoni, Mondadori, 1994 

 

Dalla prefazione, apprendiamo che il libro prende spunto dal ritrovamento di un’antica tomba, presso lo storico convento delle clarisse. Presentando per verosimile una situazione assurda, i capelli infatti non crescono dopo la morte e collegando la singolare scoperta ad un’antica leggenda di una bambina dai lunghissimi capelli rossi, venerata nei Caraibi per i suoi miracoli, Màrquez parla dell’amore inteso come demone. Protagonisti di quest’amore, una bambina, un padre e un prete esorcista.

Il romanzo è ambientato in Colombia ai tempi dell’Inquisizione spagnola. Narra la storia di una giovane marchesina dai capelli rossi, Sierva María de Todos los Ángeles, figlia di un pigro marchese, Don Ygnacio de Alfaro Y Duenas e di una contrabbandiera, Bernanda Cabrera. La ragazza, indesiderata e trascurata dai familiari, cresce insieme alla servitù e apprende i loro dialetti e i loro rituali. A causa dell’odio della madre e dell’indifferenza del padre, cresce isolata da tutti. Il giorno del suo dodicesimo compleanno, al mercato coloniale, Sierva María viene sfiorata e graffiata alla caviglia da un cane rabbioso senza però manifestare alcun sintomo della malattia. Due giorni dopo il cane muore di rabbia e viene appeso ad un albero. Solo a quel punto il marchese riscopre l’amore per la figlia e fa di tutto perché guarisca affidandola alle cure di un discusso medico di nome Abrenuncio. Ciò nonostante, la “malattia” della ragazza peggiora, fino a farla ritenere posseduta dal demonio: il vescovo della città ordina al padre di rinchiuderla nel convento delle monache di clausura, dove la ragazza subisce i soprusi delle altre monache che la credono una creatura di Satana, anche per via della sua chioma ramata che lei ha fatto voto di tagliare solo dopo le nozze. Anche il comportamento selvaggio e le manifestazioni di ira vengono scambiate con le manifestazioni tipiche della rabbia o prese per “sintomi inequivocabili di una possessione demoniaca”. Ad aiutare la ragazza interverrà un giovane prete, Cayetano Delaura, che cercherà di salvarla, dimostrando che non si tratta di possessione nè di mal di rabbia. All’inizio la ragazza è molto diffidente e ostile, in seguito lui riesce a conquistarla con i versi di Garcilaso de la Vega. Tra il prete e la ragazza nasce, mettendo a dura prova la fermezza di lui, il «demone più terribile», l’amore. Màrquez rappresenta personaggi sempre ambigui, avvolti in un alone di mistero, unici ed impenetrabili nelle loro caratteristiche più evidenti come l’intolleranza religiosa del Santo Uffizio, il bigottismo del vescovo e delle suore, la coerenza e la libertà dai pregiudizi del prete esorcista e così via.

García Márquez nasconde dietro a un intreccio semplice e ad un’emozionante storia d’amore la critica alla Santa Inquisizione e descrive il ruolo non sempre positivo svolto dalla chiesa cattolica nei confronti degli schiavi importati dall’Africa, considerati come delle bestie e nei confronti di chi era sospettato di eresia o di essere vittima del maligno. Lo scrittore, mentre descrive personaggi e ambienti, conferendo un tono evocativo a tutta la vicenda, sottolinea l’importanza di non appoggiare mai fanatismi e ideologie estremiste. La prosa di Marquez è scarna ed essenziale, limpida e struggente, e sembra rievocare le atmosfere di “Cent’anni di solitudine” e i temi de “L’Amore ai tempi del colera”, in cui l’eros diventa malattia, metafora della letteratura e della vita. Il lettore viene trasportato in un mondo surreale e magico capace di travolgere i sensi e i sentimenti.

Deborah Mega

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 17: Le Ore

20 lunedì Nov 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 17: Le Ore

Tag

Deborah Mega, Le Ore, Michael Cunningham

by George Charles Beresford, 1902

Prologo
Si affretta, via di casa, indosso ha un cappotto troppo pesante per il clima. È il 1941. È scoppiata una nuova guerra. Ha lasciato un biglietto per Leonard, e un altro per Vanessa. Cammina con determinazione verso il fiume, sicura di quello che farà, ma anche in questo momento è quasi distratta dalla vista delle colline, della chiesa e di un gregge sparso di pecore, incandescente, tinto di una debole traccia di zolfo, che pascola sotto un cielo che si fa più scuro. Si ferma, osserva le pecore e il cielo, poi riprende a camminare. Le voci mormorano alle sue spalle; bombardieri ronzano nel cielo, ma lei cerca gli aeroplani e non riesce a vederli. Supera uno dei lavoranti della fattoria (si chiama John?), un uomo robusto, con la testa piccola, che porta una maglietta del colore delle patate; sta pulendo il fosso che corre lungo il vincheto. Lui la guarda, fa un cenno con il capo, guarda di nuovo in basso, nell’acqua marrone. Mentre lo supera diretta al fiume, pensa a quanto lui sia appagato, a quanto sia fortunato, a pulire il fosso in un vincheto. Lei invece ha fallito. Non è una scrittrice, non veramente: è solo una stravagante dotata. Squarci di cielo brillano nelle pozzanghere lasciate dalla pioggia della notte precedente. Le sue scarpe affondano leggermente nella terra soffice. Ha fallito, e ora le voci sono ritornate, mormorano indistinte proprio dietro il suo campo visivo, dietro di lei, qui, no, ti volti e sono andate via, da qualche altra parte. Le voci sono ritornate e il mal di testa si sta avvicinando, sicuro come la pioggia: il mal di testa che distruggerà qualunque cosa lei sia e prenderà il suo posto. Il mal di testa si sta avvicinando e sembra (lo sta solo immaginando, o no?) che i bombardieri siano di nuovo comparsi nel cielo. Raggiunge l’argine, lo scavalca e continua giù, di nuovo verso il fiume. C’è un pescatore a monte, su per il fiume, non si accorgerà di lei, oppure sì? Comincia a cercare una pietra. Lo fa in fretta, ma con metodo, come se stesse seguendo una ricetta a cui bisogna obbedire scrupolosamente per raggiungere un buon risultato. Ne sceglie una approssimativamente del peso e della forma della testa di un maiale. Anche mentre la raccoglie e la spinge a forza in una delle tasche del cappotto (la pelliccia le fa il solletico sul collo), non può fare a meno di notarne la qualità fredda e gessosa e il colore, un marrone lattiginoso con tracce di verde. Sta vicino alla sponda del fiume, che si spinge contro l’argine, riempiendo le piccole irregolarità del fango di acqua chiara, acqua che potrebbe essere una sostanza completamente diversa da quella giallo-marrone, chiazzata, apparentemente solida come una strada, che si stende immobile da una sponda all’altra. Fa un passo avanti. Non si toglie le scarpe. L’acqua è fredda, ma non tanto da essere insopportabile. Si ferma, ormai nell’acqua fino alle ginocchia. Pensa a Leonard. Pensa alle sue mani e alla sua barba, alle linee profonde intorno alla sua bocca. Pensa a Vanessa, ai bambini, a Vita e Ethel: tante persone. Anche loro hanno fallito, no? All’improvviso, si sente immensamente dispiaciuta per loro. Immagina di voltarsi indietro, di tirare fuori la pietra dalla tasca, di tornare a casa. Potrebbe forse rientrare in tempo per distruggere i biglietti. Potrebbe continuare a vivere; potrebbe compiere questo atto finale di gentilezza. Immersa fino alle ginocchia nell’acqua che si muove, decide di no. Le voci sono qui, il mal di testa sta per arrivare e, se si affida alle cure di Leonard e Vanessa, non la lasceranno andare via di nuovo, vero? Decide di continuare, perché la lascino andare. Si muove a stento, goffamente (il fondo è fangoso), fino a che l’acqua le arriva ai fianchi. Getta uno sguardo a monte, al pescatore, che porta una giacca rossa e non la vede. La superficie gialla del fiume (più gialla che marrone, vista da così vicino) riflette un ciclo scuro. E questo, allora, l’ultimo momento di percezione vera: un uomo che pesca con una giacca rossa e un ciclo nuvoloso che si riflette nell’acqua opaca. Quasi involontariamente (a lei sembra che sia involontariamente) fa un passo avanti o inciampa, e la pietra la spinge giù. Per un momento, ancora, sembra niente, sembra un altro fallimento: solo acqua gelata da cui può facilmente uscire; ma poi la corrente la avvolge e la trascina con una forza così muscolare, così improvvisa che sembra che un uomo forte si sia sollevato dal fondo, le abbia afferrato le gambe e se le sia strette al petto. Sembra un contatto personale.
Più di un’ora dopo, suo marito ritorna dal giardino. “La signora è uscita,” dice la cameriera, battendo un logoro cuscino che scatena una piccola tempesta di piume. “Ha detto che sarebbe ritornata presto.” Leonard sale in salotto per ascoltare le notizie. Trova una busta blu, indirizzata a lui, sul tavolo. Dentro c’è una lettera.


Carissimo,
sono certa che sto impazzendo di nuovo: sento che non possiamo affrontarlo un ‘altra volta ancora. E stavolta non mi riprenderò.Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi sto per fare quella che mi sembra la cosa migliore.
Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quanto potevi essere.
Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici, fino a che non è arrivata questa terribile malattia.Non posso combatterla oltre: so che ti sto rovinando la vita, so che senza di me potresti lavorare. E lo fami, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere bene questo biglietto. Non riesco a leggere.Voglio dirti che ti devo tutta la felicità della mia vita.
Sei stato estremamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dire che… Lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, tu avresti potuto. Tutto mi ha abbandonato, tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita.
Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto siamo stati noi.
V.

Leonard esce dalla stanza, corre giù, dice alla cameriera: “Credo che sia successo qualcosa alla signora Woolf. Credo che abbia cercato di uccidersi. Da che parte è andata? L’ha vista lasciare la casa?”La cameriera, in preda al panico, scoppia a piangere. Leonard corre fuori, supera la chiesa e il gregge; supera il vincheto. Sull’argine, trova solo un uomo con una giacca rossa, che pesca. Viene trascinata in fretta dalla corrente. Sembra una figura fantastica, in volo, le braccia aperte, i capelli fluttuanti, la coda del cappotto di pelliccia che si gonfia dietro di lei. Si lascia trasportare, pesantemente, attraverso lance di luce marrone, granulare. Non arriva lontano. I piedi (le scarpe non ci sono più) toccano il fondo di quando in quando, e sollevano una nuvola lenta di fango, piena di neri scheletri di foglie, che se ne stanno tutti dritti e immobili nell’acqua quando lei è già scomparsa alla vista. Strisce di erbacce verde-nero si infilano tra i suoi capelli e nella pelliccia del cappotto, e per qualche momento gli occhi le vengono accecati da un ammasso compatto di foglie, che finalmente si libera e galleggia, avvolgendosi e svolgendosi e riavvolgendosi ancora.Si ferma e trova pace, alla fine, contro uno dei piloni del ponte a Southease. La corrente le preme addosso, la tormenta, ma lei è saldamente posizionata alla base della colonna tozza e squadrata, con le spalle al fiume e il volto contro la colonna. Si raggomitola lì, con un braccio contro il petto e l’altro a galla, là dove cominciano i suoi fianchi. A poca distanza sopra di lei c’è la superficie brillante, increspata. Il cielo vi si riflette barcollante, bianco e carico di nuvole, attraversato dalle sagome ritagliate in nero dei corvi. Automobili e camion rombano sul ponte. Un bambino (non avrà più di tre anni) attraversa il ponte con la madre, si ferma al parapetto, si china e spinge un ramoscello che ha portato con sé fra le assi della staccionata, in modo che cada in acqua. La madre gli dice di muoversi, ma lui insiste a rimanere ancora un po’, a guardare il ramoscello trascinato dalla corrente.Eccoli qui, in un giorno all’inizio della Seconda Guerra Mondiale: il bambino e la madre sul ponte, il ramoscello che galleggia sulla superficie dell’acqua e il corpo di Virginia sul fondo del fiume, come se lei stesse sognando la superficie, il ramoscello, il bambino e la madre, il cielo e i corvi. Un camion grigio-verde rotola lungo il ponte, carico di soldati in uniforme, che salutano il bambino che ha appena lanciato il ramoscello. Lui saluta a sua volta. Chiede alla madre di prenderlo in braccio per vedere meglio i soldati, in modo che anche loro vedano meglio lui. Tutto questo entra nel ponte, risuona attraverso il legno e la pietra ed entra nel corpo di Virginia. Il suo volto, schiacciato di fianco contro la colonna, assorbe tutto: il camion e i soldati, la madre e il bambino.

[…]

Michael Cunningham, Le Ore,  Farrar, Straus and Giroux, 1998

 

Le ore (titolo originale The hours) è un romanzo dello scrittore statunitense Michael Cunningham che si è aggiudicato il premio Pulitzer per la letteratura nel 1999, il Pen/Faulkner Award e quello Grinzane Cavour nel 2000 per la narrativa straniera.

Il libro racconta i destini intrecciati di tre donne, che vivono in luoghi e momenti storici diversi, dunque apparentemente non hanno niente in comune, ma sono in qualche modo legate dal romanzo La signora Dalloway di Virginia Woolf. Un’altra cosa accomuna le tre protagoniste: sono donne determinate, che non vogliono rinunciare a sé stesse, narrate in un momento cruciale della loro vita. La prima è proprio la Woolf, autrice del libro e ritratta a un passo dal suicidio, nel 1941 e poi mentre è alle prese con la stesura de La Signora Dalloway. Virginia Woolf lotta contro la malattia mentale che l’avrebbe condotta al suicidio. Proprio per cercare di mettere a tacere le “voci” si è trasferita con il marito fuori Londra, ma il richiamo alla vita della città è troppo forte. La seconda è Laura Brown, una casalinga californiana, madre di famiglia bella e inquieta, intrappolata da una società che si aspetta che annulli sé stessa in nome del marito, dei figli, della casa, e che per un solo giorno vorrebbe fuggire via dalla noia di un matrimonio ordinario; nell’America degli anni cinquanta, anche grazie al libro della Woolf, troverà il coraggio di cambiare vita. Infine c’è Clarissa Vaughan, un editor newyorkese che dai tempi del college vive col nomignolo di Mrs. Dalloway per le sue somiglianze col personaggio creato da Virginia Woolf e che è rappresentata e descritta nel giorno in cui sta organizzando una festa per Richard, l’amico amatissimo che sta morendo di Aids. L’avvicinarsi della morte di Richard la porta a chiedersi se le scelte compiute fossero quelle giuste. Dall’episodio del suicidio di Virginia che si lasciò annegare nel fiume Ouse, dopo essersi riempito le tasche di sassi e dalla toccante lettera d’addio che lasciò al marito Lèonard, prende avvio la storia. Virginia vive le proprie giornate per scrivere, ogni giorno una pagina in più, cercando spunti per il suo romanzo. Nel pomeriggio narrato, riceve la visita della sorella e dei suoi tre figli; un bacio inaspettato, le offrirà diversi spunti per la sua Clarissa Dalloway. Per Laura invece, che sta preparando una torta per il compleanno del marito Dan, la lettura di un romanzo scritto un paio di decenni prima, un bacio lieve e inaspettato, la spiazzerà e le farà aprire gli occhi. Clarissa invece vive insieme alla compagna Sally, pur avendo una figlia diciannovenne. Alla fine della giornata però è triste, pensierosa, ma sempre innamorata della vita.

Il romanzo nasce proprio come un omaggio di Cunningham alla Woolf: a partire dal titolo, La signora Dalloway inizialmente doveva chiamarsi proprio The Hours, e fino alla scrittura, debitrice dello stile woolfiano, sempre attento alle caratterizzazioni dei  personaggi che a eventi veri e propri. Un romanzo costruito su una sola giornata, vissuta da tutte e tre le donne, una giornata formata da ore, che si susseguono una dietro l’altra, a volte portandoci ciò che desideravamo, a volte, nell’ora successiva, togliendocelo. Leggere diventa l’unico modo per sopportare la realtà e per non perdere se stessi. A salvarci, dunque, c’è solo la letteratura, unico e solo mezzo per difendersi e prendere coscienza di sè.

Deborah Mega

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 16: Il Gattopardo

30 lunedì Ott 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 16: Il Gattopardo

Tag

Deborah Mega, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo

Maggio 1860

 “Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.”

La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre. Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l’alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle.

[…]

Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, 1958

Il Gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore sessant’anni fa. Scritto tra il 1954 e il 1957, costituì un vero e proprio caso letterario. Il manoscritto fu presentato agli editori Mondadori ed Einaudi e dato in lettura a Elio Vittorini, allora consulente letterario di entrambe le case editrici, che ne rifiutarono la pubblicazione. Solo dopo che divenne un caso letterario internazionale fu pubblicato da Feltrinelli con la prefazione di Giorgio Bassani che ne recuperò il manoscritto nella sua interezza. In realtà pare che Vittorini abbia rifiutato “Il Gattopardo” per la collana einaudiana I Gettoni, non ritenendo che avesse le caratteristiche per rientrarvi ma lo avesse consigliato alla Mondadori. Nella lettera che inviò allo scrittore pare che vi scorgesse elementi migliorabili, “seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina”, scriveva Vittorini, “il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d’un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca”.

Il romanzo, tuttavia, nel 1959 ricevette il premio Strega divenendo il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Nel 1963 fu riprodotto nel film omonimo da Luchino Visconti. Le pagine del manoscritto originale de Il Gattopardo sono custodite nel Museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice.  Dopo la pubblicazione nacque una vivace polemica tra i critici, divisi sul valore artistico e sull’importanza dell’opera mentre il successo di pubblico superava quello di ogni altra opera di narrativa pubblicata nel dopoguerra. ”Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. E’ questa la più celebre espressione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ”scrittore, ma di professione principe”, come si definì lui stesso.  Uomo taciturno e solitario,  Duca di Palma, Principe di Lampedusa, Barone della Torretta, ufficiale d’artiglieria catturato dagli Austriaci a Caporetto, Tomasi di Lampedusa rimase tutta la vita alla guida dell’azienda agricola di famiglia. Dopo l’incontro con Eugenio Montale iniziò a scrivere la grande opera della sua vita traendo ispirazione dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, nell’opera il principe Fabrizio Salina, vissuto durante il Risorgimento e noto anche per aver realizzato un osservatorio astronomico. Più che un romanzo storico si tratta di un’autobiografia che, attraverso la narrazione della storia di una famiglia e di una casta sociale tratta la decadenza di uomini e cose mentre si affermano nuovi ceti e nuovi valori.

Il romanzo prende il titolo dall’insegna araldica della famiglia Tomasi ed è così commentato nel romanzo stesso: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.» Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio abita con la moglie Stella e i loro sette figli. Egli è un  attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto mentre sta emergendo sempre di più il  ceto borghese, che il principe guarda con malcelato disprezzo. L’intraprendente e amato nipote Tancredi Falconeri combatte tra le file dei garibaldini e poi in quelle dell’esercito regolare del Re di Sardegna, cercando di compiere una gloriosa carriera e rassicurando allo stesso tempo lo zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà a vantaggio della loro classe; sembra poi essere interessato alla raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui. Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un uomo di umili origini che si è arricchito e ha fatto carriera nel campo politico e che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici grazie al fascino della figlia Angelica, cui Tancredi non tarderà a soccombere sia perché attratto dalla sua bellezza sia a causa del suo notevole patrimonio. Arriva il momento di votare l’annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, indecisi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe, suo malgrado, risponde in maniera affermativa. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime. Non ha fiducia nel nuovo stato dominato non più dai gattopardi ma dagli sciacalli, i nuovi dirigenti di cui nota solo l’arrivismo avido e meschino. Con cinismo e rassegnazione il principe spiega che i cambiamenti avvenuti nell’isola nel corso della storia, hanno spinto il popolo siciliano ad adattarsi ma non hanno apportato mutamenti all’essenza e al carattere dei siciliani. Così il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento destinato a non produrre effetti significativi. La sua vita continua monotona fino alla morte, che lo coglie all’improvviso. L’ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio, inasprite da un’esistenza triste e solitaria. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente la novella Libertà di Giovanni Verga, I Viceré di Federico De Roberto, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, tutte ispirate al fallimento risorgimentale. Non sono trattati molti eventi importanti, dunque è erroneamente ritenuto un romanzo storico mentre come scriveva Vittorini allo stesso Tomasi, vi prevale un interesse saggistico-sociologico, solo a tratti narrativo. Il romanzo è interessante per la novità della struttura, formata da diversi episodi conclusi ma collegati perché fanno capo al personaggio principale inoltre per la tesi che vi è affermata, del fallimento del Risorgimento italiano nella sua politica meridionalistica ma è anche testimonianza della crisi del nostro tempo.

Deborah Mega

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 15: Il ritratto di Dorian Gray

09 lunedì Ott 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 15: Il ritratto di Dorian Gray

Tag

Deborah Mega, Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde, romanzo psicologico

Articolo di James Joyce apparso sul “Piccolo della Sera” di Trieste (24 marzo 1909) e scritto in italiano dall’autore.

Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti ch’egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontespizio della sua prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva nobilitarsi scolpiva forse in modo simbolico, il segno delle sue pretese vane e la sorte che già l’attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscar, nipote del re Fingal e figlio unigenito di Ossian nella amorfa odissea celtica, ucciso dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O’Flahertie, truce tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medievali, ed il cui nome, incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce all’antica litania dei santi fra le pesti, l’ira di Dio e lo spirito di fornicazione “dai feroci O’Flahertie, libera nos Domine”. Simile a quell’Oscar egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la morte civile mentre sedeva a mensa coronato di finti pampini e discorrendo di Platone: simile a quella tribù selvatica doveva spezzare le lance della sua facondia paradossale contro la schiera delle convenzioni utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei giusti recitare il suo nome assieme a quello dello spirito immondo. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 14: La pelle

18 lunedì Set 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 14: La pelle

Tag

Curzio Malaparte, Deborah Mega, La pelle, romanzo neorealista

Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo.

[…]

Curzio Malaparte, La pelle, Aria d’Italia, 1949

L’incipit di oggi è tratto dal romanzo neorealista a sfondo autobiografico La pelle di Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Erich Suckert (1898 – 1957), scrittore e giornalista italiano dallo stile  immaginifico. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 13: Una donna

24 lunedì Lug 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Deborah Mega, romanzo autobiografico, Sibilla Aleramo, Una donna

«La mia fanciullezza fu libera e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo, farla riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è un vano sforzo. Rivedo la bambina ch’io ero a sei, a dieci anni, ma come se l’avessi sognata. Un sogno bello, che il menomo richiamo della realtà presente può far dileguare. Una musica, fors’anche: un’armonia delicata e vibrante, e una luce che l’avvolge, e la gioia ancora grande nel ricordo. Per tanto tempo, nell’epoca buia della mia vita, ho guardato a quella mia alba come a qualcosa di perfetto, come alla vera felicità. Ora, cogli occhi meno ansiosi, distinguo anche ne’ miei primissimi anni qualche ombra vaga e sento che già da bimba non dovetti mai credermi interamente felice. Non mai disgraziata, neppure; libera e forte, si, questo dovevo sentirlo. Ero la figliuola maggiore, esercitavo senza timori la mia prepotenza sulle due sorelline e sul fratello: mio padre dimostrava di preferirmi, e capivo il suo proposito di crescermi sempre migliore. Io avevo salute, grazia, intelligenza — mi si diceva — e giocattoli, dolci, libri, e un pezzetto di giardino mio. La mamma non si opponeva mai a’ miei desideri. Perfino le amiche mi erano soggette spontaneamente. L’amore per mio padre mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un’adorazione illimitata; e di questa differenza mi rendevo conto, senza osare di cercarne le cause. Era lui il luminoso esemplare per la mia piccola individualità, lui che mi rappresentava la bellezza della vita: un istinto mi faceva ritenere provvidenziale il suo fascino. Nessuno gli somigliava : egli sapeva tutto e avea sempre ragione. Accanto a lui, la mia mano nella sua per ore e ore, noi due soli camminando per la città o fuori le mura, mi sentivo lieve, come al disopra di tutto. Egli mi parlava dei nonni, morti poco dopo la mia nascita, della sua infanzia, delle sue imprese fanciullesche meravigliose, e dei soldati francesi ch’egli, a otto anni, avea visto arrivare nella sua Torino, ” quando l’Italia non c’era ancora „. Un tale passato aveva del fantastico. Ed egli m’era accanto, con l’alta figura snella, dai movimenti rapidi, la testa fiera ed eretta, il sorriso trionfante di giovinezza. In quei momenti il domani mi appariva pieno di promesse avventurose. II babbo dirigeva i miei studi e le mie letture s senza esigere da me molti sforzi. Le maestre, quando venivano a trovarci a casa, lo ascoltavano con meraviglia e talvolta, mi pareva, con profonda deferenza. A scuola ero tra le prime, e spesso avevo il dubbio d’avere un privilegio. Sin dalle prime classe, notando la differenza dei vestiti e delle refezioni, m’ero potuto formare un concetto di quel che dovevano essere molte famiglie delle mie compagne: famiglie d’operai gravate dalla fatica, o di bottegai grossolani. Rientrando in casa guardavo sull’uscio la targhetta lucente ove il nome di mio padre era preceduto da un titolo. Non avevo che cinque anni allorché il babbo, che insegnava scienze nella cittaduzza ov’ero nata, s’era dimesso in un giorno d’irritazione e s’era unito con un cognato di Milano, proprietario d’una grossa casa commerciale. io capivo che egli non doveva sentirsi troppo contento della sua nuova situazione. Quando Io vedevo, in qualche pomeriggio libero, entrare nello stanzino ov’erano raccolti un poco in disordine alcuni apparecchi per esperienze di fisica e di chimica, comprendevo che là soltanto si trovava a suo agio. E quante cose mi avrebbe insegnato il babbo! » […]

Sibilla Aleramo, Una donna, Società Tipografica Editrice Nazionale,Torino, 1906

 

Una donna è l’opera prima di Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, scrittrice e poetessa italiana, nata ad Alessandria nel 1876. Si tratta di un romanzo autobiografico e di formazione, in cui la protagonista narra in prima persona eventi della sua vita, dagli anni dell’infanzia fino alla maturità. Fin dall’inizio emerge la descrizione di un padre amatissimo espresso dalla frase “L’amore per mio padre mi dominava unico” e di una figura materna quasi assente e dominata dal marito. Rina ha una vera e propria adorazione per il padre, la madre invece appare meno interessante, defilata, malinconica, meno colta. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 12: Lo straniero

10 lunedì Lug 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 12: Lo straniero

Tag

Albert Camus, Deborah Mega, L'Étranger, Lo straniero, romanzo

Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: “Non è colpa mia.” Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo.[…]

Albert Camus, Lo straniero, Gallimard, 1942

Lo straniero (L’Étranger) è un romanzo  dello scrittore e filosofo francese Albert Camus, pubblicato nel 1942 da Gallimard. La vicenda inizia con la lettura di un telegramma da parte del protagonista Meursault, con cui viene informato della scomparsa della madre, ospite di un ospizio fuori città. Meursault è di origine francese ma vive ad Algeri, è un modesto impiegato, chiede un congedo di quarantotto ore al suo titolare e, dopo averlo ottenuto, va a pranzare in un ristorante. Alle due del pomeriggio prende l’autobus e per la stanchezza e il gran caldo dorme per tutto il tragitto. Incontra il direttore dell’ospizio e poi si reca in una stanza dove si trova il corpo della madre ma rifiuta di vederlo. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 11 : Lessico famigliare

26 lunedì Giu 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 11 : Lessico famigliare

Tag

Deborah Mega, Lessico famigliare, Natalia Ginzburg, romanzo

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava:  Non fate malagrazie! Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate  potacci! Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire. Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi! E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste una table d’hôte in Inghilterra, vi manderebbero subito via. Aveva, dell’Inghilterra, la piú alta stima. Trovava che era, nel mondo, il piú grande esempio di civiltà. Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, «un sempio». – M’è sembrato un bel sempio, – diceva, commentando  qualche  sua  nuova  conoscenza.  Oltre ai «sempi» c’erano i «negri». «Un negro» era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere. Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negrigura». – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita. Nelle gite in montagna era consentito portare soltanto una determinata sorta di cibi, e cioè: fontina; marmellata; pere; uova sode; ed era consentito bere solo del tè, che preparava lui stesso, sul fornello a spirito. Chinava sul fornello la sua lunga testa accigliata, dai rossi capelli a spazzola; e riparava la fiamma dal vento con le falde della sua giacca,  una giacca di lana color ruggine, spelata e sbruciacchiata alle tasche, sempre la stessa nelle villeggiature in montagna. Non era consentito, nelle gite, né cognac, né zucchero a quadretti: essendo questa, lui diceva, «roba da negri»;  e non era consentito fermarsi a far merenda negli châlet, essendo una negrigura. Una negrigura era anche ripararsi la testa dal sole con un fazzoletto o con un cappelluccio di paglia, o difendersi dalla pioggia con cappucci impermeabili, o annodarsi al collo sciarpette: protezioni care a mia madre, che lei cercava, al mattino quando si partiva in gita, di insinuare nel sacco da montagna, per noi e per sé; e che mio padre, al trovarsele tra le mani, buttava via incollerito. Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia «i negri» che andavan su leggeri in scarpette da tennis, o sedevano a mangiar la panna ai tavolini degli châlet. Mia madre, il far gite in montagna lo chiamava «il divertimento che dà il diavolo ai suoi figli», e lei tentava sempre di restare a casa, soprattutto quando si trattava  di mangiar fuori: perché amava, dopo mangiato, leggere il giornale e dormire al chiuso sul divano. Passavamo sempre l’estate in montagna. Prendevamo una casa in affitto, per tre mesi, da luglio a settembre. Di solito, eran case lontane dall’abitato; e mio padre e i miei fratelli andavano ogni giorno, col sacco da montagna sulle spalle, a far la spesa in paese. Non c’era sorta di divertimenti o distrazioni. Passavamo la sera in casa, attorno alla tavola, noi fratelli e mia madre. Quanto a mio padre, se ne stava a leggere nella parte opposta della casa; e, di tanto in tanto, s’affacciava alla stanza dove eravamo raccolti a chiacchierare e a giocare. S’affacciava sospettoso, accigliato; e si lamentava con mia madre della nostra serva Natalina, che gli aveva messo in disordine certi libri; «la tua cara Natalina», diceva. «Una demente», diceva, incurante del fatto che la Natalina, in cucina, potesse udirlo. D’altronde alla frase «quella demente della Natalina» la Natalina c’era abituata, e non se ne offendeva affatto. A volte la sera, in montagna, mio padre si preparava per gite o ascensioni. Inginocchiato a terra, ungeva le scarpe sue e dei miei fratelli con del grasso di balena; pensava che lui solo sapeva ungere le scarpe con quel grasso. Poi si sentiva per tutta la casa un gran rumore di ferraglia: era lui che cercava i ramponi, i chiodi, le piccozze. – Dove avete cacciato la mia piccozza? – tuonava. Lidia! Lidia! dove avete cacciato la mia piccozza? Partiva per le ascensioni alle quattro del mattino, a volte solo, a volte con guide di cui era amico, a volte con i miei fratelli; e il giorno dopo le ascensioni era, per la stanchezza, intrattabile; col viso rosso e gonfio per il riverbero del sole sui ghiacciai, le labbra screpolate e sanguinanti, il naso spalmato di una pomata gialla che sembrava burro, le sopracciglia aggrottate sulla fronte solcata e tempestosa, mio padre stava a leggere il giornale, senza pronunciare verbo: e bastava un nonnulla a farlo esplodere in una collera spaventosa. Al ritorno dalle ascensioni con i miei fratelli, mio padre diceva che i miei fratelli erano «dei salami» e «dei negri», e che nessuno dei suoi figli aveva ereditato da lui la passione della montagna; escluso Gino, il maggiore di noi, che era un grande alpinista, e che insieme a un amico faceva  punte difficilissime; di Gino e di quell’amico, mio padre parlava con una mescolanza di orgoglio e di invidia, e diceva che lui ormai non aveva piú tanto fiato, perché andava invecchiando. Questo mio fratello Gino era, del resto, il suo prediletto, e lo soddisfaceva in ogni cosa; s’interessava di storia naturale, faceva collezioni d’insetti, e di cristalli e d’altri minerali, ed era molto studioso. Gino si iscrisse poi in ingegneria; e quando tornava a casa dopo un esame, e diceva che aveva preso un trenta, mio padre chiedeva: – Com’è che hai preso trenta? Com’è che non hai preso trenta e lode? E se aveva presa trenta e lode, mio padre diceva: – Uh, ma era un esame facile. In montagna, quando non andava a fare ascensioni, o gite che duravano fino alla sera, mio padre andava però, tutti i giorni, «a camminare»; partiva, al mattino presto, vestito nel modo identico di quando partiva per le ascensioni, ma senza corda, ramponi o piccozza; se ne andava spesso da solo, perché noi e mia madre eravamo, a suo dire, «dei poltroni», «dei salami», e «dei negri»; se ne andava con le mani dietro la schiena, col passo pesante delle sue scarpe chiodate, con la pipa fra i denti. Qualche volta, obbligava mia madre a seguirlo; – Lidia! Lidia! – tuonava al mattino, – andiamo a camminare! Sennò t’impigrisci a star sempre sui prati! – Mia madre allora, docile, lo seguiva; di qualche passo piú indietro, col suo bastoncello, il golf legato sui fianchi, e scrollando i ricciuti capelli grigi, che portava tagliati cortissimi, benché mio padre ce l’avesse molto con la moda dei capelli corti, tanto che le aveva fatto, il giorno che se li era tagliati, una sfuriata da far venir giú la casa. – Ti sei di nuovo tagliati i capelli! Che asina che sei! – le diceva mio padre, ogni volta che lei tornava a casa dal parrucchiere. «Asino» voleva dire, nel linguaggio di mio padre, non  un  ignorante, ma uno che faceva  villanie o  sgarbi; noi suoi figli eravamo «degli asini» quando parlavamo poco o rispondevamo male. – Ti sarai fatta metter su dalla Frances! – diceva mio padre a mia madre, vedendo che s’era ancora tagliata i capelli; difatti questa Frances, amica di mia madre, era da mio padre molto amata e stimata, fra l’altro essendo la moglie d’un suo amico d’infanzia e compagno di studi; ma aveva agli occhi di mio padre il solo torto d’avere iniziato mia madre alla moda dei capelli corti; la Frances andava spesso a Parigi, avendo là dei parenti, ed era tornata da Parigi un inverno dicendo: – A Parigi si usano i capelli corti. A Parigi la moda è sportiva. A Parigi la moda è sportiva, – avevano ripetuto mia sorella e mia madre tutto l’inverno, rifacendo un po’ il verso alla Frances, che parlava con l’erre; si erano accorciate tutti i vestiti, e mia madre s’era tagliata i capelli; mia sorella no, perché li aveva lunghi fino in fondo alla schiena, biondi e bellissimi; e perché aveva troppa paura di mio padre.[…] Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 10 : Il nome della rosa

12 lunedì Giu 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 10 : Il nome della rosa

Tag

Deborah Mega, Il nome della rosa, romanzo, Umberto Eco

foto di Loredana Semantica

stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus 

 

In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male. Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione. Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo all’abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell’anno del Signore 1327 in cui l’imperatore Ludovico scese in Italia per ricostituire la dignità del sacro romano impero, giusta i disegni dell’Altissimo e a confusione dell’infame usurpatore simoniaco ed eresiarca che in Avignone recò vergogna al nome santo dell’apostolo (dico l’anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorarono come Giovanni XXII). Forse, per comprendere meglio gli avvenimenti in cui mi trovai coinvolto, è bene che io ricordi quanto stava avvenendo in quello scorcio di secolo, così come lo compresi allora, vivendolo, e così come lo rammemoro ora, arricchito di altri racconti che ho udito dopo – se pure la mia memoria sarà in grado di riannodare le fila di tanti e confusissimi eventi. Sin dai primi anni di quel secolo il papa Clemente V aveva trasferito la sede apostolica ad Avignone lasciando Roma in preda alle ambizioni dei signori locali: e gradatamente la città santissima della cristianità si era trasformata in un circo, o in un lupanare, dilaniata dalle lotte tra i suoi maggiori; si diceva repubblica, e non lo era, battuta da bande armate, sottoposta a violenze e saccheggi. Ecclesiastici sottrattisi alla giurisdizione secolare comandavano gruppi di facinorosi e rapinavano con la spada in pugno, prevaricavano e organizzavano turpi traffici. Come impedire che il Caput Mundi ridiventasse, e giustamente, la meta di chi volesse indossare la corona del sacro romano impero e restaurare la dignità di quel dominio temporale che già era stato dei cesari? Ecco dunque che nel 1314 cinque principi tedeschi avevano eletto a Francoforte Ludovico di Baviera come supremo reggitore dell’impero. Ma il giorno stesso, sull’opposta riva del Meno, il conte palatino del Reno e l’arcivescovo di Colonia avevano eletto alla stessa dignità Federico d’Austria. Due imperatori per una sola sede e un solo papa per due: situazione che divenne, invero, fomite di grande disordine… Due anni dopo veniva eletto ad Avignone il nuovo papa, Giacomo di Cahors, vecchio di settantadue anni, col nome appunto di Giovanni XXII, e voglia il cielo che mai più alcun pontefice assuma un nome ormai così inviso ai buoni. Francese e devoto al re di Francia (gli uomini di quella terra corrotta sono sempre inclini a favorire gli interessi dei loro, e sono incapaci di guardare al mondo intero come alla loro patria spirituale), egli aveva sostenuto Filippo il Bello contro i cavalieri templari, che il re aveva accusato (credo ingiustamente) di delitti vergognosissimi per impadronirsi dei loro beni, complice quell’ecclesiastico rinnegato. Frattanto si era inserito in tutta quella trama Roberto di Napoli, il quale per mantenere il controllo della penisola italiana aveva convinto il papa a non riconoscere nessuno dei due imperatori tedeschi, e così era rimasto capitano generale dello stato della chiesa. Nel 1322 Ludovico il Bavaro batteva il suo rivale Federico. Ancor più timoroso di un solo imperatore, come lo era stato di due, Giovanni scomunicò il vincitore, e questi di rimando denunciò il papa come eretico. Occorre dire che, proprio in quell’anno, aveva avuto luogo a Perugia il capitolo dei frati francescani, e il loro generale, Michele da Cesena, accogliendo le istanze degli “spirituali” (di cui avrò ancora occasione di parlare) aveva proclamato come verità di fede la povertà di Cristo, che se aveva posseduto qualcosa coi suoi apostoli l’aveva avuto solo come usus facti. Degna risoluzione, intesa a salvaguardare la virtù e la purezza dell’ordine, ma essa spiacque assai al papa, che forse vi intravvedeva un principio che avrebbe messo a repentaglio le stesse pretese che egli, come capo della chiesa, aveva, di contestare all’impero il diritto di eleggere vescovi, accampando di converso per il sacro soglio quello di investire l’imperatore. Fossero queste o altre le ragioni che lo muovevano, Giovanni condannò nel 1323 le proposizioni dei francescani con la decretale Cum inter nonnullos. Fu a quel punto, immagino, che Ludovico vide nei francescani, nemici ormai al papa, dei potenti alleati. Affermando la povertà di Cristo essi in qualche modo rinvigorivano le idee dei teologi imperiali, e cioè di Marsilio da Padova e Giovanni di Gianduno. E infine, non molti mesi prima degli eventi di cui sto narrando, Ludovico, che aveva raggiunto un accordo con lo sconfitto Federico, scendeva in Italia, veniva incoronato a Milano, entrava in conflitto coi Visconti, che pure lo avevano accolto con favore, poneva Pisa sotto assedio, nominava vicario imperiale Castruccio, duca di Lucca e Pistoia (e credo facesse male perché non conobbi mai uomo più crudele, tranne forse Uguccione della Faggiola), e ormai si apprestava a scendere a Roma, chiamato da Sciarra Colonna signore del luogo. Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore fosse stato incoronato in Roma. Ma l’assedio di Pisa lo assorbì nelle cure militari. Io ne trassi vantaggio aggirandomi, un poco per ozio e un poco per desiderio di apprendere, per le città della Toscana, ma questa vita libera e senza regola non si addiceva, pensarono i miei genitori, a un adolescente votato alla vita contemplativa. E per consiglio di Marsilio, che aveva preso a benvolermi, decisero di pormi accanto a un dotto francescano, frate Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione che lo avrebbe portato a toccare città famose e abbazie antichissime. Divenni così suo scrivano e discepolo al tempo stesso, né ebbi a pentirmene, perché fui con lui testimone di avvenimenti degni di essere consegnati, come ora sto facendo, alla memoria di coloro che verranno.

[…]

Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980.

 *

Il nome della rosa è un romanzo scritto da Umberto Eco ed edito per la prima volta da Bompiani nel 1980. Si può considerare un romanzo storico-filosofico sviluppato come un giallo deduttivo, ha ottenuto un vasto successo di critica e di pubblico, è stato tradotto in tantissime lingue e ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti, come il Premio Strega nel 1981. L’incipit del prologo riprende Giovanni 1,1-2, ma in tutta l’opera c’è la continua ricerca di segni, di citazioni, di libri che parlano di altri libri, come suggerisce lo stesso Eco nelle Postille al Nome della rosa, breve saggio pubblicato, attraverso la rivista Alfabeta, in cui spiega il percorso letterario che lo ha portato alla stesura del romanzo.  Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 9 : Una stanza tutta per sé

29 lunedì Mag 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 9 : Una stanza tutta per sé

Tag

Deborah Mega, saggio, Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf

Ma, direte, Le abbiamo chiesto di parlare delle donne e il romanzo-cosa c’entra avere una stanza tutta per sé? Cercherò di spiegarmi. Quando mi avete chiesto di parlare delle donne e il romanzo, mi sono seduta sulla riva di un fiume e ho cominciato a chiedermi cosa significassero queste parole. Potevano semplicemente significare qualche osservazione su Fanny Burney; qualcuna di più su Jane Austen; un omaggio alle Brontë e una breve descrizione del presbiterio di Haworth sotto la neve. Qualche arguzia, se possibile, sulla signorina Mitford; una rispettosa allusione a George Eliot; un accenno alla signorina Gaskell, e basta. Ma ripensandoci, le parole mi parvero meno semplici. Il titolo Le donne e il romanzo  poteva significare (e poteva essere questa la vostra intenzione) le donne e la loro immagine; oppure poteva significare le donne e i romanzi che scrivono; oppure, le donne e i romanzi che parlano di loro; oppure il fatto che i tre sensi sono in qualche modo inscindibili, e in questa luce volevate che li considerassi. Ma, appena iniziai ad esaminare il soggetto da questo punto di vista, che mi sembrava il più interessante, ben presto vidi che presentava un fatale inconveniente. Non sarei mai riuscita a giungere ad una conclusione. Non avrei mai potuto adempiere a quello che è, me ne rendo conto, il primo compito di un conferenziere: offrirvi, dopo un’ora di discorso, un nocciolo di verità pura, da racchiudere tra le pagine del vostro taccuino e da conservare per sempre sulla mensola del caminetto. Tutto quel che potevo fare era offrirvi un’opinione su una questione piuttosto secondaria: una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé, se vuole scrivere romanzi; il che, come vedrete, lascia insoluto il grosso problema della vera natura della donna e della vera natura del romanzo. Mi sono sottratta al dovere di giungere a una conclusione su questi due problemi: le donne e il romanzo restano, per quel che mi riguarda, problemi insoluti.

[…]

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1929

L’incipit di oggi è tratto da quello che è considerato uno dei primi manifesti femministi del Novecento europeo. Si tratta di un saggio narrativo di Virginia Woolf, pubblicato nel 1929 con il primo titolo di Le donne e il romanzo (Women and fiction) e che raccoglie appunti e pensieri annotati durante la preparazione di due conferenze, tenute nel 1928 alle studentesse del Newnham e del Girton College di Cambridge. La Woolf non ha la pretesa di essere esaustiva e infatti, fin dall’inizio afferma che non potrebbe riuscire a fornire un nocciolo di verità e ciò in quanto la natura della donna e il romanzo sono e restano problemi insoluti. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 8 : I dolori del giovane Werther

15 lunedì Mag 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 8 : I dolori del giovane Werther

Tag

Deborah Mega, I dolori del giovane Werther, Johann Wolfgang Goethe, romanzo epistolare

Viandante sul mare di nebbia (olio su tela, 95 cm x 75 cm) di Caspar David Friedrich, 1818, Hamburger Kunsthalle di Amburgo.

4 maggio 1771

Come sono lieto di esser partito! Amico carissimo, che è mai il cuore dell’uomo! Ho lasciato te che amo tanto, dal quale ero inseparabile, e sono lieto! Pure so che tu mi perdonerai. Tutte le altre persone che conoscevamo non sembravano forse scelte apposta dal destino per angosciare un cuore come il mio? Povera Eleonora! Eppure io ero innocente. Che potevo fare se mentre le grazie capricciose di sua sorella mi procuravano un piacevole passatempo, in quel povero cuore nasceva una passione? Ma… sono proprio del tutto innocente? Non ho forse alimentato i suoi sentimenti? Non mi sono dilettato delle sue sincere, ingenue espressioni che tanto spesso ci facevano ridere, e che erano invece così poco risibili? non ho io… Ah! l’uomo deve sempre piangere su se stesso! Io voglio, caro amico, e te lo prometto, io voglio emendarmi; non voglio più rimuginare quel po’ di male che il destino mi manda, come ho fatto finora; voglio godere il presente e voglio che il passato sia per sempre passato. Senza dubbio tu hai ragione, carissimo, i dolori degli uomini sarebbero minori se essi – Dio sa perché siamo fatti così! – se essi non si affaticassero con tanta forza di immaginazione a risuscitare i ricordi del male passato, piuttosto che sopportare un presente privo di cure. Sarai così buono di dire a mia madre che sbrigherò nel miglior modo possibile i suoi affari e gliene darò notizie quanto prima. Ho parlato con mia zia e non ho affatto trovato in lei quella donna cattiva che da noi si ritiene lei sia. È una donna ardente, passionale e di ottimo cuore. Le ho reso noti i lamenti di mia madre per la parte di eredità che lei ha trattenuta; me ne ha esposto le ragioni e mi ha detto a quali condizioni sarebbe pronta a rendere tutto, e anche più di quanto noi domandiamo. Basta, non voglio scrivere altro su questo; dì a mia madre che tutto andrà bene. Intanto, a proposito di questa piccola questione, ho osservato che l’incomprensione reciproca e l’indolenza fanno forse più male nel mondo della malignità e della cattiveria. Almeno queste due ultime sono certo più rare. Del resto io qui mi trovo benissimo; la solitudine è un balsamo prezioso per il mio spirito in questo luogo di paradiso, e questa stagione di giovinezza riscalda potentemente il mio cuore che spesso rabbrividisce. Ogni albero, ogni siepe è un mazzo di fiori e io vorrei essere un maggiolino per librarmi in questo mare di profumi e potervi trovare tutto il mio nutrimento. La città in se stessa non è bella, ma la circonda un indicibile splendore di natura. Questo spinse il defunto Conte M. a piantare un giardino sopra una delle colline che graziosamente si intrecciano e formano leggiadrissime valli. Il giardino è semplice, e si sente fin dall’entrare che ne tracciò il piano non un abile giardiniere, ma un cuore sensibile che qui voleva godere se stesso. Ho già sparso lacrime su colui che non è più, in quel cadente gabinetto che era un giorno il suo posticino favorito e che ora è il mio. Presto sarò padrone del giardino; il giardiniere mi si è già affezionato in questi pochi giorni e non dovrà pentirsene. […]

Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, 1774

L’incipit di oggi è tratto da uno dei più famosi romanzi d’amore della letteratura tedesca. Non è chiaramente definibile, nel senso che può essere inteso come testo filosofico per il panteismo del giovane Goethe, romantico, perché uno dei più letti e conosciuti dello Sturm und Drang, sociale perchè descrive la borghesia tedesca di quegli anni, religioso e perfino politico. Del resto, come scrisse Manacorda, la ricchezza di significati non è tipica dei grandi capolavori? In effetti poiché parla d’amore e di morte, parla di tutto. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 7 : Casa di bambola

24 lunedì Apr 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 7 : Casa di bambola

Tag

Casa di bambola, Deborah Mega, dramma borghese, Henrik Ibsen

by Alisa Filippova

ATTO PRIMO.

Stanza accogliente e di buon gusto, ma senza lusso. Nel fondo, la porta di destra dà sull’ingresso, quella di sinistra sullo studio di Helmer. Tra le due porte un piano. Altra porta al centro della parete di sinistra, e, più in avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo, poltrone e un piccolo sofà. Sulla parete di destra, un po’ indietro, una porta, e sulla stessa parete, più verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti poltrone e una sedia a dondolo. Tra la stufa e la porta un tavolinetto. Alle pareti acqueforti. Scaffale con porcellane e altri soprammobili artistici, piccola libreria con volumi finemente rilegati. Tappeto. La stufa è accesa: è una giornata d’inverno. Si sente suonare e, poco dopo, aprire la porta di ingresso. Nora entra allegra, canterellando: è in tenuta da passeggio e ha in mano una quantità di pacchetti che appoggia sul tavolo di destra. Dalla porta rimasta aperta si vede un fattorino con un albero di Natale e un cesto, che consegna alla cameriera che ha aperto la porta.

  Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 6 : Storia di una capinera

03 lunedì Apr 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 6 : Storia di una capinera

Tag

Deborah Mega, Giovanni Verga, romanzo, Storia di una capinera

Scicli (Ragusa) Chiesa di S. Matteo e scorcio di Palazzo Fava, foto di Loredana Semantica

Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete. Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un’infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta. Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una capinera. Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Incipit 5 : Le notti bianche

20 lunedì Mar 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Incipit 5 : Le notti bianche

Tag

Deborah Mega, Fëdor M. Dostoevskij, Le notti bianche, romanzo

Era una notte incantevole, una di quelle notti che ci sono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo così potessero vivere uomini irascibili ed irosi. Gentile lettore, anche questa è una domanda proprio da giovani, molto da giovani, ma che il Signore la ispiri più spesso all’anima!… Parlando di vari signori irascibili ed irosi, non posso non ricordare il mio comportamento durante tutto quel giorno. Fin dal mattino un’improvvisa angoscia cominciò a tormentarmi. Ad un tratto ebbi l’impressione che tutti volessero abbandonarmi e allontanarsi da me. Certamente ognuno si sentirà in diritto di domandarmi chi fossero tutti costoro, perché abito ormai da otto anni a Pietroburgo e non sono riuscito a fare quasi nessuna conoscenza. Ma che senso hanno le conoscenze? Anche senza di esse conosco tutta Pietroburgo; ecco perché ebbi l’impressione di essere abbandonato da tutti quando tutta Pietroburgo spiegò le ali e se ne andò improvvisamente in campagna. Fu una sensazione terribile rimanere da solo e, in preda ad un profondo sconforto, vagai tre giorni interi per la città, senza capire minimamente cosa mi succedesse. Anche se andavo sul Nevskij, o ai giardini, anche se mi mettevo a passeggiare sul lungofiume, non incontravo nessuno di quei volti che ero abituato a incontrare sempre nello stesso luogo, alla solita ora, per tutto l’anno.

Continua a leggere →

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • WhatsApp

Mi piace:

Mi piace Caricamento...
← Vecchi Post

Articoli recenti

  • Zona disforme Carlotta Cicci Stefano Massari 8 febbraio 2023
  • LA POESIA PRENDE VOCE: MARIA GRAZIA CALANDRONE, CRISTINA BOVE, SILVIA ROSA 7 febbraio 2023
  • Il Vate e la Divina 6 febbraio 2023
  • ~A viva voce: Un ateo imperfetto~ 4 febbraio 2023
  • Alessandro Barbato, Inediti 3 febbraio 2023
  • Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Per giustizia il tempo” di Manuel González Zeledón 2 febbraio 2023
  • Più voci per un poeta: Angelo Maria Ripellino. Video e voce di Loredana Semantica 1 febbraio 2023
  • LA POESIA PRENDE VOCE: DANIELA PERICONE, EMILIA BARBATO, ANNAMARIA FERRAMOSCA 31 gennaio 2023
  • “Il ritratto ovale” di Edgar Allan Poe 30 gennaio 2023
  • ~A viva voce: 3~ 28 gennaio 2023

Categorie

  • ARTI VISIVE
    • Appunti d'arte
    • Fotografia
    • Il colore e le forme
    • Mostre e segnalazioni
    • Punti di vista
  • COMUNICATI STAMPA
  • COSTUME E SOCIETA'
    • Cronache della vita
    • Essere donna
    • I meandri della psiche
    • La società
    • Pensiero
  • Epistole d'Autore
  • IbridaMenti
  • LETTERATURA E POESIA
    • #cronacheincoronate; #andràtuttobene
    • Appunti letterari
    • Canto presente
    • Consigli e percorsi di lettura
    • Cronache sospese
    • Eventi e segnalazioni
    • Fiabe
    • Filologia
    • Forma alchemica
    • I nostri racconti
    • Idiomatiche
      • Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados
    • Il tema del silenzio
    • Incipit
    • Interviste
    • Ispirazioni e divagazioni
    • La poesia prende voce
    • NarЯrativa
    • Novelle trasversali
    • Parole di donna
    • Più voci per un poeta
    • Podcast
    • Poesia sabbatica
    • Poesie
    • Racconti
    • Recensioni
    • Rose di poesia e prosa
    • uNa PoESia A cAsO
    • Una vita in scrittura
    • Versi trasversali
    • Vetrina
    • ~A viva voce~
  • MISCELÁNEAS
  • Mito
  • MUSICA
    • Appunti musicali
    • Eventi e segnalazioni
    • Proposte musicali
    • RandoMusic
  • PERSONAGGI
    • Grandi Donne
    • Uomini eccellenti
  • Post-it
  • SCIENZA E CULTURA
  • SINE LIMINE
    • Prisma lirico
    • Una vita nell'arte
  • SPETTACOLO
    • Cinema
    • Teatro
    • TV
    • Video

ARCHIVI

BLOGROLL

  • alefanti
  • https://www.argonline.it/poegator/
  • Deborah Mega
  • https://deborahmega.wixsite.com/disussurriedombre
  • Di poche foglie
  • larosainpiu
  • perìgeion
  • SOLCHI

Inserisci il tuo indirizzo email per seguire questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi via e-mail.

INFORMATIVA SULLA PRIVACY

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella privacy policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la PRIVACY POLICY.

Statistiche del blog

  • 292.048 visite
Il blog LIMINA MUNDI è stato fondato da Loredana Semantica e Deborah Mega il 21 marzo 2016. Limina mundi svolge un’opera di promozione e diffusione culturale, letteraria e artistica con spirito di liberalità. Con spirito altrettanto liberale è possibile contribuire alle spese di gestione con donazioni:
Una tantum
Mensile
Annuale

Donazione una tantum

Donazione mensile

Donazione annuale

Scegli un importo

€2,00
€10,00
€20,00
€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00

O inserisci un importo personalizzato

€

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Fai una donazioneDona mensilmenteDona annualmente

REDATTORI

  • adrianagloriamarigo
  • alefanti
  • Deborah Mega
  • emiliocapaccio
  • Francesco Palmieri
  • francescoseverini
  • frantoli
  • LiminaMundi
  • Loredana Semantica
  • Maria Grazia Galatà
  • marian2643
  • maria allo
  • Antonella Pizzo
  • raffaellaterribile

COMMUNITY

BLOGROLL

  • alefanti
  • https://www.argonline.it/poegator/
  • Deborah Mega
  • https://deborahmega.wixsite.com/disussurriedombre
  • Di poche foglie
  • larosainpiu
  • perìgeion
  • SOLCHI

Blog su WordPress.com.

  • Segui Siti che segui
    • LIMINA MUNDI
    • Segui assieme ad altri 236 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • LIMINA MUNDI
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...
 

Devi effettuare l'accesso per postare un commento.

    Informativa.
    Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la
    COOKIE POLICY.
    %d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: