
omaggio a un poeta, Giorgione, 1505
Col titolo “Una vita in scrittura” Limina mundi avvia un’iniziativa partecipativa che, come dice lo stesso titolo, vuole mettere in luce quanta dedizione richiede la scrittura e quanto lega a sé diventando fulcro di un’esistenza, compagna di vita
L’iniziativa è rivolta ad autori che scrivono da tempo, che hanno quindi un’ampia esperienza in scrittura, una carriera letteraria alle spalle, possono testimoniare l’atto di fedeltà alla parola. E’ quindi un invito, ma nel contempo un omaggio.
L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una biobibliografia, ma in libertà, l’ingresso della scrittura dentro la propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò di cui lo scrittore è “fatto”, il suo saper fare anche oltre l’atto della scrittura in qualunque ambito sente appartenergli: professionale, creativo, artigianale, degli affetti… senza limiti, in linea con lo spirito del sito.
Libertà anche nella forma: un racconto autobiografico romanzato, un “automatismo ritratto”, cioè un proprio ritratto in scrittura automatica, un flash su un episodio o persona importanti o significativi del proprio percorso, un’intervista nella quale le domande sono formulate e le risposte sono date sempre dallo stesso autore, persino una singola poesia o raccolta di poesie che l’autore riconosce come “autobiografiche” sono modi possibili con cui cor-rispondere oppure rispondendo semplicemente alla domanda: Ci racconti la tua vita in scrittura?
L’invito è stato rivolto da Maria Grazia Galatà ad Antonio Nazzaro che l’ha interpretato come segue.
Grazie infinite, Antonio e grazie altrettante a Maria Grazia
Intenti di scrittura
Della poesia ho i calzini rotti / le unghie sporche / e la barba mal tagliata / un posacenere pieno / una pancia appoggiata / graffi del grattarsi / e una finestra / aperta
Lui è seduto davanti al computer, il posacenere colmo, e cenere sulla tastiera, colpita come si faceva con le macchine da scrivere. Il ventilatore aggrappato al soffitto taglia un’aria fumosa.
Si accende un’altra sigaretta, scrive: ……………………………………………………………
Batte con due dita, la sigaretta tra i denti. Lo vedo con la faccia di chi scrive appunti che non rilegge. Lo vedo cercare immagini nello schermo, si allontana e si avvicina: non per vedere meglio, per sostenere un dolore. Lo vedo non alzare lo sguardo dai tasti come a fuggire il suo volto riflesso nello schermo.
*Inconscientemente yo levanté los ojos a la torre bárbara que dominaba el vial larguísimo de los
plátanos. Encima del silencio hecho o vuelto intenso ella revivía su mito lejano y salvaje: mientras por visiones lejanas, por sensaciones oscuras y violentas otro mito, también este místico y salvaje me recorría por momentos a la mente. (…)
(“La noche” de Dino Campana Suramericano-Cantos Órficos, Abisinia Editorial, 2022. Traduzione di Antonio Nazzaro)
Caracas per ogni stella ha una donna. L’Avila si pavoneggia alla luna. Caracas è una femmina danzante. L’Avila suona un triste ballo. Caracas è assenza di clacson nel ritmo di un ballo inchiodato sulle spalle di donne costanti, che portano la città in borse troppo grandi. Sono mani nervosamente magre quelle che tolgono la cenere dallo schermo. Le punte delle dita tradiscono passi di danza sulla tastiera. Caracas è canto di pioggia, suoni di tamburi e vita che strabocca dai tombini. L’Avila muove maliziosa i capelli all’aria.
Lo vedo fumare appoggiato al gomito cercando mappe di città come foto ricordo.
Di dove sei?
Tram leggeri scorrono sull’asfalto che si fa ponte per correre tutto d’un fiato la scalinata di un qualche sagrato. Di dove sei? Ogni volta che gli fanno questa domanda resta a pensare.
La casa che aspetta si disegna tra strade che attraversano oceani e le onde s’infrangono su marciapiedi forse tutti uguali. Non si lascia una terra per cercarne un’altra, si cerca una terra solo quando non ne hai una.
Torino offre un cielo da cartolina e sedili di legno sui tram. Gli occhi prendono i colori e li dipingono in un vivido bianco e nero. Muoversi per Città del Messico è come muoversi in universi più o meno ordinati sono 40 milioni le persone che la percorrono. Lo vedo con la faccia di un emigrante che non ha storia. L’ aria canta: ” México Lindo y Querido Si muero lejos de ti Que digan que estoy dormido Y que me traigan aquí”. Entra por la ventana/esta noche suramaericana/escrita en italiano…
Torino è la distanza tra la terra e la punta della Mole che misura il cielo.
Città del Messico ritmi sconosciuti / attraversano le strade / fanno danzare la metro / violini, mormorio incessante / fisarmoniche a auto…
Cozumel abbiamo perso i sogni qui / su questa barca di pietra e selva / a nuovi porti andando (…)
onde che approdano / al lungomare stancamente appoggiato all’orizzonte…
Caracas el paso infinito de la belleza suspendida / y caderas de ritmos de la tierra. / En el pecho cimas que alcanzan las estrellas / las uñas como casas que se agarran una encima de otra / de la pobreza que roza / los brazos avenidos hacia el infinito
vivo in un paese che si spara / come si mangiano le caramelle / e le mani che stringono il calcio
/ non hanno pallone / ma vanno ancora / in pantaloni corti / con occhi spenti / che non hanno /mai visto il mare / a disegnare /i sorrisi / delle onde
Al funerale di un delinquente le ragazze a cavalcioni sulla bara a muovere i fianchi e il culo: un ultimo meneo all’amato. Perché o sei madre o sei donna del malo, uniche identità possibili nei barrios: con la dittatura, la democrazia e il socialismo. Qui aprire le gambe o premere un grilletto non fa differenza e la notte scende sui buoni e sui cattivi. Il problema è chi vedrà l’alba. (Caracas, 2017)
ma ancora mi tuffo in un oscuro caffè d’America / e brucio tabacco d’India / sul veleggiare di questa finestra.
amori dalle lingue diverse / seduti su questo viaggio/ riconosciuti da un solo bacio / come una promessa aperta.
Antonio, omonimo venezuelano d’Abruzzo, mi riceve con l’immancabile itañolo:
«Hola como stai?», e prima che possa rispondere «ho visto tua madre, parece che
sta bien e tuo padre mejora».
Per Daniela Nazzaro (sorella)
A te che non leggerai
ma come ti racconto
sulla tua sedia dalle ruote che non girano
sulla tua testa che non, che non sta su
e gli occhi ad indicare il nord e il sud
il sud di quest’amore
che non ha parole
ma raccoglie con la mano
la tua bava che cade
che cade su un bavaglino
dai cinquant’anni.
Dai cinquanta anni di silenzi.
*
A mio padre
Ho una poesia
solo per te:
click
tu che fotografi me
che scrivo te.
*
Malattia. Tredicesimo giorno. Pioggia.
Scendo a vedere il tuo sonno. La pioggia scivola lenta lenta sui vetri. Non entro. Dalla porta con paura guardo se il tuo petto si muove nel gesto del respirare. Alla memoria si accalcano i ricordi ma con un gesto della mano li allontano. Hai bisogno del mio presente e io di sostenere il tuo. Ma inciampo in quel tuo prendermi in giro per il mio andare dal barbiere anche se sono davvero pochi i capelli. Solo voglia di sorridere nonostante tutto e tutti. Nascondo il pianto sul lavandino del bagno e dal lucernaio la pioggia dà il ritmo. Vorrei chiederti scusa per tutto il male che ti ho fatto quando la furia correva per le vene a macchiare le camicie di sangue. Ma non serve. Ogni scalino sembra un paramo andino. Sono qui madre con un bacio pronto per il tuo risveglio. Il sugo di pomodoro e gli spaghetti sono quasi pronti. Un bacio tuo o mio poco importa. Siamo noi: Zambonina e il disgraziato. Bacio ma’.
(16 settembre 2021)
Sono odori a scoprire il sesso e qualcosa chiamato amore e un tram che ruba la
mattina.
Di te so poco:
la lunghezza delle tue braccia
il tempo dei tuoi baci
quelli umidi dell’amore vorace
e quelli lenti dell’amore quotidiano.
Il taglio degli occhi
e l’incedere scalza.
Il movimento dei seni
a cui accordo il respiro
quel gesto tuo
di spostare i capelli
quello che so
è che quando arrivi
e ti siedi in un sorriso
sogno.
*
(…) Si dovrebbe affrontare il giorno
ma la testa si gira
sotto il cuscino del tempo
ad allungare la notte
che abbraccia
l’odore di te.
*
sono carezze a delineare gli occhi come carovane dai carichi esotici
carezze patagoniche
lunghe da poter toccare il freddo polo e scatenare le passioni infinite di Capo Horn
carezze platensi orientali
capaci di mantenere il limite dell’onda del piacere tra un’acqua dolce e una salata
carezze andine
salgono e scendono senza posa e corrono sotto il mare sotto la pelle
carezze caraibiche
muovono i fianchi e con i talloni rubano il danzare della terra
carezze di selva
tessono i corpi a dare un’ombra umida dove scivolare
carezze nostre
ancora tutte da inventare
*
e sono di nuovo qui su questo farsi della notte
appoggiato tra luna e Ande a spiarti le gambe
a farle pontili di navi da passare in rivista
meticolosità lenta di chi non vede terra
ma la aspetta dietro il gesto consueto
quell’andare della mano tra viso e capelli
carezze non date mille volte sfiorate
distanza è una parola perduta nell’oceano
avvicino le tue labbra il tuo respiro sospesi
tra le Ande e la luna ti disegno amore mio
solo questo volevo dirti
L’emigrante lo riconosci / perché anche sotto il sole del mezzogiorno / disegna / due ombre.
Sono un emigrante
figlio di emigranti.
Non ho razza né terra
ma solo un cielo di stelle.
La mia lingua è una nuvola
che insegue il vento.
Muoio e rinasco al toccare terra.
*
il silenzio
di tante lingue
lo sguardo
di tanti orizzonti
la solitudine
di ogni terra
masticare terra ed acqua
l’essere emigrante
non ha fine
*
L’albero
Io
ho un albero
piccolo molto piccolo
senza terra e senza radici.
Mi accompagna da sempre
i suoi rami non hanno foglie né frutti
ma sta nella mia valigia
di emigrante.
E forse un giorno
riusciremo a piantarci.
(…) Quello stesso anno, avevo quindici anni, insieme a mio cugino Dario comprammo il primo biglietto ferroviario Interrail decisi a raggiungere il sole di mezzanotte. Fu l’inizio di un viaggiare che non si è ancora fermato. Quando a Narvik, in Norvegia, ci trovammo di fronte a questo tramonto che non tramonta con i compagni di viaggio, mentre alcuni cantavano Because the Night di Patti Smith, io leggevo quella frase: “Quiere Usted Mate? uno spagnolo professe a bassa voce, quasi a non turbare il profondo silenzio della Pampa (…)”. Mi separai dal gruppo immaginando che là, al di là dell’orizzonte ci fosse La Pampa. Molti anni dopo partivo per un viaggio in America Latina che doveva durare quindici giorni e sono diventati più di vent’anni. (…)
.¿Quiere usted Mate? Recibí el vaso y chupé la caliente bebida.
…..Tirado en la hierba virgen, de cara a las extrañas constelaciones yo me iba abandonando entero a los misteriosos juegos de sus arabescos, acunado deliciosamente por los ruidos atenuados del vivac. Mis pensamientos fluctuaban: se subseguían mis recuerdos: que deliciosamente parecían sumergirse para reaparecer a ratos lúcidamente trashumantes en la distancia, como por un eco profundo y misterioso, dentro de la infinita majestad de la naturaleza. (…)
(Pampa, de Dino Campana Suramericano-Cantos Órficos, Abisinia Editorial, 2022. Traduzione di Antonio Nazzaro)
Antonio Nazzaro
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