
Il 10 agosto 1867 Ruggero Pascoli, padre di Giovanni, venne assassinato con una fucilata da due sicari, appostati all’altezza di Savignano, mentre tornava a casa sul suo calesse, a San Mauro di Romagna, l’odierno San Mauro Pascoli. A quel tempo il brigantaggio affliggeva la zona e non era la prima volta che un fattore venisse ucciso dalla criminalità locale. Ruggero Pascoli era stato più volte assessore comunale ed esponente del partito repubblicano del paese, da oltre dieci anni, inoltre, era amministratore della tenuta agricola La Torre dei principi Torlonia. La posizione economica di Ruggero garantiva a lui e alla numerosa famiglia, aveva infatti dieci figli, un tenore di vita piuttosto agiato e suscitava numerose invidie e malcontenti. A quel tempo il poeta aveva dodici anni e studiava nel collegio degli Scolopi di Urbino. La sera dell’omicidio, Ruggero avrebbe dovuto incontrare l’ingegnere Achille Petri, un inviato dei Torlonia, per rinnovare l’incarico di amministratore. All’appuntamento però l’ingegnere non si presentò. Il mandante dell’assassinio rimase sconosciuto, la gente del luogo però sapeva chi fosse il responsabile ma taceva per paura di ritorsioni e per omertà. Il prefetto attribuì la fine di Ruggero ai repubblicani estremisti che lo consideravano un traditore, poiché si era schierato con i liberali monarchici; la famiglia Pascoli, invece, indirizzò le indagini nell’ambiente lavorativo. Il magistrato che si occupò dell’inchiesta indagò due criminali di Cesena, che furono però prosciolti. Per molti e per la famiglia, i due sicari agirono su mandato di chi voleva succedere a Ruggero nel prestigioso incarico, secondo Giovanni, il mandante aveva partecipato all’esecuzione del delitto. Questa tesi emerge in un film del 1953, di Giulio Morelli, intitolato La cavallina storna e ispirato alla poesia La cavalla storna, unica testimone del delitto. Il delitto rimase impunito e venne archiviato dalla magistratura, dopo tre processi, come “commesso da ignoti”. Due altri imputati, accusati di essere sicari a pagamento di casa Torlonia, dapprima furono condannati in primo grado e in seguito furono assolti. Il poeta fece anche delle indagini personali e ritenne che i due criminali Luigi Pagliarani e Michele Della Rocca avessero agito su incarico di tale Pietro Cacciaguerra, l’uomo che l’anno dopo la morte di Ruggero Pascoli prese il suo posto nell’amministrazione della tenuta con l’aiuto dell’ingegnere Petri. Cacciaguerra aveva fatto fortuna in Sudamerica, era poi ritornato a Savignano divenendo un signorotto prepotente che aveva avuto dei contrasti con Ruggero (notoriamente uomo onesto e corretto). Era possibile anche che il principe Torlonia sapesse la verità sul delitto e per timore di ritorsioni, abbia dato perfino il suo assenso. La famiglia Pascoli dovette così abbandonare la tenuta e si trasferì a San Mauro, nella casa materna che sarà venduta qualche anno dopo per le difficoltà economiche. I Torlonia revocarono la sovvenzione alla famiglia di Ruggero. Caterina Vincenzi Alloccatelli, madre di Giovanni, appartenente ad una famiglia della piccola nobiltà rurale, sopravvisse solo per pochi mesi dopo la morte del marito, colpita da un attacco cardiaco; poco più tardi morirono di malattia i figli Margherita e Luigi, Giacomo, invece, morì mentre ricopriva la carica di assessore comunale e pare conoscesse personalmente coloro che avevano partecipato al complotto per uccidere il padre. La giovane moglie di Giacomo pretese parte della scarna eredità e mandò completamente in rovina la famiglia. Gli altri figli, Raffaele e Giuseppe, si allontanarono progressivamente dal nucleo famigliare, Giovanni, dopo una gioventù tumultuosa in cui finì anche in carcere per motivi politici, si fece carico della famiglia con il proprio stipendio da insegnante, richiamando presso di sé le sorelle Ida e Maria con l’intento di ricostituire il nucleo famigliare. Unica consolazione: il 10 agosto di ogni anno Giovanni inviava a Pietro Cacciaguerra, colui che riteneva l’assassino del padre, un biglietto listato a lutto, con la dicitura p.r. (per ricordare). Cacciaguerra lasciò l’incarico nella tenuta nel 1875; il successivo amministratore della tenuta, qualche anno dopo, confermò al poeta che i suoi sospetti erano fondati e che “ci aveva preso nel mezzo” ma gli consigliò di non indagare oltre. Dopo che il presunto mandante morì, Pascoli lo raffigurò, nella poesia Tra San Mauro e Savignano, come un’anima che non trova pace neanche dopo la morte proprio a causa del delitto impunito. Nel 2014 Rosita Boschetti nel libro Omicidio Pascoli. Il complotto, edito da Mimesis, racconta la storia del complotto sulla base di documenti inediti, frutto di meticolose ricerche d’archivio. Il drammatico evento gettò sull’anima sensibilissima del poeta un’ombra che si fece sempre più cupa negli anni della maturità e segnò irrimediabilmente il poeta. In molte sue poesie, infatti, è trattato l’argomento della morte del padre. Oltre alla poesia citata, in X agosto, pubblicata per la prima volta ne Il Marzocco del 9 agosto 1896 e poi inserita in Myricae del 1897, che reca la dedica “A Ruggero Pascoli, mio padre“, il poeta rievoca la morte del padre, avvenuta proprio nella notte di San Lorenzo. Il tragico evento gli suggerisce l’interpretazione del fenomeno delle stelle cadenti, molto evidente in quella notte e identificate con le lacrime del cielo per la malvagità che regna sulla Terra. Il componimento è costituito da sei quartine di decasillabi e novenari a rima alternata, secondo lo schema ABAB.
X agosto
San Lorenzo, Io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
La poesia è incentrata sul paragone tra la morte della rondine che portava nel becco un insetto, cena dei suoi rondinini e quella del padre, entrambi vittime innocenti di un mondo violento. Lo stesso titolo evoca l’immagine della croce, simbolo della sofferenza del poeta, ribadita anche dal paragone con la rondine caduta e rimasta a terra con le ali aperte come crocifissa. Vi ricorre l’immagine del nido, spesso presente nella poesia del Pascoli, metafora della famiglia, luogo di affetti, che offre protezione dalla crudeltà del mondo circostante. Nell’ultima strofa si mette in evidenza la contrapposizione tra il cielo, infinito e immortale, e la Terra, atomo opaco del male, inondata di un pianto di stelle. L’altra poesia in cui il poeta rievoca con dolore la morte del padre è La cavalla storna, composta nel 1903 e inserita nei Canti di Castelvecchio, testo molto commovente e suggestivo. La poesia è costituita da trentuno strofe di distici di endecasillabi a rima baciata.
La cavalla storna
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla”.
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”.
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera.
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa’ cenno. Dio t’insegni, come”.
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.
La scena si svolge di notte, nella stalla, in un silenzio irreale in cui è possibile ascoltare solo il fruscio dei pioppi mossi dal vento. La madre del poeta sta parlando con l’unica testimone del delitto, la cavalla detta «storna» per il colore del manto grigio pezzato da macchie bianche. Nell’immaginazione del poeta la cavalla, spaventata dagli spari che uccisero il padre, proseguì per un tratto, trasportando il corpo di Ruggero e lo condusse a casa, al nido violato. Emerge la contrapposizione tra la viltà e l’omertà degli uomini proprio perché il delitto restò irrisolto dunque impunito e la serenità e la purezza della natura a cui appartiene la cavalla, perché lei ha visto ma non può parlare. L’impossibilità dell’animale di rispondere alle domande della madre sulle circostanze dell’omicidio di Ruggero si risolve alla fine in un sorprendente nitrito con cui la cavalla sembra confermare all’ascolto il nome del presunto assassino, pronunciato dalla madre del poeta. La cavalla, umanizzata dal poeta, si fa carico dell’ingiustizia e del dolore causato dagli uomini.
©Deborah Mega
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.