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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Rose di poesia e prosa

La festa dell’amore: 7 poesie sul tema

13 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ Commenti disabilitati su La festa dell’amore: 7 poesie sul tema

Tag

Cristina Campo, EMILY DICKINSON, Frederic William Burton, Giovanni Raboni, Jacques Prevert, Loredana Semantica, Maria Marchesi, Tamara de Lempicka, William Shakespeare

Il sottotitolo di questo articolo avrebbe potuto essere “Niente di nuovo sotto il sole”, l’amore infatti è un mistero che si ripete da ere, inoltre le poesie proposte, alcune o tutte, di certo le conoscerete. D’altra parte quando vi chiedono “cosa fai per S.Valentino?” rispondete pure “polpette”, come me, poi leggetevi queste poesie qua e se non vi piacciono o non le capite, sorry avete perso molto, non delle poesie, della vita.

Ah dimenticavo, in mezzo mi ci sono messa anch’io, con un mio testo di oltre 10 anni fa, e, a seguire chi volesse può accodarsi. Il post è aperto ai contributi.

Incontro sulle scale della torre, Frederic William Burton, 1864

Non sia mai ch’io ponga impedimenti
all’unione di anime fedeli; Amore non è Amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio:
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

William Shakespeare

–

Che sia l’amore tutto ciò che esiste
É ciò che noi sappiamo dell’amore;
E può bastare che il suo peso sia
Uguale al solco che lascia nel cuore.

Emily Dickinson

.

I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è soltanto la loro ombra
Che trema nel buio
Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini
la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Loro sono altrove ben più lontano della notte
Ben più in alto del sole
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore.

Jacques Prevert

Tamara de Lempicka, Il bacio,1922

Primavera è a un passo, mi colma
d’azzurro e di riverberi, mi chiude
nel desiderio che fa duri i seni
e fa sussultare la vagina. Al canto
delle rane uscirò nuda per le strade.
dovranno vedermi che sono bella
e piena d’ardori. Lui verrà a saperlo
e perderà le staffe. Lo sa che anche il vento
può farmi godere da forsennata.

Maria Marchesi

–

Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l’ultimo gradino…
ora è sparsa l’acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.
T’ho barattato, amore, con parole.
Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava –
ti riconoscerò dall’immortale
silenzio.

Cristina Campo

–

Innamorarsi è un attimo
contro la parete bianca
penombra verdeggiante
liquida e beffarda
un salmone argenteo
che nel guizzo
risale la corrente
le pupille d’acero filante
s’allargano di luce
affondando nere nell’addio
un abbraccio brevissimo
e la gola
d’apnea rossa s’annoda
all’ugola trafitta da stupore
chiodi sopra il muscolo cardiaco
come fosse un puntaspilli
annegato nella stretta
pulsante il cuore grida
al vento quasi morto
amore t’amo
l’afasia di mille volte.

Loredana Semantica

–

Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.

Giovanni Raboni

Egon Schiele, Men and woman (Embrace), 1917

 

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“Un’altra poesia dei doni” di Jorge Luis Borges

17 martedì Nov 2020

Posted by Deborah Mega in Rose di poesia e prosa

≈ Commenti disabilitati su “Un’altra poesia dei doni” di Jorge Luis Borges

 

Ringraziare voglio il divino labirinto degli effetti e delle cause

per la diversità delle creature che compongono questo singolare universo,

per la ragione, che non cesserà di sognare un qualche disegno del labirinto,

per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,

per l’amore, che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità,

per il saldo diamante e l’acqua sciolta,

per l’algebra, palazzo dai precisi cristalli,

per le mistiche monete di Angelus Silesius,

per Schopenhauer, che forse decifrò l’universo,

per lo splendore del fuoco

che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico,

per il mogano, il cedro e il sandalo,

per il pane e il sale,

per il mistero della rosa che prodiga colore e non lo vede,

per certe vigilie e giornate del 1955,

per i duri mandriani che nella pianura aizzano le bestie e l’alba,

per il mattino a Montevideo,

per l’arte dell’amicizia,

per l’ultima giornata di Socrate,

per le parole che in un crepuscolo furono dette da una croce all’altra.

per quel sogno dell’Islam che abbracciò mille notti e una notte,

per quell’altro sogno dell’inferno,

della torre del fuoco che purifica,

e delle sfere gloriose,

per Swedenborg, che conversava con gli angeli per le strade di Londra,

per i fiumi segreti e immemorabili che convergono in me,

per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria,

per la spada e l’arpa dei sassoni,

per il mare, che è un deserto risplendente

e una cifra di cose che non sappiamo,

per un epitaffio dei vichinghi,

per la musica verbale dell’Inghilterra,

per la musica verbale della Germania,

per l’oro, che sfolgora nei versi,

per l’epico inverno,

per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos,

per Verlaine, innocente come gli uccelli,

per il prisma di cristallo e il peso d’ottone,

per le strisce della tigre,

per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan

per il mattino nel Texas,

per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale

e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo,

per Seneca e Lucano, di Cordova,

che prima dello spagnolo scrissero

tutta la letteratura spagnola,

per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,

per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,

per l’odore medicinale degli eucalipti,

per il linguaggio, che può simulare la sapienza,

per l’oblio, che annulla o modifica il passato,

per la consuetudine, che ci ripete e ci conferma come uno specchio,

per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio

per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,

per il coraggio e la felicità degli altri,

per la patria, sentita nei gelsomini o in una vecchia spada,

per Whitman e Francesco d’Assisi, che scrissero già questa poesia,

per il fatto che questa poesia è inesauribile

e si confonde con la somma delle creature

e non arriverà mai all’ultimo verso

e cambia secondo gli uomini,

per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli perché moriva così lentamente,

per i minuti che precedono il sonno,

per il sonno e la morte, quei due tesori occulti,

per gli intimi doni che non elenco,

per la musica, misteriosa forma del tempo.

 

JORGE LUIS BORGES

(“Otro poema de los dones”, da ‘L’altro, lo stesso’, 1964)

 

Otro poema de los dones

Gracias quiero dar al divino Laberinto de los efectos y de las causas
Por la diversidad de las criaturas que forman este singular universo,
Por la razón, que no cesará de soñar con un plano del laberinto,
Por el rostro de Elena y la perseverancia de Ulises,
Por el amor, que nos deja ver a los otros como los ve la divinidad,
Por el firme diamante y el agua suelta,
Por el álgebra, palacio de precisos cristales,
Por las místicas monedas de Ángel Silesio,
Por Schopenhauer, que acaso descifró el universo,
Por el fulgor del fuego,
Que ningún ser humano puede mirar sin un asombro antiguo,
Por la caoba, el cedro y el sándalo,
Por el pan y la sal,
Por el misterio de la rosa, que prodiga color y que no lo ve,
Por ciertas vísperas y días de 1955,
Por los duros troperos que en la llanura arrean los animales y el alba,
Por la mañana en Montevideo,
Por el arte de la amistad,
Por el último día de Sócrates,
Por las palabras que en un crepúsculo se dijeron de una cruz a otra cruz,
Por aquel sueño del Islam que abarcó mil noches y una noche,
Por aquel otro sueño del infierno,
De la torre del fuego que purifica
Y de las esferas gloriosas,
Por Swedenborg, que conversaba con los ángeles en las calles de Londres,
Por los ríos secretos e inmemoriales que convergen en mí,
Por el idioma que, hace siglos, hablé en Nortumbria,
Por la espada y el arpa de los sajones,
Por el mar, que es un desierto resplandeciente
Y una cifra de cosas que no sabemos
Y un epitafio de los vikings,
Por la música verbal de Inglaterra,
Por la música verbal de Alemania,
Por el oro, que relumbra en los versos,
Por el épico invierno,
Por el nombre de un libro que no he leído: Gesta Dei per Francos,
Por Verlaine, inocente como los pájaros,
Por el prisma de cristal y la pesa de bronce,
Por las rayas del tigre,
Por las altas torres de San Francisco y de la isla de Manhattan,
Por la mañana en Texas,
Por aquel sevillano que redactó la Epístola Moral
Y cuyo nombre, como él hubiera preferido, ignoramos,
Por Séneca y Lucano, de Córdoba
Que antes del español escribieron
Toda la literatura española,
Por el geométrico y bizarro ajedrez
Por la tortuga de Zenón y el mapa de Royce,
Por el olor medicinal de los eucaliptos,
Por el lenguaje, que puede simular la sabiduría,
Por el olvido, que anula o modifica el pasado,
Por la costumbre, que nos repite y nos confirma como un espejo,
Por la mañana, que nos depara la ilusión de un principio,
Por la noche, su tiniebla y su astronomía,
Por el valor y la felicidad de los otros,
Por la patria, sentida in los jazmines, o en una vieja espada,
Por Whitman y Francisco de Asís, que ya escribieron el poema,
Por el hecho de que el poema es inagotable
Y se confunde con la sumas de la creaturas
Y no llegará jamás al último verso
Y varía según los hombres,
Por Frances Haslam, que pidió perdón a sus hijos por morir tan despacio,
Por los minutos que preceden al sueño,
Por el sueño y la muerte, esos dos tesoros ocultos,
Por los íntimos dones que no enumero,
Por la música, misteriosa forma del tiempo.

 

JORGE LUIS BORGES

(“Otro poema de los dones”, da ‘L’altro, lo stesso’, 1964)

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Loredana Semantica traduce Sylvia Plath “I am vertical”

13 domenica Set 2020

Posted by Loredana Semantica in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ 2 commenti

Io sono verticale
ma preferirei essere orizzontale
non sono albero con radici nella terra
a succhiare minerali e amore di madre
così da luccicare di foglie ad ogni marzo
né sono bella come un angolo di giardino
che desta meraviglia per splendore di colori
senza sapere che presto sfiorirà.
Al mio confronto un albero è immortale
e la corolla di un fiore meno alta ma più ardita
vorrei del primo la lunga vita dell’altro l’anima viva.

Stanotte nella luce infinitesimale delle stelle
i fiori e gli alberi spandono profumi freddi
io li attraverso ma loro non si accorgono di me
a volte penso che mentre dormo
quando i pensieri svaniscono
assomiglio a loro perfettamente.
E’ più naturale per me stare supina
allora io ed i cieli parliamo senza riserve
io sarò utile quando resterò così per sempre
finalmente
gli alberi si piegheranno fino a toccarmi
e i fiori avranno un attimo (solo) per me.

I am vertical
But I would rather be horizontal.
i am not a tree with my root in the soil
sucking up minerals and motherly love
so that each March I may gleam into leaf,
nor am I the beauty of a garden bed
attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
and a flower-head not tall, but more startling,
and I want the one’s longevity and the other’s daring.

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
the trees and flowers have been strewing their cool odors.
i walk among them, but none of them are noticing.
sometimes I think that when I am sleeping
i must most perfectly resemble them–
thoughts gone dim.
it is more natural to me, lying down.
then the sky and I are in open conversation,
and I shall be useful when I lie down finally:
the the trees may touch me for once,
and the flowers have time for me.

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La Pasqua di Angelo Maria Ripellino

12 domenica Apr 2020

Posted by Loredana Semantica in Rose di poesia e prosa, SINE LIMINE

≈ Commenti disabilitati su La Pasqua di Angelo Maria Ripellino

 

La pigrizia di Cristo che si sveglia dal sepolcro,
la sua sghemba goffaggine di orso ferito,
il suo stiracchiarsi dal sonno, e la testa
pesante come quella di un infermo,
portato a un concerto dopo mesi di letto.
I suoi occhi intrisi di nera muffa,
le braccia sottili come lunghissimi ceri.
E un giornalaio che strilla: «Mala Pasqua»,
l’albagía dei badchónim e dei gavazzieri,
che cantano la storia della sua morte,
e venditori che spacciano i suoi santini,
i chiodi e il legno della croce, e la rossa garza
che coprí le sue fístole,
e il bàlsamo e i lini.
La nausea di perdonare, di fingersi forte,
la nausea di essere Cristo,
fratello di Lazzaro.

La poesia di Angelo Maria Ripellino è stata oggetto di commento su questo blog qui

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Guarda che luna! Le mille lune dei poeti

02 lunedì Set 2019

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ 1 Commento

Tag

Alda Merini, Charles Baudelaire, Federico Garcia Lorca, Gabriele D'Annunzio, Giacomo Leopardi, Gianni Rodari, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Luigi Pirandello

Il 20 luglio 1969, cinquant’anni fa, Neil Armstrong, Michael Collins e Edwin Aldrin Buzz giungevano sulla luna a bordo dell’Apollo 11 e questo evento rappresentò un’importante svolta, un grande passo per l’umanità. Da sempre la Luna, unico satellite naturale della Terra, ha ispirato mitologie, leggende e credenze, poeti, scrittori, registi, musicisti. Personificata dalla dea Selene, fu considerata influente sui raccolti, le carestie e la fertilità. Condiziona la vita sulla Terra di molte specie viventi, regolandone il ciclo riproduttivo, agisce sulle maree e la stabilità dell’asse di rotazione terrestre. La raccolta che segue rappresenta una breve carrellata di testi poetici che trattano l’argomento.

*

TRISTEZZA DELLA LUNA

Più pigra, questa sera, sta sognando la luna:
bellezza che su un mucchio di cuscini,
lieve e distratta, prima di dormire
accarezza il contorno dei suoi seni,

sulla serica schiena delle molli valanghe,
morente, s’abbandona a deliqui infiniti,
e volge gli occhi là dove bianche visioni
salgono nell’azzurro come fiori.

Quando su questa terra, nel suo pigro languore,
lascia che giù furtiva una lacrima fili,
un poeta adorante e al sonno ostile

nella mano raccoglie quell’umido pallore
dai riflessi iridati d’opale, e lo nasconde
lontano dagli occhi del sole, nel suo cuore.

CHARLES BAUDELAIRE, Traduzione di Giovanni Raboni

 

TRISTESSES DE LA LUNE

Ce soir, la lune rêve avec plus de paresse;
Ainsi qu’une beauté, sur de nombreux coussins,
Qui d’une main distraite et légère caresse
Avant de s’endormir le contour de ses seins,

Sur le dos satiné des molles avalanches,
Mourante, elle se livre aux longues pâmoisons,
Et promène ses yeux sur les visions blanches
Qui montent dans l’azur comme des floraisons.

Quand parfois sur ce globe, en sa langueur oisive,
Elle laisse filer une larme furtive,
Un poète pieux, ennemi du sommeil,

Dans le creux de sa main prend cette larme pâle,
Aux reflets irisés comme un fragment d’opale,
Et la met dans son cœur loin des yeux du soleil.

*

CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E’ funesto a chi nasce il dì natale.

GIACOMO LEOPARDI

*

ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

GIACOMO LEOPARDI

*

 

POTESSERO LE MIE MANI SFOGLIARE LA LUNA

Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.

Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura,
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della dolce pioggia.

T’amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!

FEDERICO GARCIA LORCA, Traduzione di Claudio Rendina

 

SI MIS MANOS PUDIERAN DESHOJAR

Yo pronuncio tu nombre
en las noches oscuras,
cuando vienen los astros
a beber en la luna
y duermen los ramajes
de las frondas ocultas.
Y yo me siento hueco
de pasión y de música.
Loco reloj que canta
muertas horas antiguas.

Yo pronuncio tu nombre,
en esta noche oscura,
y tu nombre me suena
más lejano que nunca.
Más lejano que todas las estrellas
y más doliente que la mansa lluvia.

Te querré como entonces
alguna vez? Qué culpa
tiene mi corazón?
Si la niebla se esfuma,
qué otra pasión me espera?
Será tranquila y pura?
Si mis dedos pudieran
deshojar a la luna!

*

L’ASSIUOLO

Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi: 
chiù…

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto: 
chiù…

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte… 
chiù…

GIOVANNI PASCOLI

*

O FALCE DI LUNA CALANTE

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ’l vasto silenzio va.
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

GABRIELE D’ANNUNZIO

*

SULLA LUNA

Sulla luna, per piacere,
non mandate un generale:
ne farebbe una caserma
con la tromba e il caporale.
Non mandateci un banchiere
sul satellite d’argento,
o lo mette in cassaforte
per mostrarlo a pagamento.
Non mandateci un ministro
col suo seguito di uscieri:
empirebbe di scartoffie
i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta
sulla Luna ad allunare:
con la testa nella luna
lui da un pezzo ci sa stare…
A sognar i più bei sogni
è da un pezzo abituato:
sa sperare l’impossibile
anche quando è disperato.
Or che i sogni e le speranze
si fan veri come fiori,
sulla luna e sulla terra
fate largo ai sognatori!

GIANNI RODARI

*

VEGLIA

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

GIUSEPPE UNGARETTI

*

CANTO ALLA LUNA

La luna geme sui fondali del mare,
o Dio morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell’anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento
quanto basti per darti
un unico bacio d’amore.

ALDA MERINI

*

«Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. / Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. / Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era: ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? / Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. / Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! / E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».

LUIGI PIRANDELLO, da Ciaula scopre la luna, Novelle per un anno

 

 

 

 

 

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IV. Il ferro in pugno al chirurgo ferito

19 venerdì Apr 2019

Posted by Loredana Semantica in ARTI VISIVE, Rose di poesia e prosa

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Quattro quartetti, Thomas Stearn Eliot

Elaborazione fotografica di Loredana Semantica

Il ferro in pugno al chirurgo ferito
Si avverte che, sotto la mano insanguinata,
L’affilata pietà dell’arte medica
Della curva febbrile risolve il quesito.
Nostra sola salute è nella malattia,
Nell’obbedienza all’infermiera moribonda
Che indifferente al nostro gradimento
La condanna di Adamo, la nostra, ci rammenta
E che la guarigione segue l’aggravamento.
Il mondo intero è un ospedale finanziato
Da un milionario spiantato,
Dove morremo, se ci comportiamo bene,
Della paterna cura che, assoluta,
Mai ci abbandona e ovunque ci precede.
Dai piedi alle ginocchia ascende il gelo,
La febbre canta nei circuiti cerebrali.
Per essere scaldato mi devo congelare,
Tremare dentro il freddo fuoco purgatoriale,
Fiamma fatta di rose, fumo fatto di spine.
Nostra sola bevanda è il sangue stillante,
La carne sanguinante nostro unico alimento:
Benché ci sia gradito di pensare,
Che siamo salda carne e saldo sangue,
Ebbene, questo Venerdì si chiama Santo.

Thomas Stearn Eliot, da “Quattro quartetti”

Trad. di Fulvio Pauselli

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Sonetto d’epifania

06 domenica Gen 2019

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ Commenti disabilitati su Sonetto d’epifania

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Giorgio Caproni, Sonetto d'epifania

New Years Eve at Berlin, photo via GloHoliday

Sopra la piazza aperta a una leggera

aria di mare, che dolce tempesta

coi suoi lumi in tumulto fu la sera

d’Epifania ! Nel fuoco della festa

rapita, ora ritorna a quella fiera

di voci dissennate, e si ridesta

nel cuore che ti cerca, la tua cera

allegra – la tua effigie persa in questa

tranquillità dell’alba, ove dispare

in nulla, mentre gridano ai mercati

altre donne più vere, un esitare

d’echi febbrili (i gesti un dì acclamati

al tuo veloce ridere) al passare

dei fumi che la brezza ha dissipati.

 

Giorgio Caproni

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Repetita iuvant

01 martedì Gen 2019

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ Commenti disabilitati su Repetita iuvant

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Gesualdo Bufalino, Repetita iuvant

‘Waiting’ by Brooke Shaden

 

Dicono che repetita iuvant
che il primo bacio è insipido, ma è il secondo che conta;
che il bis d’un minuto radioso
s’insaporisce d’un miele che ci sfuggì quella sera …
Ma l’anno che ritorna col suo rauco olifante
a soffiarci dentro le orecchie
l’ennesima Roncisvalle,
e ingrossa i fiumi, impoverisce gli alberi;
l’anno che nello specchio del bagno consegna
a uno svogliato rasoio la barba sempre più bianca;
l’anno che cresce su sé con l’ingordigia dei numeri,
sgranando sul calendario
il recidivo blues del Mai più …
chi oserebbe dire che meriti la festa del Benvenuto?
chi potrebbe giurare che non sia peggio degli altri?
Il male si moltiplica e repetita non iuvant.
Eppure … Eppure nella tombola arcana del Possibile
fra i dadi e il caso la partita è aperta;
gonfiano fiori insoliti il grembo d’una zolla;
lune mai viste inonderanno il cielo,
due ragazzi in un giardino
si scambieranno i telefoni, i nomi,
stupiti di chiamarsi Adamo ed Eva;
verrà sotto i balconi
un cieco venditore d’almanacchi
a persuaderci di vivere …
Crediamogli un’ultima volta.

Gesualdo Bufalino

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“Un giorno moriremo, ma il canto viene prima” di Julio Cortàzar

02 venerdì Nov 2018

Posted by LiminaMundi in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ Commenti disabilitati su “Un giorno moriremo, ma il canto viene prima” di Julio Cortàzar

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Julio Cortazàr

Vecchia contadina, Renato Guttuso, 1949

Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
 
Nonna, tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e a ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni
con lo strofinio appena udibile dei tuoi passi,
entrando dalla parte del giorno a
restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
 
Non dimentico nulla,
io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lilla che ti fa
come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare
delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia
che tu lasci libera quando ti alzi,
come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
 
Tu non lo sai, nonna,
però in te finisce il tempo,
la successione dei giorni e delle spiagge,
delle aule e dei pianti,
dell’amore nei suoi mille specchi,
dell’uomo e del bambino che riconciliano
le loro distanze nei tuoi occhi,
oh paese della pace.
 
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io,
e niente impedisce che il piccolo e l’uomo
ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio.
Questi capelli che tu accarezzi
e che pettinasti per la prima volta,
questa fronte che stai baciando
e che lavasti del sudore della nascita,
queste mani che vanno per il mondo
palpando i suoi bei vuoti,
e che guidasti nel primo incontro
con il cucchiaio e la palla,
tornano al porto del riposo,
e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte,
e non se ne vanno, nonna.
 
La nonna spunta con il giorno
a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais,
ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica,
del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa
distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e,
associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie,
sento il tremito dell’acqua sui rampicanti
che bucano i muri
e che la ricevono crepitando
e si riempiono di scintille.
Ho dieci anni,
vivo insieme ai bruchi e alle anatre,
sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo,
ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna,
le arrivò già all’altezza delle spalle,
sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune
dei polli nati durante la notte.
 
Il nostro giardino durò quanto l’infanzia.
Né tu né io lo dimenticheremo, nonnina.
Non dimenticheremo
il sapore delle pesche bianche,
delle barbabietole, delle zucche incendiate.
Fu il tempo del riso al latte coperto di cannella,
del piacere delle pannocchie
sulla tavola tesa sotto i pergolati.
Stai nella cucina in penombra,
con i glicini alla porta,
e curi le cadenze delle bacinelle di gelatina,
le marmellate invernali
che ordinerai nella credenza.
Io sto lì,
con Giulio Verne e una botta al ginocchio,
felice, guardandoti,
sicuro che niente potrà mai accadermi,
che in mezzo al mare o all’assalto del polo
con il capitano Hatteras,
o appeso al cielo con Michel Ardan,
tu mi tieni con te,
vicino al fornello da cui l’aroma
inzuccherato cresce come un soave vulcano
dipinto a lapis.
 
Un giorno moriremo, ma  il canto viene prima.
 
E non solo ieri, nonna.
Ogni volta stai lì,
piccola sotto l’architrave,
imbacuccata nella tua vecchiezza senza macchia,
nella tua piccola salute,
e ogni volta che mi trai da porte e passi e uomini,
io so che tu stai lì.
E che il tuo amore
senza altra causa che se stesso
ci sostiene nella notte e ci restituisce l’alba dell’incontro,
e il tempo gira la testa e ci accetta interi,
con il bambino che piange fra le tue braccia,
con il viaggiatore che si lava
della polvere nel tuo sorriso,
con la giovane nonna che corre
in mezzo alla neve per rallegrare il nipote,
con questa vecchietta che sostiene
sulla soglia la lampada del benvenuto.
 
E il primo che muoia saprà che niente muore
e che la perfezione regnò nel suo giorno.
 
Julio Cortàzar

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Forma alchemica 21: Sylvia Plath

08 giovedì Feb 2018

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ 3 commenti

L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro.
La levatrice ti ha schiaffeggiato sotto i piedi e il tuo nudo grido
ha preso il suo posto fra gli elementi.

Le nostre voci echeggiano, esaltando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra della nostra sicurezza.
Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti.

Non sono tua madre più di quanto
lo sia la nuvola che distilla uno specchio per riflettere la propria lenta
cancellazione per mano del vento.

Per tutta la notte il tuo respiro di falena tremola
fra le piatte rose rosa. Veglio per ascoltare:
un mare lontano si muove nel mio orecchio.

Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante
come una mucca e floreale
nella mia camicia da notte vittoriana.
La tua bocca si apre pulita come quella di un gatto. Il riquadro della finestra

s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle. E ora tu provi
la tua manciata di note;
le vocali chiare salgono come palloncini.

19.02.1961, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Io non ero ancora nata e Sylvia Plath scriveva questa poesia dedicata alla sua primogenita Frieda, nata nell’aprile del 1960. La propongo in forma alchemica perché sin dalla prima lettura, avvenuta molti anni fa, mi ha impressionato quel singolare miscuglio di:

  • amore materno (L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro –  Un grido, e scendo dal letto);
  • distacco da osservatore esterno (Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti – scendo dal letto incespicando, pesante come una mucca e floreale);
  • senso di estraneità (il tuo nudo grido ha preso il suo posto fra gli elementi. – Nuova statua. – Non sono tua madre più di quanto lo sia la nuvola… )

che trasuda dalla poesia ed è in grado di catturare magneticamente alla stupefatta lettura  fino alla fine del componimento.

C’è soprattutto un verso che trovo incantevole, frutto del parossismo dello spirito di osservazione e della capacità eccezionale d’inventiva poetica, il verso dove la poetessa assimila la boccuccia sottile di un neonato a quella dalle linee altrettanto nitide, sottili e pulite del felino di casa. (La tua bocca si apre pulita come quella di un gatto.) E’ un’originale similitudine, singolare e coraggiosa, concentrato di tutti e tre i filoni portanti del testo: amore materno, distacco e senso di estraneità

La Plath è una poetessa geniale, graziosa d’aspetto e con una personalità affascinante. Nacque a Boston il 27 ottobre del 1932.

Amava la perfezione, gli studi letterari, la poesia. Scrisse la sua prima poesia ad appena 8 anni, restò orfana di padre a nove, tentò il suicidio a 18, si laureò con lode a 23. Cercò per tutta la vita di compiacere la madre nel suo desiderio che la figlia conquistasse successi e perfezione

Sposò Ted Hughes, poeta laureato inglese e con lui, dopo un periodo felice a Boston, si recò a Londra e successivamente nel Devon. Il fascino di Sylvia Plath è reso ancora più profondo dal disagio psichico  culminato il 31 ottobre del 1963 nel suo suicidio, avvenuto a Londa in un appartamento che era stato abitato da William Butler Yeats

Molti articoli in rete riportano e commentano, raccontano e romanzano il suicidio di Sylvia. Chiudersi in cucina, sigillare porte e finestre con nastro adesivo e asciugamani bagnati, infilare la testa nel forno e morire avvelenata dal monossido di carbonio è certo un modo pensato e caparbio di morire.  I figli al sicuro nella stanza accanto hanno pronta accanto al letto la colazione: una tazza di latte, pane e burro. A breve, Sylvia sapeva, sarebbe arrivata un’infermiera alle cui cure era stata affidata dal medico la famiglia e che infatti ebbe la macabra sorpresa di trovare la poetessa morta. Forse Sylvia non voleva morire, ma formulare una disperata richiesta di aiuto, forse pensava nel suo inconscio che l’infermiera sarebbe arrivata per tempo e avrebbe chiamato i soccorsi, che l’avrebbero rianimata, forse all’opposto la sua ansia di perfezione si manifestò anche nel programmare e portare a compimento il suicidio, con un calcolo perfetto dei tempi, della resistenza fiacca del suo organismo, della riuscita del suo progetto.

Non stava bene Sylvia, era prostata dall’abbandono di Ted Hughes che era andato a vivere con Assia Wevill della quale si era innamorato, questa probabilmente fu la goccia che fece traboccare il vaso del disagio. Già la Plath aveva dovuto affrontare la nascita di due figli e un aborto nel 1961, dunque dal 1960 come un continuo martellamento il suo equilibrio era stato messo a dura prova, ben sappiamo quanto la nascita dei figli sconvolge la vita dei genitori e quanto impegno richiede ad una madre. L’inverno tra il 1962 e il 1963 era stato particolarmente rigido e sia la Plath che i suoi figli si erano ammalati. I bambini avevano ancora la febbre. Questa sequela di eventi avrà portato la Plath alla scelta nefasta della resa definitiva.

Nel 1959 Sylvia aveva frequentato insieme ad Anne Sexton un corso di scrittura creativa che influenzò molto il modo di scrivere di entrambe. La Plath e la Sexton sono considerate infatti le maggiori esponenti femminili della poesia “confessionale” per quanto l’etichetta, usata anche in senso negativo, non esalti a sufficienza l’originalità, l’inventiva e la profondità degli scritti di queste due autrici. Anche la parola poesia “femminista” è riduttiva, non solo perché insufficiente ad esprimere la complessità della scrittura poetica, ma perché maschera un deteriore tentativo di ridimensionamento.

Tra le due poetesse però si sviluppò un rapporto prevalentemente competitivo determinato dalla volontà di Sylvia di eccellere, dalla sua continua ricerca di perfezione, e dal disappunto che ella provava nei confronti della Sexton che riusciva, a differenza di quanto riusciva a fare lei, a scrivere di getto.

L’anno 1960 tuttavia dette il via al periodo più prolifico e brillante della Plath. Pubblicò The Colossus, dedicato a Hughes che lei appunto considerava un genio, scrisse il romanzo autobiografico La campana di vetro, che era stato appena pubblicato quando lei si suicidò e una serie di riuscite poesie che confluirono nella raccolta postuma Ariel che vide la luce nel 1965.

Ted Hughes e la madre di Sylvia Aurelia Schober esercitarono un controllo sulle pubblicazioni postume dell’autrice, parti del diario che la Plath teneva sono state distrutte dal marito, a suo dire, per tutelare i figli, la Schober invece ha bloccato le pubblicazioni della figlia negli Stati Uniti.

Mi ha impressionato la scia di suicidi che seguono quello di Sylvia come una sequela nefasta di negatività. Assia Wevill si suicidò sei anni dopo la morte di Sylvia con sonniferi e gas insieme la figlioletta che aveva avuta da Hughes. Più di recente, nel 2009, si è suicidato Nicholas Hughes, oceanografo, figlio di Sylvia e Ted.

Certo queste scelte terminali sono testimonianza di vite vissute drammaticamente, e la poesia di Sylvia non è altro che il modo di rendere visibile, comprensibile, quasi esporre questa drammaticità esistenziale. Non per niente Sylvia scriveva sul suo diario «La scrittura è la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo» e più sotto in carattere maiuscolo «LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA»

Ted Hughes, al quale l’opinione pubblica addebiterà la responsabilità del suicidio della Plath, confesserà in uno dei suo ultimi scritti, il suo amore mai sopito per lei; nel frattempo dalla morte ad oggi, grazie alla poesia, quindi proprio alla sua scrittura,  Sylvia, ha conquistato l’amore di moltissimi lettori e lettrici, e di molti poeti e poetesse, alcuni dei quali tentano, senza successo, di riprodurne l’inimitabile stile.

Loredana Semantica

 

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Natale di Giorgio Caproni

25 lunedì Dic 2017

Posted by LiminaMundi in ARTI VISIVE, Rose di poesia e prosa

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Giorgio Caproni

Sandro_botticelli_e_bottega,_madonna_col_bambino_e_san_giovannino_in_un_tondo,_1490-1500_ca._03

Sandro Botticelli, Madonna con Bambino e San Giovannino, particolare (1490-1550 ca.)

Con l’opera di Sandro Botticelli e la poesia di Giorgio Caproni, il blog Limina mundi e la redazione augurano BUON NATALE.

Nel gelo del disamore…
senza asinello né bue…
Quanti, con le stesse sue
fragili membra, quanti
suoi simili, in tremore,
nascono ogni giorno in questa
Terra guasta!…

Soli
e indifesi, non basta
a salvarli il candore
del sorriso.

La Bestia
è spietata. Spietato
l’Erode ch’è in tutti noi.

Vedi tu, che puoi
avere ascolto. Vedi
almeno tu, in nome
del piccolo Salvatore
cui, così ardentemente, credi
d’invocare per loro
un grano di carità.

A che mai serve il pianto
– posticcio – del poeta?

Meno che a nulla. È soltanto
fatuo orpello. È viltà.

(Giorgio Caproni)

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Forma alchemica 20: Hermann Hesse

22 mercoledì Nov 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Hermann Hesse, Tristezza

Hermann_Hesse_1927_Photo_Gret_Widmann

immagine da wikipedia

Ancora ieri splendidi
oggi votati alla morte
cadono fiori su fiori
dall’albero della tristezza

Li vedo cadere e cadere
come neve sul mio cammino
svanita l’eco dei passi
si avvicina il lungo silenzio

Non ci sono più stelle nel cielo
né amore nel cuore
la distanza è muta e smorta
vecchio e vuoto il mondo

Chi può proteggere il cuore
in questo disperato momento?
Dall’albero della tristezza
cadono fiori su fiori

Hermann Hesse
(trad. Loredana Semantica)

Die mir noch gestern glühten
Sind heut dem Tod geweiht
Blüten fallen um Blüten
Vom Baum der Traurigkeit

Ich seh sie fallen, fallen
Wie Schnee auf meinen Pfad
Die Schritte nicht mehr hallen
Das lange Schweigen naht

Der Himmel hat nicht Sterne
Das Herz nicht Liebe mehr
Es schweigt die graue Ferne
Die Welt ward alt und leer

Wer kann sein Herz behüten
In dieser bösen Zeit?
Es fallen Blüten um Blüten
Vom Baum der Traurigkeit

La poesia che propongo in questa forma alchemica rappresenta una fedele descrizione dell’avvilimento spirituale dei depressi. Il progressivo spegnimento della luce, dei colori, dei suoni, il senso di oscuramento di ogni sentimento gioioso e un continuo cadere di “fiori su fiori” come fossero lacrime dal cuore. Cuore che tace morto all’amore, da non intendersi come pulsione sentimentale verso l’altro in quanto essere umano, quanto altro, come ciò che è fuori da sé, cosa o persona che sia, verso cui si è incapaci di tendere, di andare incontro, perché svanisce, soffocato dalla percezione di un’insormontabile distanza che s’interpone, come avviene metaforicamente col suono dei passi che si spengono ovattati dalla neve.
Non c’è nulla che possa salvare in questi momenti disperati, la tristezza pervade tutto. Tutto cade verso il suolo nella demoralizzazione invincibile rappresentata dai fiori, sinonimo di colore e bellezza, che cadono senza speranza. E’ un dolore morale senza rimedio che pervade lo spirito e lo prostra.
Hermann Hesse è l’autore di questo testo. La perfetta rappresentazione del climax psichico modellato con le parole della poesia introduce alla principale nota caratteristica della poetica di Hesse. L’approfondimento psicologico che egli svolse per tutta la vita con la sua scrittura, accreditandosi come scrittore della crisi e della ricerca. Il filo conduttore della poesia e degli stessi romanzi di Hesse è una costante e pervasiva autoanalisi influenzata da principi mutuati dalle dottrine orientali, indù e buddista principalmente, unitamente a uno spirito profondamente pacifista che lo portò ad assumere posizioni non in linea con il movimento nazionalista. Queste posizioni tuttavia non furono espresse dichiaratamente, ma scaturiscono come evidente conseguenza degli ideali contenuti nelle sue opere. Il pensiero di Hesse era sostanzialmente contrario a un impegno dell’artista in ambiti politici e sociali, dovendo egli piuttosto dedicarsi al compimento della propria “formazione” umana attraverso l’esplicitazione della propria arte. La sua contrarietà al nazionalismo si desume anche dall’affermazione che egli, favorevole a un’unione europea a tutela degli ideali umanistici , espresse in età avanzata, “Sto scoprendo per la prima volta dopo decenni dei sentimenti di nazionalismo nel mio petto, naturalmente non tedesco, ma europeo”.
L’introspezione, il pacifismo, lo spiritualismo e il misticismo sono le ragioni che spiegano il fascino esercitato dagli scritti di Hesse nel 1964 sui giovani americani aggregati in movimento pacifista contro la guerra in Vietnam. Il loro apprezzamento postumo, di appena due anni dopo la morte dell’autore, sono alla base della grande diffusione internazionale delle opere di Hesse, autore di lingua tedesca tra i più letti al mondo.

Una figura eclettica Hermann Hesse, poeta, scrittore, filosofo, pittore, tedesco, naturalizzato svizzero, nacque nel 1877 a Calw da famiglia protestante, il padre e il nonno erano stati missionari in India. Visse l’infanzia con la famiglia a Basilea, insofferente alla rigida e oppressiva educazione pietista impartitagli. Egli inizialmente fu avviato agli studi teologici nel seminario protestante del monastero di Maulbronn. Hermann però, appena quindicenne, fuggi dal monastero, e attraversò una profonda crisi depressiva culminata in un tentativo di suicidio. I genitori allora lo fecero ricoverare a Stetten, dove rimase per quattro mesi in cura, poi lo iscrissero al liceo di Cannstatt, nel quale prese la licenza media.
Successivamente si recò a Tubinga dove diventò libraio e cominciò a pubblicare i suoi primi scritti. Fu un autore prolifico, ben 15 raccolte di poesia e trentadue romanzi, tra i quali i più famosi: Peter Camenzind (1904), Gertrud (1910), Demian (1919), Siddhartha (1922), Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930) e Il gioco delle perle di vetro (1943). Siddharta è stato ispirato dal suo viaggio in India, paese che esercitava su di lui grande attrattiva per il trascorso dei genitori. Il viaggio da lui stesso definito deludente, si traduce nell’opera in uno splendido risultato.
Si sposò tre volte. La prima moglie fu Maria Bernoulli, una fotografa professionista, che sposò nel 1904, e che gli dette 3 figli Bruno, Heiner e Martin. Nel 1919 si separò da Maria, dalla quale si era progressivamente allontanato per un forte esaurimento nervoso causato dalle esperienze connesse alla prima guerra mondiale e dai problemi psichici della moglie.
Si recò a Montagnola, nel Ticino, dove sembro riprendersi dalla malattia, ma, al termine della prima guerra mondiale, dovette ricorrere alle cure di Carl Gustav Jung e di un suo allievo per superare il suo malessere psichico.
In seconde nozze sposò la cantante Ruth Wenger, vissero poco insieme e le nozze ebbero breve durata, sufficiente tuttavia per precipitare nuovamente Hesse nella depressione e in pensieri oppressivi di morte, che egli cercò di contrastare frequentando i locali notturni di Berna e Zurigo. Frutto di questa esperienza fu il romanzo autobiografico “Il lupo della steppa”
La terza moglie di Hesse fu Ninon Dolbin Ausländer, storica d’arte, una personalità forte che lo influenzò molto, con la quale visse serenamente la propria vita e arte. Ninon gli stette vicino fino alla morte, avvenuta a Montagnola nel 1962.

Hesse nel 1946 è stato insignito del premio Nobel per il saggio pedagogico di “Il gioco delle perle di vetro”, la cui stesura lo impegnò per 10 anni, con la seguente motivazione “Per la sua scrittura ispirata che nel crescere in audacia e penetrazione esemplifica gli ideali umanitari classici, e per l’alta qualità dello stile” ma mi piace chiudere questa forma alchemica con una citazione tratta dal romanzo Demian sulle conversazioni con il dottor Jung (nel romanzo dr. Pistorius) perché più di altre centra il nucleo racchiuso nella scrittura di Hesse, il suo sforzo di ricerca e di individuazione dell’origine della sofferenza psichica dalla quale fu afflitto per tutta la vita, mai definitivamente sopita, fondamento e ragione della sua affascinante opera: “Ma tutte le conversazioni, anche le più umili, colpivano con leggero e costante martellio il medesimo punto dentro di me, tutte contribuivano a formarmi, a rompere gusci di uova da ognuno dei quali alzavo il capo un po’ più in alto, un po’ più libero, finché l’uccello giallo con la bella testa di rapace erompeva da frantumato guscio del mondo.” (trad. di Ervino Pocar)

Loredana Semantica

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Forma alchemica 19: Jacques Prevert

01 mercoledì Nov 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Jacques Prévert

I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Jacques Prevert

 

Desidero dedicare questa forma alchemica a Jacques Prevert. E comincio a parlarne rinviando a un post che qualche giorno fa ho pubblicato qui, su questo blog. Si tratta della prima “Poesia a caso”, una sorta di esperimento poetico nel quale apro a caso una pagina della raccolta poetica di un autore e ne pubblico il testo. Singolarmente la poesia di Prevert scelta a caso intercetta perfettamente lo spirito della nuova rubrica, nel senso che essa vuole rendere evidente che non sempre i grandi hanno scritto capolavori. Le loro poesie migliori, le loro “forme alchemiche” circolano con maggior frequenza delle altre, queste ultime magari sono ben scritte, di sicura qualità, ma meno riuscite in perfezione di senso e di bellezza. In particolare la poesia “La meteora” non brilla per finezza, parla di galera, pitale e di schizzi che al solo pensiero suscitano repulsa. La parola “merda” in una poesia è sufficiente a connotarla di un elemento di disgusto, per quanto, obiettivamente, essa è sostanza che accomuna gli esseri viventi. Tutti gli organismi vivi dal più semplice al più complesso, si nutrono ed eliminano le scorie non utili a produrre energia o rinnovare/mantenere la propria struttura corporea. Non dobbiamo certo “impressionarci” delle parole, anzi coraggiosamente dobbiamo accettarle tutte nella loro inesauribile capacità di nominare l’esistente e il non esistente, nella sconfinata e incantevole ricchezza di espressione, composizione, suono. Una fascinazione che senza mai esaurirsi attrae i poeti, gli scrittori, gli artigiani della parola. A parte la digressione compiuta a “giustificare” l’uso di termini non elevati e nobili che, sono certa, alcuni non apprezzano in un testo poetico, ci tengo a sottolineare che, nonostante ciò, la poesia scelta per inaugurare una “Poesia a caso” è una poesia d’amore. Amore che si schiude al suo senso in un crescendo, dalla prosaicità del penitenziario e degli escrementi, alla leggerezza del sentimento d’amore che riscatta il carcerato, la poesia e fa trionfare il sentimento. E proprio dall’esaltazione del sentimento si riconosce come una poesia scritta da Jacques Prevert. In questa forma alchemica propongo, per contraltare al picco trash della poesia “La meteora”, uno dei testi migliori di Prevert, dove il sentimento d’amore è colto nella sua punta di maggiore acutezza: la fase dell’innamoramento. È il periodo nel quale gli innamorati non hanno occhi e orecchie se non per la persona amata e si appartano in angoli bui dove poterla “assaporare”. Vivono in un mondo tutto loro di sensazioni ed emozioni, si cercano coi corpi e le bocche, scandalizzando i passanti, arrabbiati per questa ostentazione di “privato”,  invidiosi del loro sentimento.

Jacques Prevert, francese nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine è stato poeta, scrittore, sceneggiatore, artista. La famiglia, dopo un periodo di difficoltà economiche, si risollevò dalle ristrettezze per l’assunzione del padre Andrè all’Ufficio dei poveri di Parigi. Ciò darà modo a Jacques di osservare un mondo di miseria che rappresenterà poi in alcune sue opere. Il padre influenzerà la formazione dei figli portandoli spesso al cinema e al teatro, anche perché la scuola non fu la scelta di Jacques che, insofferente alla disciplina, l’abbandonerà a quindici anni. Appena ventenne, durante il servizio militare conobbe  Yves Tanguy e Marcel Duhamel che poi divenne editore, due importanti amicizie che influenzarono la carriera di Jacques e di suo fratello  Pierre. Pierre divenne regista e mise in scena per la televisione e il teatro le sceneggiature, anche per bambini, scritte dal fratello, in un lungo e proficuo sodalizio artistico. Nel  1922  Jacques si avvicinò al gruppo dei surrealisti francesi, tra i quali  André Breton, Raymond Queneau, Louis Aragon e Antonin Artaud, e per i quattro anni successivi vi furono intensi contatti. I rapporti furono interrotti a causa del testo di Prevert “Mort d’un monsieur”, scritto in polemica con Breton, del quale Prevert contestava la presunta superiorità intellettuale, che determinò la rottura con Breton e l’allontanamento di Prevert dal gruppo. Dal 1932 al 1936 visse a Tourette de loupe, si dedicò al teatro e alle sceneggiature per la cinematografia, collaborando con Jean Renoir e Marcel Carnè. Tornerà a Parigi soltanto nel 1945, lo stesso anno in cui vede la luce la sua prima raccolta di poesie “Paroles”, accolta con molto favore dal mondo letterario. A questa seguiranno altre raccolte: Spectacle” (1949); “La pluie et le beau temps” (1955); “Choses et autres” (1972), altrettanto apprezzate dalla critica. Prevert conobbe e collaborò con Pablo Picasso, al quale, pare, abbia dedicato per ammirazione la poesia Alicante. Nel 1948 per un incidente cadde da una finestra e rimase in coma per alcune settimane. Ripresosi dall’infortunio si dedicò ancora alle sceneggiature, e ad una nuova attività artistica: il  collage, una scoperta del suo ultimo periodo. Espose e pubblicò alcune delle opere realizzate. Visse gli ultimi anni a Omonville la Petite, ricevendo rare visite di cantanti e attori conosciuti in attività, fino alla morte per tumore nel 1977.

La poetica di Jacques Prevert si caratterizza per il rilievo dato al sentimento, sempre cercato anche se talora disperato e disperante: amore tradito, amore mancato, amore libero. Si avverte in tutta la sua opera la polemica con il potere, l’irriverenza spinta fino alla blasfemia, l’ironia dissacrante fino alla satira, l’anticonformismo, la critica ai benpensanti. Ciò conduce a definire Prevert sostanzialmente un anarchico, proprio per l’avversione contro chi comanda, espressa nei termini che potrebbe usare la gente comune. Fedele ai temi del surrealismo, consapevole della lezione del simbolismo, Prevert riversa nel suo dettato l’anelito alla libertà, spesso simboleggiata da un uccello, esprime la ribellione alle istituzioni e dipinge un mondo di personaggi caratterizzati vivacemente, portatori di drammi, storie, aneliti autentici, uomini e donne conosciuti nelle sue frequentazioni sul lungosenna, nelle modeste pensioni, nelle rues parigine, nei bistrò. La sua poesia presenta giochi di parole, divertissement, ma anche coltissimi rimandi ed intrecci intellettuali. Può sembrare, ad una lettura superficiale, che i suoi testi pecchino di semplicità, fin quasi alla banalità, ma Prevert compie volutamente la scelta di un lessico comune che veste di una complessità di significati, non abbandonando mai la ricerca di un preciso e accattivante ritmo. Lo stesso che egli ben “maneggiava” avendo scritto innumerevoli canzoni, più di mille testi, interpretati da grandi cantanti come Juliette Greco, Yves Montand, Serge Reggiani. Chiudo riportando da “L’età forte” le parole di Simone Beauvoir che testimoniano l’influenza il carisma di Prevert tra la gente di cinema che s’incontrava al Fleure, famoso caffè di Saint-Germain des Prés: «Allora, il loro dio, il loro oracolo, il loro maître à penser, era Jacques Prévert, di cui veneravano le pellicole e le poesie, di cui provavano a copiare il linguaggio e le atmosfere spirituali. Anche noi gustavamo le poesie e le canzoni di Prévert. Il suo anarchismo sognante ed un po’ stralunato ci catturava completamente»

Loredana Semantica

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Forma alchemica 17: Gottfried Benn

20 mercoledì Set 2017

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Gottfried Benn, poesia

gott

Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.

Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l’orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.

Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna,

e già così presso agli scogli
sai la tua fragile barca –
venite, disserrate le labbra,
chi parla non è morto.

Gottfried Benn, trad. Ferruccio Masini

Gottfried Benn, nato a Mansfeld  nel 1886, morto a Berlino nel 195, è stato poeta scrittore e saggista  di lingua tedesca. Laureatosi in medicina all’ Accademia di Berlino nel 1910, appena due anni dopo esordì in letteratura con la sua prima pubblicazione, dal titolo di “Morgue e altre poesie” (morgue è  il termine francese per indicare l’obitorio). La raccolta di poesie è caratterizzata da un linguaggio medico – scientifico, da descrizioni cadaveriche, narrazioni di malattie e corruzione dei corpi.

Prima di Benn, “Morgue” è una raccolta di Rilke che Benn certamente aveva letto, compiendo un balzo in avanti, verso i giorni nostri, nella raccolta Morgue di Benn si respira un’atmosfera molto simile a quella rappresentata in alcune scene di serie televisive di grande successo come CSI NSIS, acronimi per indicare a polizia scientifica di Las Vegas o Miami o altre grandi città americane dove sono ambientati gli episodi d’investigazione. Esse hanno ingenerato negli spettatori, una sorta di familiarità “mediata” con la sala autoptica, con i gesti e le operazioni, i referti dei professionisti che procedono alle dissezioni e ricomposizioni dei cadaveri.

Oggi perciò scrivere poesie descrittive ispirate all’esperienza medica di questo tipo farebbe molto meno scalpore, ma allora, agli inizi del 900, il libro fece scandalo e Benn entrò così nel mondo letterario della Berlino del 1910, diventando riconosciuto esponente dell’espressionismo; in quel periodo conobbe  la poetessa ebrea Else Lasker-Schüler con la quale ebbe una relazione.

Certo non è difficile immaginare che “Morgue” sia il frutto dell’esperienza professionale di Benn. Un impatto che squarciò la scorza lasciando fuoriuscire il magma creatore, trasformando il medico in scrittore, in una sorta di metamorfosi/catarsi purificatrice dell’impressione che l’orrido, la materialità di carne e sangue decomposti avevano prodotto sull’ uomo. Nel contempo sorprende come, nonostante il tema, Benn gestisca, sin da questa prima raccolta, la parola, rivelando una rara capacità di creare dal nulla scenari tanto luminosi che raccapriccianti, di modulare la lingua con quella padronanza che sa produrre piacevolezza di suono, purezza di significato in una sorta di inesprimibile azzurro: raggio laser che incide.

Nel 1926 scrisse il racconto – saggio “Cervelli”, nel 1917 pubblicò “Carne” una raccolta di liriche scritte durante le seconda guerra mondiale. L’evoluzione della sua scrittura registra il passaggio dal nichilismo, dissacrazione dell’uomo e critica della civiltà, che caratterizzano la sua prima produzione, all’esaltazione dell’io tragico che ha speranza di riscatto nell’io primordiale dell’uomo, un io in sintonia con la natura che, secondo Benn, riaffiora nel sogno dove sono neutralizzate razionalità e sovrastrutture.

Scrisse ancora “Scissione” e “Onda ebbra” nelle quali nonostante la nostalgia per l’essere originario e prelogico egli si esprime con razionalità ferrea manifestando una sicurezza e ricchezza espressiva che si rivelano in contraddizione con l’anelito al mito primordiale. Egli perciò si rende conto di dover superare lo iato ed afferma che la fusione di concetto e allucinazione, razionalità e sogno, produce arte, progredendo quindi dall’iniziale nichilismo verso la consapevolezza di una trascendenza creativa.

Proprio per questa nostalgia dell’uomo primordiale e del mito, all’avvento del nazismo Benn se ne lasciò affascinare, nella convinzione che si trattasse di una forza potente e irresistibile, votata all’estetica e rigenerante, che avrebbe ripristinato il valore della forma e realizzato, attraverso il totalitarismo, la sovrapposizione di potere e spirito, individuo e collettività. Il regime inizialmente apprezzò il suo entusiasmo, affidandogli l’incarico di gestire la sezione poesia dell’Accademia di Prussia. Poco più di un anno dopo però,  Benn fu rimosso dall’incarico e allontanato, a causa di alcuni suoi scritti giovanili vicini al movimento espressionista, represso dal nazismo perché “arte degenerata”. Egli allora aprì gli occhi sulla realtà del nazismo.

Probabilmente il suo entusiasmo iniziale per il fascismo (come si è detto: collaborazionista che non ha mai collaborato) fu l’errore imperdonabile che ha impedito a Benn di occupare nello scenario della letteratura tedesca il posto che la sua potente ricca, espressiva scrittura avrebbe meritato. Fu scienziato, intellettuale, esteta, aristocratico. Usò magistralmente il linguaggio in modo nuovo, originale, intellettualmente superiore, facendo ricorso a molti sostantivi, stratificando versi, usando la parola per scardinare la realtà con cinismo, fin quasi crudeltà. Certe sue liriche indubbiamente sono tra le più spietate che la letteratura del 900 ci abbia regalato, ma, anche per questo, dense di coraggio, lontanissime dal plagio, dal compiacimento, permeate di una certa violenza verbale e rabbia che nascono dalla consapevolezza e avversione per la decadenza sociale. Una poesia definita “assoluta”, senza Dio, senza speranza o salvezza, che trasuda piacere creativo, procede per associazione di idee, lacera la propria essenza e travalica i contenuti morali o filosofici per essere solo forma ed espressione.

Fu anche scrittore di saggi, racconti e romanzi tra i quali “L’osteria Wolf”, “Romanzo del fenotipo”, “Il tolemaico”, scritti negli anni 40, oltre che di una autobiografia dal titolo “Doppia vita”. “Frammenti e distillazioni”, “Aprèslude”, “Giorni primari” sono le sue ultime raccolte poetiche.

La poesia che ho scelto in questa forma alchemica, mi sembra ben rappresenti quanto appena detto sulla scrittura di Benn. Irresistibile l’ invito a parlare,  perché chi parla non è morto, dice Benn, parola che ci rende vivi,  perché è così che l’io diventa noi e noi viviamo solo disserrando le labbra nella parola che ci sopravvive.

Chiudo questa forma alchemica con un’altra poesia che questa di Benn mi riporta alla mente. La poesia è di Arthur Rimbaud, tra le due non c’è apparentemente molta relazione, ma non escludo che Benn avesse letta quella di Rimbaud prima di scrivere la sua. Entrambe sono metapoetiche, cioè poesie che hanno ad oggetto la poesia, in entrambe sono citati i colori. Una citazione che, nella solenne, comune, potente drammaticità dei testi produce un singolare effetto straniante, di vivacità e illuminazione, evocando, nel contempo, sinesteticamente un ventaglio di sensazioni, sostantivi, scenari potenzialmente esprimibili in poesia.

Loredana Semantica

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Un giorno dirò la vostra origine segreta:
A, corpetto nero e peloso di mosche lucenti
ronzanti intorno a esalazioni crudeli

Golfi d’ombra; E, candori di tende e vapori,
Lance di ghiacciai fieri, bianchi re, tremori d’ombrelle
I porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
Nella collera o  nell’ebbrezza che si pente

U, cicli, vibrazioni divine di mari verdi,
Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe
Che l’alchimia incide su ampie fronti  da studiosi;

O suprema Tromba piena di strani stridori
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi
O l’Omega, raggio viola dei Suoi Occhi!

Arthur Rimbaud

 

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Forma alchemica 16: Thomas Stearns Eliot

19 mercoledì Lug 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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TS_Eliot

Thomas Stearns Eliot

Alta marea
nelle vie della città
ma le onde della vita fremono
si restringono si frantumano
in mille frammenti
sbattuti contrastati accidenti.
Questa è l’ora attesa.

Questa è l’ora suprema
che dà un senso alla vita.
I mari dell’esperienza
che erano così ampi e profondi
così impetuosi e scoscesi
sono improvvisamente tranquilli.
Dite quel che volete
questa pace mi atterrisce.
Altro intorno non c’è.

Thomas Stearns Eliot
traduzione di Loredana Semantica

(testo in lingua originale)

Along the city streets,
It is still high tide,
Yet the garrulous waves of life
Shrink and divide
With a thousand incidents
Vexed and debated:—
This is the hour for which we waited—

This is the ultimate hour
When life is justified.
The seas of experience
That were so broad and deep,
So immediate and steep,
Are suddenly still.
You may say what you will,
At such peace I am terrified.
There is nothing else beside.

Dopo Rilke e Kavafis, in questa sedicesima forma alchemica, è la volta di un altro grande della poesia: Thomas Stearns Eliot. Celebrato poeta inglese, Eliot nacque a Saint Louis nel Missouri nel 1888, si trasferì nel 1914 in Europa ed in seguito divenne suddito britannico. In gioventù studiò la letteratura europea e Dante in particolare, che suscitò la sua ammirazione e lo avvicinò alla lingua italiana,si laureò ad Harvard in filosofia. Nel 1917 si trasferì a Londra, dove restò fino alla morte, avvenuta nel 1965.
A Londra Eliot trovò lavoro nella Lloyd’s Bank. Sposò Vivienne Haigh-Wood nonostante i dubbi e la contrarietà della famiglia Eliot motivati dai disturbi mentali della donna. Probabilmente per questa scelta dovette affrontare anni dopo un forte esaurimento nervoso che lo porterà, nonostante il senso di colpa, a separarsi da lei ed a farla rinchiudere in un istituto per malati di mente.
Nel frattempo egli aveva avviato una casa editrice la Faber Faber, meditato una conversione religiosa al cristianesimo-anglicanesimo, varato i suoi capolavori: la raccolta Prufrock and Other Observations( Prufrock ed altre osservazioni, 1917), i poemi The Waste Land (La terra desolata, 1922) e The Hollow Men (Gli uomini vuoti, 1925) .

Dopo la conversione le sue opere manifesteranno la rigenerata religiosità, registrando toni meno cupi e desolati della sua prima produzione. Ciò è evidente soprattutto negli altri suoi capolavori: Mercoledì delle ceneri, Quattro quartetti e Assassinio nella cattedrale. Fu anche saggista e scrittore di opere teatrali.
Eliot ebbe contatti con Ezra Pound, fu ammiratore di Groucho Marx. Nel 1948 fu insignito del premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione “for his outstanding, pioneer contribution to present-day poetry”.
Nello stesso senso della Commissione del Nobel, il critico Roberto Sanesi “Thomas Stearns Eliot, il poeta che forse più di qualsiasi altro ha contribuito a mutare il corso della poesia dall’Ottocento al Novecento (non soltanto in Inghilterra) e a dare un’impronta inequivocabile a tutta la poesia del nostro secolo”
Eliot tuttavia non ebbe soltanto estimatori, riporto a conferma  il pensiero di Elias Canetti, che non apprezzava affatto il poeta e lo dice senza mezze misure: “Sono stato testimone della fama di un Eliot. Qualcuno proverà mai vergogna a sufficienza per avergliela tributata? Un libertino da nulla, un galoppino di Hegel, uno stupratore di Dante. Sarà molto difficile raffigurare Eliot com’era realmente, ovvero nella sua malvagità abissale. La sua opera d’un gretto minimalismo (tante piccole sputacchiere del fallimento artistico) il poeta del moderno impoverimento inglese dei sentimenti”.
La poetica di Eliot è espressione: di profonda crisi esistenziale (speculare alla crisi della cultura occidentale), di solitudine e alienazione dell’artista, di atteggiamento critico verso la letteratura di stampo vittoriano, derivazione di quella romantica. Tutte tematiche proprie del modernismo, corrente letteraria alla quale appartengono anche Virginia Woolf ed Ezra Pound. Il modernismo sottolinea l’importanza dell’oggetto ma non nel senso simbolista, quanto piuttosto evocativo, emozionale in una teorizzazione definita del correlativo oggettivo. Secondo questa idea unico modo di esprimere un’emozione in forma artistica è individuare una serie di oggetti, una situazione, una sequenza di eventi che costituiscano la formula di quella specifica emozione, in modo che, quando siano dati i fatti esterni, che devono concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione ne risulti immediatamente evocata.

Modernista è definita anche la poesia di Eliot, che non sviluppa un filum logico, ma esprime concetti conclusi, lapidari. Composizione di frammenti che suggeriscono al lettore un completamento mentale secondo la propria esperienza. Analoga discontinuità avviene anche nella forma poetica che accosta immagini di grande bellezza, espressioni profonde, filosofiche, a descrizioni di squallore e decadenza, nel contrasto che si estende anche al registro linguistico tra forme alte, liriche e linguaggio usuale.

La poesia che propongo oggi è una creazione giovanile di Eliot, composta nel giugno del 1910, quando Eliot aveva appena 21 anni e si era da poco laureato. Egli racconta quest’attimo creativo come un momento visionario nel quale, camminando per le strade di Boston ebbe una sensazione di restringimento e divisione delle strade e contemporaneamente un’esperienza di estraniamento e silenzio che lo pervasero proiettandolo oltre il tramestio del mondo. La sensazione di appartenere a un attimo senza tempo, senza prima e dopo. “You may call it communion with the Divine or you may call it temporary crystallization ofthe mind” (tu puoi chiamarlo comunione col divino o temporanea cristallizzazione della mente) come Eliot stesso ebbe modo di dire.
Fu in sostanza un’esperienza mistica che verrà successivamente ripresa ed espressa in altre forme in altre sue più famose opere, come ne “La terra desolata”. Esperienza che non appartiene solo a Eliot, ritrovandola con simile espressione anche nella poesia di Montale “Forse un mattino”, contenuta nella raccolta “Ossi di seppia”, della quale riporto di seguito a riprova la prima strofa.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Tuttavia Montale è tutta un’altra storia della quale prima o poi mi occuperò in una  specifica forma alchemica.

Loredana Semantica

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1° maggio con Thomas Stearns Eliot

01 lunedì Mag 2017

Posted by Loredana Semantica in Eventi e segnalazioni, Rose di poesia e prosa

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1° maggio, poesia, Thomas Stearns Eliot

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Nessuno ci ha offerto un lavoro
Con le mani in tasca
E il viso basso
Stiamo in piedi all’aperto
E tremiamo nelle stanze senza fuoco.
Solo il vento si muove
Sui campi vuoti, incolti
Dove l’aratro è inerte, messo di traverso
Al solco. In questa terra
Ci sarà una sigaretta per due uomini,
Per due donne soltanto mezza pinta
Di birra amara. In questa terra
Nessuno ci ha offerto un lavoro.
La nostra vita non è bene accetta, la nostra morte
Non è citata dal “Times”

Thomas Stearns Eliot

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Forma alchemica 13: Angelo Maria Ripellino

19 mercoledì Apr 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Angelo Maria Ripellino, poesia

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La pigrizia di Cristo che si sveglia dal sepolcro,
la sua sghemba goffaggine di orso ferito,
il suo stiracchiarsi dal sonno, e la testa
pesante come quella di un infermo,
portato a un concerto dopo mesi di letto.
I suoi occhi intrisi di nera muffa,
le braccia sottili come lunghissimi ceri.
E un giornalaio che strilla: «Mala Pasqua»,
l’albagía dei badchónim e dei gavazzieri,
che cantano la storia della sua morte,
e venditori che spacciano i suoi santini,
i chiodi e il legno della croce, e la rossa garza
che coprí le sue fístole,
e il bàlsamo e i lini.
La nausea di perdonare, di fingersi forte,
la nausea di essere Cristo,
fratello di Lazzaro.

(Angelo Maria Ripellino da Notizie dal diluvio, Einaudi, 1969).

La Pasqua 2017 è appena tramontata e noi l’abbiamo celebrata qui con una poesia di Fernanda Romagnoli. Una poesia intimista, incentrata sul sé poetico, “centripeta”, come tutta la poesia della Romagnoli, diretta all’esplorazione dei mondi interiori, inquieti, inquietanti, devastati, interroganti. Specchi di rimando di un’anima in bottiglia.
Diversamente da Fernanda, Ripellino ha una cifra poetica espansiva, diretta verso l’esterno, la direi “centrifuga”, dove è esaltata l’osservazione del mondo, la sua vasta e variegata realtà. La sua è una poesia ricca di lemmi, ricercata nei vocaboli, si caratterizza sempre, anche in testi diversi da questo che propongo, per una sorta di festosità e fastosità verbale, un sentore di barocco, che dice il suo amore per la parola, studio e cultura, ma anche la curiosità per l’altro, l’osservazione sensibile e attenta, il desiderio di ricerca, la commistione di molteplici esperienze artistiche e internazionali. Per converso, riscontriamo nei suoi testi inserzioni a sorpresa di nostalgia e tristezze che inducono a interpretare il contorno ricco come un mascheramento, metabolizzazione dell’essenziale natura di siciliano sradicato, partecipe interiormente delle contraddizioni tra una natura esuberante e generosa e un’estate arida e funesta, ch’è il cuore autentico dell’isola che l’ha visto nascere.
Un siciliano doc quindi, nato a Palermo nel 1923, si trasferì a Roma col padre che insegnava latino e greco ed iniziò a Roma la sua carriera di poeta, scrittore, slavista, vivendo un’ avventura che l’ha condotto a spaziare nelle varie forme d’arte: poesia, teatro, cinematografia, pittura, e a conoscere validi maestri e molti artisti e poeti, tra questi Evgenij Evtušenko e Boris Pasternak. Ripellino ha molto viaggiato, collaborato a importanti antologie, enciclopedie e riviste, tra le quali L’Unità e L’Espresso, ha insegnato all’Università di Roma e di Bologna, tenuto corsi di letteratura, ha scritto numerosi articoli, recensioni, e pubblicato svariate raccolte di poesia. E’ morto a Roma infine il 21 aprile del 1978, a soli 55 anni. Una vita relativamente breve, nella quale tuttavia Ripellino sembra aver realizzato la fortunata alchimia del fare della propria passione il proprio lavoro.
La poesia di Pasqua che riporto appartiene alla raccolta Notizie dal diluvio, pubblicata da Einaudi nel 1969. La raccolta è tutta incentrata sull’esperienza di Ripellino inviato dall’Espresso, a seguire e raccontare la stagione dei movimenti che nel 1968 animarono tutta l’Europa e in particolare Praga, alla quale il poeta era particolarmente legato, avendo, tra l’altro, sposato Ela Hlochova, conosciuta proprio lì.
Egli nella poesia racconta un Cristo, risorto dal sonno eterno, con stiracchiata pigrizia, come fosse un goffo orso che si sveglia dal letargo, la testa pesante quasi fosse un malato forzato a partecipare ad un concerto. Tutt’ intorno un turbinare di voci e animazioni, dal giornalaio che strilla, ai boriosi badchónim (ebrei comici-accademici che animano i matrimoni), accolite rumorose che raccontano la sua morte, commercianti che vendono santini, i chiodi della croce, le garze che hanno coperto le ferite, come volgari gadgets del mondo consumistico.
Viene in mente la cacciata dal tempio di evangelica memoria, e quanto si vorrebbe che Cristo ancora una volta avesse tanta potenza su questo squallore, così ben descritto da Ripellino, sul quale potesse ancora una volta trionfare il bene, la luce della resurrezione convertendo un’ indifferenza moribonda di umanità, sacralità e valori.
Ripellino sembra fare una colpa di tutto ciò allo stesso debole, pigro, goffo Cristo, che non risorge, come Dio, come figlio di Dio, nuovo verbo d’amore per l’umanità, ma come orso, scontroso e vacillante, su cui niente può poggiarsi, nessuna rivoluzione, nessuna aspettativa, soffocate entrambe dal cicaleccio di massa, distratto e indifferente, come un mercato, un circo quotidiano.
Alla fine la poesia si chiude sul senso di nausea che prova il povero Cristo, costretto da una sorta di clichè fallimentare ad essere forte, ma in fondo umano anche lui, non meno di Lazzaro che gli è fratello.
Una resurrezione quella di Ripellino, senza divinità e senza gloria, che crocifigge ancora una volta la speranza, agli occhi intrisi di nera muffa, aperte le braccia sottili come lunghissimi ceri.

Loredana Semantica

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Pasqua fra le nuvole

16 domenica Apr 2017

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Seduti a un caffé - Edward Hopper - Automat 1927

E. Hopper, Tavola calda, 1927

 

Non leggerò i giornali

II giorno entra con rosa di pozzanghere
e Pasqua fra le nuvole.
Operai ripitturano la casa
che adesso ride a metà, dov’è più chiara;
d’in cima al muro si gettano la voce.
Profumi arrivano e partono. Lo giuro:
oggi non spierò nella vetrina
le mie occhiaie appassite.
Non leggerò i giornali del mattino.
Non mi metterò in croce!
Entrerò nel bar che si sbrina

in vapore vermiglio sugli specchi,
scavalcando i due cani stesi al sole
– madre e figlio. – Avrò l’aria felice.
Ordinerò un caffè, sceglierò
cartoline per amici lontani.

Fernanda Romagnoli

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Forma alchemica 12: Lorenzo Calogero

05 mercoledì Apr 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Lorenzo Calogero, poesia

Di tanto rovinoso mare
poco suono giunge
al mio orecchio assorto
in ascoltazione dell’Eterno
che come un angelo passa.

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Per includere in Forma alchemica Lorenzo Calogero ho scelto una poesia molto breve, appena cinque versi. Anche stavolta la scelta è caduta come le precedenti composizioni che ho proposto qui su una forma disposta con ammirevole grazia in un’armonia di suono e senso che incanta. Credo che scrivendola Calogero abbia voluto esprimere la sua essenza di vita, turbata dai marosi interiori, ma anonima per il resto, dimessa, raccolta nell’ascolto di qualcosa che non è per le orecchie di tutti, in un dialogo con l’oltre, col muro, con se stesso che lo ha consumato.

Calogero è nato a Melicuccà, Reggio Calabria nel 1910 e lì è morto nel 1961, in circostanze non chiarite. Il 21 marzo 1961, fu visto per l’ultima volta dai suoi vicini, tre giorni dopo fu trovato morto nel suo letto. La primavera non perdona. Ed i poeti la soffrono. Calogero non meno, essendo poeta fin  dentro le ossa. Il suo modo straordinario di scrivere non gli conquistò molte attenzione in vita, nonostante egli abbia ripetutamente tentato di ottenere un riconoscimento e la pubblicazione dei suoi versi, recandosi tra l’altro personalmente da Giulio Einaudi. Riuscirà a pubblicare soltanto un’opera con Vallecchi, nel 1956, Parole del tempo.

Si laureò in medicina ed esercitò la professione fino al 1955. Commovente la sua storia di solitudine, disturbi pischici, amori infelici, attaccamento alla madre. Mezzo secolo di tormento e scrittura che hanno portato alla stesura di un consistente corpo poetico ignoto ai più, perché conosciuto solo da addetti ai lavori. L’ironia della sorte volle  che nel 1962, appena un anno dopo la sua morte, furono pubblicate dall’editore Lerici le “Opere Poetiche”, quasi l’esecuzione testamentaria del suo ultimo verso, trovato in un foglio sullo scrittoio della sua casa “Vi prego di non essere sotterrato vivo”.

In vita ignorato sistematicamente, apprezzato soltanto dal poeta Leonardo Sinisgalli, l’unico che credette in lui e gli rimase amico fino alla morte, Calogero con la pubblicazione delle “Opere poetiche” divenne un caso letterario. Eugenio Montale, Giancarlo Vigorelli ed altri critici espressero parole di apprezzamento e di paragone ai grandi della letteratura da Rilke a Rimbaud, da Novalis a Mallarmè. Persino la critica letteraria straniera s’interessò a Lorenzo Calogero, con parole che rendono il pregio della sua finissima scrittura “…Si ha l’impressione che tutto sia sviluppato sotto il livello della coscienza. Le immagini si fondono, le parole si associano stranamente, spesso la sintassi è dislocata, i ritmi quasi ipnotici. Non si può dubitare che questo flusso abbia una forza straordinaria e neppure si può dubitare dell’abilità di Calogero nel disporre le immagini in improvvise giustapposizioni bellissime, né della sua perizia musicale…”

Nient’altro da dire, se non che quando s’incontra un poeta, lo si riconosce a distanza. Questo è Calogero, semplicemente un poeta.

A lui è dedicata questa mia del 8/09/2010

Guarda com’è fatto un poeta
nella posa rannicchiata
rigida impacciata
colto di sorpresa con gli occhiali spessi
neri nel cercine e lo sguardo
miope sul naso
dritto all’obiettivo che lo guarda.

Rileva la sagoma del corpo
i punti dell’ombra sulla strada
confronta le distanze
sovrapponi i perimetri
e le masse
valuta specialmente la misura
se s’approssima
anche solo appena
sollevando in punta i piedi
o meglio su una scala
alla sua la tua
statura.

 Loredana Semantica

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Forma alchemica 11: Simone Cattaneo

29 mercoledì Mar 2017

Posted by Loredana Semantica in Forma alchemica, LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

≈ 3 commenti

Tag

poesia, Simone Cattaneo

Non mi importa niente dei bambini del Burchina Faso che muoiono di fame,
non ne voglio sapere delle mine antiuomo,
se si scannassero tutti a vicenda sarei contento.
Voglio solo salute, soldi e belle fighe. Giovani belle fighe, è chiaro.
Che gli appestati restino appestati, i malati siano malati e
i bastardi che vivono in un polmone d’ acciaio
fondano come formaggio in un forno a microonde. Voglio bei vestiti,
una bella casa e tanta bella figa. Buttiamo gli spastici giù dalle rupi,
strappiamo fegato e reni ai figli della strada
ma datemi una Mercedes nera con i vetri affumicati.
Niente piani per la salvaguardia delle risorse energetiche planetarie
vorrei solo scopare quelle belle liceali che sfilano tutti i sabato pomeriggio
con la bandiera della pace. Non ho soldi e la botta è finita.
Ma sono un uomo rapace, per le vacanze pasquali
quindici milioni di italiani andranno in ferie lasciando
le loro comode case vuote.
Alla fine non sono razzista. Bianchi, neri, gialli e rossi
non mi interessano un granché.

Simone Cattaneo

Questa è una forma alchemica particolare, di poche parole, perché c’è poco da dire oggi. Oggi come tutti i giorni in cui l’abisso si apre sotto i nostri occhi, nelle parole di un uomo che soffre. Nato nel 1974 a Saronno, Simone Cattaneo si è suicidato nel 2009,  a soli 35 anni. Quando un uomo è un uomo e non si può più dire un ragazzo. Ha vissuto abbastanza per conoscere il mondo, per sperimentare il dolore. L’urlo poetico di Simone Cattaneo non si è ancora sopito, continua a inquietare i vivi, a spiazzarli dalle loro convenzioni e certezze. Continua a leggere →

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