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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: PERSONAGGI

Mi dicono che ero bella. Patrizia Cavalli

26 domenica Giu 2022

Posted by LiminaMundi in Grandi Donne, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI, Poesie

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Bella lo era davvero Patrizia Cavalli, una delle voci più intense della poesia contemporanea. Se n’è andata nel giorno del solstizio d’estate, una bella data per morire anche se, per chi resta, ogni volta che muore un poeta è un giorno triste. Limina mundi la ricorda così. Una galleria fotografica e alcune sue poesie.

Patrizia Cavalli – Todi, 17 aprile 1947 – Roma, 21 giugno 2022

Mi dicono anche che ero bella
da ragazza ma io non me ne sono mai accorta.
Ecco, forse sono stata felice ma non me ne sono accorta.
Forse è stato un godimento oggettivo, quello della mia bella giovinezza, ma non soggettivo.
Non c’ero e dunque non ho vissuto.
A volte si vivono intere vite senza esserci.

Cosa non devo fare
per togliermi di torno
la mia nemica mente:
ostilità perenne
alla felice colpa di esser quel che sono,
il mio felice niente.

Questa sfusa felicità che assale
Questa sfusa felicità che assale
le facce al sole,
i gomiti e le giacche
– quante dolcezze
sparse nel mercato,
come son belli
gli uomini e le donne!
E vado dietro all’uno
e guardo l’altra,
sento il profumo
inseguo la sua traccia,
raggiungo il troppo
ma il troppo non mi abbraccia.

Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.

Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.

Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
E’ tutto così semplice,
sì, era così semplice,
è tale l’evidenza
che quasi non ci credo.
A questo serve il corpo:
mi tocchi o non mi tocchi,
mi abbracci o mi allontani.
Il resto è per i pazzi.

Ah, ma è evidente, muoio,
Sto per morire, che siano giorni
o anni, sto per morire,
muoio. Lo fanno tutti,
dovrò farlo anch’io. Sì, mi conformo
alla regola banale. Però intanto,
tra un sonno e l’altro finché esiste il sonno
(solo chi è in vita gode del suo sonno)
guardando il cielo, girando gli occhi
intorno, in questi istanti incerti
io sono certamente un’immortale.

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Ciao Monica

10 giovedì Mar 2022

Posted by Loredana Semantica in Cinema, Grandi Donne, PERSONAGGI, SPETTACOLO

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Grandi Donne, Loredana Semantica, Monica Vitti

Poco più di un mese fa, il 2/2/2022, a Roma è scomparsa l’attrice italiana Monica Vitti, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli. Premiata con 5 David, 12 Globi d’oro, 3 Nastri d’argento. Sebbene poco nota ai più giovani perché ritiratasi a vita privata da circa vent’anni, è una figura rappresentativa del cinema italiano nel mondo, non meno di Sofia Loren, Claudia Cardinale, Gina Lollobrigida, Mariangela Melato.  

Attrice di cinema e mattatrice della commedia italiana, versatile e talentuosa, capace di essere considerata al pari di attori quali Alberto Sordi, Marcello, Mastroianni, Nino Manfredi, cioè di figure maschili  che hanno dominato la scena cinematografica degli anni 60-80.

Maria Luisa Ceciarelli divenne Monica Vitti nel 1953, ispirandosi al cognome della madre, Vittigli, scegliendo un nome che aveva letto poco prima in una rivista, seduta a un bar vicino a casa. In un nome può esserci un destino? Sarebbe stata ugualmente famosa mantenendo il nome anagrafico?

Di certo più del nome determinante nella sua carriera fu l’incontro col regista Antonioni che la proiettò nell’universo cinematografico di successo. Senza quell’incontro e, forse, anche senza quel nome Monica Vitti sarebbe rimasta una qualunque Maria Luisa Ceciarelli. Personaggio talentuoso in cerca d’autore. O forse all’inverso il cinema di Antonioni non avrebbe brillato ugualmente senza la musa ispiratrice di Monica Vitti.

In un’ intervista nel 1963 condotta da Oriana Fallaci  la stessa Monica racconta il momento topico della rinominazione:

“Il mio vero nome è Maria Luisa Ceciarelli. Fino all’Accademia fui la Ceciarelli. Poi Tofano mi propose di diventare attrice giovane nella sua compagnia, di fare Brecht, Molière, e mi disse: “Guarda il nome che hai non è mica tanto da attrice, lo devi cambiare”. Allora io sedetti al tavolino di un bar e mi misi a studiare il nome.”

“Ora sono talmente Monica Vitti che mio padre e mia madre mi chiamano Monica anziché Maria Luisa ed io, quando devo firmare Ceciarelli, mi sento a disagio: quasi firmassi col nome di un’altra.”

Con un gioco di parole Vitti d’arte, vitti d’amore  è stato intitolato un film documentario promosso e trasmesso dalla Rai in anteprima presentato al Festival del cinema di Roma del 2021 per il novantesimo compleanno dell’attrice. Nata a Roma il 3 novembre del 1931, Monica ha vissuto a Messina e a Napoli. Proprio qui durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, comprese che la recitazione era la sua strada, inscenando rappresentazioni per distrarre gli altri bambini nascosti nei rifugi.

Tornata a Roma studiò recitazione e intraprese la carriera d’attrice. Con i maestri Silvio D’amico, che la indirizza a ruoli drammatici shakespeariani, e Sergio Tofano, che coltiva il suo lato istrionico, compie la sua formazione.

Monica da piccola era soprannominata dai familiari “Setti vistini”, cioè sette sottane (reminiscenza del periodo vissuto in Sicilia), per l’abitudine a indossare più indumenti uno sull’altro a causa della sua freddolosità.

Non era soltanto freddolosa Monica, non si allontanava volentieri dall’Italia e, quando lo faceva, non vedeva l’ora di tornare, soffriva le limitazioni imposte dalla popolarità che le impedivano una vita normale da persona sconosciuta, non amava i viaggi in aereo, il che ha sicuramente limitato la sua mobilità, ma non le ha impedito di lavorare con registri di livello internazionale, affermandosi come attrice, misteriosa, stralunata, ironica, spaesata, ironica, brillante, caratterizzata da bellezza, freschezza, grandi occhi e grande bocca, splendide gambe e da una voce roca, pastosa, particolare e indimenticabile, anticonvenzionale. Monica Vitti era diva e, al tempo stesso antidiva, non esaltandosi per il ritorno del successo, contrapponendosi per queste sue caratteristiche ai canoni estetici predominanti delle star.

La sua stella sorse nell’arco temporale dal 1960 al 1964. In quegli anni, diretta dal registra Michelangelo Antonioni che ne divenne anche compagno nella vita, Monica Vitti recitò ne L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso. Quattro film passati alla storia della cinematografia come tetralogia dell’incomunicabilità. Monica recita in ogni pellicola con ruolo di protagonista o coprotagonista, mettendo in luce il suo talento recitativo drammatico.

Preceduto da altri film nel filone della commedia italiana quali La cintura di castità e Ti ho sposato per allegria, di lì a poco segna una tappa importante della carriera di Monica Vitti il film “La ragazza con la pistola” del 1968 diretto da Mario Monicelli. La pellicola ottenne un grande successo di pubblico e consacra la Vitti grande attrice del cinema italiano, dotata di versatilità capace di sostenere con uguale disinvoltura sia ruoli drammatici che comici.

Nel film si racconta la storia di una ragazza siciliana Assunta Patanè, sedotta a abbandonata, caparbiamente determinata a vendicare il suo onore uccidendo l’uomo che l’ha disonorata, con questo scopo lo insegue in Inghilterra. La protagonista infine abbandona l’ intento, avendo compreso in un ambiente più emancipato che si può vivere con onore anche senza vendetta.

Nel video seguente Monica Vitti intervistata all’apice del successo, parla di femminismo, del rapporto con la madre rispondendo alle domande del giornalista Enzo Biagi

In linea con la dichiarata posizione femminista l’attrice preferiva interpretare nei suoi film personaggi femminili  problematici, nevrotici, fragili, rivestendo ruoli drammatici e comici al contempo, che suscitavano riso e commozione, in una recitazione naturalmente ambivalente, speculare.

Le sue donne manifestano il disagio conseguente alla ricerca di emancipazione in una società che le vorrebbe ancora imbrigliare in stereotipi di genere, portatrici pertanto di un disadattamento interiore  trasfigurato in chiave ironica e manifestato in una recitazione personale svagata, alienata, esuberante estremamente lontana da divismi, mitizzazioni e superficialità.

Sebbene le figure che interpreta siano spesso vittime della misoginia o del maschilismo, persino nel senso di subirne la violenza fisica, esse non appaiono mai sconfitte, mai domate e anche quando soccombono, lo fanno con la dignità di chi rivendica  fino all’ultimo la propria essenza e personalità, all’insegna dell’autoironia e senza chiedere o suscitare pena, al più tenerezza, senza indulgere nemmeno nel patetico e nell’ autocommiserazione, inducendo piuttosto al sorriso, nella velata irriverenza ad una società italiana consegnata prevalentemente a mani maschili. Per questa sua singolare capacità di interpretare le contraddizioni sociali del proprio tempo Monica Vitti conquistava sia gli uomini che le donne.

Ricercata da registi internazionali quali l’ungherese Miklós Jancsó che la diresse ne “La pacifista” del 1970, lo statunitense Michael Ritchie regista di “Un amore perfetto o quasi”, Jean Valère che la volle ne “La donna scarlatta”  del 1969 , Luis Buñuel  regista de “Il fantasma della libertà” del 1974, e André Cayatte  per il quale nel 1978 ha recitato in “Ragione di stato”. Ha recitato tra gli altri con Alberto Sordi in “Polvere di stelle” e “Io so che tu sai che io so”, con Marcello Mastroianni in “Dramma della gelosia”, Vittorio Gassman in “Camera d’albergo di Monicelli”. Col regista Massimo Russo ha recitato in “Flirt” del 1983 e “Francesca è mia” del 1986, questo rappresenta un caso di persecuzione da stalker ante litteram, culminato in omicidio.

In questo breve video la naturale verve comica dell’attrice si esprime, come lei stessa, amava dire, con la tipica serietà della grande tradizione comica italiana da Petrolini a Totò.

Monica è stata anche regista nel film Scandalo segreto del 1990, da lei stessa scritto e interpretato. 

Sentimentalmente, dopo la relazione con Michelangelo Antonioni e una storia col direttore della fotografia Carlo Di Palma, nel 1983 Monica Vitti si legò al regista Massimo Russo che ha sposato nel 2000. Il marito le è stato accanto fino alla scomparsa, tutelando la sua immagine da curiosità e paparazzi, permettendole la dignità di vita che richiede la cura di una malattia degenerativa.

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Amy, dieci anni dopo

06 lunedì Dic 2021

Posted by Deborah Mega in COSTUME E SOCIETA', Grandi Donne

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Amy Winehouse

 

Dieci anni fa, il 23 luglio del 2011, la musica ha perso un’artista eccezionale che in pochi anni ha attuato una vera e propria rivoluzione soul. Amy Winehouse ha concluso drammaticamente e prematuramente la sua parabola umana all’età di 27 anni, dopo una vita ricca di grandi successi e riconoscimenti ma anche di eccessi che l’hanno portata ad intraprendere una china discendente di disordini alimentari e dipendenza dagli stupefacenti e dall’alcool. Come succede quando muore una stella di prima grandezza, ci ricordiamo esattamente dove eravamo e cosa stavano facendo quando abbiamo appreso la notizia della sua scomparsa. Non c’è niente di più triste che assistere allo spreco di talento ed è quello che si è verificato nel suo caso. La triste coincidenza del decesso avvenuto proprio a 27 anni l’ha inserita nel “club” che comprende altri artisti morti alla stessa età: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain per citare i più noti. Ripercorriamo alcune tappe della sua biografia. Amy Jade Winehouse nasce a Enfield, in Inghilterra, il 14 settembre 1983 in una famiglia ebraica. Manifesta ben presto una grande attitudine musicale, tanto da fondare, giovanissima, un gruppo rap amatoriale chiamato Sweet ‘n’ Sour che lei descrive come la versione bianca ed ebraica delle Salt-n-Pepa. Riceve la sua prima chitarra a tredici anni e impara a suonarla.. Nel 1999 comincia ad esibirsi nella National Youth Jazz Orchestra e, dopo che il suo amico e cantante soul Tyler James invia una sua demo a un talent scout, Winehouse esordisce per l’etichetta discografica Island/Universal con l’album Frank, che riscuote un buon successo di pubblico e critica. La sua voce viene accostata a quella di Sarah Vaughan, l’album riceve due dischi di platino e vende un milione e mezzo di copie. I testi della cantante sono molto personali e intimistici: per lei, infatti, la scrittura è catartica, quasi una terapia attraverso cui elaborare le proprie emozioni. L’affermazione vera e propria, però, arriva nel 2007 con l’uscita del secondo album Back to Black che scala le classifiche mondiali ottenendo un successo planetario e che permette alla cantautrice di vincere cinque Grammy Awards e un sesto postumo. Numeri da record che la affiancano a cantanti come Alicia Keys, Norah Jones e Beyoncé. Ad anticipare l’uscita dell’album è il singolo Rehab pubblicato il 23 ottobre 2006 che parla del rifiuto di disintossicarsi dall’alcool e diviene un tormentone mondiale. Il suo stile viene definito “R&B contemporaneo”, “New Soul”, “New Jazz”, “Soul bianco”. A Lisbona il 30 maggio 2008, Amy Winehouse partecipa ad un concerto ma si esibisce con la voce rotta e si giustifica dicendo di aver avuto dei problemi respiratori. Un mese dopo canta a Hyde Park a Londra insieme ad altri grandi artisti per festeggiare i 90 anni di Nelson Mandela. Proseguono intanto i lavori per il nuovo album e, nel novembre 2010, la cantante annuncia un suo ritorno sulle scene musicali, con concerti previsti in Brasile, Italia, Serbia, Turchia e Romania. Nell’aprile 2007 il quotidiano The Sun pubblica la notizia del fidanzamento della cantante con Blake Fielder-Civil. I due si sposano il 18 maggio 2007, a Miami Beach in Florida. Nel novembre 2007, in occasione degli MTV Europe Music Awards, la cantante sale sul palco in evidente stato confusionale: non pronuncia il tradizionale discorso di ringraziamento e canta con qualche difficoltà. In diverse occasioni la Winehouse è coinvolta in problemi legali sfociati in vere e proprie cause, aggressioni a giornalisti e fotografi, possesso di sostanze stupefacenti ma nel 2009 torna a far parlare di sé perché è protagonista di un salvataggio in mare, va in soccorso di una donna e le salva la vita. Nel 2010, Winehouse fa domanda per l’adozione di una bambina caraibica di dieci anni, Dannika Augustin. La richiesta viene accolta, ma la bambina non andrà mai a vivere con la cantante perchè ne sopraggiunge la scomparsa. La crisi del matrimonio e la dipendenza sempre più forte dagli stupefacenti e dall’alcool la costringono a ripetuti ricoveri e la fanno precipitare in uno stato di forte depressione. Dopo il divorzio dal marito, nel 2009, la cantante ha diverse relazioni con Josh Bowman, con il regista Reg Traviss, con Pete Doherty, cantante dei Libertines. Tra le ultime collaborazioni, ricordiamo quella con Tony Bennett nel marzo del 2011, con cui registrò il brano Body and Soul. Bennett così si espresse su di lei: «Si pensa che tutti possano cantare jazz, ma non è così. Quello di saper “sincopare” la musica è un dono che si impara, certo, ma è anche un’attitudine con cui si nasce e Amy Winehouse era nata con quello spirito». Nel 2011, la Winehouse canta visibilmente ubriaca davanti al pubblico di Belgrado, successivamente viene annullato l’intero tour europeo. In varie interviste, ammette di avere disturbi di autolesionismo, depressione e anoressia. La regina del soul riconosce tutta la sua fragilità, sfruttata ossessivamente da un padre prima assente e poi invadente che la convince a non avere necessità di un sostegno psicologico, dal marito Blake che riconosce troppo tardi di averne causato la rovina, dai media, dai manager, dalla stessa industria discografica. Ciascuno ha contribuito a distruggere una personalità sensibilissima e bisognosa di affetto. Al 20 luglio 2011, tre giorni prima della sua morte, risale la sua ultima apparizione in pubblico all’iTunes Festival di Londra. Alle 15:53 del 23 luglio 2011, Amy Winehouse viene trovata morta nella sua casa al numero 30 di Camden Square per abuso di alcool dopo una lunga astinenza. Le esequie sono state celebrate il 26 luglio con rito ebraico al Golders Green Crematorium, situato a nord di Londra. Le ceneri, unite a quelle dell’adorata nonna Cynthia, sono state disperse presso il cimitero ebraico di Edgware. Amy Winehouse era conosciuta per la sua generosità e le attività filantropiche, ha donato infatti denaro a diversi enti di beneficenza, in particolare quelli riguardanti i bambini. Ancora oggi l’incasso del terzo album Lioness: Hidden Treasures, pubblicato postumo il 5 dicembre 2011 dalla Universal, è devoluto alla Amy Winehouse, associazione di beneficenza istituita il 14 settembre 2011 per sostenere i giovani in difficoltà, cresciuti in ambienti svantaggiati o che soffrono di dipendenza da alcool o droga. Un’altra attività di raccolta fondi è stata l’asta del vestito iconico a pois indossato dalla cantante e riprodotto sulla copertina del suo album Back to Black. L’offerta vincente è stata pari a 36 000 sterline. Lioness: Hidden Treasures contiene brani inediti e demo di vecchia data che non erano mai stati pubblicati prima. Salaam Remi, uno dei produttori, commentando il progetto, ha detto:

«Quando ho ascoltato di nuovo i nastri di registrazione ho sentito alcune delle conversazioni con Amy che c’erano in mezzo. Era molto emotiva. È stata dura, ma è stata anche una cosa incredibile. Amy era una ragazza di talento. Credo che lei abbia lasciato qualcosa che va oltre i suoi anni. Ha messo insieme un corpo di lavoro che potrà ispirare una generazione non ancora nata.»

Anticipato dal singolo Our Day Will Come, il disco ha ottenuto un ottimo successo di vendite, in diversi paesi europei. Da allora si sono susseguite diverse pubblicazioni di singoli, di registrazioni live, album postumi perfino nomination postume. Amy Winehouse ha influenzato molti artisti: Adele, Caro Emerald, Duffy, Lana Del Rey, Lady Gaga, Nina Zilli. A sua volta lei è stata influenzata dalla musica Motown, il suo stile infatti combina elementi della musica soul e jazz degli anni sessanta al rhythm and blues. Un timbro vocale potente e inconfondibile e un’estensione di tre ottave ne fanno una delle voci femminili più belle della musica soul e jazz; il look originale ispirato alle pin-up degli anni Cinquanta ne fanno un’icona irraggiungibile. Nel 2015, è stato prodotto il docu-film Amy-The Girl behind the name, girato dal regista Asif Kapadia. Un film crudo che, tra immagini e filmati d’archivio inediti, indaga senza pietà la discesa di Amy Winehouse nell’abisso di alcool e droghe e che non è piaciuto neanche alla famiglia dell’artista perchè fuorviante. A dieci anni dalla morte la BBC ha prodotto il documentario Reclaiming Amy, che celebra la vita di Amy Winehouse attraverso le sue stesse parole e le testimonianze dei genitori Janis Winehouse-Collins e Mitch e dei suoi amici. La madre, affetta da sclerosi multipla è la voce narrante. Amy Winehouse at the BBC invece è una raccolta disponibile in 3 vinili o 3 cd su etichetta UMC/Island, che contiene una selezione delle migliori performance registrate per la BBC dalla cantante. Nel nostro paese Hoepli ha recentemente pubblicato il romanzo La Mia Amy, scritto dal musicista e suo migliore amico Tyler James. Una retrospettiva al Design Museum di Londra celebra voce, trucco, performance, successi e fragilità della cantante. La mostra espone anche i suoi quaderni da teenager, le foto personali e i testi delle canzoni scritti a mano. Ben vengano raccolte, compilation e tributi ad un’autrice, cantante e interprete di classici così originale, talentuosa, carismatica che va ricordata non solo per i suoi problemi come spesso si è fatto finora ma per l’impareggiabile abilità artistica.

 

© Deborah Mega

 

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Un fiore per Franco

23 domenica Mag 2021

Posted by Loredana Semantica in MUSICA, PERSONAGGI, Uomini eccellenti

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Tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni ottanta sorge la stella di Franco Battiato. Nel panorama musicale di allora comparve come qualcosa d’insolito, non definibile, non etichettabile. E proseguì in ascesa la sua opera musicale negli anni a venire. Colpivano i testi di poche frasi, termini inusuali, evocativi di scenari e terre lontane, di ricerche interiori spirituali, mistiche, filosofiche. Battiato nel sentire dei giovani fruitori di musica rispondeva al desiderio di contrastare l’insulsaggine dei testi che farcivano le canzoni italiane dell’epoca e l’invasione della musica di provenienza estera e lingua inglese. Battiato era la risposta, non solo era italiano, ma aveva anche ai miei occhi l’ulteriore pregio di essere siciliano di Catania (Ionia, il paese di nascita nel 1945 è l’attuale Riposto), era cioè isolano e conterraneo. Non occorreva leggere la biografia per capirlo, il suo cognome è di origine siciliana, anzi è una parola del dialetto siciliano che in italiano si traduce “battezzato”. Quindi il canto di Franco il battezzato, che porta nel volto le sue reminiscenze arabe, e gli occhi grandi e malinconici di certi siciliani, tristi e profondi, arrivò alle (mie) orecchie come liberatore.
Prima di quell’inizio, c’era stata tra le altre la canzone La torre, mentore Giorgio Gaber, che ebbe un certo successo, un testo provocatore ma musicalmente ancora troppo influenzato dai ritmi e gusti della canzone italiana dell’epoca. Pollution e Fetus tra i primi album, furono apripista per i concerti, verso i quali Battiato provò tuttavia ben presto un’autentica repulsa, non era soddisfatto di queste esperienze, le definì schizofreniche. Attraversò allora una crisi non solo musicale, ma più profonda, esistenziale, che lo portò allo studio e alla ricerca. Nella seconda metà degli anni settanta imparò a suonare il violino, la notazione classica, l’armonia, il solfeggio l’arabo, la mistica orientale e scoprì Gurdjieff e il suo pensiero, restandone entusiasta.
Nel 1979 avviene la svolta, è l’anno nel quale emerge la sua personalissima e accattivante cifra pop, che si evolverà in spirituale e filosofica, echeggiante musiche orientali, classiche, rock, synth pop e si caratterizzerà per i cambi di registro sia testuali sia musicali e la frammentazione di un periodare breve, ricercato e misterioso, apparentemente disconnesso, inframmezzato da refrain simili a mantra, un mix che s’intreccia alla musica, intrattiene l’ascoltatore e lo conquista
L’era del cinghiale bianco il singolo inserito nell’omonimo album, rese Battiato noto al grande pubblico. Il pezzo nacque per scommessa con i giornalisti di Muzak, rivista musicale, ai quali Battiato volle dimostrare come fosse facile elaborare pezzi di successo, esso inizia infatti con un travolgente assolo di violino che avvince l’ascoltatore
I versi “Pieni gli alberghi a Tunisi” e “Un uomo di una certa età/Mi offriva spesso sigarette turche” “Studenti di Damasco/Vestiti tutti uguali” costituiscono con ogni probabilità riferimenti ai paesi che Franco Battiato ha visitato negli anni precedenti. Egli racconta infatti che talvolta prendeva una corriera per l’India, scendeva in Turchia e, con la compagnia di due vecchi suonatori e la tastiera, girava avventurosamente quel paese.
Il refrain “Spero che ritorni presto/L’era del cinghiale bianco” è inserito nel testo della canzone in modo alquanto inaspettato e spiazzante, il senso possiamo intenderlo dai chiarimenti che seguono presenti sul sito dell’autore.
“Il cinghiale bianco indicava presso i Celti il sapere spirituale, la Conoscenza. Penso che sia venuto il momento di non perdere più tempo appresso ai problemi sociali ed economici, facendoli apparire come inesorabilmente oppressivi ed unici responsabili del nostro star male. Perdere tempo intorno alla dialettica servo-padrone ha il solo scopo di allontanare dai problemi ben più seri e fondamentali quali per esempio la comprensione dell’universo e della relazione nostra con esso”.

Singolare che di recente qualcuno abbia definito insulsi i testi di Battiato. A leggerli non sembra affatto, dentro sparsi qui e lì ci sono sostantivi e aggettivi ricercati, costruzioni verbali intriganti, originali, quando non persino poetiche. Qui di seguito una serie di citazioni dai singoli più noti.

“E il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire” da Prospettiva Nevski
“Traiettorie impercettibili/ Codici di geometrie esistenziali” “Voli imprevedibili ed ascese velocissime/Traiettorie impercettibili/Codici di geometrie esistenziali” e “Giochi di aperture alari/Che nascondono segreti/Di questo sistema solare” da Gli uccelli
“Una vecchia bretone/Con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù/Capitani coraggiosi/Furbi contrabbandieri macedoni/Gesuiti euclidei/Vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori/Della dinastia dei Ming” da Cerco un centro di gravità permanente, contenente, tra l’altro uno stralcio della poetica dell’autore “Non sopporto i cori russi/La musica finto rock la new wave italiana il free jazz punk inglese/Neanche la nera africana”.
“E per un istante ritorna la voglia di vivere/ A un’altra velocità” da I Treni di Tozeur
“Voglio vederti danzare/Come i dervishes turners che girano/Sulle spine dorsali/O al suono di cavigliere del Katakali” da Voglio vederti danzare
“In silenzio soffro i danni del tempo/le aquile non volano a stormi” da Le aquile non volano a stormi
“C’è chi si mette degli occhiali da sole/Per avere più carisma e sintomatico mistero/Uh com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme /Imbiancano/ Quante squallide figure che/attraversano il paese/Com’è misera la vita negli abusi di potere.” da Bandiera Bianca
“Per carnevale suonavo sopra i carri in maschera/Avevo già la Luna e Urano nel Leone” da Cuccurucucù.

Battiato ha raccontato che, ancora ragazzo, suonò sui carri in maschera al Carnevale di Acireale, venne pagato con 13000 lire che all’epoca erano una cifra ragguardevole, ciò però scatenò le ire del padre che voleva Franco applicato agli studi e gli vietò perciò di proseguire con la musica.
Arrivato all’università, iscritto alla facoltà di lingue, morto nel frattempo il padre, Battiato decise di partire per Milano volendo inseguire il suo desiderio di fare musica.
Gli inizi furono difficili, dovette fare il magazziniere per mantenersi, suonare la sera nei locali, ma il suo sogno non si rivelò fallimentare. Dall’era del cinghiale bianco in poi i suoi dischi furono sempre successi, un album dopo l’altro giungendo a pubblicarne ben 42. Ha composto anche opere e colonne sonore ed è stato anche regista di film. Inoltre dipingeva, ma la pittura tuttavia non era professionale, era un modo attraverso il quale esprimeva ancora l’anelito a svolgere la personale ricerca mistico spirituale. Ne è un esempio la copertina dell’album Fleur “Derviscio con rosa” , inserito al principio di questo post.

Si sa pochissimo della vita privata di Battiato. Se provate a cercare alla voce biografia sul suo sito trovate la sua dettagliata storia professionale, la produzione, le collaborazioni con Giusto Pio, Manlio Sgalambro ecc.. Su wikipedia invece alla voce “vita privata” ci sono esattamente tre righe che in parte riporto “Legatissimo alla madre Grazia, scomparsa nel 1994, Battiato non ha mai amato la vita mondana, preferendo il suo eremo siciliano di Milo alle pendici dell’Etna.”
Infatti Franco Battiato, mi pare nel 1989, tornò in Sicilia stabilendosi a Milo, dove poi è morto il 18 maggio scorso. Di quale male non è dato sapere. La famiglia, lui stesso, gli amici hanno mantenuto uno stretto riserbo su questa malattia. Qualcosa alla testa del cantautore ne ha minato la memoria e l’intelletto, il declino è avvenuto a cominciare da una caduta dal palco di un concerto tenuto a Bari. E poi Franco, a quanto pare, non voleva indagare, del resto ciò è in linea col suo pensiero della morte come un passaggio, col suo pensiero della vita come preparazione, trasformazione di se stessi in senso migliore.
Bello il modo in cui lo ricorda Travaglio su Il fatto quotidiano, con qualche aneddoto e una sequenza di aggettivi che tentano di descriverlo (leggero, soave, delicato, spiritoso, sorprendente, puro, naif), ne fa in sostanza il protagonista de “La cura”, cioè un essere speciale.
Tra gli aneddoti Travaglio racconta come Battiato gli inviò appena pronta Inneres auge, scritta nel 2009 pensando all’Italia resa più di quanto non lo sia mai stata bordello. Inneres Auge in tedesco significa terzo occhio, l’occhio col quale si vede l’aura delle persone. E’ in sostanza un’invettiva contro i politici di quell’epoca corrotti e goderecci fino al disgusto. Egli dice nel testo “La giustizia non è altro che una pubblica merce/Di cosa vivrebbero/Ciarlatani e truffatori/Se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente” Questa non è la prima volta che attraverso la canzone Battiato esprime una denuncia politico sociale di corruzione e rovina del Paese. Nell 1991 aveva già scritto “Povera patria” e molto tempo prima, ai suoi esordi nel 1967, cantava la poco conosciuta “Il mondo va così” nella quale, con un respiro più ampio, si prendeva pena per la guerra la fame e l’analfabetismo mondiali.
Tornando alla riservatezza di Battiato. Credo che la riservatezza e una certa repulsa del successo e della vita mondana appartenga alla “sicilianità” più autentica. Giuni Russo, siciliana anche lei, amica di Battiato e voce straordinaria era sulle stesse coordinate. Franco ha scritto per Giuni il pezzo Un’estate al mare, resa indimenticabile dall’interpretazione straordinaria di Giuni, con acuti finali inarrivabili a imitare i gabbiani. Battiato ha scritto brani di grande successo per Milva e Alice, rispettivamente Alexander Platz e per Elisa, queste ultime in collaborazione con Giusto Pio.

Dunque, a quanto ci dice la stringatissima biografia, Franco Battiato non si è sposato e non pare abbia avuto figli, ciò potrebbe far pensare che abbia vissuto una vita senza amore, ma ritengo che sarebbe un errore crederlo. Come ho dimostrato più sopra in alcuni nei suoi testi le frasi sparse non sono “insensate” ma a volte biografiche, a volte citazioni culturali, pensiero, convincimenti. Non manca una produzione di Franco Battiato che parla d’amore, ciò consente la relazione transitiva seguente: se A (produzione non in tema d’amore) è uguale a C (esperienza) anche B (produzione in tema d’amore) è uguale a C (esperienza)
Sono sul tema: la metafisica “E ti vengo a cercare” la filosofica “Tutto l’universo obbedisce all’amore” la spirituale “La cura”, le nostalgiche “Le nostre anime” e “Le stagioni dell’amore” e infine la poco celebrata, ma intrigante “L’animale”
E’ un’elencazione non esaustiva, ma testimonia la delicatezza e versatilità con la quale Franco Battiato sapeva esprimere il tema dell’amore. E non posso fare a meno anche qui di riportare alcuni passi.
Questa citazione che segue ad esempio, è una definizione limpida e struggente dell’amore “Questo sentimento popolare/Nasce da meccaniche divine/Un rapimento mistico e sensuale/Mi imprigiona a te” da E ti vengo a cercare

“Bisogna muoversi/Come ospiti pieni di premure/Con delicata attenzione” “Come possiamo/Tenere nascosta/La nostra intesa” Tutto l’universo obbedisce all’amore/Come puoi tenere nascosto un amore/Ed è così che ci trattiene nelle sue catene” da Tutto l’universo obbedisce all’amore
“Le nostre anime/Cercano altri corpi/In altri mondi/Dove non c’è dolore/Ma solamente/Pace” da Le nostre anime
“Ancora un altro entusiasmo ti farà pulsare il cuore” da Le stagioni dell’amore
“Vagavo per i campi del Tennessee/Come vi ero arrivato, chissà/Non hai fiori bianchi per me?/Più veloci di aquile i miei sogni/Attraversano il mare”
“Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto/Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono/Supererò le correnti gravitazionali/Lo spazio e la luce per non farti invecchiare”
“E guarirai da tutte le malattie/Perché sei un essere speciale/Ed io, avrò cura di te” da La cura
“Ma l’animale che mi porto dentro/Non mi fa vivere felice mai/Si prende tutto anche il caffè/Mi rende schiavo delle mie passioni/E non si arrende mai e non sa attendere/E l’animale che mi porto dentro vuole te” da L’animale, nella quale l’ironia del verso “si prende tutto anche il caffè” scopre un aspetto più volte rimarcato da amici e intervistatori del cantautore: l’ironia di Franco Battiato. Del resto cos’è poi l’ironia se non l’arma con la quale gli intelligenti e indulgenti combattono la propria battaglia nel mondo.
Tra le eredità Franco Battiato ci lascia la raccomandazione di avere uno sguardo feroce e indulgente, è un’espressione contenuta in uno dei suoi testi più recenti e concludo così il mio omaggio al cantautore della mia giovinezza che ha accompagnato anche la mia vita.
Con un saluto a Franco Battiato, la speranza di rivederlo, l’augurio a me e a tutti di raccogliere la sua eredità.
“Lascio agli eredi l’imparzialità/La volontà di crescere e capire/Uno sguardo feroce e indulgente/Per non offendere inutilmente” da Testamento

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Grandi donne: Marilyn Monroe

17 domenica Gen 2021

Posted by Loredana Semantica in Cinema, Grandi Donne

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Marilyn Monroe

Quando muore Norma Jeane Mortenson più nota come Marilyn Monroe, il 5 agosto del 1962, io non avevo nemmeno compiuto un anno, non ricordo nulla di questa notizia, ricordo invece quando il 6 giugno del 1968 uccisero Robert Kennedy, ci pensò mio padre ad imprimere la notizia bene nella mia mente con una sberla motivata dalla mia esuberanza e pretesa di attenzione ignara della gravità dell’evento che giusto in quel momento comunicavano al notiziario serale. Tra la morte di Marilyn e l’omicidio di Robert Kennedy si colloca l’omicidio del fratello di Robert, 35° Presidente degli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre del  1963. Uno strano filo letale lega Marilyn a queste uccisioni, giacché si scopre, ma molto tempo dopo, che Marilyn era diventata l’amante di John e di Robert.

Ancora oggi si dice che il Presidente degli Stati Uniti d’America sia l’uomo più potente del mondo e certo Marilyn ne doveva essere ben consapevole mentre cantava sensuale e infantile al tempo stesso, fasciata in un carnale abito rosa pelle “Happy Birthday Mister President” alla festa di compleanno di John. Non c’è da sorprendersi che siano nati molti misteri e voci sulle cause della morte dell’attrice cantante e modella statunitense: dal suicidio per ingestione di barbiturici, all’omicidio ordito dai Kennedy perché diventata pericolosa per  gli amanti ai vertici della scena politica americana, all’esecuzione con supposta di veleno per vendetta eseguita dalla mafia nei confronti del Presidente americano che non corrispondeva alle pretese mafiose e con lo scopo di infangare la famiglia Kennedy. Ciò secondo la testimonianza del mafioso Chuck Giancana, confortata dal fatto che all’autopsia non furono trovate pastiglie nello stomaco dell’attrice, ma livelli elevati di barbiturici nel sangue ed ecchimosi su un’anca e la schiena. In effetti per raggiungere lo scopo di screditare i Kennedy sarebbe bastato diffondere le notizie dei comportamenti libertini del Presidente, alquanto affamato dell’altro sesso da avere le cosiddette “ragazze d’occasione” sempre a disposizione. Non so se l’affascinante Marilyn potesse dirsi appartenere a questa schiera, certo la storia l’ha consegnata a ben altro ruolo di icona pop, diva, sex symbol. Per essere stata capace di costruire con le sue sole forze il suo mito, cominciando da un’infanzia di disagio, per la sua sofferta ascesa, l’evidente infelicità, il fulgido esempio di bellezza, la fragilità e la resistenza con cui si oppose alle avversità, il fascino della sua radiosa femminilità, desidero includerla nella lista delle grandi donne del blog Limina mundi e renderle omaggio.

Marilyn ha conquistato fama durevole proprio facendo leva sulle doti che tanto gli uomini amano in una donna: bellezza e sensualità. Era la donna più desiderata dell’epoca. Dedicava tempo al mantenimento dello splendore della pelle, che, si diceva, emanasse una luminosità esclusiva. Si dedicava alla cura del corpo con esercizi fisici e sollevamento pesi mattutini, aveva attenzione per la sua alimentazione e curava naturalmente anche i suoi capelli, che, da castani naturali, divennero biondi decolorati catalizzatori del suo fascino. Sperimentò tutti i livelli di biondo: dorato, cenere, platino fino ad approdare al quel biondo da lei chiamato “federa” – praticamente bianco –  che ancora oggi associamo al suo taglio medio ondulato che l’ha resa diva.

Il Presidente degli Stati Uniti d’America è l’uomo più potente del mondo e certo Marilyn ne aveva fatta di strada per approdare a cotanto amante. Nel 1926, quando nacque, sua madre Gladys Monroe, mentalmente instabile, non era in grado di prendersi cura della figlia neonata, quindi l’affidò a una coppia di coniugi Wayne e Ida Bolender che crebbero la piccola Norma Jeane fino a sette anni, poi la bimba fu affidata a una coppia di inglesi, insieme ai quali per un certo periodo lei tornò a vivere con la madre. Gladys però afflitta da esaurimento nervoso,  per una caduta dalle scale fu ricoverata al Los Angeles General Hospital e successivamente le venne diagnosticata una schizofrenia paranoide, quindi dichiarata incapace di intendere e volere.

Di Norma si occupò in qualità di tutrice la migliore amica della madre, Grace McKee, che lavorava nell’archivio delle pellicole della Columbia Pictures,  ciò indusse Norma ad interessarsi di cinema. Nel 1935, quando Grace McKee  si sposò, Norma Jeane fu portata nell’orfanotrofio di Los Angeles, aveva 9 anni. Fu affidata poi a diverse famiglie e  parenti facendo sempre ritorno all’orfanotrofio, dove cominciò a lavorare come vivandiera.  In questo periodo non mancarono a corredo storie di violenze e abusi veri o presunti.  Nel 1941, a 15 anni, Norma Jean tornò da Grace Mckee e frequentò la scuola. Lì conobbe un vicino di casa James Dougherty e, appena sedicenne, lo sposò. Quattro anni dopo divorziarono. Nel 1944 James partì per il fronte e lei si trasferì dalla suocera a Los Angeles, prese il posto del marito in una fabbrica di aeroplani come operaia.  

James Dougherty e Marilyn Monroe

La sua carriera inizia, quando David Conover si reca in fabbrica per fotografare ragazze che “tenessero su il morale alle truppe” e la incoraggia a diventare modella. Fa servizi fotografici e poi un’audizione per il cinema.  Viene notata. Il significativo passo successivo avviene col regista  Ben Lyon che le fa tingere i capelli di biondo e le suggerisce di cambiare nome. Scelgono un nome sensuale, soffice, morbido di emme. Nasce Marilyn Monroe.

Gli inizi non furono facili, i fatti salienti tra il 1947 e il 1949 sono che lei volle studiare all’Actors Lab di Hollywood per migliorare la sua recitazione, ma i film a cui prese parte non ebbero successo e comunque le sue erano parti minori, le condizioni economiche non erano buone e accettò, tra l’altro di posare nuda per Playboy, oltre che lavorare come spogliarellista, conoscere nomi del cinema, avere amanti e forse prostituirsi.

L’ascesa al ruolo di star di Hollywood avvenne nel 1953 col film “Niagara” e la definitiva consacrazione con il film “Gli uomini preferiscono le bionde” nel quale canta “Bye bye baby” e  “I diamanti sono i migliori amici delle ragazze” (più sotto il video), ingioiellata e vestita con un abito rosa di Travilla, costumista hollywoodiano, abito diventato negli anni seguenti un’icona e fonte d’ispirazione. Seguono  i film di successo: “Come sposare un milionario”, “La magnifica preda”, “Quando la moglie è in vacanza”.

All’apice della fama nel 1954 sposò il suo secondo marito, Joe Di Maggio famoso campione di basball, americano di origini siciliane; con lui Marilyn si sentiva protetta e lui a suo modo l’amava, ma era troppo geloso e incline a scenate nelle quali volavano schiaffi. In sintesi Joe non accettava che la moglie fosse un’attrice famosa, conducesse una vita mondana e fosse desiderata da tanti uomini. Il matrimonio non durò nemmeno un anno. L’iconica scena nella quale la gonna plissettata dell’attrice si solleva per la folata del passaggio del treno su una presa d’aria della metropolitana, avvenuta casualmente nella realtà e ricreata in studio nel film “Quando la moglie è in vacanza”, oltre che diventare un altro momento cult della carriera dell’attrice, fu causa di litigio con Joe Di Maggio.

Marilyn Monroe e Joe Di Maggio

Nel 1956 gira il film “Fermata d’autobus” che le varrà la nomination al Golden Globe come migliore attrice di film commedia. A dire il vero Marylin per tutta la vita cercò di affrancarsi dal ruolo di bionda fatale e anche di progredire nelle sue capacità di recitazione. Studiando recitazione all’Actors Lab di Hollywood, all’ Actor’s Studio di New York, iscrivendosi all’Università della California, Los Angeles, dove studiò critica letteraria e artistica, facendosi spesso seguire da diversi insegnanti di recitazione. Potremmo dire senz’altro che prendeva la sua professione alquanto sul serio, ed aveva quella consapevolezza di sé che la porterà a rifiutare un ruolo in un musical per la ragione che il coprotagonista maschile, Frank Sinatra, riceveva un compenso oltre 3 volte superiore al suo.

Nella vita di  Marilyn si susseguirono, amanti (Johnny Hyde, Robert Slatzer – sposato e lasciato con un matrimonio lampo di appena tre giorni – Frank Sinatra, Yves Montand e altri), film di successo, copertine di riviste, canzoni, dischi, aborti (lei stessa ne riferisce ben 14), interventi chirurgici (uno anche estetico per affilare naso e ammorbidire il mento), medicine, champagne.

Nel 1956 sposa il drammaturgo Arthur Miller, convertendosi, per poterlo sposare, all’ebraismo. Altro matrimonio, altro flop.  Durante questa unione gira “Il principe e la ballerina”  di Laurence Olivier e nel 1958  con Jack Lemmon e Tony Curtis, “A qualcuno piace caldo”. Per questo film vince il Golden globe come miglior attrice di film commedia. Il suo ultimo film fu  “Gli spostati” con Clark Gable e Montgomery Clift. La sceneggiatura del film era scritta dallo stesso Arthur Miller in omaggio alla moglie. Quando il film fu girato però il matrimonio era già finito con un divorzio.

Arthur Miller e Marilyn Monroe

Nel 1962 iniziarono le riprese del film “Something’s Got to Give”, ma Marylin per la prematura morte non poté ultimarlo e il film fu girato nuovamente con Doris Day che ne prese il posto. Negli ultimi anni la salute mentale di Marylin  andò deteriorandosi, soffriva d’insonnia, ingeriva spesso farmaci e alcolici. Si  rivolse a uno psichiatra di New York, il dr. Greenson che cercò di ridurre questi abusi. Allontanatasi da New York e dal medico, Marilyn torna a farne uso, giunge a sentire il bisogno di cure psichiatriche tanto che si fa ricoverare in anonimato all’Ospedale Psichiatrico di New York. Quando si sentì chiusa in gabbia chiese aiuto all’ex marito Joe Di Maggio che la fece uscire.  E’ il periodo in cui Marilyn diventa amante dei Kennedy. Si avvicina la fine. Con la Century Fox che la licenzia a causa della discontinuità sul set si apre una crisi e una controversia legale. Questi problemi tuttavia sembravano ormai risolti. L’attrice il 1° agosto del 1962 aveva tra le mani un nuovo contratto con la casa cinematografica per un milione di dollari e due film,  inoltre si prospettava un un contratto come registra, attrice e sceneggiatrice con una casa cinematografica italiana per quattro film e un compenso di ben dieci milioni di dollari. Si apriva uno scenario di opportunità.

Il 5 agosto del 1962 venne trovata morta nella sua casa a Los Angeles, il poliziotto che per primo raggiunse la sua stanza nel rapporto riferì di averla trovata sul letto, riversa in diagonale, coperta da un lenzuolo,  successivamente altri aggiunsero i particolari della cornetta in mano e del corpo nudo.

Solo i suoi capelli saranno stati lieti della sua morte, non più stressati dalle decolorazioni. Tutti gli altri espressero il cordoglio che si deve a un talento che ha pagato alla vita il suo tributo di sofferenza per restituire splendore. Si apre così il cinquantennio successivo di mostre celebrative e aste su abiti e oggetti personali della diva pagati anche svariati milioni di dollari. Il che è testimonianza della popolarità, ammirazione e desiderio che circondavano l’attrice a livello internazionale.

Marilyn amava farsi fotografare, seguiva i consigli di un amico fotografo che le diceva: se vuoi diventare famosa fai tante foto, devono sempre vederti sui giornali, e lei non si sottraeva all’obiettivo, anzi, davanti all’obiettivo, si trasformava, veniva fuori la sua carica sensuale, ma anche lo sguardo malizioso, quella risata da baciare, il rossetto rosso fuoco, i denti candidi, la pelle di neve (non amava abbronzarsi), le gambe perfette, il seno da coppa di champagne. Lo stesso accadeva davanti alla cinepresa, improvvisamente la smemorata ragazza triste, che arrivava sempre in ritardo e dimenticava le battute, si animava di un incredibile charme e vestita di gioielli luce e abiti glamour cantava: “ I migliori amici delle ragazze sono i diamanti”.  Ed è vero.  Guardatela nel video e dite se non può che essere vero.

Poiché è attraverso le foto che è stata tramandata ai posteri la sua bellezza, non posso che affidarmi alle foto per trametterla a mia volta. Propongo una carrellata di scatti che tentano l’impossibile, similmente a quando, con la fotografia, la pittura, la parola, si vorrebbe penetrare l’essenza di una rosa, cogliere quell’irresistibile fascino che l’immagine non rende, ma che è l’insieme di voce, corpo, movimento, espressione.

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Concludo dicendo che Marilyn è stata anche molto amata. Robert Slatzer non trascurò mai per tutta la vita l’omaggio di rose bianche alla sua tomba. Joe Di Maggio lo testimonierà, organizzando e sostenendo le spese dei suoi funerali, portando per vent’anni fiori sulla sua tomba ad ogni compleanno. Miller scriverà la biografia “Io la conoscevo”, ma personalmente dubito che la conoscesse veramente, giacché è un pozzo nero l’infelicità e poi quattro anni di matrimonio non bastano per conoscere una donna, a volte nemmeno quaranta. Insomma di certo gli uomini non hanno saputo fare felice Marilyn, forse lei sceglieva male, ma più probabilmente il ruolo di sex symbol è incompatibile con quello di moglie di un solo uomo.

Resta comunque vero che la morte precoce, nel pieno della bellezza femminile, ha definitivamente consacrato Marilyn Monroe a eterna diva.

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Grandi donne: Frida Kahlo

25 giovedì Apr 2019

Posted by Loredana Semantica in ARTI VISIVE, Grandi Donne, Il colore e le forme

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Frida Kahlo, Grandi Donne

Frida Kalho, una donna e una biografia affascinanti, come un romanzo. Una forte personalità espressa non soltanto nei tratti del viso e dei suoi dipinti, ma nell’ immagine offerta di sé, nella sua arte e nelle scelte.

Ciò che mi preme mettere in luce includendo Frida Kahlo tra le grandi donne di questa rubrica, che è anche il motivo per il quale l’ho scelta, è la sua capacità di trasformare una vita segnata dalla disgrazia in successo, di fare dell’arte il catalizzatore d’ogni nevrosi, risolvendo in essa ogni tribolazione, non tanto per calcolo o ricerca di gloria, ma per necessità. Il modo cioè in cui si manifesta spesso un’autentica vocazione all’arte.

Nacque nel 1907 a Coyocan in Messico, dove morì 47 anni dopo. Il padre di Frida, Guillermo, era un ebreo di origine ungherese emigrato in Messico a diciannove anni, che, dopo aver svolto vari mestieri, divenne fotografo e probabilmente trasmise a Frida il suo amore per l’arte, l’espressione artistica e l’inquadratura fotografica. La madre messicana regala a Frida il fascino bruno e latino, le sopracciglia folte convergenti sulla cima del naso e quel velo di baffetti che Frida esibiva invece di nascondere, giocando anche a vestire con abiti da uomo il suo corpo sottile androgino. L’effetto di questo travestimento produce un risultato, misterioso e attraente come testimoniano alcune foto.

Guillermo Kahlo, Frida in Men’s Clothing, 1926

Guillermo Kahlo, Frida in abbigliamento maschile, 1926

L’evento più significativo della giovinezza di Frida fu un grave incidente per uno scontro tra un tram e il pullman sul quale lei viaggiava col fidanzato Alejandro. Era il 1925. L’investimento ebbe sul corpo di Frida effetti devastanti. Riportò la frattura della colonna vertebrale in tre punti, del bacino in tre parti, undici fratture alla gamba sinistra, lo schiacciamento del piede destro, un corrimano del pullman le attraversò il ventre da parte a parte. Subì innumerevoli interventi chirurgici e dovette trascorrere anni a riposo a letto, con un busto di gesso. Una volta in piedi riuscì a camminare, ma dovette sopportare i dolori conseguenti all’incidente per tutta la vita, oltre a non poter avere figli. Fu proprio durante questo periodo di convalescenza che cominciò a dipingere. La famiglia per agevolarla le comprò dei colori e un particolare letto a baldacchino con specchio sul soffitto che le permetteva di specchiarsi. Dipingeva autoritratti nei quali era ben rappresentata con vividezza di colori e incisività delle linee la sofferenza del corpo martoriato.

Scopertasi artista per via della sofferenza, una volta che si riprese dal trauma pensò di sottoporre le sue opere al vaglio di Diego Rivera, famoso pittore messicano per averne un parere. Frequentandosi Diego e Frida si innamorarono l’uno dell’altra e Diego introdusse la sua amata nell’ambiente culturale messicano e politico comunista. Questa coppia d’artisti formerà fino alla morte di Frida un singolare e discusso connubio, vissuto tutto a loro modo, nell’autonomia reciproca (vivevano in case separate collegate da un ponte), nei frequenti tradimenti di Diego ai quali corrispondevano gli innamoramenti di Frida con coinvolgimento anche erotico (e pare anche sessuale) per donne autodeterminate, forti e indipendenti come Tina Modotti la cantante Chavela Vargas e per uomini tra i quali Lev Trotsky  e Andrè Breton.

Le tensioni  con Diego giunsero al culmine quando lui tradì Frida  con la sorella di lei  Cristina. Frida pretese il divorzio, ma appena un anno dopo Diego e Frida si riavvicinarono. Lui alto imponente e corpulento appare nelle foto che li ritraggono insieme massiccio e predominante rispetto a Frida snella e piccola. Eppure lui amava di lei proprio questo aspetto androgino e sottile e lei in lui quella carnalità prorompente che riempie.

Nickolas Muray, Diego e Frida, 1939.

Nickolas Muray, Diego e Frida, 1939.

Frida seguì per tutta la vita la sua passione per la pittura, per Diego, per il comunismo e il folclore messicano. Si raffigurava nei suoi piccoli autoritratti (prediligeva il formato 30×37) vestita con gli sgargianti colori degli abiti tradizionali. Famose le sue acconciature complicate di trecce e fiori nei capelli, collane e bigiotteria appariscente. Viene raccontata come una donna piena di vita, intelligente, allegra, che amava alcool, droga e sigarette, feste con gli amici.

Oggetto dei suoi quadri sarà soprattutto se stessa, dirà che ciò avviene perché, trascorrendo molto tempo da sola, è il soggetto che conosce meglio. Osservare i suoi dipinti significa penetrare il vissuto e complesso mondo dell’artista, dall’infanzia all’incidente che la segnò per la vita,  dall’amore per Diego ai tormenti del corpo, dal dolore per l’aborto subito all’attenzione per le istanze sociali del suo popolo. Frida nei suoi quadri rappresenta i suoi capelli, i suoi peli e cuore, le sue viscere esposte, la colonna spezzata che sostiene il suo busto. Per inquadrare la sua opera si è parlato di simbolismo e di surrealismo, e dapprima Frida sembrò accogliere questo accostamento, definendo il surrealismo come l’espressione artistica che fa aprire l’armadio dove a sorpresa si trova un leone invece delle previste camicie. Poi lo rinnego` affermando “credevano dipingessi i miei sogni e invece ho sempre dipinto la mia realtà” .

Frida Kahlo, Le due Fride, 1939

Frida Kahlo, Le due Fride, 1939

Nel 1953 il Messico le dedicò una mostra alla quale poté partecipare su un letto a baldacchino, trasportata sul luogo in ambulanza. Un anno dopo morì, alcuni dicono per l’abuso di farmaci, altri per un’embolia polmonare. Aveva appena quarantasette anni. Oggi è la più famosa pittrice messicana, popolare in tutto il mondo. Della sua pittura diceva «La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno. Dipingo sempre quello che mi passa per la testa, senza altre considerazioni.»

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Cosa ho avuto dall’acqua, 1938, Frida Kahlo

 

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Grandi donne: Ipazia

08 venerdì Mar 2019

Posted by Loredana Semantica in Grandi Donne

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Grandi Donne, Ipazia, Ipazia di Alessandria

Tutte le donne sono grandi, hanno l’importante e gravoso compito di accogliere la vita e accompagnare la morte. Per la coraggiosa capacità di immersione nei doveri e nei sentimenti, per essere custodi della famiglia e della vita, le donne sono grandi tutte. Alcune però operando su fronti diversi: sociale, scientifico, professionale, artistico ecc. ottengono risultati per i quali meritano ulteriormente d’essere ricordate, perché la loro grandezza ha prodotto bene a favore della società del loro tempo e del futuro, persino a favore di tutta l’umanità. Questa rubrica è dedicata a loro.

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Oggi dedico l’articolo delle grandi donne a Ipazia, scienziata dell’antichità, barbaramente uccisa. Questa scelta segue precedenti scelte di raccontare la grandezza delle donne. La prima donna della quale ho parlato in questa rubrica ha compiuto una scelta coraggiosa, autonoma di dignità e rivoluzione, rifiutando il matrimonio riparatore: è la siciliana Franca Viola. La seconda a cui ho dedicato il pensiero è un’artista che alla canzone e musica ha dedicato la sua vita: Mia Martini, ingiustamente boicottata dai suoi simili. Oggi è l’otto marzo, giorno del 415 d. C. nel quale qualcuno colloca la data la morte di Ipazia, la terza donna a cui Limina mundi intende fare omaggio. Ipazia non solo realizza assieme alle altre due la perfezione di una trinità di grandezza: umana, artistica, scientifica, a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che la donna può brillare non meno dell’altra metà del cielo in ogni ambito, ma è anche una donna che ha pagato con la vita la sua dedizione alla scienza, all’insegnamento, l’ammirazione che suscitava.

Sappiamo poco di Ipazia, soltanto ciò che le fonti antiche tramandano. Le riporto perché spiegano certo meglio di come potrei fare io la grandezza di Ipazia.

Pallada, poeta e grammatico greco vissuto ad Alessandria d’Egitto nel V secolo, le dedica questi versi:

 

Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole,
vedendo la casa astrale della Vergine
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
astro incontaminato della sapiente cultura

Isidoro di Damascio, filosofo neoplatonico, ultimo direttore della Scuola di Alessandra vissuto dal 480 al 550 racconta nella “Vita di Ipazia” quanto segue: “Ipazia nacque ad Alessandria dove fu allevata ed istruita. Poiché aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienze matematiche e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia.” Vestendo il mantello del filosofo pubblicamente commentava le opere di Platone, Aristotele e altri filosofi con chiunque volesse ascoltarla, godendo di rispetto e stima in tutta la città. Casta, virtuosa, giusta, volle restare single, respingendo anche un suo studente che si era si innamorato di lei. Aveva un eloquio ricco era prudente e civile nei suoi atti “La città intera l’amò e l’adorò in modo straordinario, ma i potenti della città l’invidiarono” Accadde che un giorno Cirillo, “vescovo cristiano e quindi di fazione opposta a quella di Ipazia ch’era pagana “passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare. Quando Ipazia uscì dalla sua casa, secondo il suo costume, una folla di uomini spietati e feroci che non temono né la punizione divina né la vendetta umana la attaccò e la tagliò a pezzi, commettendo così un atto oltraggioso”

Eco del racconto di Damascio quello di Socrate Scolastico, avvocato vissuto dal 380 al 450 che riporta la vita di Ipazia nella sua Historia Ecclesiastica “Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni. Aveva padronanza di modi e di parola, intelligenza e appariva in pubblico, davanti ai magistrati e alle riunioni di uomini” i quali “tenendo conto della sua dignità straordinaria e della sua virtù, l’ammiravano grandemente”. Fu vittima della gelosia politica del popolino cattolico che pensò fosse lei ad ostacolare i rapporti tra Oreste, prefetto di Alessandria e Cirillo, vescovo cattolico. “Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono.” …”Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima” E su questa annotazione di Socrate scolastico si fonda la suggestiva ipotesi che l’omicidio sia avvenuto il giorno dell’otto marzo. 

Anche il vescovo cristiano Giovanni, racconta di Ipazia nella sua Cronaca, ma la accusa di aver prodotto incantesimi per cui la folla inferocita, guidata da Pietro il magistrato, la uccise con ferocia, per come ci raccontano le altre fonti, ma, a suo dire,  lo fece perché vittima dei suoi incantesimi. 

Queste e altre fonti tramandano quindi il brutale assassinio di una donna libera, colta, intelligente, una scienziata dell’antichità, filosofa e astronoma, che aveva scelto la via della conoscenza, superando gli uomini per la sua esclusiva grazia, ma anche per la profondità del sapere, al punto di aver acquisito una visibilità, carisma e rispetto che le attirò l’odio degli avversari politici. Per giungere a tanto furore, si comprende che il clima politico di Alessandria a quei tempi era denso di odi e faziosità; il cristianesimo che sia stava affermando come religione prevalente era una bandiera all’insegna della quale commettere atrocità che per assolutezza del potere, restavano sostanzialmente impuniti. Non fu punito nessuno per l’assassinio di Ipazia, anzi il vescovo Cirillo, da varie fonti indicato come mandante ispiratore, fu proclamato santo. Ciò avvenne perché la supremazia di Cirillo perdurò per svariati decenni. Di contro Ipazia appare come una musa del sapere sacrificata all’altare dell’odio. Perché donna e avversaria politica, geniale e autorevole, una figura che rappresentava un affronto al potere maschile religioso che intendeva dominare incontrastato sulla città.

Non possiamo quindi non ricordare la grandezza di Ipazia, che nonostante i secoli trascorsi e il tentativo dei suoi assassini di distruzione del corpo e delle opere, continua a brillare per fascino superiore e limpido, accresciuto dal sigillo dell’uccisione. Quasi un marchio di martire pagana contraltare ai martiri cristiani. Questi morti per affermare, con la testimonianza del sacrificio della vita, la forza della religione, lei uccisa per lo splendore della cultura dei classici dei quali era portavoce e cultrice, erede e prosecutrice. La sua morte segna la distruzione, attraverso la sua persona, della tradizione di ricchezza e dialogo culturale del passato, del “vecchio” per fare posto a un ordine nuovo, diverso e intransigente. Lei è la prima di una lunga serie di streghe condannate al rogo,  ma, come spesso accade, la morte di Ipazia non segna la fine della sua fama. Al contrario la alimenta nei secoli per giungere fino ai nostri giorni e permetterci una lettura “dalla parte delle donne” della sua drammatica vicenda.

Ipazia non è stata uccisa solo perché esponente politica, ma lo è stata anche in quanto donna che osava disinvoltamente e con successo muoversi in campi: scienza, astronomia, matematica, filosofia, riservati tradizionalmente agli uomini, menti considerate più razionali delle donne, idonee invece ad occuparsi soltanto della casa e della famiglia. Già 1600 anni fa esisteva il germe della discriminazione che ha tarpato le ali a milioni di donne nel tempo e nel mondo aventi testa e cuore sufficienti per raggiungere vette di conoscenza e d’arte.  Nel che sta la profonda ingiustizia della discriminazione di genere, che ancora perdura, pur nella luce di tante battaglie dirette alla parità, vinte e mai del tutto consolidate: il diritto al voto, a possedere beni, a disporre del proprio patrimonio, a studiare, a lavorare e a lavorare nell’ambito sentito, scelto dalla singola donna come a lei più congeniale, il diritto ad occupare posti di responsabilità e comando nelle gerarchie delle organizzazioni.

Luzi, Chateaubriand, Voltaire, Proust, Fielding, Diderot, Calvino, Leopardi, Monti, Pascal Eco, alcuni nomi  di grandi autori che si sono occupati di Ipazia. Le sono stati dedicati interi libri, tra gli altri: il romanzo di Caterina Contini Ipazia e la notte, Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo di Petta e Colavito, Ipazia. La vera storia di Silvia Ronchey e di recente il film “Agorà” del regista Alejandro Amenábar .

Lunga vita a Ipazia.

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Grandi donne: Mia Martini

22 venerdì Feb 2019

Posted by Loredana Semantica in Grandi Donne

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cantante italiana, Grandi Donne, Mia Martini

Tutte le donne sono grandi, hanno l’importante e gravoso compito di accogliere la vita e accompagnare la morte. Per la coraggiosa capacità di immersione nei doveri e nei sentimenti, per essere custodi della famiglia e della vita, le donne sono grandi tutte. Alcune però operando su fronti diversi: sociale, scientifico, professionale, artistico ecc. ottengono risultati per i quali meritano ulteriormente d’essere ricordate, perché la loro grandezza ha prodotto bene a favore della società del loro tempo e del futuro, persino a favore di tutta l’umanità. Questa rubrica è dedicata a loro.

“La gente è strana.” Cominciava così “Almeno tu nell’universo”, una tra le più belle canzoni della musica leggera italiana, capolavoro della cantante Mia Martini, al secolo Domenica Rita Adriana Bertè, sorella dell’ancora vivente Loredana Bertè, anch’essa cantante, e di altre due sorelle che completavano una tradizionalista famiglia calabra.

“La gente è strana.” Niente di più vero, almeno per Mia Martini, detta Mimì. Particolarmente strana poi la gente di spettacolo, così bisognosa di successo e platea da credere alle idiozie, alla sorte avversa, ai tarocchi e chiromanti, così superstiziosa da dedicarsi agli scongiuri. Girò in quegli ambienti per qualche tempo intorno agli anni 80 la diceria che Mia portasse sfortuna, peggio del colore viola, cominciarono a rifuggirla, isolandola nella maldicenza. Inizialmente Mia non dette alla cosa molto peso, ma quando la cattiva fama giunse al punto che la pregavano di non partecipare alle manifestazioni perché altrimenti si sarebbero defilati tutti, si arrese e ritirò dalle scene. Per qualche anno, poi tornò alla grande alla ribalta, partecipando alla trentanovesima edizione del festival di Sanremo, proprio con “Almeno tu nell’universo” nel 1989.

La verità dell’origine di questa vicenda è quella che lei racconta in un’intervista al settimanale “Epoca”:

“Tutto è cominciato nel 1970. Allora cominciavo ad avere i miei primi successi. Fausto Paddeu, un impresario soprannominato “Ciccio Piper” perché frequentava il famoso locale romano, mi propose una esclusiva a vita. Era un tipo assolutamente inaffidabile e rifiutai. E dopo qualche giorno, di ritorno da un concerto in Sicilia, il pulmino su cui viaggiavo con il mio gruppo fu coinvolto in un incidente. Due ragazzi persero la vita. “Ciccio Piper” ne approfittò subito per appiccicarmi l’etichetta di porta jella.“

Ebbene oggi Mia, a quasi 25 anni dalla sua morte, ha la sua rivincita, nel non essere stata dimenticata, anzi nell’essere ancora più amata dal pubblico, come testimonia il successo del recentissimo film a lei dedicato “Io sono Mia”,  prodotto da Luca Barbareschi, trasmesso su RAI1 il 12 febbraio scorso. Il film ha avuto un clamoroso seguito di quasi otto milioni di spettatori.

Ho scelto Mia Martini per questa rubrica dedicata alle grandi donne per il coraggio e la solitudine, per il talento purissimo che il tempo ha confermato splendente, perché donna, osteggiata e denigrata in vita, non soltanto dal padre desideroso di vedere la sua secondogenita incanalata in una carriera convenzionale da medico o insegnante o altra canonica professione, ma anche dallo stesso mondo artistico al quale apparteneva, che l’ha emarginata, pentendosi poi della propria ignobiltà.

Raffinata e sensibile interprete di tanti bei testi musicali suoi e di altri, Mia Martini possedeva una voce limpida e intensa, resa poi più roca in seguito a un’operazione alle corde vocali. E’ stata una donna che ha dedicato la vita alla musica e alla canzone, seguendo convintamente, sin da giovanissima, la sua vocazione. All’inizio con uno stile da ragazza ye ye, zingara, figlia dei fiori, diventando nel tempo sempre più sofisticata; nella maturità andava in scena ai festival o nei programmi radiotelevisivi sorridente ed elegante, in mise di tessuti mobili e fluenti, sul corpo snello o con luccicanti e griffati abiti da sera.

Un mistero la sua morte ad appena 47 anni. Fu trovata nella sua casa in provincia di Varese, sul letto in pigiama, con gli auricolari. Si è parlato di overdose di cocaina, poi di arresto cardiaco. La sorella Loredana ha gettato ombre sulla figura del padre a causa di lividi sulla salma. Tutte le sorelle escludono il suicidio. Si racconta inoltre di un violento litigio tra il padre e Loredana nella camera ardente prima del funerale di Mia. Il padre tuttavia ormai è morto, il corpo di Mia Martini cremato, non c’è modo di approfondire il mistero.

Restano però i ricordi, le canzoni e interpretazioni, le interviste, gli indimenticabili successi di Mia Martini: Padre davvero, Donna sola, Minuetto, Piccolo uomo, Donna con te, Almeno tu nell’universo, Che vuoi che sia, E non finisce mica il cielo, Cummè, La nevicata del ’56, Gli uomini non cambiano.

L’imprinting nell’anima di Mia è avvenuto di certo per l’azione del padre, raccontato da tutte le figlie come violento, che, senza volerlo affatto, ha forgiato l’artista che la figlia è poi diventata, generando prima e rafforzando poi il suo innato spirito malinconico, intriso di solitudine e gonfio di contestazione verso la figura maschile, egoismo e possessività che la caratterizzano e contro la società maschilista e ipocrita. Anche la carcerazione di Mia avvenuta nel 1969 a Tempio Pausania per 4 mesi, accusata del possesso di una sigaretta di marjuana – accusa dalla quale sarà poi scagionata – segnerà profondamente l’artista, tant’è che in carcere tenterà anche il suicidio. Infine Ivano Fossati è stata un importante figura maschile nella vita della cantante, una storia d’amore durata dieci anni. Da essa sono nate collaborazioni musicali e il testo di “E non finisce mica il cielo” scritta da lui per Mia.

Riporto in testa a questo articolo il video di “Almeno tu nell’universo” e in fondo alla pagina l’intervista di Mia Martini e del padre condotta da Marisa Laurito a “Serata d’onore”. Nel video, oltre al vago sentore delle tensioni sotterranee tra padre e figlia, emerge con chiarezza la grazia e lo charme di Mimì in contrasto con il piglio critico del padre, il cui tono leggero non riesce a mascherare la natura autoritaria, apparendo egli al confronto della figlia, rigido e rozzo.

Ebbene al bilancio finale è bello poter dire a Mimì sei tu che hai vinto. Su tutti.

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Grandi donne 1: Franca Viola

07 giovedì Feb 2019

Posted by Loredana Semantica in Grandi Donne, PERSONAGGI

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delitto d'onore, Franca Viola, Grandi Donne, matrimonio riparatore

Da tempo la rubrica grandi donne creata su questo blog attende contenuti. Questa che segue ne è l’introduzione.

Tutte le donne sono grandi, hanno l’importante e gravoso compito di accogliere la vita e accompagnare la morte. Per la coraggiosa capacità di immersione nei doveri e nei sentimenti, per essere custodi della famiglia e della vita, le donne sono grandi tutte. Alcune però operando su fronti diversi: sociale, scientifico, professionale, artistico ecc. ottengono risultati per i quali meritano ulteriormente d’essere ricordate, perché la loro grandezza ha prodotto bene a favore della società del loro tempo e del futuro, persino a favore di tutta l’umanità. Questa rubrica è dedicata a loro.

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Franca Viola

Mi piace cominciare questa rubrica con un articolo dedicato a Franca Viola, un bel nome per una bella ragazza del profondo sud, capelli scuri, pelle bianca. Mi piace cominciare da Franca Viola perché è siciliana, come me, perché penso che la Sicilia, bellissima terra, da molti considerata retriva, è spesso culla delle più sorprendenti reazioni e balzi progressisti. Infatti Franca Viola, vittima di un fatto di cronaca, ha ribaltato la sua posizione ed  è diventata simbolo di tempi nuovi, provocando riflessione sociale, condivisione e solidarietà tali da indurre un’importante modifica normativa nel nostro sistema di leggi.

La storia la conoscono in molti. Brevemente la riepilogo per come la ricordo. Siamo nel 1947. Franca Viola viveva ad Alcamo in provincia di Trapani, aveva 17 anni all’epoca dei fatti. Era stata per qualche tempo fidanzata col figlio di un boss locale, ma quando il fidanzato fu accusato di furto, Franca Viola lo lasciò, d’accordo coi genitori, prefendogli un compagno di classe del quale si era innamorata. Il fidanzato abbandonato non accettò il benservito e con l’aiuto di 12 uomini, rapì Franca Viola insieme al fratellino minore, rilasciando quest’ultimo dopo un paio di giorni e trattenendo Franca Viola per 8 giorni, abusando psicologicamente e sessualmente di lei. L’idea dell’uomo era di far passare la vicenda come una “fuitina” consensuale. Quella fuga d’amore diretta alla consumazione del rapporto che all’epoca era praticata in molti casi perchè sopperiva a varie necessità della coppia, ad esempio mettere i genitori contrari davanti al fatto compiuto, celebrare un matrimonio in economia, ecc. Solo che in questo caso l’accordo non c’era, ma lo stupro sì.

Le norme all’epoca “graziavano” chi si fosse macchiato del delitto di stupro per la seguente formulazione dell’art. 544 del codice penale del 1920

“Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

Una volta rilasciata però Franca Viola non accettò il matrimonio riparatore, sostenuta dal padre Bernardo e dall’avvocato Ludovico Corrao, affrontò il processo che si concluse con la condanna dello stupratore a 10 anni di reclusione. Questi uscito dal carcere fu ucciso. Franca invece sposò l’uomo che aveva scelto e con lui visse serenamente la sua esistenza, avendone due figli.

Non c’è niente di straordinario in quello che ha fatto Franca Viola, semplicemente una donna che ha seguito il proprio cuore, è lei stessa che dice così. Amava un altro, aveva subito violenza, non poteva accettare l’autore di questa violenza come sposo, piegandosi alla convenzione sociale che sposarsi era l’unico modo per “salvare il proprio onore”. Non poteva sposare un uomo che disprezzava. Chissà quante altre prima di lei avevano dovuto sottostare a questo ricatto, vittime due volte: dello stupro e poi anche del sacrificio di se stesse all’altare dell’onore, al legame matrimoniale non voluto.

Bella la figura di Franca che si oppone alle convenzioni, alle maldicenze, che accetta di essere qualificata come “disonorata” pur di essere libera e non soggiogata al maschio oppressore, coraggiosa perché oltre che violento, maschio e oppressore, l’antagonista appartiene ad una famiglia mafiosa locale dalla quale è intuitivo aspettarsi ritorsioni. Tant’ è vero che alla rottura del fidanzamento il padre di Viola aveva già subito minacce e danneggiamenti alle proprietà.

Dietro Franca Viola la bella figura del padre, un padre forte e coraggioso che per amore della figlia si oppone alla violenza, lo raccontano bene le parole della stessa Franca che ha concesso un’intervista il 27 dicembre 2015 a “la Repubblica” e dice riferendosi al momento dell’incontro tra lei e il padre dopo il rapimento.

Mio padre Bernardo venne a prendermi con la barba lunga di una settimana:

“non potevo radermi se non c’eri tu” mi disse

“cosa vuoi fare, Franca?”

“non voglio sposarlo!”

“va bene: tu metti una mano io ne metto cento.”

Questa frase mi disse.

“basta che tu sia felice, non mi interessa altro”

Mi riportò a casa e la fatica grande l’ha fatta lui, non io. È stato lui a sopportare che nessuno lo salutasse più, che gli amici suoi sparissero. La vergogna, il disonore. Lui a testa alta.

Il coraggioso no di Franca Viola, al quale fanno eco il coraggio di suo padre e del suo futuro marito che si opposero all’arroganza della delinquenza, fu il primo segno che la normativa del “delitto d’onore” aveva fatto il suo tempo,

Questo il testo dell’art. 587 del codice penale Rocco del 1920 sul delitto d’onore:

“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.”

A questo si ricollegava l’articolo 544 che ho riportato sopra sul cosiddetto “matrimonio riparatore”.

La vicenda di Franca Viola fece molto scalpore e il processo giudiziario che ne seguì ebbe molto seguito. L’opinione pubblica si schierò dalla parte di Franca, ammirandone coraggio e dignità. Altre ragazze seguirono il suo esempio, non soggiacendo a violenza e imposizioni umilianti per aver salvo l’onore e da quel primo no iniziò il processo di evoluzione normativa che portò all’abolizione della norma sul delitto d’onore e della norma corollario sul matrimonio riparatore. Ci vollero però oltre trent’anni di tempo per vedere tradursi in norme la soppressione degli articoli 544, 587 e degli altri che qualificavano lo stupro come delitto contro la morale e l’omicidio di coniuge, figlia o sorella e relativo amante come delitto d’onore, e, pertanto, meno grave Disposizioni di legge che stigmatizzavano indirettamente la donna come essere funzione dell’uomo, del suo onore e volontà, prescindendo dalla dignità e autodeterminazione della donna stessa.

Franca Viola così è finita sui libri di storia, ha ricevuto nel 2014 al Quirinale l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e oggi è qui, su questo blog, ad inaugurare una rubrica che esalta il coraggio e il valore delle donne.

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STEFANO D’ARRIGO: CREATIVITÀ LINGUISTICA IN HORCYNUS ORCA

15 lunedì Gen 2018

Posted by maria allo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Filologia, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI, SINE LIMINE, Uomini eccellenti

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scrittori siciliani

 

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Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme in provincia di Messina, è  venuto a mancare nel ’92. La storia personale di Stefano D’Arrigo è strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca, romanzo di quasi 1300 pagine di sperimentalismi linguistici,  una delle pubblicazioni più importanti e, allo stesso tempo, meno lette dell’intero Novecento italiano. Un lavoro che ha impegnato l’autore per quasi vent’anni in continue riscritture e aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, regionalismi segnici mono rematici e polirematici, rimandi all’epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del ‘900. Un impegno costante ,dicevo,  che ha contribuito a trasformare I fatti della fera (questo il titolo originario) in un mitico ed epico poema della metamorfosi. Horcynus Orca è una lettura che manifesta l’immensa ricchezza tematica con cui Stefano D’Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l’Odissea e l’Eneide, l’Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano o a Moby Dick, sono tutti elementi che affascinano e costringono il lettore ad addentrarsi nella grandiosa costruzione su cui D’Arrigo ha trascorso una vita .” Si tratta di un romanzo sfrontato che mira niente di meno che a gettare un ponte tra Storia e Mito (ponte bombardato, come si vedrà), la cui mole, densità e qualità finiscono per intimidire, per tenere un po’ ai margini il lettore comune” dice  Paolo Mantioni. L’espressione “Horcynus Orca” ci riporta però anche al mondo latino, in cui il termine “orca”, fra altre cose, indica proprio l’orca assassina, come si può vedere nel celebre passo di Plinio il Vecchio che suona quasi darrighiano ante litteram («…cuius imago nulla repraesentatione exprimi potest alia quam carnis inmensae dentibus truculentae», Nat. Hist., IX, 12), e rimanda naturalmente a “Orcus”, che è il nome del regno dei morti, del suo custode e, in senso figurato, della morte stessa. La pubblicazione del romanzo nel 1975, tuttavia, non ha interrotto il labor limae di D’Arrigo, il quale è tornato sul testo fino alla morte con ulteriori modifiche, seppur lievi, tant’è vero che la riedizione del 2003 reca nell’aletta di copertina la dicitura nuova edizione con le ultime inedite correzioni d’autore.

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Stefano D’Arrigo

Stefano D’Arrigo (Alì Marina, Messina, 1919 – Roma, 1992), laureatosi in Lettere a Messina con una tesi su Hölderlin, svolse servizio come sottotenente a Palermo durante la seconda Guerra Mondiale fino allo sbarco alleato. Dopo un’altra parentesi a Messina, si stabilì a Roma nel 1946, dove si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte, frequentando pittori e mercanti d’arte. Intorno alla metà degli anni ’50, D’Arrigo passa all’attività letteraria scrivendo un libro di versi (Codice siciliano) e cimentandosi con un’opera di narrativa di ampio respiro, La testa del delfino, scritta di getto in quindici mesi tra il 1956 e il 1957. Quest’opera, ancora inedita, è il primo abbozzo di quel romanzo che poi, dopo infinite riscritture e ampliamenti protrattosi per quasi vent’anni, diventerà Horcynus Orca. La prima questione da affrontare riguardo all’Orca e al suo significato nel romanzo concerne la particolare denominazione scelta da Stefano D’Arrigo nel titolo, perché il grande mistero che circonda l’animale comincia proprio da lì. Se è abbastanza noto che il nome zoologico dell’Orca è “Orcinus Orca” (o “Orcynus Orca”), meno noto è il fatto che l’espressione “Horcynus Orca” non ricorre mai nel romanzo (per essere più precisi non ricorrono mai per esteso neppure le espressioni “Orcinus Orca” e “Orcynus Orca”). Per i “pellisquadre” di Cariddi (vale a dire i pescatori, cosiddetti perché hanno la pelle ruvida come quella dello “squadro”, cioè lo squalo, che a sua volta prende il nome da “squadrare”, ovvero lisciare e pareggiare il legno ruvido con la cartavetrata: «pelli, insomma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri», p. 254), l’Orca è il “ferone”, cioè la ‘grossa fera’, perché con la fera essa condivide una caratteristica fisica ben precisa (oltre naturalmente a quella ‘comportamentale’ della ferocia): «la coda piatta invece che di taglio» (p. 618). Quando però il navigato signor Cama, basandosi sul suo inseparabile manuale di cetologia illustrata, spiega loro che l’animale arrivato nello “scill’e cariddi” è un’Orca, dice via via che essa è l’”orcinusa”, l’”orca orcinusa”, l’”orcynus” (quest’ultima espressione ricorre solo una volta, mentre le altre verranno poi ripetute spesso), per far capire che già nel suo nome (omen nomen…) è scritto il suo destino di animale assassino, creato da Dio solo per ammazzare gli altri e impersonare così la stessa Morte (cfr. pp. 657). Per il resto, l’Orca, quando non è detta semplicemente “orcinusa”, è connotata nei modi più svariati nell’inesauribile suppurazione linguistico-morfologica del romanzo, ogni volta per sottolinearne una sfumatura diversa, ma comunque legata alla ferocia, alla morte e alla putrefazione: oltre ai frequentissimi “orcaferone” (da orca + ferone) e “orcagna” (da orca + carogna), troviamo anche, occasionalmente, “porca” (cfr. p. 801), “orcarogna” (da orca + carogna + rogna: cfr. p. 801), “orcassa” (da orca + carcassa: cfr. p. 955), “orcassale” (da orca + carcassa + sale: cfr. 967), “orcarca”. Ma allora, perché quell’H nella denominazione dell’animale che compare nel titolo? Secondo Walter Pedullà (cfr. la sua “Introduzione” a I fatti della fera), uno dei massimi esperti su D’Arrigo, poiché quell’H fa sì che leggendo solo le iniziali (HO) si ha quasi la formula chimica dell’acqua, D’Arrigo ha voluto segnalare un’identificazione dell’Orca col mare sulla base del binomio vita/morte. Questa ipotesi è ampiamente giustificata dal testo, perché D’Arrigo insiste spesso non solo sull’Orca come fonte di vita e di morte (pur essendo per definizione la Morte, essa è anche donatrice di cibo vitale per gli affamati pescatori, sia perché da viva porta loro la “cicirella”, cioè i banchi di anguille appena nate, sollevandola dal fondo del mare, sia perché da morta offre tutta se stessa come cibo e materia prima per la fabbricazione di oggetti d’uso quotidiano, come pettini, posate, scarpe, ecc.), ma anche sul mare come luogo in cui i pescatori svolgono il loro eterno ciclo di vita (la pesca, il lavoro) e di morte (la carestia, la ‘morte per acqua’ come nella Terra desolata di Eliot, ecc.). In un passo-chiave, l’”animalone” è proprio definito «un essere dell’altro mondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due» (p. 668), ed è, questa, una caratterizzazione che si può benissimo adattare al mare, inteso come elemento originario, principio e fine di tutte le cose, sin dall’alba del pensiero occidentale. Per non dire che nella serie di visioni apocalittiche che ha sullo sperone, ‘Ndrja prima vede lo Stretto ridotto a un deserto di sale, dal quale i pescatori tirano a riva l’”orcassale” (cioè la carcassa di sale dell’Orca), e poi vede l’Orca stessa ricostituirsi, riprendere l’antico aspetto, agitarsi furiosamente, rigenerare da sé il mare liquefacendosi dalla coda e infine fondersi in esso, tornando ad essere «una goccia d’acqua nel mare», come se «il mare rivivesse dalla morte di quell’essere orcinuso, rivivesse, cioè a dire, dalla morte della Morte». Altro discorso va fatto per la scelta della forma con la y nella denominazione latina dell’Orca, che, come visto, non solo è attestata nell’uso, ma ricorre una volta anche nel corpo del romanzo. Rispetto alla spiegazione dell’H, quella della y è molto più congetturale, proprio perché non è un’invenzione di D’Arrigo. Pedullà propone una spiegazione molto complessa e affascinante. Intanto la y è il simbolo matematico di un’incognita, e poiché cade al centro della parola “orcynus”, sembra alludere alla piaga dell’animale (la sua sezione trasversale avrebbe proprio quella forma), la cui origine è e resta misteriosa in tutto il romanzo. In biologia essa è anche il simbolo del cromosoma maschile, e ciò rimanda all’origine della vita, intimamente connessa con la malattia e la morte, dei cui segreti l’Orca è depositaria. Infine, la y è una lettera greca (Y) passata al latino, e dallo stesso padre fondatore della cultura greca proviene l’idea mitopoietica, poi ereditata e consolidata dai poeti latini, di popolare di creature di inaudita ferocia la Sicilia e il mare dello Stretto (Scilla e Cariddi, il Ciclope, ecc.).L’Orca, dunque, in quanto ‘Orco’ e ‘Leviatano’ nello stesso tempo (da un pescatore è paragonata a un drago favoloso che chiederà tributi di pesce spada che finiranno per ridurre alla fame la popolazione: cfr. p. 657), si presenta come il luogo d’incontro di due tradizioni generalmente alternative nella cultura europea, ovvero quella classica, omerica, greco-romana, e quella ebraico-cristiana, assumendo così l’aspetto di un ‘segno’ simbolico mostruosamente (è il caso di dirlo) significante. Sui legami di Horcynus Orca con l’Odissea, col suo eroe, con le sue creature femminili e coi suoi mostri, non è il caso di dilungarsi troppo, perché sono di una evidenza palmare e si ha avuto modo di esplicitarli, sebbene in parte (‘Ndrja/Ulisse; Caitanello/Laerte; Cata/Nausicaa; Marosa/Penelope; Ciccina Circè/Circe e Calipso; femminote/sirene; e poi Scilla e Cariddi, al punto che D’Arrigo chiama il mare dello Stretto «lo scill’e cariddi» sin dall’incipit del romanzo, ecc.). Basti qui sottolineare soltanto che la rivisitazione del mito in Horcynus Orca è però fortemente critica e demistificante, e in tal senso, a un livello più profondo, ‘Ndrja è più lontano da Ulisse di quanto non lo sia Leopold Bloom: mentre infatti l’eroe omerico, dopo un’assenza di venti anni, torna dalla guerra da vincitore e persino da maggiore artefice della vittoria (si pensi al Cavallo di Troia), trova la moglie che è stata ad aspettarlo pazientemente e riporta l’ordine nel suo piccolo regno facendo strage delle “fere” che infestano la sua casa, il povero “nocchiero” della Marina Italiana torna dopo soli  due anni da una guerra persa dopo essere stato mandato allo sbando dal suo comandante auto affondatosi, trova la sua promessa “zita” Marosa astiosa e sessualmente affamata come fosse sua moglie da anni (e invece è solo una “muccusa”, appena sbocciata durante la sua assenza) e, nel tentativo di restituire al suo mondo infestato da un “ferone” i valori perduti di dignità e lavoro onesto, muore appena quattro giorni dopo il suo arrivo mentre si sta allenando per una competizione sportiva, colpito in fronte da una pallottola sparata quasi per caso dalla sentinella di una portaerei un po’ troppo nervosa. Ma è Virgilio che, in occasione della discesa agli inferi di Enea (Eneide, VI, 273-281), descrive le fauci dell’Orco in un passo che contiene in nuce, personificate (Luctus, ultrices Curae,  Morbi, tristis Senectus, Metus, malesuada Fames, turpis Egestas, Letum, Labos, Sopor, mala mentis Gaudia, mortiferum Bellum, Discordia demens), praticamente tutte le nefaste conseguenze che comporta per i cariddoti la presenza dell’Orca nel loro mare (terrore, sterilità, fame, inattività soporifera per lo spirito, discordia, sconcia esaltazione per lo sciacallaggio, ecc.). Da questo punto di vista, Horcynus Orca è il romanzo della disperazione, il romanzo di una catastrofe esistenziale, storica, antropologica e cosmica senza rimedio, in cui il mondo è abbandonato da tutte le divinità celesti ed è lasciato in balia solo di quelle ctonie e dei loro emissari più feroci: i dittatori che scatenano le guerre, le fere e, soprattutto, a “riesumo” simbolico di ogni forza del male, l’Orca/Orco. Tutto muore in esso, inghiottito dallo sbadiglio delle fauci dell’Orco: muore la forma di vita secolare dei cariddoti, il quali, se non scelgono il suicidio (come ha fatto Ferdinando Currò, l’eroico salvatore di donne e bambini nel corso del disastroso “terremaremoto” del 1908), possono sopravvivere solo adeguandosi a scendere a patti con i bassifondi del nuovo ordine del “dollaro” e con i suoi metodi cinici e utilitaristici, i cui profeti al livello più basso sono figure equivoche e parassitarie come lo scagnozzo e il Maltese; muore ‘Ndrja, nel tentativo donchisciottesco di arrestare la storia nell’attimo i cui essa stritola con somma indifferenza i più umili; e infine, a suggellare il Trionfo della Morte sulla sua stessa manifestazione fisica più emblematica, muore l’Orca, dopo aver dato l’illusione beffarda di essere una divinità benigna apportatrice di “manna”, quando invece, come ripete Luigi Orioles, la verità bruta è che l’apparizione in superficie della “cicirella” è un effetto casuale degli inabissamenti del mostro marino, e se mai essa è segno di qualcosa, è segno solo dell’inutile tentativo di quest’ultimo di andare a distruggere la vita stessa alla radice (cfr. p. 663 e p. 667). Che il grande romanzo di Melville (molto amato da Stefano D’Arrigo) sia echeggiato in Horcynus Orca è un fatto assolutamente ovvio (si pensi solo al fatto che il signor Cama ha un manuale di cetologia illustrata che sembra proprio quello ipotizzato da Melville nel famoso capitolo 32 di Moby Dick), ma qui ci interessa soprattutto vedere come il contatto con esso conduca l’Orca darrighiana verso il mostro biblico. Le varie credenze sull’Orca come animale unico, onnipresente, immortale e contiguo alla Morte per destino intrinseco, sulle quali D’Arrigo insiste moltissimo, si ritrovano tutte quasi alla lettera nel giro dei celebri capitoli 41 e 42 di Moby Dick, intitolati rispettivamente Moby Dick e La bianchezza della Balena. Nel primo Melville riferisce due “superstizioni” da balenieri che riguardano il carattere soprannaturale della balena, ovvero la sua ubiquità nello spazio e la sua immortalità (che poi è l’”ubiquità nel tempo”). Nel secondo fa esibire Ismaele in una dottissima dissertazione storico-antropologica sul rapporto che nelle varie culture umane sussiste tra il colore bianco, il terrore e la Morte. Abbiamo qui elementi sufficienti per ricondurre l’Orca di D’Arrigo, tramite Melville, entro l’alveo della cultura ebraico-cristiana, perché un animale unico, ubiquo e immortale può essere stato creato solo da Dio e direttamente, e questo il signor Cama non si stanca mai di ripeterlo ai pelli squadre. Ma queste caratteristiche della sua balena, Melville, più esplicitamente ancora di D’Arrigo, le riconduceva direttamente al mitico mostro biblico, come si vede già a partire dal fatto che l’ampio catalogo di citazioni cetologiche posto a vestibolo del romanzo comincia con ben cinque passi biblici: Genesi, I, 21; Giobbe, XLI, 24; Giona, I, 17; Salmi, CIV, 26 e Isaia, XXVII, 1, tre dei quali, cioè il secondo, il quarto e il quinto, menzionano esplicitamente il leviatano. Tutto ciò, com’è evidente, apre la strada a un’interpretazione in chiave messianica, sacrificale ed escatologica dell’intero romanzo, che lo stesso D’Arrigo suggerisce a più riprese anche in contesti che non riguardano direttamente l’identificazione dell’Orca con il leviatano ebraico. Una lettura del genere, comunque, deve passare attraverso un parallelismo tra ‘Ndrja, eroe-messia sacrificale e redentore, e l’Orca, mostro redento e pertanto destinato al pasto totemico con cui la comunità dei ‘giusti’ celebra la ritrovata comunione con Dio. E su questo parallelismo il testo lascia pochi dubbi. Inoltre, nel suo addio alla “zita” Marosa, egli offre alla ragazza, che sta ricamando il suo cuore in nero su uno sfondo bianco, il petto nudo per farselo ricamare sulla pelle sopra quello vero (in una posa «che fatalmente ricordava … la posa dell’Ecce Homo», p. 1023), e quando la stringe al petto le sue lacrime gli scendono sul petto «come gli lacrimasse il costato a lui» (p. 1024). Con questo D’Arrigo crea un rapporto diretto con l’Orca, la quale, quando è trainata verso la riva legata per i denti, mostra agli sbigottiti pellisquadre il suo ultimo mistero: una macchia bianca a forma di cuore sul petto nero, «come un gigantesco neo di desio, una gigantesca insoddisfatta voglia d’orca incinta, stampata sulla pelle del figlio» (p. 1015). Infine, come l’Orca, che, oltre a donare ai pescatori la cicirella, vitale per la loro alimentazione fino a quel momento quasi esclusivamente a base di fave secche (è il cibo per cavalli abbandonato dai fascisti in fuga dalla Sicilia dopo lo sbarco degli alleati), finisce per offrire loro in pasto tutto il suo corpo, ‘Ndrja dà tutto se stesso e poi anche la sua stessa vita per guadagnare quelle mille lire utili all’acquisto della barca, arca di salvezza per l’economia della comunità, dopo essersi prodigato per ottenere, con l’intercessione del Maltese, che gli inglesi arenassero l’animale morto, e il romanzo si chiude con lui morto nella sua barca-bara portata come un’arca dell’alleanza ai cariddoti, che nel frattempo stanno consumando il banchetto dei ‘giusti’ attorno al corpo dell’Orca.

Maria Allo

Fonti

Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, introduzione di Giuseppe Pontiggia, Mondadori, 1982 (1975)

Carmen Micalizzi, “L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea – A.A. 2002-2003

http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma-puntate/mare-nostrum-stretto-di-messina/39232/default.aspx

http://www.gazzettadelsud.it/news/spettacoli—cultura/17492/Quei-mostri-letterari–di-Stefano-D-Arrigo-.html

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C’è modo e modo d’essere madre

14 domenica Mag 2017

Posted by LiminaMundi in COSTUME E SOCIETA', Grandi Donne, I meandri della psiche, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Euripide, madre, Medea, Pier Paolo Pasolini, poesia, Rainer Maria Rilke, Salvatore Di Giacomo, Seneca, Trilussa

5 voci poetiche, 5 modi diversi d’essere madri: dal paradiso alla dannazione

Quann’ero ragazzino

Quann’ero ragazzino, mamma mia me diceva:
“Ricordate, fijolo, quanno te senti veramente solo
tu prova a recità ‘n’Ave Maria.
L’anima tua da sola spicca er volo
e se solleva come pe’ maggìa”.
Ormai so’vecchio, er tempo m’è volato,
da un pezzo s’è addormita la vecchietta,
ma quer consijo nun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo
io prego la Madonna benedetta
e l’anima da sola pija er volo.

Trilussa

A’ Mamma

Chi tene a mamma
è ricche e nun ‘o sape;
chi tene a mamma
è felice e nun ll’apprezza
pecchè ll’ammore ‘e mamma
è ‘na ricchezza
è comme ‘o mare
ca nun fernesce maje.
Pure ll’omme cchiù triste e malamente
è ancora bbuon si vò bbene ‘a mamma.
A mamma tutto te dà,
niente te cerca
e si te vede ‘e chiagnere
senza sapè ‘o pecchè…
t’a stregne ‘mpiette
e chiagne ‘nsieme a tè!

Salvatore Di Giacomo

Tu non sei più vicina a Dio

Tu non sei più vicina a Dio di noi;
siamo lontani tutti.
Ma tu hai stupende, benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu,
tu sei la pianta.

Rainer Maria Rilke

Supplica a mia madre

E’ difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile.

Pier Paolo Pasolini

Medèa:

Amiche, è fermo il mio disegno: i figli,
prima ch’io possa, uccidere, e lontano
fuggir da questa terra, e non concedere
che per l’indugio mio muoiano i figli
di piú nemica mano. è ch’essi muoiano
ferma necessità. Poiché bisogna,
io che li generai li ucciderò.
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile
non far ciò che bisogna, anche se orriblle.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei figli pensar che d’ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.
(Entra nella reggia)

CORO: Strofe prima
O Terra, o fulgidissimo
raggio del Sole, a questo suol volgetevi,
mirate questa sciagurata femmina,
prima che avventi l’impeto
della morte sanguinea
sui figli suoi. Dell’aurea progenie
tua son germoglio; ed uom che versi l’ícore
d’un Dio, dei Numi la vendetta pròvoca.
Ma tu reggila, frenala,
raggio divin: tu scaccia dalla casa
la sanguinaria Erinni, cui lo spirito
della vendetta invasa.

Antistrofe prima

Invano, dunque, i pargoli
generasti alla luce: spersi ed írriti
i travagli materni andaron, misera,
che l’inospite tramite
delle azzurre Simplègadi
abbandonasti. Or, che t’invade l’animo
cura sí grave? A che, furia d’eccidio
segue a furia d’eccidio? Il consanguineo
contagio infesto agli uomini,
pena al misfatto ugual sovressi i rei
desta, che su le lor case precipita,
per voler degli Dei.

da “Medea” di Euripide trad. Ettore Romagnoli

 

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La fatalità epica di Vittorio Bodini

31 venerdì Mar 2017

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI, Uomini eccellenti

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Tu non conosci il Sud, le case di calce

da cui uscivamo al sole come numeri

dalla faccia d’un dado.

(La luna dei Borboni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1952)

 

Vittorio Bodini è stato uno dei maggiori scrittori e poeti salentini del Novecento. Stimato ma guardato con diffidenza dagli stessi leccesi, ha sempre intrattenuto un rapporto controverso con la propria terra, fatto di invettive, partenze, ritorni, addii, una passione che avvicina e allontana, costruisce e distrugge. Nel secondo dopoguerra, che si parlasse di Sud non era una novità assoluta, data l’attenzione rivolta dal nostro paese al problema meridionale: già Quasimodo, Sinisgalli, Gatto, Levi, Jovine avevano trattato il Meridione. Il fatto però che si parlasse di Salento, un paese “così sgradito da doverlo amare” e di sentire di averlo quasi inventato, come lui stesso rivendicò in una lettera del 1950 indirizzata a Oreste Macrì, costituisce certamente una novità. Pur essendo nato a Bari nel 1914, Bodini era leccese, per famiglia e formazione. A tre anni, dopo la morte del padre, fu condotto nel capoluogo salentino, qui frequentò le scuole fino al conseguimento della maturità classica presso il Ginnasio-Liceo “G. Palmieri”. Introversione e pessimismo caratterizzarono sempre il suo animo: il fatto di aver perso il padre in tenera età influì notevolmente sulla sua crescita.

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Euphorbia splendens

08 domenica Mag 2016

Posted by Loredana Semantica in COSTUME E SOCIETA', La società, PERSONAGGI, Uomini eccellenti

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festa della mamma, Loredana Semantica, Sadiq Khan, sindaco di Londra

il_570xN.988397625_qdeqOggi è la festa della mamma, ma io non scriverò un articolo per le mamme del mondo, per lodare quell’istinto che è un misto d’amore e protezione innato in ogni femmina, anzi confesso che quest’anno ho trovato particolarmente insulsi tutti gli articoli e le immagini stucchevoli dedicate alla festa mamma.

Stucchevoli le rose, sdolcinate le margherite, false e ipocrite le nuvolette rosa, e  la scritta in azzurro brillante o verde fosforescente “Happy mother day”; vacue tutte le immagini di mucche col vitellino, di uccelli con il pulcino, la gatta con il micino, la pecora col suo agnellino, e poi scimmie, leoni, giraffe ed elefanti, tutte mamme mammifere, coi cuccioli sotto l’ala o la zampa, agguantati con la bocca, trasportati sulla schiena o aggrappati sotto la pancia. Continua a leggere →

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INTERVISTA n°2

07 sabato Mag 2016

Posted by alefanti in Interviste, Poesie, Uomini eccellenti

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Toccarne la carne, lasciarsene toccare
per conoscere meglio un grande poeta
è un modo certamente originale.
Quello che so – che non sta sui libri –
neppure però lo si può raccontare.
Forse lo leggerai sulla mia faccia
la prossima volta che mi incontri.

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“Sono momenti belli: c’è silenzio” ELIO PAGLIARANI

05 giovedì Mag 2016

Posted by maria allo in Appunti letterari, ARTI VISIVE, Cinema, Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, PERSONAGGI, Poesie, SPETTACOLO, Uomini eccellenti

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Cetta Petrollo Pagliarani, Dino Ignani, Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Maria Allo

Elio Pagliarani ( photo di Dino Ignani)

elio_pagliarani2

La ragazza Carla è un poemetto narrativo di Elio Pagliarani che apparve per la prima volta sulla rivista “Il Menabò” nel 1960.
E’ diviso in tre parti, ulteriormente suddivise al loro interno in sottoparti. Definito dall’autore “racconto in versi”, il testo ripercorre in modi prosastici e narrativi la vicenda di Carla Dondi, giovane stenodattilografa che trova impiego in una ditta milanese. Continua a leggere →

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Con la Puglia nel cuore

29 venerdì Apr 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Grandi Donne, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI

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Deborah Mega, L'ora di tutti, Maria Corti

cort01

Per una traccia di sentiero, segnata da innumerevoli piedi nudi fra le erbe e le canne della valle dell’Idro, le donne scendono all’alba a Otranto con ceste piene di cicoria e di caciotte; hanno grandi occhi neri, capelli lucidi, aggrovigliati, andatura fiera. Mentre le piante dei piedi si espandono, illese, sul sentiero, esse guardano con la pupilla fissa in direzione del mare, uno sguardo asciutto, ereditato da generazioni di otrantini vissuti in attesa dello scirocco e della tramontana, per regolare su di essi pensieri e faccende. Arrivate alle mura della città, depositano cicoria e caciotte ai piedi della torre di Alfonso d’Aragona, e d’un tratto si mettono a urlare; come invasate da un improvviso oracolo, si scuotono dentro le nere vesti e gridano in faccia al passante : “Cicorie fresche, cicorie rizze !” Continua a leggere →

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