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Italo Calvino y Raymond Queneau

Italo Calvino, anche se noto soprattutto per I fiori blu (1967) di Raymond Queneau, come traduttore esordisce sin dall’inizio della sua carriera letteraria.[1] Secondo Federico Federici il primo tentativo traduttivo dello scrittore ligure risale già agli anni Quaranta quando Calvino, spronato da Elio Vittorini, traduce alcuni capitoli di Lord Jim di Joseph Conrad. Nel suo processo creativo di scrittura Calvino ha esercitato sempre una grande libertà di interpretazione, di visione e di infinite possibilità combinatorie fondate non solo su un’approfondita conoscenza degli artisti e delle opere antiche e moderne, ma anche sulla sua attività di traduttore che, come dimostrano d’altronde tanti scritti di Calvino stesso, occupa un posto centrale nella sua carriera e influisce fortemente anche sulla sua scrittura. Nel caleidoscopio variare di temi e storie della produzione narrativa di Italo Calvino, a rimanere immutato infatti è l’aspetto di un intenso e difficile lavorio stilistico, orientato verso una straordinaria nitidezza di tono e di lessico. Secondo Natalia Ginzburg, il suo stile era, fin dall’inizio, lineare e limpido; divenne più tardi, nel corso degli anni, un puro cristallo.

Calvino nella sua casa di Parigi anni ’70

La traduzione è dunque un mestiere che s’impara ma a sua volta è anche un mestiere che insegna a scrivere, osserva lo scrittore ligure in una lettera a Domenico D’Oria del 5 dicembre del 1980 (Calvino 2000: 1442-1443).[2] “Tradurre è il vero modo di leggere un testo”, sostiene e continua: “Per un autore il riflettere sulla traduzione d’un proprio testo, il discutere col traduttore, è il vero modo di leggere se stesso, di capire bene cosa ha scritto e perché” (Calvino 2007c: 1827). Credeva profondamente nel ruolo del traduttore, degno, a suo avviso, di apporre anche la sua firma sulla copertina della nuova versione, come credeva in una proficua collaborazione dell’autore con il suo traduttore[3].

Calvino si accinse a tradurre I fiori blu, pubblicati nel 1965, (tra il 1966 e il 1967, come attestano due brevi manoscritti conservati presso gli Archivi dell’editore Einaudi). La ritrosia dichiarata a chiare lettere da Calvino, (ben più noto per la sua attività di romanziere che di traduttore), è plausibile e giustificata ma viene spontaneo chiedersi, a questo punto: perché tradurre un testo così complesso come Les Fleurs bleues, multiforme, composto da mille strati diversi, ricco di sfaccettature linguistiche, di citazioni letterarie, di riferimenti non sempre immediati ai più svariati ambiti dello scibile umano? Una prima risposta ce la offre lo stesso Calvino, in una preziosa Nota del traduttore:[4] “Appena presi a leggere il romanzo, pensai subito: «È intraducibile!» e il piacere continuo della lettura non poteva separarsi dalla preoccupazione editoriale, di prevedere cosa avrebbe reso questo testo in una traduzione dove non solo i giochi di parole sarebbero state necessariamente eluse o appiattite e il tessuto di intenzioni allusioni ammicchi si sarebbe infeltrito, ma anche il piglio ora scoppiettante ora svagato si sarebbe intorpidito. Un problema che si ripropone negli stessi termini per ogni libro di Queneau, ma questa volta sentii subito che in qualche modo il libro cercava di coinvolgermi nei suoi problemi, mi tirava per il lembo della giacca, mi chiedeva di non abbandonarlo alla sua sorte, e nello stesso tempo mi lanciava una sfida, mi provocava a un duello tutto finte e colpi di sorpresa. Fu così che mi decisi a provare”. Uno dei principali meriti di Calvino, infatti, è stato quello di non fermarsi mai alle mete acquisite. Il suo cammino mostra un continuo desiderio di battere nuove strade, di sperimentare soluzioni diverse. Nelle sue Lezioni americane scriveva: [5]“La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”. Queneau era certo una delle passioni di Calvino, il suo vero, ultimo maestro, come scrive Silvio Perrella[6], e lo stesso Calvino sosteneva, in un testo raccolto negli archivi Einaudi, che Queneau è «irripetibile». Da un punto di vista prettamente letterario, gli ultimi anni del Novecento sono stati senz’altro caratterizzati da una notevole presenza di scrittori comici. Gli esempi sono numerosi e i cosiddetti “narratori postmoderni” (Pynchon, Vonnegut, De Lillo, Coover ecc.) sono i prototipi di questa tendenza. Lo humour di Raymond Queneau è un ingrediente stilistico ben calibrato e contribuisce a rendere la scrittura più gradevole e, in un certo senso, più personale e distinguibile. Del resto il pubblico più attento e competente cerca, in primo luogo, una scrittura non banale e non prevedibile. Ne “I fiori blu “, rispetto a molte opere di Calvino, sono rintracciabili poi affinità di temi, di scelte letterarie, linguistiche, di concezioni del rapporto uomo/storia e dopo quarant’anni, la freschezza e il brio del suo umorismo, “tutto di parola”, basato quasi esclusivamente su calembour e giochi linguistici sembra non risentire dello scorrere degli anni e continua a divertirci e in qualche caso a farci riflettere. Queneau si serve dei giochi di parola per verificare le infinite possibilità del mezzo linguistico. La gamma degli espedienti e delle soluzioni è pressoché infinita: giochi di parola sui luoghi comuni e sui nomi propri, paronomasie, puns, neologismi, assonanze, rime, citazioni ecc. Ma Queneau non è un innocuo e funambulo delle parole perché colpisce e ridicolizza il linguaggio, il nucleo dell’essere e il pensiero dell’uomo perciò nella «Traduzione inventiva», (così  definisce la sua versione italiana del testo francese) Calvino realizza lo sforzo più intelligente per mutare e aprire a nuove strade anche l’opera di Queneau. Nella nota pubblicata assieme al romanzo, Calvino ha raccontato la difficoltà di rendere in italiano lo scoppiettante testo di Queneau, il cui stile, ce ne accorgiamo anche dalla traduzione del celebre incipit, è un fitto tessuto di giochi di parole, allusioni, parodie: “Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevan calvados”. Nei ventuno capitoli de I Fiori blu si racconta una storia paradossale: un doppio sogno dei protagonisti, Cidrolin, un ozioso parigino del Novecento che non si considera protagonista della sua epoca e il Duca D’Auge, nobile medievale che è solo un osservatore della Storia confusa. I due si incontrano, dopo essersi reciprocamente sognati, condividono la stessa filosofia di vita e non riescono a comprendere entrambi la filosofia dei giovani e avventurosi campeggiatori(hippies). Al lettore poco attento i Fiori blu può sembrare un testo superficiale e l’estrema leggerezza della scrittura provoca senz’altro un moto di riso nel lettore, tuttavia la contaminazione delle lingue, (i colembours a citazioni parodiche e neologismi a contrasti di registro lessicale) offrono degli spunti per interrogarsi sulla lingua e sulla comunicazione. Gli uomini comunicano veramente o fingono di comunicare? Quanto è affidabile ed efficace il codice linguistico che utilizziamo? Queneau a suo modo, risponde che le parole, prima di essere significato e sostanza sono oggetti, significanti con un suono che può essere alterato o abbinato ad altri suoni. È un modo di dire che la comunicazione è una pura illusione, perché l’unico fattore oggettivo e innegabile del linguaggio è il suono delle parole. In un certo senso, è un’ulteriore prova dell’incomunicabilità a cui è condannato l’uomo moderno. Questa particolare concezione della lingua risale a Jacques Lacan che rielabora a sua volta la tradizionale concezione freudiana sostenendo che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Pertanto quando affiora il linguaggio dell’inconscio nei sogni, nei lapsus, nei motti umoristici, è piuttosto frequente che le parole vengano abbinate soltanto sulla base del loro suono. È evidente dunque che l’attualità fecondissima della ricerca del Calvino narratore saggista e traduttore sta nella sua consapevolezza critica sempre proiettata in avanti per creare un mezzo comunicativo più adeguato al suo ideale letterario.

Maria Allo


[1] Federico Federici menziona la traduzione di Conrad in due occasioni, la prima volta nel saggio intitolato Italo Calvino comincia a tradurre Raymond Queneau: la traduzione crea-tiva di un incipit, poi nel libro Translation as Stylistic Evolution: Italo Calvino CreativeTranslator of Raymond Queneau.

[2]  CALVINO, (2007c): “Tradurre è il vero modo di leggere un testo”, in ID.,Saggi 1945-1985, a cura di BARENGHI, M., vol. 2, Milano, pp. 1825-1831. 

[3] Si legga a questo proposito il saggio Tradurre è il vero modo di leggere un testo. Convegno sulla traduzione, in «Bollettino di informazione». XXXII, Nuova serie, 3, settembre-dicembre 1985, pp. 59-63, poi in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, pp. 1825-1831, in particolare pp. 1826-1829.

[4] CALVINO, Nota del traduttore in R. QUENEAU, I fiori blu, tr. italiana di I. CALVINO, Torino,Einaudi (collana «Scrittori tradotti da scrittori»), 1967, pp. 265-274

[5] Si legga a questo proposito il saggio Tradurre è il vero modo di leggere un testo. Convegno sulla traduzione, in «Bollettino di informazione». XXXII, Nuova serie, 3, settembre-dicembre 1985, pp. 59-63, poi in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, pp. 1825-1831, in particolare pp. 1826-1829.

[6] Silvio Perrella, Calvino, Bari, Laterza, 2001, p. 105.