Solitude è il titolo. Solitude è il sentimento dentro questo viaggio tortuoso nelle strettoie del verso? Versi tranciati quasi a metà dal voler dire qualcosa oltre a quanto cominciato; ma è per solitudine che finiscono in una scarpata dell’immaginario? Non è un’abbottonata arrendevolezza, non una malleabilità al volere di questo male sottile, ma un’alienazione che si contorce nella presa coscienza del proprio stato, un violento dibattersi in fondo al buio tra l’essere che soffre le sue metamorfosi e l’essere a cui è stata data una faccia sola per il mondo della luce. Allora questa raccolta è una battaglia di identità, una guerra di molteplici mondi verso cui allineiamo le nostre apparenze per ogni scossa d’amore, dolore, felicità che prendiamo dall’esistenza. In questo ecosistema che ci fa cresce nella mutabilità si consuma il delitto della Raffin di voler stendere i suoi versi sulla nostra condizione di sordi sconosciuti. La raccolta si intitola Solitude, Eretica edizioni, 2022.
Emilio Capaccio
* Uccidimi ti prego Ho fatto la guerra Con pentole
Mestolo e coperchi C’è anche chi mi ha sequestrata Di domenica Sul divano Col mio vestito azzurro Mi sono ricordata Del carro siciliano della nonna Coi cavalli bianchi Volevo fosse vero E mi avrebbe portato fino in piazza Uccidimi ti prego Non ne ho colpa O tienimi nell’ombra Se ho voluto danzare Con le perle della mamma
* Tutte le parole Che non mi hai mai detto Le ho cercate sulle bocche Di qualche sconosciuto Così si rompe un orologio Così va riparato Tutto il movimento Del mio tempo interiore La nube voragine e rivolta Scandiva la mia natura Scandito dalla tua identità Si vive ritmici Sai Si vive di ritmi primordiali E io ero sorda Non sentivo il mio Dov’è? Perché non sento? Tu non mi hai parlato Aspettavo una parola Per riconoscermi Al di fuori di me Così muto Mi è parso tutto il mondo Dopo Mi è parso vuoto Tutto il mio mondo Dentro
* Nel silenzio Di un pensiero denso Di un altro sospeso silenzio Il piede
Salendo un gradino Piantava coltelli d’argento Il mio amore se n’era andato Piantava coltelli d’argento Non sfiorito Non appassito Se n’era andato Prima c’era poi Nemmeno una traccia E me ne sono accorta Mentre arrotolavo Corde di cotone Il mio amore Per dire amore Sentendo amore Intorno al collo Piantava coltelli d’argento E mi liberava E a me felice Interessava solo Della primavera Intorno al collo Del calore sul viso Di quel sole Che all’improvviso Riconosceva Persino me
Alessandra Raffin è psicologa esperta in neuropsicologia clinica e terapia autogena. Vive e lavora tra Italia e UK. La poesia è parte integrante della sua vita da sempre. Solitude è la sua prima pubblicazione.
L’esordio poetico la prof. Di Schiena lo fa con l’Amore. Declama all’Amore, pacatamente e solennemente, con un timbro seducente di vestale delle Murge, spesso in forma sintetica e simbolica. Ma è Lui il grand’ospite della sala cerimonia del cuore dell’autrice. È lui che ha la pelle odorosa di pietra carsica e una corporeità sublime e dolorosa, come la carnalità di certi cladodi pungenti, di certi frutti tumidi e lacrimosi. È lui che ha le labbra morbide del bacio e l’unghia tagliente del graffio. È lui che è doppia pozione: antidoto di solitudine e fiele di disperazione. La raccolta si intitola: “Un bacio e un graffio”, Edizioni Ensemble, 2023, postfazione di Pasquale Vitagliano.
Emilio Capaccio
Magma dei sentimenti
C’è molto da tremare per riportare a galla Il magma dei sentimenti. E dire fuori dai denti che non si può amare senza armi pari. A cosa giova vivere in pena quando i corpi vogliono luce e brezza di primavera? Ho scelto il tormento, il filo spinato per adorare chi non è nato dentro me.
*
Irrisolto
L’amore mio per te è il solito irrisolto. La fuga, la rincorsa verso l’inafferrabile. Storia di cardi spinosi, nuvole bianche, crepe e vento scomposto. Troverò pace quando incrocerò le braccia supina e rigida non pulserò più
*
Ti amerò in silenzio. Non busserò non lo dirò a nessuno. Ti chiuderò a chiave nel mio cuore E mi addormenterò. Passeranno i morti a ferrare la serratura.
*
Cambio pelle tutte le volte che striscio di dolore
*
Ti restituirò l’attesa le caramelle alla menta forte e i chili di troppo. Tratterrò le chiavi dell’aorta principale la meraviglia e la premura. Mi vedrai in copertina o su un altare a dispensare baci come ti piace.
*
Conto i minuti nell’attesa di vederti. Sempre nuovo è il giorno con le tue mani sui miei fianchi. Porti ossigeno rozzo e primitivo io luce filtrata, avamposto dell’amore.
Vincenza Di Schiena (Andria, 1975), insegnante, con un lungo trascorso di impegno civile, sociale e culturale nel suo territorio. Ha pubblicato alcuni racconti nel Repertorio dei pazzi della città di Andria (Marcos y Marcos, 2016), volume a cura di Paolo Nori. Sue poesie sono state pubblicate su «Verso libero», «Collettivo Culturale TuttoMondo» e nell’antologia Transiti poetici.
S’immagini un giorno di brezza primaverile che cammina pigro nelle ore. I piedi nudi scivolano sul manto mattutino di camomilla selvatica e rosolacci. S’immagini l’orchestra policromatica degli uccelli dei boschi maceratesi dipanare la sua armonica quiete sonora. S’immagini la fanciulla sdraiata sul fianco nell’erba; la fanciulla dai riccioli sediziosi sotto il cappello col nastro annodato; la fanciulla che parla come dipinge, che scrive come colora. La poesia della Luzi è una lentissima giornata primaverile. Un’interminabile confessione d’amore agli elementi più irriducibili che ammobiliano la vita umana; un’invocazione ai numeri primi della natura: la fresca terra, la luce divina, la luna nuda, con la sua corte di ammiratori celesti, il garrulo popolo dei fiori e quello soprelevato degli uccelli; e più su, su tutto e dentro ogni riparo, Dio sereno e mattiniero, nella poesia della Luzi. La raccolta s’intitola: “Come un fiore in un crepaccio”, Giuliano Ladolfi Editore, 2023, con prefazione di Maurizio Minnucci; ed è così che viene a prendermi; ed è così che viene agli occhi, per farmi deliziare le evasioni, per portarmi tutto pieno di vergogna e raffazzonato accanto alla fanciulla dal cappello col nastro annodato.
Emilio Capaccio
La tenerezza delle mani
Sembrano così lontani adesso i giorni dei fiordalisi gli occhi fermi come laghi sussurravano parole l’amore sembrava un gioco inconsapevoli e leggeri si assaggiava l’infinito.
*
Il silenzio dei primi uomini
Il mattino ha profumo di fiori sconosciuti alla notte. Una formica cammina portando il suo peso i gatti si scambiano il cibo le lavande occhieggiano dai loro viola. Qualcuno ha tagliato i rami per il fuoco di domani. Gli uccelli cantano dai loro alberi intorno c’è il silenzio dei primi uomini. Un bocciolo rosso fa capolino fra l’erba
– come gli batte forte il cuore.
*
Nel silenzio ottobrino
cammino nell’erba bagnata e fredda il gatto la lecca la prima luce è già piena di Dio è la forza inascoltata che abbiamo dentro da sempre
la morte è un principio di sonno o viceversa dormiamo quando non abbiamo null’altro da fare
– prendimi adesso, ma concedimi ancora un sogno
mi scaldo le mani col fiato passo il calore alle guance, sorrido più divertita o commossa, non so
quei gesti imparati da bambini selvaggi o veri uomini sono sempre stati lì, proprio come la luce a salvarci.
*
Siamo io e te
a guardarci in questa notte che allinea i brividi quante memorie e sospiri – Luna – custoditi nelle sembianze di un candido viso. Le nuvole ti sono damigelle, Marte timido amante, lontano. Come donna mi specchio nelle tue fasi e rotondità
– arcana complicità che ammicca nel silenzio inviolato.
*
Non aspettarsi niente è un fiore
aspettarsi qualcosa da qualcuno è umano una speranza che sa di latte ingenuo desiderio una conferma
un limite
quando abbiamo smesso di credere nell’impossibile? Guardare il cielo e affidarci all’Universo al viso sorridente di un bambino di un fiore.
Luciana Luzi, maceratese, classe 1967, è artista poliedrica e appassionata; fin dall’infanzia ama l’arte in tutte le sue manifestazioni. Nell’età adulta sperimenta in modo più impegnativo non solo le arti pittoriche e il fumetto, frequentando corsi professionali (in particolare la Summer School di Illustrazione Editoriale Ars in Fabula di Macerata), ma anche la scrittura, in particolare di poesie, per le quali riceve segnalazioni di merito per la “Poesia in Lingua” in diversi concorsi letterari “Città di Grottammare”, indetti dall’Associazione “Pelasgo 968”. Alcune sue composizioni sono recensite in blog e riviste letterarie online e cartacee. Attualmente si sta dedicando al ruolo di assistente d’infanzia.
L’amabile poetessa Bellini ha un pennino dall’inchiostro un po’ magico e un po’ amaro. Coll’ombrello di Mary Poppins, il guardo vispo e un gesto svagato di saluto, svolazza di qua e di là per i climi delle stanze che si fanno in questa scorreria di versi. Scaffali illuminati dal volto falotico della luna; libri e giocattoli dentro bauli di pelle alla rinfusa nel sottoscala; dimore assettate di vecchi professori; ricordi che vanno ad accoccolarsi tra le stelle; sua altezza, la Talpa, col consorte, il Leprotto; i cugini reali, il Gatto, e sua maestà, la Gazza, e tutta la simbolica fauna del bosco. Favole che s’animano a imperitura levità, ma non con frivolezza, dalla bacchetta di briosa bibliotecaria di mirabilia. La sua wunderkammer è quest’opera, e apre le porte ai visitatori appena per il tempo fatato della lettura. La sua wunderkammer si chiama: “Stanza d’inverno e altre poesie”, Book Editore, 2021, con una nota di Alfredo Luzi.
Emilio Capaccio
Antico compleanno
La mamma aveva gli occhi neri e neri i suoi capelli, docili soltanto al vento. Scrutava con quegli occhi i visi dei suoi piccoli alunni, sorrideva a mio padre nelle feste, contemplava laghi, monti, panorami e talvolta anche il mare. E mi restava accanto, quel suo sguardo lucente d’ossidiana, silente compagnia quando non c’era.
*
Le case dei vecchi professori
Le case dei vecchi professori, con i libri ordinati sopra gli scaffali, con i libri in punta di piedi al davanzale, con i libri in poltrona a occupare gli spazî del tempo senza ore, i giorni lunghi come le stagioni, le alterne apparizioni di luce e buio alle finestre, all’ospite tendono la mano. Le case dei vecchi professori hanno l’odore dell’inchiostro anche quando dalla scrivania ammicca l’occhio di ghiaccio del computer. Le case dei vecchi professori taciturne reclinano il capo lentamente, come fiori sorpresi dal vento della sera.
*
Notte
La notte è stanca perché ha perduto il buio, il misericordioso margine d’ombra sparso sul velluto dell’oblio. Ma non pensate, bambini, alla luna, né al latte di stelle o alle comete. Non pensate alle luci. Questo chiarore di polvere rossa arroventata s’innalza dal vicino HUB. E il boato che s’ode non è tuono, ma scoppio di motori (lo sa perfino il gatto che ronfa ben nascosto sotto un telo).
*
Due
I vecchi giocattoli, quelli del baule in fondo alle scale, fremono. Sentono che è giunta la stagione delle notti lunghe, dei sogni già accesi all’uscita di scuola, del pane, burro e zucchero. I vecchi giocattoli vorrebbero alzare il coperchio e dire a tutti che i bambini sono sempre buoni.
*
I lupi
Dicono che da queste parti, tra il Ticino, l’Agogna e la baraggia, siano tornati i lupi, forse dal medioevo, forse dall’altro mondo. Pare che la gente qui, dura e selvaggia, li tema e già s’appresti a un’offensiva (la stessa che inferocisce i rivali umani). E tuttavia il traffico scorre, gli aerei decollano come dure raffiche sul cielo, le ruspe scavano e nei condotti oscuri si riversano i consueti veleni. Tutto va bene per gli umani, tutto tranne i lupi.
*
Eleonora Bellini, bibliotecaria di lungo corso, scrittrice e traduttrice, vive nel Piemonte Orientale. Per la sua biblioteca ha ideato e curato, negli anni, progetti di invito alla lettura, mostre d’arte, didattiche e documentarie, itinerari multiculturali tra i libri, incontri con scrittori. Segretaria e organizzatrice del premio nazionale di Poesia e Traduzione Poetica “Achille Marazza” (1982-2018); componente di giuria dei concorsi letterari “La casa della Fantasia” (2003-2018) e “Antonio Cerruti – Ariodante Marianni” (2008-2017). Collabora e ha collaborato a periodici e riviste (tra gli altri “Quinta Generazione”, “L’immaginazione”, “Verbanus”, “Fermenti”, “Capoverso”, “Il Ponte”, “Il Sempione”, “Pagine giovani”, “5Xché”) e a siti letterari (tra gli altri “Le letture di don Chisciotte”, “Mangialibri”). Ha pubblicato opere di genere diverso:
Poesia: Metadizionario, Lalli 1980; Note a Margine, Premio Albisola Giovani – Seledizioni 1980; Tracce, con prefazione di Vico Faggi, Sabatelli – Quaderni di Resine 1993; Agenda feriale, Premio Rhegium Julii 1997; I nemici svegli, con presentazione di Ariodante Marianni, ArtEuropa, 2004; Il rumore dei treni, con nota di Ariodante Marianni, Book Editore 2007; Le ceneri del poeta, Orizzonti Meridionali 2011; Stanze d’inverno. Non solo liriche, La Parada 2012; ριζώματα radici. Poesie sui 4 elementi, Youcanprint/ Mimesis.me 2014; Prove d’autunno, con presentazione di Fabio Scotto, Puntoacapo editrice 2018; Legno estivo, Youcanprint/ Mimesis.me 2019.
Narrativa: Con il motore al minimo, EOS 1999; Il calendario dell’avvento, R. Vecchi 1999; La stella sul tetto, Creativi Associati 2017; La casa dei libri, Creativi Associati 2017.
Traduzioni: J. Daniélou, Diari spirituali, Piemme 1998; L. M. Sinistrari, Sortilegium, in “Quaderni Borgomaneresi/2–1999”; A. de Lamartine, Ditemi il vostro segreto. Carteggio con Giulia di Barolo, San Paolo 2000; A. Cerruti, Tre poesie, Borgo Ticino 2000 e Poesie religiose in “Quaderni Borgomaneresi/4-2001”; W. A. Stuart, Sketches, in “Quaderni Borgomaneresi/8-2005”; L. Basset, Il desiderio di voltare pagina, San Paolo 2008; M. Quesnel, La saggezza cristiana, San Paolo 2008; R. Stainville, Grande male – Medz Yeghern: Turchia 1909, un testimone del massacro degli Armeni. San Paolo 2008; L. Basset, La morte fa paura agli uomini non a Dio, San Paolo 2009.
Altri testi: I bambini e la poesia, Borgomanero 1986; Finché ci sia respiro, Interlinea 1996; Laboratorio per Rodari, Fondazione Marazza 1991; La Madonna della Bocciola e i culti mariani del lago d’Orta, con Carlo Carena, Comune di Ameno 1993; Borgo Ticino e Divignano. Storie di gente, luoghi di memoria, E. Bellini/D. Tessari, EOS 1996; Pagina picta. Il caso, l’allegoria, la volontà nella pittura di Ariodante Marianni, Colophon Libri 2005; Dialogo a colori. Rodari e Maulini in biblioteca, Fondazione Marazza 2010; La poesia e la vita. Ariodante Marianni dieci anni dopo, Fermenti 2017.
Bambini e ragazzi: Piccoli Libri, Fondazione Marazza 2000; I sei giorni del sole. La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri nel racconto di un bambino, Laser 2000; Piccole Rime, Fondazione Marazza 2001; La Casa della Fantasia, Fondazione Marazza 2002; Una scatola piena di treni, margherite, triangoli, Edizioni I fiori di campo 2002; Un anno nella casa della fantasia, Fondazione Marazza 2003; Un anno nella casa della fantasia 2, Fondazione Marazza 2004; I laboratori della fantasia, Fondazione Marazza 2005; Pensieri Rime Colori per la Casa della Fantasia, Fondazione Marazza 2006; I laboratori della Fantasia 2 , Fondazione Marazza 2007; Un sacco di libri e altre cose colorate, Fondazione Marazza 2008; Vivilibro, Fondazione Marazza 2009; Ninna nanna per una pecorella, Topipittori 2009 (tradotto in corso, francese e spagnolo e in simboli WLS per Uovonero Edizioni 2019); La storia che non c’era in Unduetrestella 3/2009; Là nel bosco in Unduetrestella 1/2010; La capra, la cicala e l’usignolo, in Unduetrestella 2/2010; Specchiarsi, Fondazione Marazza 2010; Fuori dal nido, Nonsoloparole 2003; L’elefante e la formica. Gandhi nelle lettere del nonno, Nonsoloparole 2016; Adalgiso e il mistero del maniero, La Ruota Edizioni 2018; La casa in riva al mare, Fabbrica dei segni 2019; Casa di luna, Edizioni Il Ciliegio 2019; Il quaderno di Lisa, Antipodes edizioni 2021; Non dire il tuo nome, Edizioni Il Ciliegio 2021.
La finestra socchiusa contiene un volto sopra il campo del mare. I capelli vaghi accompagnano il tenero ritmo del mare. Non ci sono ricordi su questo viso. Solo un’ombra fuggevole, come di nube. L’ombra è umida e dolce come la sabbia di una cavità intatta, sotto il crepuscolo. Non ci sono ricordi. Solo un sussurro che è la voce del mare fatta ricordo. Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Mattino di Cesare Pavese
Mattino e sera di Jon Fosse La nave di Teseo, 2019
Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese nato nel 1959, «Per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile» è stato il vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 2023. Per meriti letterari ha avuto l’onore di essere ospitato, per un certo periodo di tempo, a Oslo nella residenza reale di Grotten. Vincitore di moltissimi premi, tra i quali il prestigioso Premio Internazionale Ibsenil Nynorsk Literature Prize, lo Swedish Academy’s Nordista Pris, il Premio Ubu, l’European Prize for Literature, il premio Willy Brandt, è stato tradotto in numerose lingue. Oltre a testi riguardanti il teatro ha pubblicato in Italia i romanzi Melancholia; Insonni; Mattino e sera (tradotto da Margherita Podestà Heir); L’altro nome. Settologia. Vol. 1-2; Io è un altro. Settologia. Vol. 3-5.
Matino e lasera è uscito nel 2019 ed è edito dalla Nave di Teseo. Il mattino e la sera sono il principio e la fine di ogni giorno, anche la sera non rappresenta la fine del tutto poiché dopo il buio torna a splendere la luce, così ciclicamente a ripetere.
La storia è semplice ed è la storia di tutti, si nasce e si muore. Nasce un bambino che si chiama Johannes, farà il pescatore, muore un uomo che ha lo stesso nome ed è stato un pescatore. Non è chiaro se si tratta dello stesso uomo o sono due uomini qualsiasi che per mera combinazione hanno vissuto negli stessi luoghi, che portano lo stesso nome, che hanno fatto l’antico e identico mestiere di pescatore. Un mestiere che si tramanda di padre in figlio.
Marta la moglie del pescatore Olai, un mattino partorisce un bambino che chiameranno Johannes, come il nonno, anche lui sarà un pescatore come suo padre. In quel mattino particolare le energie sono forti, le tensioni straordinarie. Olai si prende la testa fra le mani, è preoccupato, teso. Marta grida, la levatrice richiede l’intervento del padre, vuole che porti dell’acqua calda. Sarà una nascita travagliata, come una lotta immane, grida di dolore squarciano l’aria nell’isoletta immersa nel freddo, gelo, ghiaccio, stridore, urla, angoscia, ansia, spinte verso la luce che si intravede ma tarda ad arrivare. Il male e il bene sembrano scontrarsi, il buio e la luce si affrontano in una lotta immane. Poi tutto si compie, Il bimbo nasce, fa iI suo rimo respiro e il suo primo vagito, gli si aprono i polmoni che si riempiono di aria e tutto si quieta e placa.
Tutto scorre come un fiume, bisogna abbandonarsi alla corrente, lasciarsi andare senza opporre resistenze, solo allora si potrà giungere alla destinazione finale. Fino al grande mare dove tutto si placa, dove non esiste più il tempo e lo spazio: «Adesso noi due saliremo sulla barca e partiremo. Dove andremo? Adesso fai domande come se tu fossi ancora vivo. Da nessuna parte? Dove andremo, non è nessun posto e per questo motivo non possiede neppure un nome». «Adesso spariranno le parole», dice nel finale Peter, il migliore amico di Johannes. Non esiste più la materia, i corpi come li conosciamo, non esiste più il dolore, non più il mare, jam in ebraico, le grandi acque, il diluvio, l’oceano, simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla, del male, spazio popolato da mostri. Cantava Fabrizio De André nel Testamento “Questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli.” Diversamente qui si nasce soli ma quando si muore, nella sera della vita, si è accompagnati da chi hai conosciuto, da chi hai voluto e ti ha voluto bene, da chi ti è stato accanto durante il tuo percorso terreno. Quando il vecchio pescatore si sveglia sembra un giorno come un altro eppure fa un incontro inaspettato e strano. Si imbatte in Peter, l’amico fraterno morto da tempo, venuto a prenderlo e accompagnarlo nel regno dei morti. Johannes non realizza che il suo amico è morto, anche se è scheletrico e ha i capelli lunghi. Johannes è confuso, si trova in una dimensione borderline, fra la vita e la morte non c’è quello stacco netto come fra la non nascita e la nascita, quando l’ossigeno penetra nei polmoni e brucia. Non vi è uno stacco netto come al mattino della vita, la sera è dolce e quieta. Non ci sono urla e travagli, non ci sono compressioni e spinte. Il pescatore è ormai anziano e si muove con lentezza eppure si sente leggero. La temperatura fuori è gelida ma a lui l’aria sembra calda. Tutto è come sempre eppure sembra tutto cambiato. Johannes vorrebbe andare a pescare ma si ricorda che stranamente non può più farlo da quando si è accorto che, contravvenendo a tutte le leggi della fisica, l’esca non affonda ma resta sospesa a metà. Tutte le leggi sono sovvertite, il sassolino buttato a Peter lo attraversa. La signorina Pettersen di cui lui era innamorato è tornata a essere giovane come un tempo. Anna che Johannes avrebbe voluto sposare è ancora incinta. Erna, su moglie, madre dei suoi sette figli è viva anche se morta ormai da tanto tempo. Lui vede e parla con sua figlia Signe ma lei sembra non sentirlo, vede il suo sguardo impaurito. La scrittura è potente e poetica, come un flusso di coscienza, fra la nebbia e la luce, i contorni sono sfumati o abbaglianti come i raggi di sole sulla neve. Mattino e sera è una lunga novella scritta con uno stile fluido, nessun punto, solo virgole. Non puoi fermarti, nessuno può fermare lo scorrere del tempo e il ciclo della vita. Ma nessuno può impedire la morte. Nessun vivo può trattenere un morto. Alla fine il punto arriva a fermare il tutto, anche se Fosse quel punto non lo mette neppure alla fine del romanzo, quando resta lo spazio bianco e sono finite le parole. Tutto scorre ma tutto resta impresso, tutto è vero ma tutto nel contempo esiste solo nei ricordi, nel ciò che è stato e che non sarà più. Resta un pugno di terra sulla bara, dei granchi rimasti invenduti, il buio, ma anche l’amore che vola in cielo sotto forma di nuvole bianche, resta il mare dei pescatori, il mare azzurro e calmo, senza un punto finale.
“Cuentos Olvidados”, i racconti dimenticati tradotti da Emilio Capaccio, offerti in lettura su questo sito tra il 2022 e l’inizio del 2023, sono stati raccolti in libro e sono diventati un ebook. Li proponiamo in 3 file diversi alla lettura. Flipbook, sfogliabile on line, epub e pdf scaricabili liberamente.
Strutturare un lavoro di scrittura nel formato libro digitale rappresenta per questo sito una novità in stile “Enterprise”, dal nome della famosa nave dei viaggi interstellari della serie Star Treek, che gli appassionati di fantascienza ben ricordano. L’astronave aveva il compito di “esplorare nuovi mondi per giungere fin dove nessun uomo era mai giunto prima” 🙂
A questa iniziativa intendiamo in futuro dare seguito con altre raccolte/opere.
Buona lettura.
oppure leggi/scarica il libro su epub editor cliccando sulla seguente stringa
nel caso riscontriate difficoltà di visualizzazioni o imperfezioni scrivendo alla casella dei contatti del sito potete richiedere l'epub generato con Google documenti via e mail.
Titolo: Il primo sole dell’estate Autore: Daniela Raimondi Prezzo copertina: € 19.00 Editore: Nord Collana: Narrativa Nord Data di Pubblicazione: 23 maggio 2023 EAN: 9788842935414 ISBN: 8842935417
È una casa fredda, quella in cui cresce Norma, in cui i genitori non si separano per quieto vivere e gli abbracci si contano sulle dita di una mano. Forse è per questo che, quando Norma è lontana dalla famiglia, tutto le sembra più bello. Come le estati passate dai nonni, a Stellata, un paesino in cui il tempo sembra essersi fermato ed è reso ancora più magico dai racconti di nonna Neve, che parlano di una famiglia di sognatori e di sensitivi e della zingara che ha segnato la loro strada. E poi, sempre a Stellata, c’è Elia, compagno di giochi e di confidenze. Tuttavia, quando l’infanzia cede il posto all’adolescenza, Norma scopre di avere paura dei nuovi sentimenti che la legano a Elia e decide di interrompere la loro amicizia. Passeranno molti anni prima che i due si ritrovino a Londra e il loro rapporto si trasformi in un amore adulto e totalizzante, ma il destino sta scrivendo per lei un’altra pagina, una pagina che è incominciata a Stellata e finirà molto lontano, in Brasile. Perché i sogni hanno sempre un prezzo e la felicità è un dono che si conquista attraverso la fatica.
***
La Casa sull’argine di Daniela Raimondi edito da Editrice nord nel 2020, ha venduto migliaia di copie ed è stato tradotto in moltissime lingue. Il romanzo attraverso due secoli, dall’Unità d’Italia agli anni di piombo, narra le vicende della famiglia Casadio di Stellata. Dopo La casa sull’argine, Daniela Raimondi torna in libreria con un nuovo romanzo dal titolo Il primo sole dell’estate, edito anch’esso da editrice nord. In questo nuovo romanzo ci racconta lo svolgersi della vita di alcuni personaggi già presenti nel precedente libro, principalmente si racconta della vita di Norma che è l’io narrante della storia e di sua madre Elsa. Il romanzo nato come seguito del primo ha però una sua costruzione autonoma e si regge da solo, così si può trarre piacere dalla sua lettura anche se non si è letto il primo. La figura centrale del romanzo è Norma Martiroli, nata nel 1947 in un inverno freddissimo, figlia di Guido e Elsa, una coppia scoppiata, che non si è mai amata. Elsa si era sposata a vent’anni già incinta ma non voleva un figlio, voleva godersi un po’ la vita, visto che aveva passato gli anni dell’infanzia a crescere e accudire i numerosi fratellini, che sua madre sfornava uno dopo all’altro, invece di giocare nel cortile come tutti i suoi coetanei. Quando Elsa partorisce e nasce Norma, il padre, Guido Casadio, figlio di Neve e gemello di Dolfo che ha sposato Zena, va a comunicare con gioia la bella notizia della nascita della bimba ai parenti. Nonna Neve è felicissima ma la stessa felicità non è provata da Elsa che considera sua figlia quasi come fosse un’estranea e la tratta con estrema freddezza. Norma trova il calore solo quando si trova a Stellata, il loro paese d’origine dove tutto è cominciato tramite Viollca una gitana sensitiva che aveva in sé la magia e che aveva contribuito a far nascere una generazione dalla doppia identità, i sognatori e sensitivi e quelli con i piedi ben piantati in terra e pragmatici. A Stellata, c’è Elia, uno strano bambino, uno che combina guai, diverso dagli altri, Elia diventa il suo compagno di giochi e di confidenze. Passata l’infanzia, Norma scopre di aver paura di ciò che sente per Elia e decide di interrompere la loro amicizia. Dopo molti anni Norma ritroverà Elia a Londra e si accorge di averlo sempre amato e di amarlo ancora. Come si può non innamorarsi di Elia? Ribelle, dalle idee progressiste e con l’avversione per il moralismo della società borghese, anticonformista, con i suoi capelli lungi e la sua barba, affascinante nonostante ami indossare le mutande bianche antiche, intelligente, gentile. Sembra andare tutto nel miglior dei modi, lei ha sposato l’uomo che ama e al quale ha dato il suo primo bacio. Ma la sorte rema contro e il destino è avverso. I due si sposano e vanno in viaggio di nozze in Brasile dove vivono la zia Adele e la figlia Maria Luz. Lì, il destino beffardo li attende.
Il romanzo si svolge tra il passato e il presente. Fra il Brasile, l’Inghilterra e l’Italia. Nel presente Norma deve occuparsi della madre che è molto malata ed è voluta tornare a Stellata. Norma ha lasciato Londra ed è tornata in Italia a vivere con la madre malata, con quella madre che ora è diventata come un bambina ma che non ha mai avuto una carezza o una parola buona per lei bambina. Norma accanto alla madre ricorda e rivive il suo passato, la felicità e il dolore provato, le gioie e le delusioni, la vita generosa e la vita beffarda che si è presa gioco di lei. Fra magia e realtà si svolge la vita di Norma. L’amata cugina Donata ha militato nelle Brigate rosse e fa una brutta fine. Donata ha ereditato dall’antenata gitana la capacità di predire il futuro attraverso la lettura dei tarocchi e dei sogni, rivela a Norma le sue visioni, ma la cugina non capisce la portata della sua previsione, solo dopo, quando Donata non ci sarà più, si renderà conto come e quando si era avverata in pieno la profezia che la riguardava.
Nel romanzo si raccontano tutte le vicissitudini della famiglia Martitoli. Un grande affresco ricco di personaggi dalle mille sfumature, che amano e odiano, che gioiscono e soffrono. Norma alla fine dopo aver sofferto tanto a causa dei tradimenti inaspettati, essere delusa proprio dalla persone che lei amava di più e nelle quali riponeva fiducia e speranza, riesce a ricostruire la propria felicità, nel perdono e nella comprensione. La felicità non è un dono che cade massiccio dal cielo sulla terra ma si edifica mattone su mattone, si costruisce giorno dopo giorno con determinazione e sacrificio, liberandosi dai pesi che impediscono la sua realizzazione, tornando alle radici, tornando all’innocenza e allo stupore dei bambini.
Una lettura avvincente, Daniela Raimondi è un’autrice ecclettica e che non delude mai, è una poeta che ha ricevuto importanti riconoscimenti e anche come narratrice sta dimostrando tutto il suo valore.
Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna. Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull’argine, edito da Nord, e uscito nel 2020 è stato il suo primo romanzo e nel 2023 è uscito, sempre per i tipi della Nord, Il primo sole dell’estate.
In Attenti al lupo scriveva Ron nel 1990 e cantava Lucio Dalla: Questa vita è una catena/Qualche volta fa un po’ male/Guarda come son tranquilla io/Anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon Dio/stando sempre attenti al lupo. Il bosco è nell’immaginario collettivo un luogo pauroso e oscuro dove ci si può perdere facilmente ed è abitato da animali pericolosi come il lupo o l’orso. Occorre stare in guardia, non perdere la strada e lasciare traccia del nostro passaggio, facendo cadere i sassolini come fece Pollicino. Oppure può essere un luogo accogliente dove rifugiarsi, come fece Biancaneve che trovò ospitalità e riparo nella casa dei sette nani. Un luogo dove perdersi e dove ritrovarsi. Il bosco è metafora della vita, è attraversamento e rifugio. Quando la maestra Silvia legge la notizia sul giornale invece di andare a scuola entra nel bosco. La vicenda si svolge negli anni ‘70 in un piccolo paese vicino a Torino, fra le montagne e al limitare del bosco, dove lentamente stanno arrivando i primi segnali della modernità. La notizia che sconvolge Silvia è il suicidio di Giovanna una sua scolara di undici anni. La bambina si è lasciata andare giù nel fiume saltando dalla finestra di casa sua, si è levata le scarpe e si è buttata. Silvia seguiva questa sua alunna con molta attenzione perché la ragazzina, appartenente a una famiglia modesta, aveva problemi a scuola, problemi forse non troppo dissimili a quelli che aveva lei da bambina. La maestra Silvia aveva chiamato il giorno prima la madre per lamentarsi del suo rendimento scolastico. Silvia non è una donna qualunque ma ha una funzione sociale precisa e determinata, un ruolo definito. Silvia è la maestra. Non è una donna qualunque, non è una madre, non è una moglie, non è una fidanzata, non è una figlia, Silvia è la maestra e basta. Alla maestra si chiede un’unica cosa, quella e nessun’altra cosa se non quella di fare la maestra e di saperla far bene. Silvia è cresciuta dalle suore e ha ricevuto un’educazione rigida, della sua infanzia ricorda il bosco nel quale si avventurava con il cugino e con il quale andava con gioia a raccogliere funghi. Il bosco è il luogo dell’infanzia, è in grembo materno che la ri-accoglie. Il senso di colpa e di inadeguatezza a svolgere il suo ruolo di insegnante la porta a rifugiarsi nel bosco e a sparire nel nulla. In paese tutti la cercano e temono una disgrazia. Rifugiatasi in un capanno che conosceva sin da piccola, ormai coperto dalla vegetazione, Silvia passa a ritroso tutta la sua vita, acquista consapevolezza del suo fallimento, si rende conto di non essere mai stata una donna ma un frutto ammuffito prima ancora di avere raggiunto la maturità. Silvia si lascia morire, non mangia e non beve, si vergogna di se stessa. Viene trovata da un bambino asmatico e sofferente, Martino, un alunno proveniente dalla vicina Torino che si è trasferito in paese per quei suoi motivi di salute. Martino non sa nulla della maestra, impara a conoscerla negli incontri segreti che avvengono al capanno. Martino è di parola e non rivelerà a nessuno che ha trovato Silvia. La maestra muta, infreddolita, sporca, disidratata, diventerà parte integrante e viva del bosco, perché il bosco è vivo nelle muffe, nei parassiti, nei vermi, non muore ma si trasforma. Sarà Martino a portarle da bere e da mangiare e la maestra Silvia si fa convincere a mangiare e a bere fino a che Silvia si è trasformata in qualcos’altro. Alla fine qualcosa accade ma resta sempre aperto un interrogativo. C’è qualcosa che nel romanzo non si conclude, il cerchio resta incompleto. Sembra una fiaba all’incontrario, in genere nelle fiabe si perdono i bambini, qui invece è l’adulto che si perde e il bambino è il salvatore che la ritrova. Un adulto la cui esistenza, nel bene e nel male, dipende dalle azioni di due bambini ha qualcosa di inquietante. Nelle fiabe c’è sempre una morale, qui mi sembra ci sia una morale all’incontrario. È un romanzo cupo. Allora in questa atmosfera cupa attraversando il bosco canterò: Guarda come son tranquilla io/Anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon Dio/stando sempre attenti al lupo.
Il romanzo è ispirato a storia vera occorsa a un lontano parente dell’autrice, Maddalena Vaglio Tanet, a Bioglio, un paesino di montagna in provincia di Biella, dove ha trascorso dai nonni tutte le sue vacanze estive. Nata nel 1985, ha studiato letteratura all’Università di Pisa e vive a Maastricht dove svolge la professione di scout letteraria. È stata finalista del premio Strega Ragazzi nel 2021 con il libro Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati.
Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale e delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento, viene pubblicato nel 1936 negli stati uniti il romanzo I fratelli Ashkenazi. L’autore è Lo scrittore polacco in lingua yiddish Israel Joshua Singer (1893-1944), figlio del rabbino Pinchas Mendl Zinger e fratello dello scrittore Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978. Il libro ha più di 700 pagine ma ciò non mi ha fermata perché avendo già fatto esperienza della scrittura di Singer con il suo bellissimo La Famiglia Karnowski, ero certa che ne sarebbe valsa la pena. Singer ebreo ashkenazita ci racconta il suo mondo, per molti un mondo lontano, estraneo e complicato, multiforme, multiculturale e caotico, un mondo pieno di contraddizioni. Il romanzo narra le vicende immaginarie di due fratelli inserititi in un contesto di verità storica, fra la metà del XIX secolo fino agli anni trenta del secolo successivo, fra la polonia e la Russia zarista.
Poiché la Polonia era ricca di filati di lana e di cotone ma mancava di tessitori vennero fatti entrare nel territorio polacco, con la promessa di non pagare le tasse e altri benefici, tessitori provenienti dalla Germania, tedeschi e ebrei ortodossi. Così, dopo la fine delle guerre napoleoniche, una lunga processione di tedeschi ed ebrei percorse le strade polverose della Sassonia e della Slesia fra villaggi già devastati dalle guerre di Napoleone, diretti verso la cittadina polacca di Lodz, chi nei carri o nei barocci, chi a piedi. Molti erano individui cenciosi, altri erano ricchi ebrei carichi di masserizie, ma tutti, ricchi e poveri, erano muniti di telai a mano.
La comunità ebraica riesce a inserirsi nel territorio di Lodz e addirittura ad allargarsi costruendo nuove case o ingrandendo le case già esistenti. Alcuni ebrei si mettono in proprio e aprono le loro attività autonome di tessitori.
Uno di questi ebrei, che si era fatto da sé riuscendo a diventare un imprenditore, era Reb Abraham Hirsh Ashkenazi, ebreo devoto e rispettoso delle tradizioni. La moglie era sul punto di partorire e si era a ridosso della Pasqua, ma lui volle ugualmente recarsi dal rabbino chassidico di Vorka per chiedere una benedizione per il figlio che gli stava per nascere, nonostante le strade fossero infestate dai ribelli e dai cosacchi. Il rabbino gli aveva predetto che i suoi figli sarebbero diventati ricchi ma non sarebbero mai stati devoti. Al suo ritorno trova che la moglie ha partorito due gemelli, Simcha Mayer e Jacob Bunim.
bambini di Lodz primi anni del 1900
I due fratelli sono dissimili fra di loro, sia nell’aspetto che caratterialmente, erano come il giorno e la notte. Il più grande è Simcha Mayer, minuto ma sempre triste benché dotato di intelligenza viva, l’altro Jacob Bunim all’apparenza meno intelligente ma più robusto e allegro. Il romanzo narra della rivalità di questi due gemelli, che si manifesta sin dai primi anni di vita. Il minore ama la bella vita, le belle donne e il buon cibo, finge col padre di essere devoto per non creare problemi, si è innamorato sin da piccolo delle bella Dinah, una bambina che gioca spesso con lui mentre il fratello minore, roso dall’invidia, sta a guardare. Da adulti si contendono il potere nella città di Łódz. Il maggiore sposa Dinah la donna amata dal minore. È furbo e sa operare inganni e astuzie, diventa ricco e si fa chiamare Max, accumula ricchezze su ricchezze, sgobba dalla mattina alla sera senza mai un attimo di riposo, sfrutta i lavoratori della fabbrica come un vero negriero. Odia il fratello minore perché nonostante lui non si dia da fare è come se fosse stato baciato dalla fortuna perché diventa più ricco di lui. Ha sposato, infatti, una donna ricchissima anche se il suo è un matrimonio infelice perché lui ama Dinah la moglie del fratello maggiore. Quasi tutta la seconda parte del romanzo racconta la lotta fra operai e imprenditori, i conflitti fra gli ebrei devoti e i gentili, fra polacchi e russi, fra i nobili e nuovi ricchi, lo sfruttamento dei tessitori considerati alla stregua di schiavi, la ribellione dei lavoratori, la lotta di classe e la rivoluzione russa. Simcha Mayer che ormai si fa chiamare Max Ashkenazi aveva trasferito molti dei suoi macchinari dalla polonia in Russia, ma a causa dell’abolizione della proprietà privata, perde tutti i suoi averi e viene rinchiuso in una prigione della nuova Unione Sovietica. Pentito del male che aveva causato agli altri in nome della ricchezza e della sua avidità, ormai vecchio e malato, comprende di aver sbagliato tutto costruendo il suo mondo nella sabbia e viene tratto in salvo proprio da quel fratello che lui aveva sempre odiato e invidiato. Così come in quel periodo storico erano gli ebrei, invidiati e odiati, tant’è che il malcontento e la rabbia della popolazione venivano spesso indirizzati dal governo russo attraverso i pogrom contro di loro, facendone un capro espiatorio. Questo romanzo, così come gli altri dello stesso autore, per chi è lontano dalla cultura del popolo ebreo, può rappresentare un’ottima occasione per comprendere meglio l’animo di questo popolo e le loro tradizioni, in quanto le vicende sono narrate da un vero scrittore ebreo ashkenazita di lingua yiddish vissuto a ridosso del periodo storico narrato, quasi fosse un testimone diretto.
In nessuna pagina del romanzo si può leggere la gioia di vivere o la serenità dei protagonisti. Nessuno dei personaggi presente nel romanzo sembra riuscire a essere felice, eppure la felicità è contemplata nella loro visione e nella loro tradizione religiosa, ma nel romanzo c’è sempre nelle vite dei personaggi un sottofondo di malinconia. Tutti, ciascuno per i propri particolari motivi dati dai problemi derivati dalla classe di appartenenza, sia per l’avidità, sia per la povertà, sia per la troppa ricchezza, per non sapersi accontentare mai, sia perché si combatte per la lotta di classe, o per i dettami della religione di appartenenza che a volte pesano come un macigno, ognuno per il suo ma tutti sono infelici. Molti sono i personaggi presenti nel romanzo e molte le loro vicende personali. Donne, uomini, figli, mogli, mariti, politici, ministri, nobili, imprenditori, filatori, venditori di scarti, agenti di commercio operai, ricchi, accattoni e straccioni, tutti vivono la loro infelicità in un mondo dominato dal caos e dalla confusione. Gli unici che sembrano porsi al di sopra di questo mondo mai felice sono i rabbini, depositari della saggezza e dell’ordine, come se lo studio e l’insegnamento della legge fossero un porto sicuro, un luogo preciso, e i rabbini, detentori di quella terra promessa, già insediati nella terra dove scorre latte e miele. Nel giudaismo la felicità è un comando, il Talmud dice che rallegrarsi durante una festività è dovere religioso. Sia nel Levitico che nel Deuteronomio si ordina di essere gioiosi, molte delle loro feste sono nel segno della gioia, la gioia della festa delle capanne, la gioia della Pasqua. È chiaro così che quasi nessuno dei personaggi del romanzo è un devoto e ciò causa infelicità. Il romanzo già nel titolo parrebbe avere come tema principale la storia di due fratelli e il dualismo esistente fra essi, ma è solo l’occasione per rappresentare i conflitti esistenti nell’animo umano e nei gruppi contrapposti: fra le diverse etnie, fra gentili ed ebrei, fra chassidin devoti e non osservanti, fra il socialismo e il capitalismo. Ciascuno portatore di malcontenti e dicotomie, dove i personaggi cambiano abito di volta in volta, a seconda delle circostanze, una volta sono le vittime e un’altra sono i carnefici assumendo ruoli intercambiabili adattandosi ai padroni e alla situazione storica ai confini territoriali del momento. Il libro appassiona e si legge facilmente nonostante le sue tante pagine e gli argomenti non molto leggeri perché la scrittura è fluida e la storia interessante, specialmente per chi ama questo tipo di scritture, cioè le saghe familiari e i romanzi storici in cui le vicende dei protagonisti sono inseriti nella realtà storica, anche se ho trovato un po’ lunghe la parte delle descrizioni delle lotte di classe e della rivoluzione popolare. Il romanzo mi è piaciuto meno de La famiglia Karnowski perché un po’ ripetitivo in certe parti e meno dinamico.
Navi nel deserto
di Luigi Weber
Il ramo e la foglia edizioni, gennaio 2023
pp. 376
Se c’era un detto autentico in bocca a quello sputasentenze di Schomberg, era “la mia strada la segnano i fuochi nella notte”. In un deserto punteggiato di piccole oasi, di rocche fortificate alte su speroni di pietra, tra piste di terra battuta per navi a ruote e città abbandonate che emergono dalle sabbie come relitti, giocano a scacchi con il destino e la morte un giovane capitano inesperto, un traditore, un naufrago, un uomo ossessionato dal desiderio di vendetta, una ragazza inquieta e la sua nutrice. Naviganti, Pirati, Isolane e Cittadini dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni. Attorno a loro, da ogni parte, si innalzano lenti nel cielo i sette pilastri della distruzione. I grandi romanzi e i personaggi di Joseph Conrad, affondati, sbriciolati e dispersi in un mare solido, tornano a incontrarsi e scontrarsi lungo le piste di una storia tutta nuova.
*
«Sulla Kairos dormivano, tutti. Nessuno ancora sapeva dell’arrivo dei Pirati in quelle terre, e la sorveglianza semplicemente non esisteva. Io non dormivo, invece. Il deserto è piatto, l’aria notturna tersa, e l’incendio dell’infelice vittima ardeva molto sopra le dune, come la porta dell’inferno spalancata. Perfino da terra lo vidi distintamente, e mi si agghiacciò il sangue.» Luigi Weber è un insegnante di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna. Il Romanzo distopico Navi nel deserto è la sua opera prima. Nato dopo lunga gestazione, come dichiarato dall’autore in interviste apparse sul web, “Navi nel deserto è uno strano indefinibile oggetto, persino per me che ci convivo da un tempo lunghissimo. Un esordio romanzesco attempato, a cinquant’anni, e insieme paradossalmente giovanile, perché mi accompagna da quando ne avevo venti. A prima vista sembrerebbe un prodotto sospeso tra narrativa d’avventura per ragazzi, fantascienza e fantasy, mentre non è niente di tutto ciò. “
***
Non importa come sia potuto accadere e perché, non si sa quando sia accaduto, non si conosce quale sia la catastrofe occorsa, se guerra atomica o spostamento dell’asse terrestre, o la caduta di un meteorite, ma la terra di un tempo non esiste più, i fiumi, i mari, le montagne, le città, tutto è coperto da una spessa coltre di sabbia. Affiora solo qui e là qualche spuntone metallico facente parte di qualche alta costruzione. Il mondo è sotto, è il Downtown, un mondo sommerso, “Indica la parte nevralgica delle antiche città, dove si alzavano tutti i grattacieli. Oh Dio, sapevo che c’era una in questa regione, ma come si fa a crederci…“ I personaggi portano i nomi dei protagonisti dei romanzi di Conrad, a partire dal protagonista principale, il capitano, che porta addirittura il nome dello scrittore Joseph Conrad. Ci sono molte citazioni che riguardano Conrad, ad esempio quando Freya, promessa a Julian Sands il naufrago che abita in una delle oasi, dice di sé che il suo è un cuore di tenebra. A differenza delle atmosfere di Conrad di Cuore di tenebra, che sono volontariamente ombrose e cupe; a differenza del romanzo la strada di McCartey, dove era accaduto qualcosa di terribile alla terra, dove il paesaggio scena dopo scena, dall’inizio e fino alla fine del romanzo, è sempre grigio, dove tutto è coperto di cenere e anche l’atmosfera e satura di cenere, in questo romanzo c’è sempre un sole abbagliante, potente, infuocato , che brucia “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.”
Le navi solcano i deserti su grandi ruote che seguono delle strade numerate su dei binari prestabili come una sorta di ferrovia dotata di scambi, come quelle dei treni, per passare da una strada numerata all’altra. Per quanto riguarda la struttura il libro è diviso in dieci interludi e vari capitoli, e coesistono diverse voci narranti. Alternando il punto di vista si vorrebbe accrescere il ritmo della narrazione. Notevoli le descrizioni dei paesaggi sabbiosi e dei colori, nonché degli stati d’animo complessi dei protagonisti. Benché l’ambientazione è futurista e post atomica, a volte si ha l’impressione che i personaggi siano regrediti nel passato e vivano le atmosfere dei regni greco-romano, o egiziano, o minoico.
Questa terra di oggi è abitata da uomini uguali a quelli che abitavano la terra di prima. Gli uomini hanno sempre le stesse emozioni e gli stessi sentimenti, l’uomo è sempre uguale a se stesso, simile nei difetti e nei pregi. Sotto la cenere della città di Pompei sono state trovati oggetti e suppellettili che anche noi, uomini moderni, avremmo trovato comodi da usare. Sono state trovate iscrizioni nei muri contro certi personaggi politici e pubblicità varie, fontane dove bere e piazze dove incontrarsi e passeggiare. I bisogni dell’uomo saranno sempre uguali, il bisogno di stare in gruppo, di condividere, di amare, di classificare, di odiare e di disprezzare il diverso e di aggregarsi a chi si ritiene sia più simile a noi. I pregiudizi e le discriminazioni accompagneranno sempre gli uomini qualunque sia il mondo abitato. L’umanità abitante questa terra sabbiosa e infuocata è riuscita a trovare una sua organizzazione. La società del romanzo è divisa in due gruppi, stanziali e nomadi. Gli stanziali sono i cittadini cioè gli uomini che hanno preferito arroccarsi nelle fortificazioni, e gli isolani che abitano le oasi in mezzo al deserto dove attraccano le navi. I nomadi sono i naviganti, cioè quelli che in giovane età sono usciti dalle rocche e hanno costruito delle navi nelle quali hanno trascorso insieme tutta la loro vita, e i feroci pirati che in genere sono i fuoriusciti dalle rocche il cui scopo è quello di inseguire i naviganti. Non conta chi sei, da solo non hai identità e dignità, conta solo a quale gruppo appartieni, ed è un’anomalia che il capitano Conrad sia un cittadino diventato navigante.
Si tratta di un romanzo distopico, d’avventura, avveniristico, fantascientifico, ma non solo, questo romanzo parla principalmente di uomini, delle loro paure e dei loro sentimenti. Dello sforzo giornaliero di sopravvivere in un ambiente che è diventato ostile e pieno di pericoli o che ti costringe a vivere murato vivo pur di non perdere la vita. A cambiare faccia e a fingerti altro per non perire. A perire per non cambiare. Un romanzo molto particolare, adatto e consigliato a chi ama il genere distopico e apocalittico.
bio Luigi Weber Nato nel 1972 a Rimini, ma dall’incontro tra un trentino di Rovereto e una toscana di Marradi, quindi sospeso tra il mare, le Alpi e gli Appennini, Luigi Weber da lungo tempo ormai si è risolto per la pianura, e vive e lavora nella città che più gli è congeniale, Bologna, con la sua famiglia. Qui ha studiato e si è laureato in Lettere Classiche, nel 1998; qui, dopo una pausa di alcuni anni trascorsa come giornalista in Romagna, è tornato definitivamente ad abitare, iniziando una collaborazione ormai più che ventennale con l’Ateneo in cui adesso insegna Letteratura Italiana Contemporanea. Nel frattempo ha vissuto anche nel magico mondo del teatro di ricerca, partecipando a nove indimenticabili edizioni del Festival di Santarcangelo come caporedattore del Quaderno del Festival. Per alcuni anni ha insegnato a scuola, a bambini delle medie di Imola e adulti nelle serali di Vergato, e anche quelli sono stati anni e incontri impossibili da scordare. Dal 2012 è diventato Ricercatore e poi dal 2014 Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica di Bologna. Ha scritti libri e curato edizioni e pubblicato saggi su molti autori e fenomeni letterari dell’Otto e del Novecento, da Manzoni al Gruppo 63, occupandosi di letteratura fantastica, poesia e romanzo sperimentale, letteratura di guerra e di viaggio. Dal 2021 fa parte del Comitato Direttivo della MOD, Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria.
Dal greco: nostos ritorno a casa e algos dolore. Il dolore del ritorno. Nostalgia, dolore del ritorno, quel malessere che ti prende quando ripensi alle cose del passato, ai luoghi in cui hai abitato, alle persone che hai conosciuto e amato. Il libro racconta la Sanità e le sue bellezze nascoste, visibili solo a chi ama il quartiere, un quartiere ricco di storia e di umanità. Racconta anche della nostalgia provata per Napoli di Felice Lasco, un sessantenne nato e cresciuto al Rione sanità e che ha vissuto per altri quaranta anni all’estero. Il rione della sanità viene descritto in modo particolareggiato e poetico da Ermanno Rea, sono luoghi che amava perché i suoi nonni abitavano nel cuore del rione in quella lunga strada che è Via Cristallini. Frequentando quei luoghi era venuto a conoscenza della vera storia da cui ha tratto il romanzo. Il libro racconta la storia di due ragazzi, Oreste Spasiano, detto Malommo, e Felice Lasco. Sono nati negli anni 50 in quel quartiere che è come fosse un mondo a sé stante, ai piedi di Capodimonte, un quartiere che aveva visto passare principi e re, costruito sulle catacombe, su grotte, su strapiombi di tufo, piena di orti e giardini misteriosi, la chiamavano la valle dei morti per via del cimitero delle Fontanelle e per le spoglie mortali di San Gaudioso e San Severo in quei luoghi custodite. Continua a leggere →
Dopo L’informe amniotico [appunti numerati e qualchepoesia] edito da Limina Mentis edizioni, 2015, opera prima di Loredana Semantica, con prefazioni di Giorgio Bonacini e Rosa Pierno segnalato al premio Lorenzo Montano, esce la nuova raccolta di Loredana Semantica TITANiO edita da Terra d’Ulivi 2023. Il titanio è un elemento metallico conosciuto per la sua resistenza alla corrosione, quasi pari a quella del platino, nonché per il suo alto rapporto tra resistenza e peso. È un metallo leggero, duro ma con bassa densità. Allo stato puro è molto duttile, lucido, di colore bianco metallico.
Il Titanio è il metallo ideale perché porta in sé due qualità opposte e ugualmente importanti, rappresenta l’equilibrio fra due proprietà intrinseche, la leggerezza e la resistenza.
La parola Titano deriva dal latino Titanus. I Titani vengono considerati come le forze primordiali del cosmo, che imperversavano sul mondo prima dell’intervento regolatore e ordinatore degli dei olimpici. C’è anche un IO graficamente inserito con la i in minuscolo a formare la parola che dà il titolo alla raccolta, suggerendo probabilmente che l’io poetico dell’autrice si qualifica, si colloca, si identifica con la leggerezza e la durezza.
Le poesie sono sotto datate e seguono un ordine cronologico preciso, sono in ordine progressivo cronologico dalla più vecchia alla più recente all’interno di ogni sezione, ordinata per senso e omogeneità di stile e ispirazione. TITANiO raccoglie settanta poesie ripartite in 4 sezioni: 12 in Je est un autre, 21 in Biografia, 12 in Calligrafia, infine 25 in Sacrario. Esse scaturiscono da un lavoro, durato un anno, di riordino della produzione poetica dell’autrice degli anni che vanno dal 2010 al 2021, lavoro iniziato con la raccolta inedita In absentia vocis che è stata segnalata al Premio Lorenzo Montano del 2022.
Riporta l’autrice in prima pagina un breve testo tratto dalle Memorie di Adriano di Margherita Yourcenar “Sono giunto a quell’età per cui la vita è, per ogni uomo una sconfitta accettata… Ritrovavo in quel mito, (dei Titani n.d.r) ambientato ai confini del mondo, le teorie dei filosofi di cui mi ero nutrito: ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia ad ogni speranza, tra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, tra il Titano e l’Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi l’armonia.” Ciò ci induce a credere che questo lavoro di riordino sia scaturito dal bisogno di Loredana Semantica di riuscire a comporre un’armonia, un equilibrio, fra la sua vita quotidiana ordinata e regolare e le bruttezze del vivere, fra le forze irrequiete dell’inconscio generatrici di metafore e sogni, fra il sonno e la veglia, fra il suo bisogno di bellezza che salva e la necessità dell’amaro pane, quell’armonia necessaria che non porta alla rinuncia della speranza e che consente piuttosto di bilanciare le due parti contrastanti.
Da questo equilibrio di forze, proprio quando dall’incontro delle due parti potrebbero scaturire lampi e saette, dall’attrito delle due, fluisce piuttosto precisa e misurata la sua poesia, quasi un lento ritmare, a tratti nostalgica, velata di ironia, non cinica ma disincantata, rassegnata ma non troppo, che osserva con freddezza la nuda e cruda realtà sperando però che le sue parole siano come semi dai quali un giorno nasceranno fiori. Spargo semi nel mondo/non appariscenti/gli occhi profondi/chissà se ne sbocceranno fiori. Una poesia che ha una sua musica interna come una musica da camera che sembrerebbe tranquillizzare Io vorrei dormire/di più e più a lungo/il sonno dovrebbe coprire/ogni pensiero con la sua/coltre bianca di silenzi e neve.// in realtà provoca un vago senso di malessere, il suo sguardo disincantato si ferma sulle cose inanimate, su un fantomatico direttore, che rappresenta il potere, sul lavoro che aliena e che spesso ci è alieno, negli immensi bla bla, sapessi come tutto gira intorno/senza senso/c’è un bla bla immenso/ nel quale non mi riconosco/quattro fessi al tavolo di fronte/ parlano e ridono/con la bocca ripiena di cibo. La casa e gli affetti familiari che sono il suo porto sicuro e la ripagano di quel senso di non appartenenza e ostilità avvertito nel quotidiano andare. Scrivo una dopo l’altra/cose elementari/quasi uno scavare dentro/ fino all’essenza//, appartenenza che ritrova però nelle sue radici e nella loro ricerca delle quale lei sente d’essere la foglia terminale.
Non se questa sia ricerca spirituale/o piuttosto di radici. C’è un acclamare alla parola salvifica che può essere occasione di riscatto e di ritrovamento del sé più autentico. Lo calpesto se posso e l’odio/lo danneggio e rivendico/ inneggio alla parola/mio unico luogo labirintico. Oppure ancora Io starei immota al caldo/beata in un respiro lieve/aperto ai movimenti del corpo/e del torace lenti e morbidi/come una schiuma soffice. Bisogna comunque leggerla questa raccolta e farsi un’idea propria perché nessuna nota può essere esaustiva perché è vasta la materia trattata, trattandosi di vita.
Di certo si può dire che l’autrice sa scrivere bene, che la sua scrittura è matura, che scrive e frequenta il web poetico da vent’anni, che ha fatto bene a riordinare la sua significativa produzione poetica, affinché non venga perduta nei meandri di una memoria volatile di un pc, come quelle foto, spesso importanti e belle, che non facciamo stampare mai e che ci dimentichiamo di aver fatto, negandoci il piacere della vicinanza, ma che dovremmo trasformare in concretezza cartacea affinché si squarci la siepe della dimenticanza che oscura i ricordi e il sole. (Antonella Pizzo)
Testi
Abbiatemi per lontanissima
così lontana che tremano i cieli
nella mia bocca d’amianto
costretta da un solo cunicolo
abbiatemi per rarefatta
così sperduta molecola
che nello spazio non piove
neanche un raggio di luce
a forare coltre maledetta
la piracanta spinosa.
10.02.2017
Io sono qui
e qui è la mia casa
i miei profumi la crema
per il viso le borse le ciabatte
i miei vestiti e arredi
qui il mio cane il frigo ricco
di cose buone il mio lavoro
gravoso e senza sole
atomica che sfianca e fagocita
l’uranio impoverito dei miei giorni
qui il mio centro e debolezza
mia forza e sicurezza la sagoma
del tuo corpo confortevole
il capo bianco dei tuoi capelli corti
qui i miei figli quando capita talvolta
a ristorare l’attesa ostinata
tra un’uscita e l’altra
con gli amici.
5.4.2017
Dentro di me un romanzo
dalla nascita brulicante di cortili
alle gebbie d’acqua fredda e anguille
sperdute tra rovi cicale e frinire
oltre le cancellate in cima alle scale
nei posti della memoria
dimenticati dalla storia spariti dalla terra
arati dalle ruspe al suolo
che compaiono solamente
in flash incerti dei ricordi
quasi fossero dei sogni.
In un altro capitolo il presente
arroccato a qualcosa che si sgretola
mentre avanza il tempo inesorabile
senza fretta con la calma sicurezza
di chi non ha precisi appuntamenti
dagli ostacoli si vede
che franano i punti fermi
gli stessi che sul foglio con la penna
erano uniti in progressione
in forme di una certa consistenza
a cui appuntare piedi medaglie o certezze
d’essere un preciso essere
un puntino esatto sulla terra.
Adesso il finale ad effetto
sui palmi le stimmate rosse
nel costato lo squarcio incrostato
dell’eremita.
Nata a Catania, laureata in giurisprudenza, sposata, ha due figli, vive e lavora a Siracusa. Si interessa da molti anni di poesia, fotografia e lavorazione digitale di immagini. Proviene dall’esperienza di partecipazione e/o collaborazione a gruppi poetici, di fotografia, arte digitale, litblog, associazioni culturali nel web e su facebook. Ha pubblicato in rete all’indirizzohttp://issuu.com/loredanasemantica le seguenti raccolte visuali e/o poetiche:
Con Feltrinelli/ilmiolibro, insieme a Deborah Mega e Maria Rita Orlando nel 2015 ha pubblicato La prima rosa antologia di 160 poesie e 28 immagini d’autore sul tema della rosa. Gestisce il blog personale “Di poche foglie” all’indirizzohttps://lunacentrale.wordpress.com/.
Il secondo piano, di Ritanna Armeni, edito da Ponte delle Grazie, 2023, p. 288
Dopo l’otto settembre del 1943, giorno in cui si comunicò che era stato firmato a Cassibile, in Sicilia, l’armistizio con il quale l’Italia si era arresa senza condizioni alle forze alleate, la speranza di essere liberati crebbe degli abitanti di Roma. In attesa che venisse finalmente sfondata la linea Gustav, i partigiani lottarono e resistettero cercando di contrastare i tedeschi con attentati e imboscate. I tedeschi però continuarono a occupare la città in un clima di terrore e violenza, facendo pagare ogni atto di ribellione con l’uccisione di civili inermi, aumentando le attività di ricerca e di cattura degli ebrei da deportare e sterminare. ll 26 settembre il comandante della Gestapo, Herbert Kappler, pena l’arresto di 200 capi di famiglia, chiese agli ebrei 50 chilogrammi d’oro. La comunità ebrea con grande sforzo li raccolse e li consegnò ai tedeschi sperando così di rabbonirli per un certo periodo. Le loro speranze furono presto deluse, il 16 ottobre del 1943 venne dato l’ordine di arrestare e deportare gli 8.00 ebrei censiti. Le operazioni di rastrellamento iniziarono già all’alba, i reparti delle SS coordinati da Theodor Dannecker arrestarono in poche ore 1259 persone degli 8.000 previste, compresi anziani e bambini, il resto con enorme rabbia del comando tedesco sfuggì alla cattura. Il vaticano scelse la via diplomatica e non prese posizione ufficiale anche se probabilmente agiva all’interno e in silenzio per contrastare gli abusi e le violenze perpetrati dai tedeschi. Le chiese e i conventi furono perquisiti senza autorizzazione alla ricerca di partigiani, politici ed ebrei che si erano nascosti fra le mura Vaticane.
Il romanzo di Ritanna Armeni inizia proprio il giorno del rastrellamento degli ebrei nel ghetto romano. Continua a leggere →
Quando ai più che non s’interessano di poesia si nomina Fernanda Romagnoli -dicevamo qui – non è sorprendente che non la conoscano, ma è singolare che spesso nemmeno i poeti, chi scrive o legge poesia, l’abbia mai sentita nominare. Eppure Fernanda rappresenta un fulgido esempio di fare poetico, rimasto misconosciuto. La sua poesia è densa di assoluto, vibrante, tersa, metafisica e nel contempo sospesa in osservazione attenta della realtà, degli oggetti, persino degli animali a carpire loro il senso stesso dell’esistenza, quello della relazione con le umane cose, in parallelismi insoliti, spiazzanti, intelligenti, periodi complessi e magistralmente articolati, con una scorrevolezza e padronanza lessicale rara. Fernanda Romagnoli manifesta con la scrittura un anelito potente, che ingabbiato negli spazi angusti del vissuto, attraverso la poesia evade verso sfere celesti, trafigge la materialità delle cose, se ne impadronisce, le plasma, le ribalta, le aggancia al vivere e al morire, rimarcandone la caducità oppure all’opposto le proietta nell’eterno, le trasfigura. Insistenti i temi della morte, dell’eterno e dell’anima, non meno di quello dell’identità, del dolore, dell’estraniamento e della solitudine, di questi ultimi è paradigma la poesia “Il tredicesimo invitato”, che dà il titolo all’intera raccolta dov’è inserita. Linguisticamente questa poesia vola, non può altrimenti definirsi la grazia con la quale la Romagnoli compone l’architettura dei versi, la compiutezza del significato, la proprietà di linguaggio si sposano con la leggerezza di un’espressione poetica perfettamente modulata nel suono. Non dimentichiamo che la poetessa proviene da una formazione musicale giovanile che influenza certamente il suo scrivere alla ricerca del suono che promana pensiero e sentire in simbiosi, che appare tanto naturale, quanto – probabilmente – accuratamente ricercata, mantenendo una freschezza fuori dal comune. Fernanda conduce la propria poesia con la stessa vibrante tensione che anima i versi dickinsoniani, col pathos che vediamo brillare in quelli della Plath. Figure femminili nelle quali la costrizione spirituale (potremmo forse dire “di genere”?) spreme distillati poetici soavi o intensi, ma ad ogni modo esemplari. Ammirevole la maestria con la quale la poetessa dalla superfice scende alle profondità e risale a vertiginose altezze, cercando il divino. L’effetto nel lettore è di provocare una vertigine, lo induce a sporgersi verso il vuoto a cercare l’assoluto con la stessa brama con cui lo legge nei versi.
La biografia di Fernanda è essenziale, riporta le notizie “agli atti”, e dice poco del carattere, aspirazioni, desideri, esperienze dell’autrice, paradossalmente è soprattutto nella poesia che la ritroviamo. Possiamo ben immaginare lo scorrere della sua vita tra una giovinezza irrequieta, l’attraversamento certo incisivo della querra, un amore impossibile, l’incontro con Vittorio Raganella, l’innamoramento, il matrimonio impegni casalinghi, e, per qualche tempo, lavorativi. Il suo spazio vitale, come si conviene all’essere donna, sposa, madre. Ambito che per alcune è di piena realizzazione, per altre è recinto, senza peraltro che possano focalizzare alternative, essendo la situazione, la convenzione, le aspettative sociali a comportare un senso di delimitazione. Peraltro non era ostacolata dalla famiglia nella sua passione letteraria. D’altro canto il disagio esistenziale può essere un habitus innato, simile a una croce da portare, rispetto al quale la poesia è una forma di sopravvivenza. Fumava sigarette Fernanda, lo dice lei stessa, e beveva caffè al bar, sfaccendava, scriveva, faceva visita ai parenti o agli amici, avrà fatto qualche viaggio e qualche gita, curato la sua unica figlia. Tra pappette per neonati e cambio panni l’avrà cresciuta, una volta cresciuta, avrà tribolato per lei infinite volte. Una normalissima vita che non impedisce alla poetessa di essere tale. Trasfigurare in versi l’agonia di un bruco è un attimo poetico fissato per i posteri di potenza immaginifica brillante.
Bruco
Tagliato in due col suo frutto il bruco si torce, precipita nel piatto, ove un attimo orrendo sopravvive al suo lutto. Coperto di bucce, sepolto fra le dolcezze e gli aromi che amava in vita, gli accendo sulla catasta l’incenso della mia sigaretta. Morte pulita – ed in fretta. Ma che ne so della via che il bruco ha percorso in quell’unico istante di agonia.
La stessa “gallina rossa” dell’omonima poesia inchioda danzando verbalmente un’essenza chiocciante o appariscente che riverbera in parole e specchi la propria e altrui natura.
Rossa gallina
Rossa gallina, in te odio – più del tuo chiocciolio di spavento, dell’occhietto puntuto, dello sconcio berretto – in te odio il mezzo metro di vento che spenni nel fracasso di uno slancio già rantolo e frattura allo spiccarsi. In te odio la mia storpia fiammata, il mio abortito amplesso con lo spazio, l’implacata natura che m’aizza a un volo compromesso.
E poi c’è la poesia “Tirando le somme”, dichiaratamente autobiografica, che riepiloga a volo d’uccello l’intera vita in pochi “fotogrammi” fondamentali, nella quale è menzionata la virtù femminile più accreditata della storia, frutto di sviluppo secolare, tramandata di madre in figlia, di suocera a nuora, nei bisbigli di consiglieri parentali o amicali, una specie di collante familiare del quale sono portatrici principali le donne: la pazienza. Un’osservatrice Fernanda, malinconica e composta, probabilmente, per come le imponeva il ruolo di moglie di un militare, ma nemmeno risentita contro la sorte o gli incontri, gli insuccessi , anche perché oggettivamente nulla le sarà mancato, a parte la salute non proprio brillante. E’ nella natura sua propria, nel temperamento incline all’introiezione, che scatta la scintilla espressiva, con risultati che, probabilmente, si dovrebbero inquadrare con spirito oggettivo nel filone intimista, confessionale, pervaso di lirismo, mi sembra tuttavia che nessuna di queste definizioni calzi perfettamente, nel senso di essere riduttive, rischiano, come del resto tutte le classificazioni, di sminuire una voce, già di per sé, ingiustamente poco valorizzata.
Forse la Romagnoli ha la colpa per alcuni di non essere “sperimentale”, di muoversi nel solco della tradizione novecentesca e precedente, di indulgere all’autobiografismo più che all’intrigante all’ermetismo, ma gli “ismi” sono espressioni classificatorie che – in quanto demarcano – hanno a loro volta il limite di essere inadeguate – perché nulla possono riferire sulla bellezza espressiva, le ardite associazioni verbali, i lemmi insoliti, evocativi, ricercati, gli origami verbali, le simmetrie, la costruzione sapiente del ritmo e del suono, la musicalità, che caratterizzano la scrittura di questa poetessa. E’ un dato di fatto che la scrittura femminile trascorsa più riuscita viaggi sulle ali dell’introspezione alla ricerca di un altro-assoluto-divino dentro e fuori di sé che verticalizza, ben più in alto di quanto vediamo riesca quella maschile, come se la voce si assottigliasse in acuti da soprano e penetrasse le nubi, più centrata e fine del corrispettivo maschile. Si potrebbe dire, se fosse un fascio di luce, per proseguire in similitudine, che sia un laser che buca il cielo. Non mi sembra peculiarità da trascurare, al contrario è da esaltare, è da indagare, se possibile, in parallelismo ad altri aspetti, chiedersi quanto questa sorta di “conventualità” femminile si traduca in parossismo di intuizione mistica, quanto sostanzi una produzione poetica intrisa di raccoglimento e canto, come un pulsare di inspirazione ed espirazione che diversamente, vivendo, cioè una vita sociale più ricca, variegata, pubblica ed “esposta” sarebbe forse impossibile da raggiungere. Mi tornano in mente le castrazioni “tecniche” del canto lirico. Una vita di riserbo è cosa meno cruenta sul piano fisico, ma parimenti incisiva psicologicamente, che ha come suo forse-prodotto: la meraviglia in poesia?
Nessun assioma beninteso in queste considerazioni, né rapporto di causalità effetto, nel senso che è abbastanza intuitivo che chiudersi in una prigione non aiuterebbe l’estro dell’aspirante poeta carente o privo d’altro “bagaglio”, né si vogliono esporre suggerimenti da seguire per le nuove generazione emergenti (o magari sì, in verità, suggerire ad esempio che la ricerca parossistica di visibilità non favorisce il risultato), e men che meno vuol essere un sindacato sulla vita scelta da questa poetessa – perché sempre di scelta alla fin fine si tratta – solo interrogativi sull’origine del flusso poetico, i percorsi e risultati raggiunti.
Un appunto finale circa l’esclusione o l’autoesclusione dai circoli e circuiti letterari. Mi chiedo quanto penalizzi il poeta l’essere un isolato, quanto pesi sull’emarginazione che sceglie e infine subisce e se l’esclusione non sia una sorta di pena comminata postuma, non meno che scelta in vita, mancando i gruppi di “amici” che possano conservarne e diffonderne la voce poetica e suoi pregi, carenti i contatti utili a “elevarsi” nelle “gerarchie”, il poeta resta nel limbo, pur avendo prodotto testi il cui pregio surclassa altre e più esaltate produzioni. Avviene quindi che ogni tanto si leva qualche voce isolata mai sufficiente a ricollocarlo nel suo rango, di qualche appassionato estimatore o un familiare.
Molti leggono, tra la chiamata per vocazione, inclinazione e strumento, la Romagnoli andrebbe, ritengo, utilmente indicata come lettura, tenuta da conto per ciò che è, un tassello della scrittura poetica italiana e, come tale, anche nel poco che ha scritto – forse l’unica sua pecca – suggerita come lettura da conoscere. Piolo di una scala su cui salire per progredire in poesia.
La malnata edito da Einaudi stile libero è uscito il 21 marzo in Italia e subito dopo in Francia, Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Turchia, Bulgaria. Uscirà a breve anche negli Stati Uniti e in Germania, inoltre è in corso di traduzione in 32 lingue; pare che il romanzo abbia incantato gli editori di tutto il mondo. L’autrice è la giovanissima Beatrice Salvioni, un’esordiente uscita dalla Scuola Holden, così si presenta sul sito della suddetta: https://thewall.scuolaholden.it/allievi/beatrice-salvioni/ Volevo che la mia vita fosse un’avventura. A nove anni ho messo calze e succo di mela in uno zaino e sono scappata. È durata fino al cancello di casa. Ma da allora ho cominciato a scrivere storie. Classe 1995, ho conseguito una laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi sulle dinamiche della scelta nello storytelling interattivo. Frequento il secondo anno del college “Scrivere” presso la Scuola Holden di Torino. Ho vinto l’edizione 2021 del concorso per racconti inediti del premio Calvino con “Il volo notturno delle lingue mozzate”. Ho praticato scherma medioevale e ho scalato il Monte Rosa. Ho sempre pensato che la cosa peggiore della vita sia la sua assenza di senso narrativo. Per questo ho deciso di dedicarmi alle storie, qualsiasi forma decidano di assumere.
Il romanzo ha un inizio forte che inchioda alle pagine il lettore. L’ambientazione è la riva del fiume Lambro. Tre sono i protagonisti della scena. Due ragazzine, Francesca e Maddalena. Il cadavere di un uomo riverso sopra il corpo di una delle due, è difficile scrollarsi di dosso un morto. Le due con molta fatica ce la fanno, infine cercano di nascondere il cadavere sotto una rete di tronchi e rami, l’uomo ha sulla camicia una spilla con il fascio e il tricolore.
La storia è ambientata a Monza durante il periodo fascista, fra il 1935 e il 1936, nel periodo della conquista dell’Abissinia. Il romanzo racconta, per voce di Francesca, l’amicizia indissolubile esistente fra lei e Maddalena Merlini detta la Malnata. Francesca è un’adolescente di dodici anni appartenente a una famiglia borghese e conformista, il padre produce berretti di feltro per l’esercito grazie all’interessamento sottaciuto della madre che ha una relazione extraconiugale con un fascista, il signor Colombo. Maddalena è una ragazzina dal padre assente, appena più grande di Francesca, appartenente a una famiglia indigente. La Malnata ha altri due fratelli, Edoardo, che per lei è come un padre, e Donatella, fidanzata con il figlio maggiore dei Colombo. Maddalena si sente responsabile delle sciagure occorse alla sua famiglia, come la morte del fratellino Dario, caduto dalla finestra di casa; l’incidente del padre, che ha perso una gamba in un ingranaggio della fabbrica.
Rosario Chiàrchiaro, personaggio nato dalla penna di Luigi Pirandello, è stato scacciato dal banco dei pegni perché era considerato uno Jettatore, al suo passaggio, tutti fanno i più svariati segni scaramantici: toccano il ferro, fanno le corna. Così dato che è considerato tale vuole un riconoscimento ufficiale, al giudice D’Andrea chiede di volere una patente di iettatore. Rosario Chiàrchiaro era un malnato come Maddalena, come la cooprotagonista, infatti quando la incontravano le donne dicevano diocenescampi e si facevano un frenetico segno della croce, gli uomini sputavano a terra. La malnata non aveva richiesto a nessuno la patente ma indossava quel soprannome come una corazza. Le accuse della gente diventano il suo senso di colpa ma anche la sua forza.
Francesca passando ogni giorno dal ponte del fiume Lambro vede questa ragazzina che gioca sulla riva del fiume con i maschi che si diverte, e ne è conquistata. I maschi che la seguono sono Matteo e Federico, il figlio della influente famiglia fascista dei Colombo, che con lei giocano sul Lambro e pendono dalle sue labbra.
Maddalena la affascina, vuole diventare sua amica, nonostante la Malnata sia disprezzata da tutti. Grazie alla complicità nata in seguito a un furto di ciliegie, finalmente le due lo diventano. Tra i personaggi che gravitano attorno a Maddalena e a Francesca, oltre a Matteo e Federico, ci sono anche Tiziano, il fidanzato di Donatella, e Noè, il leale figlio del fruttivendolo. Francesca scoprirà grazie a Maddalena l’importanza della libertà di opinione e la non sottomissione, l’importanza della verità. Imparerà a combattere gli abusi, il sessismo, l’oppressione, a far sentire la sua voce. Imparerà a ribellarsi alle piccole e grandi ingiustizie con cui convive.
La Malnata diventa il suo esempio di vita, il punto di riferimento. Sarà lei a raccontarle quello che accade al quando si diventa donne “ Noi femmine non ci dobbiamo schifare del sangue”. Le due si aiutano reciprocamente, Maddalena grazie a Francesca torna a scuola, sostenuta anche dal fratello Edoardo che ci tiene alla sua istruzione. La famiglia della Malnata avrà anche altre disgrazie oltre a quelle che già hanno l’hanno colpita, ma di tutto ciò la Malnata non ha colpa.
La storia di Maddalena e Francesca è una storia senza tempo. Ricorda per certi versi L’amica geniale di Elena Ferrante. L’amicizia fra due ragazzine diverse per ceto e carattere, ma in generale anche il sentimento di amicizia e la lealtà di Noè, che supera ogni ostacolo ed è più forte di ogni interesse materiale in confronto a certi rapporti malati narrati nel romanzo. Il disagio delle ragazze nei confronti del proprio corpo che cambia con l’arrivo del mestruo, gli sguardi degli uomini che fanno sentire in colpa e che mettono in imbarazzo. Il fascismo sembra preso come spunto per via dell’ideologie sessiste, la considerazione delle donne pari a zero, buone solo per fare figli, e l’ipocrisia imperante. Dopo l’inizio che fulmina, il romanzo procede pigramente, sembra che non accada nulla, e quello che accade si svolge con estrema lentezza. Poi il romanzo ha un balzo, prende il via, come se la parte centrale sia stata scritta in quel modo, affinché Francesca potesse avere la forza per arrivare più velocemente. Insomma il romanzo è un romanzo storico e di formazione, è bello, avvincente, veicola un messaggio importante, mi è molto piaciuto, in pratica l’ho divorato, però, mio limite, non riesco ad afferrarne l’unicità nella storia e nell’impianto narrativo o in altri ambiti, tanto da fare sgomitare le case editrici per accaparrarselo (così almeno si legge in giro vedi ansa), in libreria ce ne sono tanti di altrettanto ben scritti, ma ben venga anche questo, consiglio di leggerlo. Antonella Pizzo
Quando ai più che non s’interessano di poesia si nomina Fernanda Romagnoli non è sorprendente che non la conoscano, ma è singolare che spesso nemmeno i poeti, chi scrive o legge poesia, l’abbia mai sentita nominare. Poche note biografiche.
Fernanda Romagnoli, nata a Roma nel 1916, ha compiuto studi musicali, diplomandosi in pianoforte dal Conservatorio di S. Cecilia a diciotto anni, da privatista, a venti anni consegue il diploma magistrale. Nel 1943, in tempo di guerra, pubblica la sua prima raccolta di poesie: Capriccio, con prefazione di Giuseppe Lipparini.
L’anno successivo si rifugia a Erba con la famiglia per poi ritornare a Roma nel 1946. Sposa l’ufficiale di cavalleria Vittorio Raganella, il matrimonio col militare la porterà dal 1948 a vivere in diverse città: Firenze, Roma, Pinerolo, e infine Caserta, dove resterà dal 1961 al 1965. Durante questo periodo lavora come maestra e, nel 1965 pubblica la sua seconda silloge: Berretto rosso.
Nonostante la qualità dei suoi scritti e la pubblicazione delle due raccolte di poesia Fernanda Romagnoli soffrì l’isolamento letterario stemperato dall’amicizia di Carlo Betocchi e Nicola Lisi e, infine, di Attilio Bertolucci, grazie al cui interessamento nel 1973, pubblicò la sua terza raccolta: Confiteor.
Ha collaborato con alcune riviste: La Fiera Letteraria, Forum Italicum, e, per la radio, a L’Approdo. Durante la guerra contrasse l’epatite che minò la sua salute tanto da dover essere sottoposta nel 1977 a intervento chirurgico al fegato. L’intervento comunque non la restituì la salute e rimase sofferente, nonostante ciò, anche per consiglio di Attilio Bertolucci e Carlo Betocchi, continuò a scrivere. Nel 1980 pubblica la raccolta considerata il suo capolavoro: Il tredicesimo invitato. Il libro le darà un minimo di notorietà. Gli anni seguenti sono segnati da una sempre maggiore difficoltà a lavorare e da ripetuti ricoveri. Successivamente i problemi di salute continuarono a tormentarla, conducendola anche a ricoveri, nel frattempo qualche poesia veniva pubblicata sul quotidiano Reporter nell’inserto Fine Secolo e sulla rivista Arsenale. Fernanda Romagnoli muore a Roma all’età di settant’anni, presso l’Ospedale Sant’Eugenio, il 9 giugno 1986
Le sue raccolte
Capriccio, Roma, 1943 Berretto rosso, Roma, 1965 Confiteor, Guanda, Parma, 1973 Il tredicesimo invitato, Garzanti, Milano, 1980 Mar Rosso, Il Labirinto, Roma, 1997 Il tredicesimo invitato e altre poesie, Libri Scheiwiller, Milano, 2003
Più di recente, Interno poesia, 2022, “La folle tentazione dell’eterno”.
E le parole vanno via da noi, dalla cera impassibile dei nostri volti, e attivano le leve submarine di altri esseri umani, uguali a noi. Che splendono, talvolta, come noi splendiamo. Senza saperlo. (p. 13)
Maria Grazia Calandrone orfana due volte, privata dei genitori biologici, poi di quelli adottivi, nel romanzo Dove non mihai portata edito da Einaudi nel 2022, proposto da Franco Buffoni al premio strega 2023 “per la tenuta stilistica e la capacità dell’autrice di coinvolgere il lettore in una vicenda storica e umana al calor bianco”, indaga sugli avvenimenti riguardanti la vita e la morte dei suoi genitori biologici. Oltre al succitato Dove non mi hai portata la Calandrone ha scritto nel 2021, edito da Ponte alle Grazie, il romanzo Splendi come vita, che riguarda la sua vita vissuta accanto alla madre adottiva.
Maria Grazia Calandrone, poetessa notevole, ha scritto sotto forma di romanzo una storia autobiografica, da lei definita lettera d’amore alla madre, narrata in prima persona dove racconta, tramite frammenti, immagini e inquadrature, rievocazioni, nel linguaggio poetico a lei congeniale, il complicato e difficile rapporto fra lei e la madre adottiva: Consolazione, detta Ione. Nata nel 1916, era moglie di un parlamentare comunista, insegnante di lettere, colta ed elegante, bionda e bella, così come appare nelle foto e nella copertina del romanzo con la piccola Maria Grazia in braccio. Non ho ancora letto Dove non mi hai portata e, per chi non avesse letto nessuno dei due romanzi, probabilmente è preferibile leggerli entrambi iniziando da Splendi come vita in modo da aderire al tempo della storia e alla stesura della Calandrone.
Un ritaglio di un famoso giornale dell’epoca datato 10 luglio 1965 riporta la notizia che, dopo aver abbandonato nel Parco di Villa Borghese la propria figlia Maria Grazia di 8 mesi, una donna si era tolta la vita buttandosi nelle acque del Tevere assieme al padre naturale della bambina, anche lui annegato. Lei è Lucia, bruna Mamma biologica. Maria Grazia è figlia dell’amore quindi per la società di allora figlia della colpa. La notizia del ritrovamento nel parco della piccola e indifesa Maria Grazia fa scalpore ed emoziona la gente, il giornale di cui sopra scrive in neretto che la bimba NON HA PIU’ NESSUNO. Continua a leggere →
La poesia di D’Angiò mi viene incontro sulla via antica per Matera forse ancora di quel lontano Regno di Napoli, in un giorno insperato e insospettabile. Ha arcate sopraccigliari di sassi e polvere, radici di lavanda negli occhi, cappellone di feltro alle ubbie del vento, pizzetto folto d’autorevole arte e tono gentile nella compostezza del proprio dolore. Parla, tra gigari e favagelli di riarse plaghe dell’animo umano, una lingua vaticinante che quasi non ammette titolo ai suoi molti appelli lirici suddivisi in quattro sezioni nella raccolta “Verranno a perderci in trionfo”, G.C.L. Edizioni, 2022. Parla e come scrive il suo prefatore, Paolo Polvani: “nella sua asciutta compostezza non trascura le ragioni di una resa estetica convincente, persegue un’idea di pulizia e nitore, resta immune da qualsiasi tentazione retorica e non agghinda, non tende ad abbellire il verso, non ricorre ad espedienti manieristici e tuttavia, in virtù di quella frequentazione assidua con la poesia dei maestri, riesce, in maniera spontanea e con grande sincerità, a toccare ottimi livelli e si lascia leggere con piacere”.
Emilio Capaccio
TESTO N. 1
Rara, dimora qualche quiete che non delude, ed è subito un udire di grigiore che rifà il giorno. Ricompare anche l’infruttuosa saggezza di chi non ha mai ingoiato un raggio di sole. Si regge appena sul fondo del cielo, l’ancora che ci tiene al mondo, e la mutilata credenza di farci bastare i resti di ogni lembo di terra. L’immobilità di quell’infinito concede tregua d’inesistenza, finché non s’appresta l’ora che non passa per il tempo. Ed uno spreco d’incompatibilità ci avrà seminato senza stenti.
TESTO N. 19
La sera, gli arenili cominciano a dimenare il ritardo della luce, perché non vuole andare via la perdita di coscienza che è soltanto nella corsa dell’insoddisfazione. L’elica che seleziona il vento, si attenua su quello in ritardo, e la scoperta di una conchiglia sperduta, dipende dall’ora di chiusura della sabbia. Come la scoperta di una mezza felicità dipende dalle cose che devono darsi via, lasciate sui tavoli sparecchiati in fretta.
TESTO N. 9
Ho paura che d’improvviso vada via la luce, mentre cerco il sale nella tua tasca per benedire lo spessore d’aria che si trova bene senza toccarci. Ho degli uomini e delle donne che sanno farsi di solitudine come se tornassero a baciarsi, fino a quando le striature della loro pelle si fanno comode per il tacito consenso di due richieste, vedere il mare e piangere molto. E dell’uno o dell’altro non trascurarne i dettagli, sia ad altezza di piena che di sfusi abbagli, concedendo al cambio di stagione il punto più confidenziale del nostro esistere.
TESTO N. 104
Dovremmo diventare campo appena seminato briciole per i passeri prima della neve, al riposo della migrazione, uno stagno. E punta estrema di roccia dall’altra parte di un’ultima thule e poi nessun ritorno, non si racconta ciò che deve restare. Una luna gonfia a dominare l’occhio nero del buon Dio, dovremmo essere, una ferita che non sana il peccato originale. Salvare la lacrima che scioglie la melma, la frase d’amore al nostro carnefice, che nonostante tutto da una stessa bocca si è donata.
Francesco D’Angiò è nato a San Vitaliano (Na) nel 1968. Esordisce nel 1997 con la pubblicazione di un racconto edito da “Alea Editrice Bari” dopo aver vinto un concorso per esordienti. Riprende il filo interrotto della narrazione con la pubblicazione del romanzo breve “Lo sconosciuto” (Planet Book, 2020). L’amore per la poesia sin dall’età adolescenziale, così come varie volte accade, lo porta a partecipare a vari concorsi letterari, riservandogli piazzamenti lusinghieri. Nel 2021 pubblica la prima raccolta di versi dal titolo “Clessidre orizzontali”, Edizioni Tripla EEE. Nel 2022 pubblica la sua seconda raccolta: “Verranno a perderci in trionfo”, G.C.L. Edizioni. Attualmente vive a Matera.
Il nuovo romanzo di Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te, edito da Feltrinelli nel 2023 p.352, proposto per il Premio Strega 2023 da Nicola Lagioia, è un romanzo ispirato a vicende realmente accadute, così come il precedente e bellissimo Le assaggiatrici ambientato in Germania durante la seconda guerra mondiale, che trae ispirazione dal racconto di Margot Wölk la quale a 96 anni confessò di essere stata una delle assaggiatrici del cibo di Hitler nella caserma di Karusendorf. Le assaggiatrici edito nel 2018 da Feltrinelli ha venduto, fra l’Italia e l’estero, 300.000 mila copie e ha vinto il Premio Campiello 2018.
Le vicende narrate dal romanzo Mi limitavo ad amare te partono da Sarajevo durante il conflitto della Bosnia – Erzegovina degli anni ‘90. Il racconto inizia nel 1992 e prosegue fino al 2011, durante una guerra combattuta vicino casa nostra ma che forse buona parte degli italiani ha vissuto con un certo distacco, come se gli orrori accadessero lontano anni luce da noi e non nell’altra sponda dell’Adriatico. I protagonisti del romanzo, Omar, Senadin, Ivo, Danilo e Nada, non sono realmente esistiti ma le loro vicende romanzate sono alquanto verosimili. Nel 1992 Sarajevo era stata posta sotto assedio e veniva bombardata da mesi, mancavano luce, acqua e cibo. Gli educatori e i responsabili dell’orfanotrofio Ljubica Ivezić dopo lo scoppio di una bomba nell’istituto, che aveva causato il ferimento di due bambini, decisero che i minori ospitati venissero portati in salvo in Italia. Così gli orfani e bambini disagiati, che vivevano nella struttura, furono fatti salire su un pullman per Spalato per essere condotti in un luogo sicuro lontano dalla guerra. Da Spalato furono trasferiti in aereo a Milano e quindi divisi fra Rimini e Monza per trascorrervi le vacanze estive. Continua a leggere →
Il romanzo Bly di Melania Soriani, uscito nel 2022 ed edito da Mondadori, narra le vicende della giornalista statunitense Nellie Bly, pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran, vissuta tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, in un periodo in cui alle donne non era consentito esercitare quelle professioni considerate prettamente maschili, secondo la mentalità dell’epoca, ma solo quelle attinenti al cosiddetto “universo femminile”. Pizzi, merletti, ricamo, cura della casa e della famiglia, erano attività alle quali dovevano dedicarsi le donne dei ceti agiati. Operaie in fabbrica, sarte, serve, contadine, braccianti, erano attività proprie delle donne del ceto popolare. Le altre professioni, l’avvocatura, la medicina, il giornalismo, la partecipazione ad attività politiche e molte altre ancora, erano riservate esclusivamente agli uomini, in quanto le donne erano ritenute incapaci per natura di svolgere compiti intellettivi. Elizabeth Jane, tredicesima dei quindici figli del giudice Michael Cochran, dei quali una diecina nati dall’unione con la precedente e defunta moglie, nacque a Cochran’s Mill in Pennsylvania nel maggio del 1864.
Quando la bimba nacque il padre si mostrò molto orgoglioso di presentare alla famiglia quel fagottino rosa, così tanto rosa che la bimba fu soprannominata Pink. La famiglia all’apparenza era benestante, infatti il padre, oltre ad essere un giudice, era anche un discreto uomo d’affari. La piccola Pink cominciò a essere interessata ai libri ancor prima di saper leggere, disdegnava i giochi delle bambine e voleva giocare con i fratelli. Ribelle e testarda nascondeva i volumi della biblioteca del giudice per poterli guardare di nascosto. Alla morte improvvisa del capofamiglia i Cochran caddero in disgrazia, furono costretti a lasciare la casa dove avevano vissuto fino ad allora. Elizabeth dovette interrompere gli studi, la madre fu costretta a risposarsi perché serviva lo stipendio di un marito. L’uomo che sposò però si rivelò essere violento e ubriacone, la sfruttava, la picchiava costantemente. In seguito, grazie alla determinazione della figlia Elizabeth, la madre ebbe il coraggio di divorziare. A seguito della lettura di un articolo di un giornale locale, il Pittsburgh Dispatch, dal titolo A cosa servono le ragazze, nel quale si invitavano le donne a non lavorare ma a stare chiuse in casa a badare alla famiglia, Elizabeth presa dall’indignazione e dal furore femminista, dal senso di giustizia che la caratterizzava, secondo il quale tutti gli esseri umani sono uguali e hanno uguali doveri e diritti, siamo essi uomini o donne, inviò una vibrante lettera di protesta al giornale firmandosi come Lonely Orphan Girl. Dopo vari abboccamenti e traversie, il direttore riconobbe l’indubbio valore intellettuale e il coraggio di Elizabeth, anche perché il giornale aveva aumentato la tiratura, e assunse la ragazza. Si decise che Elizabeth avrebbe utilizzato lo pseudonimo di Nellie Bly. Così iniziò la sua fortunata carriera di giornalista investigativa. Coraggiosa e intelligente, fingendosi operaia e facendosi ingaggiare da una fabbrica, scoprì e denunciò sul giornale per il quale scriveva gli atti di violenza, gli abusi e le condizioni inumane del lavoro a cui erano costrette le operaie delle fabbriche. Questa nuova forma di giornalismo investigativo, inesistente prima di lei, divenne presto un modello di riferimento nel mondo del giornalismo che ancora oggi viene praticato. In seguito si trasferì a New York e fu assunta dal New York World di Joseph Pulitzer, col patto che conducesse un’inchiesta sulle condizioni del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico City Mental Health Hospital di Manhattan. Questa volta Bly si finse una povera donna smemorata. La donna venne internata in manicomio per parecchi giorni, e si rese testimone diretta delle terribili e inumane condizioni in cui venivano trattate le pazienti recluse. Bly nonostante pensasse di essere indenne da romanticismi e avesse deciso che il matrimonio, così come era considerato all’epoca, non era adatto a lei, si innamorò di un uomo affascinante che diceva di amarla. Quando scoprì che era un uomo sposato e con figli, lei ne soffrì molto. Intraprese da sola un viaggio che la portò a visitare il mondo in 72 giorni emulando Fogg del giro del mondo in 80 giorni di Giulio Verne, il quale, incuriosito e ammirato, la volle conoscere durante una tappa del suo viaggio.
Il libro è molto scorrevole e si legge con piacere, con una scrittura chiara e leggera nonostante la tematica importante, la scrittrice fa parlare Bly in prima persona. Milena Soriani ci racconta la storia di questa donna speciale e moderna, anche se vissuta un secolo fa. Nellie Bly si racconta e non parla solo del suo coraggio e la sua determinazione, ma anche delle sue tante fragilità e delle sue debolezze e delle sue paure. Nellie non è una wonder woman che indossa un costume sfavillante e sbaraglia in men che non si dica gli avversari, è una donna comune, con pregi e difetti, ma che ha avuto volontà ferrea. Indomita e combattiva non è mai arretrata davanti agli ostacoli che inevitabilmente si incontrano nel perseguire le proprie passioni, non lasciandosi mai sopraffare dallo scoramento. Con intelligenza, con serietà, con fermezza, ha perseguito i propri scopi credendo nella giustizia e nell’uguaglianza. A Nellie Bly noi donne dobbiamo essere grate, così come a Melania Soriani che ci ha raccontato la sua storia con amore e il rispetto che questa figura merita. Le donne hanno combattuto per decenni per la libertà e per il riconoscimento dei propri diritti, con convinzione, con passione, lottando per l’affermazione. Ma la libertà delle donne viene costantemente minacciata, e il pensiero va alle donne iraniane, prigioniere e vittime, e a tutte le donne che subiscono abusi e violenze. Ci sono tante Bly che combattono per la disparità di genere, per la libertà e per i diritti con coraggio, senza arrendersi, pagando spesso con la vita.
Melania Soriani è nata a Roma nel 1965 e vive a Carrara. Ha pubblicato diversi racconti in antologie e riviste. Con il romanzo per ragazzi In viaggio con Amir si è aggiudicata il premio Selezione Bancarellino 2019.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.