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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi autore: Deborah Mega

Alessandro Barbato, Inediti

03 venerdì Feb 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Alessandro Barbato

 

1.

Il sonno protegge il ricordo
di quando soltanto eravamo
due gocce di pioggia nel cielo,
mai pronte davvero a cadere
se il vento setaccia le vie
dei nostri piaceri scarlatti.
Mantiene al sicuro il legame
segreto col mondo che adesso
velato, lontano, più in basso
ci appare minuscolo e fitto
di trame, di gente che passa
senza guardare se piove o se il Sole
bisbiglia di nuovo tra nuvole
appese un vagito di pace.

Veli di Sole

2.

Ho lasciato arrossare i miei occhi
al miraggio d’un fuoco
che inganna le mani, nutrito
da voci di boschi lontani
e segreti, in cui accovacciato
da bestia affamata ho sperato
sorgesse più in fretta la Luna
a schiarire i sentieri di notti
di pietra. Ora ho il mio sogno di ghiaccio
e d’argento che basta a sé stesso,
ho anche imparato a distinguere
i venti, tentando i miei passi
persino nel buio, con gli occhi
più rossi, ma senza le fiamme
che il tempo ha tradito.

A fuoco lento

3.

Resta più in disparte –
se la sorte mi rovescia addosso
il grido della pioggia trattenuta
nello stomaco – il desiderio d’ali
che tormenta le mie scapole
da quando i tuoi sorrisi sono larve
di silenzio; nascosto nei sussurri,
nei sospiri impercettibili
di un universo spoglio,
quasi fosse un casolare adesso
sfitto in cui si addensano
le crepe dei ricordi e dei rimorsi.
Ma aspetterò lo stesso che mi spuntino,
testardo, anche senza più alcun nido
da raggiungere cantando,
io non riesco a fare altro.

Incorreggibile

4.

Ritiro i pensieri e i respiri
accecati di troppe parole
nel palmo di nebbia che ancora
rimane a riparo dal vento
solare che soffia sul mondo,
tra i poveri sguardi dei nostri due
corpi. Riposino lievi, sepolti
dal tempo che sempre ci manca,
tra i pochi frammenti che salvano
un giorno, da quando ogni passo
è un pontile interrotto tra grumi
di senso che illudono gli occhi.

Quattro passi

5.

Non è pace, no, la luce
se ci brucia le pupille,
se arde lucida planando
più lontano d’ogni sogno.
Non è pace, no, ma vita
che ramifica di fiamme,
passa lieve i resti d’ombra
che ora paiono silene
profumate nelle notti
mie in attesa d’un prodigio
che rovesci il giorno e il mondo,
quando scalda i corpi vuoti
di elettricità di sensi.
Non è pace, mai, la luce
quando viaggia sul tuo volto,
se procede dalle dita
tue che scavano il mio buio.

Silene

Alessandro Barbato

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“Il ritratto ovale” di Edgar Allan Poe

30 lunedì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Edgar Allan Poe, Il ritratto ovale, racconto gotico

 

“Il ritratto ovale”, The Oval Portrait, inizialmente edito con il titolo “Life and Death”, è un racconto breve di Edgar Allan Poe, scritto nel 1842. Il narratore della storia, misteriosamente ferito, si trova a dover forzare l’ingresso di un castello trovato casualmente sugli Appennini insieme al suo valletto. I due vi si introducono per passarvi la notte e scelgono di dormire in una delle tante stanze del castello: una camera della torre, riccamente adornata di quadri e pitture di ogni tipo. Il protagonista resta estasiato dai dipinti che decorano le pareti della stanza e, mentre il domestico si assopisce, comincia a sfogliare un libro, trovato su un cuscino, che descrive la storia di ciascun quadro. Continua a leggere →

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Se questo è un uomo / Sognavamo nelle notti feroci di Primo Levi

27 venerdì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in Cronache della vita, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Primo Levi

 

Primo Levi (1919-1937), chimico e scrittore, dopo aver trascorso undici mesi di internamento ad Auschwitz, rientrò a Torino il 19 ottobre 1945 e cominciò a raccontare quello che aveva vissuto. La poesia è tratta dal libro “Se questo è un uomo”.

 

“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

O vi si faccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

 

La foto ritrae alcuni prigionieri nei dormitori, subito dopo la liberazione del campo di Buchenwald, nei pressi di Weimar, I’11 aprile 1945.

 

Tomato in ltalia dopo  la deportazione, Levi scrisse anche la poesia che presentiamo. In essa condensa l’impossibilitä di lasciarsi alle spalle l’esperienza vissuta; nonostante il ritorno a casa, per lui e per i suoi compagni non smetteră di risuonare l’ordine di alzarsi che i detenuti ricevevano all’alba. Circa vent’anni più tardi, la poesia fu scelta da Levi come testo di apertura de La tregua, libro pubblicato nel 1963 in cui egli racconta il lungo viaggio compiuto per tornare in ltalia, dopo İa liberazione di Auschwitz.

 

Sognavamo nelle notti feroci

Sogni densi e violenti

Sognati con anima e corpo:

Tornare; mangiare; raccontare.

Finché suonava breve sommesso

Il comando dell’alba:

«Wstawać »:

E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,

Il nostro ventre è sazio,

Abbiamo finito di raccontare.

È tempo. Presto udremo ancora

Il comando straniero:

«Wstawać».

 

(P. Levi, Opere complete. vol. II, Einaudi, Torino 2016, p. 686)

 

 

1.      Wstawać: «Alzarsi», in polacco.

 

 

 

 

 

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“La pazzia di mia moglie sono io”. Storia di un amore tragico.

23 lunedì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Luigi Pirandello, Maria Antonietta Portulano

 

Era il 27 Gennaio 1894 quando Luigi Pirandello, nella chiesa della Madonna d’Itria a Girgenti, convolò a nozze con Maria Antonietta Portulano. Lo scrittore si trovava a Roma e aveva venticinque anni quando gli giunse per lettera la proposta del padre Stefano, proprietario di una miniera di zolfo, di convolare a nozze con la figlia del suo socio d’affari Calogero Portulano. Pirandello accettò la proposta di buon grado anche perché rimase subito affascinato dalla bellezza sensuale e malinconica della donna, cresciuta con le suore di San Vincenzo.  Calogero, che aveva fatto inconsapevolmente morire di parto la moglie impedendo al medico di visitarla per gelosia, cominciò a provare avversione per il futuro genero tanto da tentare di mandare a monte il matrimonio che aveva pazientemente preparato. Durante il fidanzamento lo zio materno Vincenzo aveva messo in guardia Luigi. Antonietta era figlia di “due pazzi gelosi e sarebbe stata pazzissima più dei genitori”. Nonostante i due giovani si fossero incontrati solo poche volte prima del matrimonio, si innamorarono. Dopo una settimana dalle nozze i neosposi si trasferirono a Roma, e nonostante le difficoltà iniziali di Antonietta nell’adeguarsi alla vita cittadina, tutto procedeva serenamente. Nell’arco di pochi anni nacquero i tre figli, Stefano, Rosalia Caterina detta Lietta e Fausto. La famiglia visse felice fino al 1903, grazie anche ai proventi che la miniera di zolfo garantiva e che i rispettivi padri inviavano ai giovani sposi. Un giorno lo scrittore rientrando a casa, trovò la moglie in evidente stato confusionale per via di una paralisi alle gambe. La donna aveva appena appreso da una lettera del suocero, che la miniera di zolfo di Aragona, comprata dal padre dello scrittore qualche tempo prima investendo l’intero patrimonio e perfino la dote di Antonietta, si era allagata.

“Era la fine e don Stefano scrisse tutto al figlio. Senonché la lettera, essendo Luigi a scuola [Pirandello in quel periodo lavorava come insegnante di Lettere presso un istituto femminile], venne consegnata ad Antonietta la quale, come abitualmente faceva, riconosciuta la grafia del suocero, l’aprì e la lesse. Qualche ora appresso Luigi, tornando a casa, trovò Antonietta semiparalizzata sopra a una poltrona, gli occhi persi, distrutta. È l’inizio dichiarato di quella malattia mentale che avrà, nei primi anni, alti e bassi, ma che peggiorerà col passare del tempo”.

[Andrea Camilleri, “Biografia del figlio cambiato” Ed. Rizzoli]

Lo scrittore non si perse d’animo ma potenziò gli impegni lavorativi, dava lezioni private di italiano a stranieri, chiedeva compensi per le novelle che scriveva in quel periodo, ottenne l’incarico di supplente al Magistero e intanto scriveva i saggi “Arti e scienze” e “L’umorismo”. Nei mesi successivi Antonietta si riprese dallo choc ma cominciò a manifestare segni di gelosia ossessiva nei confronti del coniuge. Lo accusava di tradimenti e scappatelle inesistenti fino a quando la situazione divenne insostenibile. Le scenate di gelosia si fecero sempre più frequenti e violente. La donna era gelosa di chiunque intrattenesse un dialogo con il marito, delle allieve e delle attrici che incontrava a causa del suo lavoro da drammaturgo. Lo scrittore doveva spesso prendere una stanza in affitto e allontanarsi di casa o accompagnare la moglie in Sicilia con i figli più piccoli. Risale a questo periodo la stesura de “Il fu Mattia Pascal” il romanzo che lo rese celebre presso il grande pubblico. La famiglia, le difficoltà economiche, le avversità e la follia diventarono i temi ricorrenti nella sua opera mentre la corrispondenza tra la letteratura e la vita si faceva sempre più stretta. Come i suoi personaggi si sentiva stretto in una morsa eppure continuò a restare a fianco della moglie, fino a quando comprese che avrebbe dovuto allontanare la donna per preservare il benessere dei figli. Con nessuno esternava il suo dolore e le sue difficoltà, sfogandosi solo con la sorella Lina: “A quarant’anni, mezzo calvo, con la barba quasi tutta bianca, perduti gli averi; distrutta la casa; lontano dai figli. La mia sorte è veramente tragica, Lina mia, e per me non c’è scampo. Sono stato colpito nei più sacri affetti, e la vita ha perduto ogni pregio; agli occhi miei quella donna disgraziatissima non può guarire: ho potuto sentire e misurare l’orrido abisso di quell’anima. Non guarirà, non può guarire”.

La pazzia di Antonietta si acutizza dopo la morte di Calogero Portulano nel 1909, la donna, forte dell’eredità paterna, può permettersi l’ andirivieni tra Roma e Girgenti, dove ha casa e poderi. Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, quando il primogenito Stefano fu chiamato alle armi, accusò lo scrittore di averlo fatto partire. Il disagio psichico intanto si riversava anche su Lietta da cui si sentiva perseguitata d’intesa col marito. Pirandello insieme ai figli, si resero conto di non poter gestire lo squilibrio mentale della donna e così, nel gennaio del 1919, presero la dolorosa decisione di internare Antonietta in una clinica psichiatrica di Roma, “Villa Giuseppina” sulla via Nomentana. “La pazzia di mia moglie sono io”, così scriveva Pirandello all’amico giornalista Ugo Ojetti in una lettera del 1914, dopo la lettura del referto specialistico del dottor Ferruccio Montesano che dichiarava la Portulano affetta da “una forma irrimediabile di paranoja” che la rendeva “pericolosa per sé e per gli altri”.

“Ho una moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io, il che ti dimostra senz’altro che è una pazzia vera. Io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato da tutto il consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto d’adombrarsi. Ma non è giovato a nulla, purtroppo; perché nulla può giovare! I medici hanno dichiarato che è una forma irrimediabile di paranoja, del resto ereditaria nella sua famiglia. “

Pirandello si dedicò completamente alla stesura di novelle, romanzi e opere drammaturgiche viaggiando per l’Italia e per l’Europa, fortunatamente non perse mai la vena artistica. La Portulano restò in clinica fino al 1959, anno della sua morte, senza mai voler più rivedere suo marito, nonostante non accettasse mai la separazione legale e continuasse a firmarsi, anche dopo il ricovero, Antonietta Pirandello.

©Deborah Mega

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“Nei giorni” di Enza Sanna. Recensione di Enzo Concardi.

20 venerdì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Enza Sanna, Enzo Concardi, Nei giorni

 

Dopo aver letto le pagine della raccolta Nei giorni, della poetessa genovese Enza Sanna, si scopre che la citazione in esergo di Sandra Reberschak – autrice nativa di Venezia – è paradigmatica anche per taluni percorsi esistenziali, psicologici e spirituali che emergono nel libro che stiamo recensendo. Eccola: «Tanti anni sono passati / e io non ho smesso mai / veramente di provare / il vuoto incolmabile / che mi dilaniava bambina, / ma ho dovuto imparare / a cercare altri rifugi, / come quello della gratificante / certezza delle parole». Forse per la nostra poetessa quel “vuoto” non è così radicale, ma esso esiste nonostante che la memoria degli affetti familiari perduri nel suo animo senza fine: «Stempera il tempo il dolore della perdita /…/ ma la famiglia d’origine è per sempre / non ti lascia mai nel tuo cammino / è parte di te, rivive nei gesti e nei pensieri / è assenza fisica mutata in spirituale presenza / fortissima, ma non ti assolve / dall’incolmabile vuoto che abita il tuo cuore» (La perdita e l’assenza). E così la figura materna suscita in lei sentimenti dolcissimi di gratitudine per il dono della vita e per esserci sempre nei giorni solitari della sua parabola terrestre, nel senso di amarezza che copre anche esperienze e ricchezze esistenziali (Dodici maggio), mentre il ricordo del Natale in famiglia la riporta nel cuore autentico dei legami di sangue. Del resto, in altre liriche, Enza Sanna si fa trasportare nella dimensione memoriale, ricostruendo attimi e momenti del passato nella sua terra d’infanzia con quella forte oniricità e, allo stesso tempo con senso di concretezza, che si rivelano tra le cifre più importanti della sua poetica: e vede la quotidianità nei casolari collinari, il danzare agreste nelle aie contadine, assapora il profumo del pane croccante appena sfornato, ascolta il fruscio del vento fra mandorli, mirti e ginestre e il maestrale che turba la risacca marina.  I “rifugi” della Reberschak potrebbero essere quei quieti angoli di mondo, quelle zone tranquille dello spirito, quel ripiegarsi in sé tipici del crepuscolarismo gozzaniano, così come si possono anche, talvolta, riscontrare nella Sanna che, d’altro canto, possiede inoltre interessanti introspezioni in cui, se il referente di partenza è individuale, indi diviene metamorfosi e sublimazione nell’universale e nel metafisico. Ne è testimonianza – tra le altre – la lirica Certezza di cose vere, dove l’aurora, la luce, la speranza, l’eternità appaiono essenziali per la vita, come necessari sono quei bipolarismi filosofici e comportamentali anch’essi parte importante della sua visione del mondo: qui si tratta dell’incontro fra «mente e cuore», «passione e cautela», «trascendenza e ragione» … e l’immaginazione colma «un vuoto d’amore». Ed anche Sopraggiunge il crepuscolo, dove gli oggetti di casa si trasformano in attaccamento verghiano alla ‘roba’. Il motivo della luce, in tutte le sue valenze e dimensioni, mi sembra tuttavia prevalente e signoreggiante su ogni altro. E non potrebbe esserci testo più esplicito de L’allegria della scrittura per significare la funzione della poesia secondo la poetessa. Di fronte all’inesorabile ‘panta rei’ eracliteo e all’incertezza della condizione umana, i versi finali non lasciano dubbi sul valore catartico della letteratura: «…Soccorre il canto / la parola che può esser pietra o farfalla / ma l’allegria della scrittura è atto di speranza / per l’anima che anela l’infinto / ha fame del mito, voglia d’oceano / a nutrire impalpabili emozioni / come bianche meduse in cresta all’onda».  Lo stile predilige un andamento pieno e corposo, ricco d’immagini sia paesaggistiche (albe, tramonti, terra ligure, atmosfere suggestive) che figurazioni di categorie filosofiche, con presenze di metafore, ossimori, sinestesie ed altre figure retoriche. Il linguaggio è al servizio di quel senso del mistero («l’occulto regista») che aleggia spesso nelle sue dimensioni pneumatiche. I toni sono sempre elevati, sostenuti, essenziali senza cadute di sorta. Diverse liriche sono riedizioni dell’idillio leopardiano tramite contemplazioni della natura associate a riflessioni che sono uno sguardo sul mondo e sulla vita, e un alternarsi di amarezze e speranze, illusioni e delusioni, vanità del tutto e fiducia nel futuro. Ma l’ancora di salvezza ai silenzi, alle solitudini, all’inadeguatezza esistenziale, al vuoto e al nulla del consumismo e della tecnologia… è sempre Dio (Tu che accendi le mie vie) poiché l’uomo non basta a se stesso.

Enzo Concardi

Enza Sanna, Nei giorni, pref. di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 100, isbn 978-88-31497-89-3, mianoposta@gmail.com.

 

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La sensibilità decadente di “Ballate nere”. Nota di lettura di Deborah Mega

16 lunedì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Ballate nere, Deborah Mega, Diego Riccobene

Diego Riccobene

Ballate nere

Italic, 2021

Prefazione di Carlo Ragliani

Postfazione di Mario Famularo

 

Ballate nere è il libro di esordio di Diego Riccobene, una preziosa silloge di poesie edita da Italic nel 2021. Il titolo, che accosta qualcosa di positivo e rasserenante come possono essere delle ballate, è associato al nero, ricorrente più e più volte nel corso dell’intera opera anche nelle diverse accezioni di sera, tenebra, ombra quando l’autore scrive Io credo nell’iniqua malasorte, / nel taccuino nero; Laonde appresi il morto magistero / dello sprezzo paziente contro il fermo / giudizio senza appello, il guado nero, / quando menziona il libro del nero Arimane oppure Un solo punto nero / nel lungo imperio sfibrante d’agosto; Prosciolti da ogni vincolo, li vedo / quegli incubi pennati nero notte e ancora L’esilio deve consumarsi adesso, / nel dolio vaporante d’acque nere. Procedendo nella lettura, in esergo compare una citazione tratta dal Faust di Goethe, Nulla c’è che nasca e non meriti di finire disfatto, che sancisce una condizione esistenziale di assoluto disincanto, mentre si vorrebbe a tutti costi raggiungere un infinito che ci è precluso dall’imperfezione della nostra natura umana. Continua a leggere →

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“Cronache dalla terra di nessuno” di Maria Giovanna Massironi. Una lettura di Rita Bompadre.

13 venerdì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Cronache dalla terra di nessuno, Maria Giovanna Massironi, Rita Bompadre

 

“Cronache dalla terra di nessuno” di Maria Giovanna Massironi (Albaccara – Casa editrice, 2020 pp. 112 € 12.00) è una raccolta poetica intensa che assorbe dalla consapevolezza del dolore la linfa vitale e compassionevole della memoria. La poesia di Maria Giovanna Massironi accoglie testi arrendevoli al disagio emotivo e resistenti  al vincolo della speranza. L’autrice genera, attraverso una persistente confessione quotidiana, l’apprensione del proprio stato d’animo, la sofferenza dei giorni e delle notti, scandita dall’irrequietezza dei pensieri, in balìa del segnale della frattura esistenziale. Coglie la lesione dell’anima, una ferita accompagnata dalla malinconica amarezza di ogni sospensione della vertigine e dal profondo tormento per gli incubi e i fantasmi che si aggirano, crudeli e magnetici, nella sua mente. Maria Giovanna Massironi abita la terra di nessuno, il territorio conteso dai timori e dalle incertezze del vivere, il non-luogo della fluidità sensibile, il confine interpretativo della propria identità. Il libro confessa la rapida e spontanea evidenza dello smarrimento emozionale, sintonizza il fruscio segreto dell’umore, il silenzio nascosto dell’inadeguatezza. I testi, solo apparentemente frammentari, elaborati con la lealtà dell’impulso, donano il senso compiuto e graduale di una scrittura senza impedimenti, la libertà sincera di una funzione liberatoria, la capacità creativa di orientare le energie soffocate dall’affanno della perdizione. “Cronache dalla terra di nessuno” esprime una forma di premonizione istintiva, avvinta alla soglia del mondo interiore e all’esperienza delle sensazioni, collega l’ipotesi indefinita e disorientante delle difficoltà al riscatto di un orizzonte vagheggiato, varca la soglia della malinconia osteggiando l’inquietudine. Maria Giovanna Massironi resta “in limine”, sulla soglia dell’espressione, dona al lettore il suggerimento sentimentale per affidare alla vita sempre una straordinaria opportunità di rivendicare il proprio tempo. L’occasione letteraria di sollevare le proprie riflessioni evidenzia il privilegio di tradurre l’oggettività delle pagine dense di significato, di comprendere l’avvicendarsi degli eventi patiti, di condividere l’importanza del vissuto, la commovente e indecifrabile percezione della grazia. La poesia gratifica ogni ispirazione individuale, estende la consistenza del respiro universale, sfiorando la complicità della resistenza. La provvisorietà di una bruciante esistenza collega l’influenza dei versi, disgiunge la frattura dell’anima, il duro scontro inevitabile con la realtà, coglie la complessità delle vicissitudini, l’enigma delle illusioni. La poetessa, con uno stile originale, convincente e attuale, segue sempre l’eco di una psicologica attenzione al monito della coscienza, nell’individuare la riparazione del torto, nel consolidamento temporale dello spirito.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

Notte dieci. Giorno undici.

 

La notte appartiene agli ubriachi

e l’alba conserva

il suo splendore di albicocca.

La rivoluzione resterà un sogno

perduto nelle chiacchiere del mattino.

Voce d’argano e ruggine

viene dal mare e vi si perde.

Non il velluto, ma la ruggine

ha invaso ogni cosa.

Ci ha preso cuore e cervello.

Nervi e sangue.

Al richiamo di quella voce

abbiamo inseguito chimere

e mille volte siamo morte.

 

Nel giorno undici

non c’è posto per noi.

Stiamo come in porto

a tagliare pomodori,

a prua della nostra

piccola casa rosa.

 Solo le zanzare sono tornate.

 

 

 

Notte trentuno. Giorno trentadue

 

Nella notte abbiamo perso un calzino.

Il destro per l’esattezza.

Pensando di fare bene

ci siamo tolti anche il sinistro

e abbiamo sbagliato.

Alle ore 5,28 siamo completamente

svegli con tutta la nostra disperazione

e i piedi gelati.

Sotto le finestre, niente storie

di lupi e di pirati.

 

Il cielo è azzurro e le strade sono deserte.

Niente ci consola.

Il giorno trentadue inizia

pieno di ansie e preoccupazioni.

Spegniamo la radio.

Ci sono cose che

                                non si possono più ascoltare.

 

 

Notte quarantatré. Giorno quarantaquattro

 

Il buio non finisce mai.

Attraversiamo la città,

camminando sotto la pioggia.

I tetti sono lucidi

e noi siamo bagnati fino alle ossa

come le nostre carte

e i libri che portiamo a tracolla.

Sono bagnati i quaderni con le copertine

di cartoncino leggero che si slabbrano

e si abbandonano ad un’onda molle e pendula.

Siamo svegli dalle cinque.

Piove e non fa freddo.

Le nostre scarpe non tengono più la pioggia

e l’acqua arriva fino alle caviglie,

gonfia le calze che resteranno umide per ore.

L’ombrello ci avvolge floscio

e ci rende difficile vedere

dove mettiamo i piedi.

La tracolla ci taglia il respiro.

Tosse e fuoco nel petto.

Torniamo a casa

cercando una fuga

tra i buchi del selciato

che sono piccole voragini

di terra e sassi.

 

Nel giorno quarantaquattro

qualcuno si è preso la sua piccola vendetta.

 

I nani hanno lasciato il giardino

                              e con le scarpe infangate

                              sono entrati in casa

                              sporcando dappertutto.

 

Notte cinquantotto. Giorno cinquantanove.

 

Che parole usare nel giorno più buio?

Tronche? Piane? Sdrucciole? Bisdrucciole?

Piane, con cadenza di adagio.

Rassicuranti e confortevoli parole piane.

Casa. Libro.

No certo caffè oggi.

E neppure gioventù

e meno che meno libertà.

Le parleremo tutte piane.

Sommesse, quasi silenziose.

Piano. Piano. Forte.

Il presente è all’improvviso tronco.

Ricorderò.

Ricorderemo estati perdute.

Le città sul mare. I caffè turchi. I sogni.

I tuoi occhi bellissimi.

Le domeniche a san siro.

Le luci in galleria.

La sabbia umida. Le partire a pallone.

La salita ai bottini. Gli ulivi. I gatti.

Suonare insieme alle vocali.

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Le lacrime

09 lunedì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Racconti

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La grammatica di Dio, racconto fantastico, Stefano Benni

 

“Le lacrime” è uno dei venticinque racconti brevi che costituiscono “La grammatica di Dio” di Stefano Benni. Il sottotitolo Storie di solitudine e allegria introduce il senso delle vicende tragicomiche e talvolta surreali descritte nei racconti da cui emerge una sorta di tristezza e di malinconia che vuole sottolineare la solitudine e l’imperfezione dell’uomo contemporaneo. Ogni personaggio di Benni, animato o inanimato che sia, acquista cuore, anima, personalità. Benni concentra la complessità del reale, le nevrosi collettive e, da grande affabulatore, seduce e incanta con le sue storie fantastiche eppure verosimili. In questo racconto, nella normale vita quotidiana di una città moderna improvvisamente compaiono oggetti misteriosi, strane formazioni definite lacrimoidi. Nessuno riesce a dare una spiegazione razionale del misterioso evento, né le autorità né l’Istituto di medicina legale e la facoltà di Zoologia, ad eccezione di un bambino, l’unico in grado di trovare una spiegazione logica. Il racconto fa riflettere il lettore trasmettendo il messaggio che l’insoddisfazione a volte derivi da una vita vissuta senza coltivare e perseguire i propri ideali e le proprie passioni.

*

Le prime apparvero all’alba in periferia. Gli addetti alla spazzatura ne trovarono una decina in un prato. Stavano per caricarle sul camion, pensando che fossero sacchi di plastica, quando si accorsero della loro stranezza. Grandi bolle sgonfie, meduse traslucide, alcune ovali, altre oblunghe, talune di forma irregolare, come un frutto flaccido e malformato. Al tatto non erano viscide né molli, ma possedevano la consistenza della pelle di un animale, un delfino ad esempio, mentre alcuni avvertivano il calore di un tessuto morbido. In realtà, parevano consistere di materia diversa a seconda di chi le avvicinava. Anche se sembravano guaste, morte, non emanavano cattivo odore. Erano di colori tenui e incerti, dal giallo chiaro all’azzurro perlaceo. Ma quello che colpì i primi scopritori fu che dentro alla materia opalina, lattescente, di alcune di esse sembrava apparire, a tratti, l’ombra di un volto, o l’istantanea di una scena, e qualche volta dall’interno esalava un lieve suono, una voce remota.
Le autorità presero in mano la situazione. Le lacrime, o lacrimoidi, come furono subito battezzate, furono esaminate in luoghi diversi. Alcune furono portate all’Istituto di medicina legale, altre alla facoltà di Zoologia, e un paio, segretamente, a un laboratorio militare che si diceva specializzato nello studio di apparizioni aliene.
In un primo tempo corse la voce che potessero essere pericolose uova marziane, pronte a schiudersi e scatenare un’invasione. Ma le analisi stabilirono che non erano forme di vita, almeno come noi le intendiamo. Non avevano organi né metabolismo, erano inerti, formati da materie terrestri, silicio, carbonio, sali, anidride carbonica, mucine e lipidi, anche se combinati in modo assai strano, né minerale né vegetale, qualcuno disse primordiale, senza saper spiegare di più.
Ma studiarle a fondo non era facile: se si cercava di penetrarne le pareti svanivano quasi senza lasciare traccia, riducendosi a una goccia che evaporava in pochi istanti. Alcune si dissolsero sotto gli occhi degli scienziati, quasi non sopportassero neppure uno sguardo indagatore.
E il giorno dopo, un centinaio di lacrimoidi furono segnalati in varie parti di quella città. In cortili, in strade, anche sul terrazzo di una casa.
Chi le trovava confermava che si potevano toccare, ma appena si provava ad aprirle, si dissolvevano. E svanendo esalavano nell’aria rumori simili a voci umane, e sprigionavano riflessi e colori, schegge di aurora boreale. Ma nessun registratore o telecamera riusciva a catturare il minimo suono o immagine.
Non erano urticanti, né velenose, né tossiche, stabilì l’apposita commissione scientifica. La conclusione era quindi che, con ogni probabilità, si trattava di grosse, anomale gocce di pioggia, che l’inquinamento aveva reso mutanti, mostruose. Non era escluso che contenessero qualche tipo di gas sconosciuto, in grado di causare lievi allucinazioni uditive o visive.
Inutile dire che su stampa e televisione uno sciame di esperti si scatenò a ipotizzare e teorizzare, anche perché la città era ormai invasa dai lacrimoidi. Per gli scienziati erano il frutto inquietante dell’incombente marasma climatico. Per i fanatici religiosi erano un avvenimento soprannaturale. Per i politici erano il risultato della dissennata politica ambientale della parte avversa. Per gli intellettuali erano materiale poetico scadente, anzi meraviglioso, anzi indicibile, e la polemica li torceva in liti interminabili.
Un giovane medico scrisse in un articolo di aver notato una particolarità. Molti, quando si avvicinavano alle lacrime, erano colti da una sottile malinconia. Non paura, né angoscia, ma l’indefinibile sensazione di ritrovare qualcosa di conosciuto. Una confusa nostalgia. La reazione della scienza ufficiale fu secca: da sempre la suggestione crea fantasmi, che poi svaniscono alla prima prova empirica. Goccioloni di pioggia, e basta.
Ma le rassicurazioni non bastavano. Di giorno in giorno i lacrimoidi si moltiplicavano, i camion ne scaricavano centinaia nell’inceneritore fuori città, anche se sarebbe bastato farle scoppiare. Si temeva il mistero della loro fragilità o qualche oscuro contagio?
Solo una piccola parte veniva ancora conservata e studiata. Ma intanto si moltiplicavano e invadevano le strade. Prendere a calci i lacrimoidi e farli scoppiare divenne per teppisti vecchi e giovani uno sport abituale, anche se c’era una multa. Nel frattempo i misteriosi invasori erano diventati più piccoli, ma sembravano, per così dire, più vivaci, quasi arrabbiati. Cadevano in testa alle persone. Avevano fremiti improvvisi. Nello svanire, alcuni emettevano un grido animale, altri diffondevano una morgana di luce sanguigna. Uno ferì lievemente un bambino, con una vampata bollente. La città accolse inizialmente con piacere i turisti in visita. Fu allestito uno speciale parco, con vasche in cui i lacrimoidi erano esposti, con giochi di luce e musica. Ma dopo neanche un mese, la moda turistica svanì. Migliaia di portachiavi di plastica molliccia restarono invenduti. I comici non li usarono più nelle loro battute. Nessuno sapeva più cosa pensare di loro. Continuavano a moltiplicarsi, e la gente cominciava a detestarli. Ma non tutti li odiavano. Qualcuno, preso da una strana attrazione, li teneva in casa. Una donna si buttò da un tetto stringendone uno tra le braccia, e subito si sostenne che avevano un potere malefico. I giornali ebbero l’ordine di non parlarne più, gli scienziati si arresero. Non si potevano cucinare. Non si potevano vendere. Bisognava dimenticarli.
Finché una sera, uno scienziato più cocciuto degli altri stava studiando una lacrima che aveva trovato nel giardino. L’aveva stesa sul tavolo, oblunga e lucente, e guardava i suoi cambiamenti di colore.
Entrò il figlio di sette anni.
Osservò con attenzione e disse: – Io so cos’è.
Lo scienziato rise.
– Non ridere, papà – disse il ragazzo. – Quello è un sogno. è  il sogno che mi hai raccontato il mese scorso, quando hai detto che volevi andare a lavorare su quell’isola, per studiare le malattie degli indigeni. Vedi, dentro si vede, il mare e l’isola. Se ascolti, puoi sentire le voci di quegli uomini lontani. E questo, – disse indicando col dito una parete del lacrimoide – sei tu.
A quelle parole, la lacrima si ingigantì, divenne quasi sferica, e per un attimo fu visibile allo scienziato il sogno intero, il paesaggio e i volti.
Sulle prime non volle convincersi. Fece altre analisi. Il figlio lo guardava scuotendo la testa.
Finché una sera, alla luce del tramonto, lo scienziato vide chiaramente dietro la materia opalina l’immagine di una donna che aveva amato.
Così capì: i lacrimoidi erano sogni trascurati, mai coltivati con cura, mai seguiti con passione. Sogni perduti senza combattere, sogni buttati via. Lo scienziato ne parlò con il suo capo. Quello non gli credette, anzi si arrabbiò, sembrava che quell’idea lo sconvolgesse. Disse che ormai i lacrimoidi stavano diminuendo, non valeva la pena di rinfocolare l’interesse. Guai a lui se diffondeva quella assurda teoria.
Infatti i lacrimoidi scomparvero.
Il comune licenziò gran parte degli operatori addetti alla ripulitura. Un libro, Il mistero delle lacrime aliene, neanche arrivò in libreria. Un ultimo lacrimoide, chiuso in una teca del museo, si dissolse.
Poi, una mattina, la città si ritrovò immersa dentro una grande bolla trasparente. La gente respirava a fatica. E volti, parole, iniziarono ad appannarsi… Continua a leggere →

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Un anno di LIMINA MUNDI

04 mercoledì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in SINE LIMINE

≈ 1 Commento

Il primo post dell’anno è, per tradizione, “Numeri e auguri”, un articolo consuntivo di bilancio e di augurio. Quest’anno, per desiderio di innovazioni, abbiamo pensato di realizzare un video riepilogativo di quanto svolto nel 2022 dai redattori del sito. Ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato all’attività di LIMINA MUNDI, autori, collaboratori, lettori, commentatori, curiosi, passanti. Auguriamo, inoltre, un ottimo 2023, che sia un anno ricco di serenità e di emozioni belle per tutti!

 

 

 

GRAZIE A:

Adriana Gloria Marigo, Anna Maria Bonfiglio, Antonella Pizzo, Deborah Mega, Emilio Capaccio, Francesco Palmieri, Loredana Semantica, Maria Allo, Maria Grazia Galatà, Cipriano Gentilino, Patrizia Destro, Fabio Dainotti, Giorgia Vecchies, Silvio Raffo, Claudia Piccinno, Hiram Barrios, John Taylor, Paolo Lago, Flavio Almerighi, Emilio Paolo Taormina, Maria Grazia Calandrone, Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Marco Scalabrino, Dominica Villa Balbinot, Flora Restivo, Alfredo Panetta, Anna Chiara Bruno, Domenico Cipriano, Giuseppe Di Matteo, Massimiliano Damaggio, Michele Cardinali, Floriano Romboli, Marcella Mellea, Marco Zelioli, Maria Elena Mignosi Picone, Giuseppe Ruggeri, Rita Bompadre, Rosa Pierno, Raffaele Piazza, Rita Pacilio, Paolo Castronuovo, Zahira Ziello, Doris Bellomusto, Paolo Parrini, Johanna Finocchiaro, Guglielmo Aprile, Mattia Tarantino, Antonio Bianchetti, Silvano Sbarbati, Riccardo Mazzamuto, Michela Zanarella, Marco Galvagni, Francesca Innocenzi, Roberto Crinò, Dianella Bardelli, Marco Antonio Sergi, Stefano Colucci, Luigi Finucci, Tommaso Tommasi, Emanuele Martinuzzi, Carlo Tosetti, Giuseppe Settanni, Pasquale Ciboddo, Carlo Zarinelli, Adriana Deminicis, Marco Senesi, Giuseppe Arrigucci, Maria Rosaria De Lucia, Maurizio Cinquegrani, Marisa Cossu, Alfredo Alessio Conti, Mario Fresa, Ottorino Pendenza, Giovanni Tavčar, Roberto Galaverni, Paolo Laddomada, Marcello Buttazzo, Pietro Pancamo, Isacco Turina, Andrea Terreni, Alessandro Barbato, Nunzio Di Sarno, Gianni Marcantoni, Paolo Pera, Nicola Barbato, Antonio Sambiase, Stefano Guglielmin, Gualberto Alvino, Mariangela Ruggiu, Davide Cortese, Silvana Pasanisi, Francesca Tuscano, Cristina Simoncini, Giorgia Deidda, Alessandro Monticelli, Davide Morelli, Letizia Dimartino, Antonio Fiori, Remo Bassini, Franca Alaimo, Federica Galetto, Alessandro Assiri, Fernanda Ferraresso, Liliana Zinetti, Giacomo Cerrai, Leopoldo Attolico, Rafaela Fazio, Daìta Martinez, Pietro Romano, Grazia Procino,  Alessandro Moscè, Umberto Piersanti, Gabriella Grasso, Sotirios Pastakas, Maria Pina Ciancio, Marina Minet, Antonio Nazzaro, Laura Pierdicchi, Fernando Lena, Alberto Mori, Toni Piccini, Rodolfo Bisatti, Loredana Raciti, Linda De Luca, Elvezia Allari, Giuliano Ladolfi Editore, La Vita Felice, 4 Punte Edizioni, Biblioteca dei Leoni, Pequod, Effigie, Poetica Edizioni, Samuele Editore, L’Erudita, Il Convivio Editore, Giulio Perrone Editore, Arcipelago Itaca Edizioni, Quaderni dell’Acàrya, Interno Libri, Dot.com Press, Aliberti, Compagnia Editoriale, Terra d’ulivi, Eretica Edizioni, Wonderlart, Il ramo e la foglia edizioni,  Nulla Die Edizioni, Robin Edizioni, Edizioni Cofine, Edizioni Ensemble, Transeuropa Edizioni, Mondadori, Guido Miano Editore, Besa Editore, I Quaderni del Bardo, Fallone Editore.

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ALCYONE 2000.Quaderni di poesia e di studi letterari, vol. 15, 2022. Recensione di Raffaele Piazza

23 venerdì Dic 2022

Posted by Deborah Mega in Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Alcyone 2000, Raffaele Piazza

 

ALCYONE 2000

Quaderni di poesia e di studi letterari, vol. 15, 2022

 Recensione di Raffaele Piazza

 

La composita pubblicazione che prendiamo in considerazione in questa sede, costituisce un volume che per sua natura (anche per la presenza di contributi pittorici e scultorei riprodotti a colori) potrebbe essere considerato un ipertesto, per la commistione e l’interazione che si vengono a realizzare tra i suddetti contributi e i saggi di critica letteraria, le recensioni e le sillogi poetiche che racchiude. La collana di quaderni di poesia e studi letterari “Alcyone 2000”, pubblicata da Guido Miano Editore, i cui volumi sono impaginati come una rivista, emerge nel panorama letterario italiano odierno per l’aspetto culturale come una delle più prestigiose pubblicazioni per l’importanza dei nomi dei critici letterari, dei poeti, nonché dei pittori e degli scultori che hanno firmato le parti letterarie e figurative, tutte connotate dal comune denominatore dell’incontrovertibile alta qualità, della bellezza e dell’intelligenza. Nel tempo della pandemia che tutti stiamo vivendo, fenomeno tragico che ha provocato tra l’altro un aumento numerico dei poeti a causa delle chiusure e del dolore, una simile opera nel mare magnum di una società postmoderna, globalizzata e consumistica che vede la caduta dei valori e il prevalere della mentalità dell’avere su quella dell’essere, come già stigmatizzato dal filosofo e psicologo Erich Fromm negli anni ottanta del secolo scorso, ben vengano questi quaderni quasi come espressione del pensiero divergente anche perché cartacei non destinati solo a un limitato numero di cultori.

* * *

A livello esemplificativo, analizzando il volume 15 di “Alcyone 2000”, ci si sofferma su tre dei saggi che ritroviamo nella sezione dei “Contributi letterari”: quello di Ivo Lovetti intitolato Jean Guitton l’ “eternità” in un istante, quello di Marco Zelioli, La “incontemporaneità” di Eugenio Corti scrittore cattolico più noto all’estero e quello di Ferdinando Banchini, Lugi Fallacara e il Francescanesimo.

Come scrive Lovetti, riguardo a Jean Guitton, il primo dei suddetti scritti L’infinito in fondo al cuore. Dialoghi su Dio e sulla fede, 1999, costruito come un libro intervista da Francesca Pini, giornalista del “Corriere della sera”, si può considerare il sorprendente, esauriente, per certi versi inatteso testamento spirituale del grande pensatore cristiano che ha attraversato quasi nella sua interezza il nostro secolo fino a diventarne un autorevole testimone e interprete. L’immagine che ne scaturisce è quella di un nomo eternamente giovane, sognatore che affermava che la vita gli sembrava fatta di sogni, alcuni dei quali sono notturni altri diurni, dotato di una grande libertà e originalità di pensiero, ma nello stesso tempo rispettoso dell’ortodossia cattolica, innamorato della vita nel dichiarare che va bene aspettare la felicità dopo la morte ma è ancora meglio godere adesso della felicità senza preoccuparsi di tutto quello che accadrà dopo la morte. Quando afferma il concetto di “eternità” in un istante Guitton pare rievocare l’assunto di Heidegger sull’attimo come feritoia atemporale dove il tempo si ferma e non è né passato né futuro ed è forse per sempre. In ogni caso attimo, istante e momento come categorie temporali non sono strettamente sinonimi e tra i tre termini esistono sottili differenze la cui spiegazione esauriente dal punto di vista filosofico sarebbe stato felice di darcela lo stesso Guitton se la sua interlocutrice nell’intervista gliela avesse chiesta. Guitton ha scritto anche il saggio Dio e la scienza nel quale come prova dell’esistenza di Dio il Nostro sostiene che la materia che costituisce le galassie, i pianeti e ogni cosa presente nell’universo è aggregata in maniera così precisa e perfetta e che solo una mente ordinatrice teleologicamente poteva costituirla in questo modo con quella che viene chiamata Creazione.

Nel saggio La “incontemporaneità” di Eugenio Corti scrittore cattolico più noto all’estero che in patria di Marco Zelioli il critico scrive che tra i “casi letterari” del XX secolo senza dubbio uno dei più eclatanti è quello dello scrittore e saggista Eugenio Corti, di cui il 2021 è stato il centenario della nascita. Per quanto incredibile possa risultare a chiunque ne scorra il curriculum culturale, Eugenio Corti più che in Italia è noto all’estero, soprattutto in Francia (le sue opere sono state tradotte in Francese, Inglese, Lituano, Polacco, Portoghese, Romeno, Russo, Spagnolo ed anche Giapponese). Esordì con I più non ritornano, 1947 insieme romanzo e cronaca della rovinosa ritirata dei soldati italiani dalla Russia nel 1942-1943. Il capolavoro di Eugenio Corti è senza dubbio Il cavallo rosso, 1983. Prodotto in oltre trenta edizioni e venduto in quasi quattrocentomila copie, è un romanzo di così ampio respiro da ricordare quelli dei Grandi della letteratura russa tra Ottocento e Novecento da Tolstoj a Dostoevskij a Solzeniciyn. Non per nulla, e soprattutto grazie a quest’opera, dopo aver ricevuto nel 2000 il “Premio internazionale al merito della cultura cattolica”, lo scrittore fu preposto per il Premio Nobel 2011 da un comitato spontaneo, sostenuto dalla Provincia di Monza e Brianza e dalla Regione Lombardia; una figura che il critico ha fatto bene a riattualizzare dopo la sua parziale rimozione dopo la sua morte e anche prima.

Nel saggio dedicato a Luigi Fallacara Ferdinando Banchini riporta le parole dello stesso Fallacara che affermava che il suo incontro con S. Francesco fu anche la scoperta del senso metafisico di ogni vera poesia, nella apertura dell’amore per tutte le creature. L’incontro tra il Nostro e il santo avvenne ad Assisi dove visse tra il 1920 e il 1925. Ivi nel 1921 entrò nel terz’ordine e tradusse le confessioni di Angela da Foligno, mistica francescana del Duecento e soprattutto portò a compimento quella “storia di una crisi religiosa” che è il suo primo importante, duraturo libro di poesia Illuminazioni drammaticamente esemplato sul graduale iter mistico della grande seguace di San Francesco. Il libro successivo I firmamenti terrestri del 1929 presenta, in cinque lunghe poesie in ottave, episodi della vita di Francesco, commossa esaltazione di chi sentì contro il suo cuore, il cuore di Cristo che ricolma il mondo, di chi si fece «carne d’amore, carne di dolore / flutto approdato ai piedi del Signore». Nel ‘55 curò un’edizione delle Laude di Jacopone da Todi, altro grande francescano, diversissimo da Angela ma di lei non meno ardente.

* * *

Passiamo ora ad un’altra sezione del vol.15 di “Alcyone 2000”; il brano intitolato Itinerari di letteratura comparata: cieli ed epoche diversi uniti dalla poesia fa da introduzione ad una serie di saggi appunto di Letteratura Comparata, campo poco praticato nel panorama letterario nazionale contemporaneo. I raffronti, i confronti, i paragoni, le comparazioni tra autori di epoche e lingue diverse, non sono solo utili per allargare il nostro sguardo oltre quel provincialismo che spesso limita in modo angusto il nostro orizzonte culturale, ma addirittura bisogna che siano inevitabili e necessari se si vogliono comprendere gli influssi reciproci tra le varie correnti letterarie e capire a fondo quel sentire comune, quella comune sensibilità poetica e ideale che attraversa in modo osmotico gli autori europei, nell’esprimere un patrimonio di valori sul quale si fonda la vera civiltà umana: legandoli insieme sentiremo una voce unica a difesa e per i principi fondamentali sul quale si basano il nostro sistema di vita e la nostra cultura occidentale. Le comparazioni come linee di codice in un sistema di insiemi sottesi a un principio comune che vede nella parola scritta il suo fondamento comune a prescindere dai luoghi, dalle civiltà, dai costumi e dalle religioni di ogni singolo poeta, romanziere o saggista.

* * *

“Alcyone 2000” comprende anche una sezione dedicata a sillogi di poeti contemporanei; si analizzano a titolo esemplificativo due raccolte: quella di Guido Miano e quella di Renata Cagliari. In I colori dell’isola di Guido Miano predomina la linearità dell’incanto, lo stupore e la capacità della meraviglia per la bellezza inserita nel cronotopo sotto i cerchi limpidi del cielo. Come scrive Enzo Concardi queste liriche sono una dichiarazione d’amore per la natia terra siciliana: le radici, l’identità, la cultura, l’infanzia, il sogno e il successivo abbandono, il dolore, la lontananza, la memoria, la disillusione. Poetica tout-court neolirica e del sogno ad occhi aperti dalla quale trasuda uno sconfinato amore per la natura incarnato negli idilliaci paesaggi della natale isola percepita in una policromia di sensazioni che dai sensi raggiungono l’anima e il cuore del poeta. Una notevole ricerca e raffinatezza del lessico connota il poiein di Miano. La magia della parola diviene il precipitato di una cosciente sospensione che si lega a visionarietà e la natura stessa si fa a tratti numinosa e neoromantica più che neoclassica. In alcuni componimenti il poeta si fa interprete della metafora vegetale e l’infanzia pare collimare con il verde tenero delle piante stesso. Da notare che il poeta nomina con il nome preciso le specie vegetali (l’ulivo saraceno e il gelsomino bianco d’Arabia) come Seamus Heaney, premio Nobel irlandese. L’esattezza di una parola sapientemente dosata è esaltata nei componimenti sempre ben controllati e magistralmente risolti. È affrontato il tema del dolore in un componimento struggente in cui una cerva ferità è alla ricerca del suo piccolo e stabilmente si raggiunge una musicalità nei versi nei quali è presente un ritmo sincopato. Anche un’aurea di favola è presente quando il poeta mette in scena la sirenetta con la coda di delfino, creatura mitica e forse simbolo di bellezza, sirenetta che nuota nel mare che circonda la sua amatissima Sicilia. Si emerge con piacere dalla lettura di questi testi originali e carichi spesso di un arcano fascino.

Nella silloge Attimi di luce di Renata Cagliari nei versi colloquiali e affabulanti ritroviamo il senso e il tema dell’epica del quotidiano e della fiducia nell’amicizia nei passaggi in una poesia in cui l’io-poetante oppresso dal peso della vita va a casa dell’amica Flavia dove la vita stessa ritrova colore, forza e sorriso. Addirittura la casa diviene Paradiso come un rifugio incantato e in essa anche gli oggetti sembrano stagliarsi benevoli e quasi apotropaici, e si fanno correlativi della gioia e della sicurezza. La poetica espressa è neolirica e come scrive Michele Miano si tratta di una poesia intimista, dove la parola si carica d’immagini salvifiche. La luce entra nelle cose e nell’anima come dal titolo della silloge nel permearla e negli attimi il tempo pare fermarsi in un sicuro ottimismo che si manifesta in una vena ludica e giocosa così rara perché si percepisce che la felicità può esistere sia nel giorno che nella notte e che anche se è un fiore raro esiste anche l’amicizia della quale anche il Cristo ha parlato nei vangeli. Una vena sorgiva quella della poetessa di matrice neolirica che provoca emozione e stupore nel lettore e pare anche di intravedere in essa una connotazione vagamente minimalistica. Il senso del bene che viene detto con urgenza è presente, il bene che sconfigge il male e non è buonismo.         C’è anche un aspetto religioso in questa poetica e una poesia è dedicata al Natale e alle sue magiche atmosfere e un’altra a Marco del quale è detto che nella sua vita si è risollevato tante volte dalle tribolazioni e che ora con il suo serafico sorriso aiuta il prossimo a trovare pace e armonia ed è detto qui Dio che pare emanarsi dal sorriso dello stesso protagonista.

* * *

Ci sarebbe da dire molto sulla collana di quaderni “Alcyone 2000” di Guido Miano Editore che richiederebbe un saggio per un’analisi di tutte le sue parti e non lo spazio di una recensione; la presente collana di studi letterari si configura come espressione di una raffinata cultura all’insegna della bellezza come esercizio di conoscenza.

Raffaele Piazza

Alcyone 2000 – Quaderni di Poesia e di Studi Letterari, n°15; Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 108, isbn 978-88-31497-83-1, mianoposta@gmail.com.

 

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AA.VV., Senza tema! Poesie coraggiosamente atematiche, Edizioni Simple, 2022.

19 lunedì Dic 2022

Posted by Deborah Mega in COMUNICATI STAMPA, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA

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Pietro Pancamo, Senza tema!

 

SENZA TEMA!
Poesie coraggiosamente atematiche
–Antologia a cura di Pietro Pancamo–

 

Consapevole che infrangere le consuetudini, specie se consolidate, è sempre un atto di coraggio, Pietro Pàncamo si è “ribellato” alla moda delle antologie a tema, curando un piccolo volume collettaneo di versi –«Senza tema! Poesie coraggiosamente atematiche» (Edizioni Simple, Macerata, 2022)–, nel quale a ciascun autore è stata lasciata completa libertà di scegliere autonomamente la materia da trattare; ne è nata un’opera corale in cui tutti, svincolati com’erano da forzature di sorta, hanno avuto una preziosa opportunità d’esprimersi al meglio. Ecco qui di seguito alcuni estratti dai commenti critici che, all’interno del libro, il curatore ha dedicato a ciascuno dei quattro autori antologizzati: Kikai, Angela Lombardozzi, Tommaso Meldolesi e Fabio Sebastiani.

“Secondo il critico e storico della musica Massimo Mila, il sentimento predominante, nei brani di Mozart, è una sorta di benefico sorriso fra le lacrime. Io credo di poter dire lo stesso per i versi della brava Kikai.

[…] Le liriche di Angela Lombardozzi s’improntano invece ad un serrato flusso di coscienza, magistralmente concepito per rispecchiare la concitata e penosa assenza di senso, dalla quale l’esistenza quotidiana di noi uomini è ahimè afflitta.

[…] E se le poesie di Tommaso Meldolesi prendono le mosse da una tenera o meglio sognante rassegnazione che, pur attraversata sempre da una favilla di speranza, piega spesso il ginocchio dinanzi alle (s)torture dell’esistenza, Fabio Sebastiani, in una continua e ica(u)stica dissolvenza incrociata d’immagini che sfumano rapide l’una nell’altra, ci svela impietoso le piccole miserie del grigiore quotidiano, presentandole come un rito scaramantico a cui noi esseri umani, in nome di una vita completamente ottusa e quindi molto più comoda, ci siamo autoaddestrati e autoaddomesticati con tenacia imperterrita”.

*

IL CIELO

 

Un lungo istante di pausa, sospesa dentro l’autobus che arranca, e si ferma. Schiacciata contro il vetro, a fissare un angolo di cielo.

 

Domenica fissando

il cielo e vorrei starmene fuori dalla mia storia.

 

Riposare, dalla mia vita.

Dispersa. Per un po’, solo per un po’

 

Come sepolta, sotto chili di nulla, in una tomba di luce,

[oltre gli oggetti e i sentimenti

 

Oltre i cancelli del tempo.

Oltre il pensiero.

 

Dentro qualcosa che non so.

Più grande di me.

 

Kikai

*

ALI

 

Ho una poesia sulla lingua

Il petto batte

Ma non trovo le ali

Guardo in un altrove

perché qui il presente

è annebbiato

– Ti chiedo il sale

della tua presenza

Quell’eterno stare

che produce tutti i mutamenti

Folle! Folle è l’uomo che tesse

la sua più grande virtù

Un ponte di salvezza

Un filo instabile di luce e precipizio

Ma datemi le ali

perché tremo…

Forse basterebbe anche

un solo abbraccio uno sguardo

Una mano sul cuore

Il tuo sorriso tutto.

 

Angela Lombardozzi

 

*

 

PER LE STRADINE DI MONTMARTRE

 

Dalla nebbia degli anni

riaffiorano memorie

avvolte da ampi strali

d’immensa nostalgia.

M’inoltro a passo lento

per vicoli e stradine

e tento di scovare

le ceneri disperse

di volti diluiti,

di parole sgranate,

di note snocciolate

da chansonniers di un tempo.

 

Tommaso Meldolesi

*

AEROPLANO

 

Se tento

di raggiungere il cielo

la distanza rimane invariata.

M’avvicino

soltanto alle nubi.

 

Pietro Pancamo

*

TRA ALI DI FOLLA SENZ’ALI

 

L’uomo è tutto un contrappunto

sopra l’ideologia

sopra i nomi senza nome

sulle forme del vuoto

svuotate anch’esse

come petali rubati ai fiori.

 

L’uomo a volte non è

nemmeno un discorso

ma il santo procedere

dell’ovvietà, muta nella sera

tra ali di folla senz’ali

che andiamo a casa che è tardi.

 

Calcola i passi badando

a non inciampare

ma è lui l’ostacolo

alla caduta provvidenziale, alla felicità

al perdono che l’universo gli offre.

Che poi a casa è sempre tardi per tutto.

 

E finendoci, nel vuoto

invoca il dio che non ha

amato mai veramente.

Solo pretesto per l’ennesimo inganno

spuntato ai giorni tetri, alla noia

alle parole prese in affitto.

 

Fabio Sebastiani

Pietro Pancamo

Pietro Pàncamo è un editor professionista, nato nel 1972. È autore del volumetto di versi «Manto di vita» (LietoColle) e figura nell’antologia  «Poetando» (Aliberti), curata da Maurizio Costanzo. Ha collaborato con “Il sabato del racconto”, rubrica settimanale dell’edizione parmense de «la Repubblica». La radio nazionale della Svizzera italiana gli ha dedicato una puntata del programma «Poemondo», mentre sue liriche, novelle o recensioni sono apparse, nel tempo, su quotidiani e riviste come il «Corriere della Sera», «Il Fatto Quotidiano», «La Stampa», «Carmilla», «Cronache Letterarie», «Gradiva», «Il cucchiaio nell’orecchio», «Il Ridotto», «La poesia e lo spirito», «Nazione Indiana», «Poesia» (Crocetti editore), «Poetarum Silva», «Scriptamanent» (Rubbettino), «Vibrisse» e il blog «Poesia» della Rai. È stato redattore della rivista filosofico-letteraria «La Mosca di Milano», caporedattore per la poesia dell’e-zine «Progetto Babele» e direttore editoriale sia del mensile online «Niederngasse Italian», sia del programma web-radiofonico «Poesia, l(’)abile traccia dell’universo».

Pietro Pàncamo (a cura di), «Senza tema! Poesie coraggiosamente atematiche», collana «Le antologie di “OMERIGGIARE” PALLIDO E ASSORTO», Edizioni Simple, Macerata, 2022, pp. 92, € 12,00.

 

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“Se dentro ti guardi” di Ottorino Pendenza, Miano Editore, 2019. Recensione di Raffaele Piazza.

16 venerdì Dic 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Ottorino Pendenza, Raffaele Piazza, Se dentro ti guardi

 

Recensione di Raffaele Piazza

 

Se dentro ti guardi, la raccolta di poesie di Ottorino Pendenza che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una premessa di Guido Miano esauriente e ricca di acribia, uno scritto di Nazario Pardini intitolato Si naviga con la fede verso il porto del ristoro nella poetica di Ottorino Pendenza e una prefazione di Enzo Concardi dal nome Il tema della solitudine umana nelle poesie di Ottorino Pendenza e Ivan Krasko. Alle poesie seguono le note biobibliografiche dei prefatori e un’Antologia essenziale della critica. La poetica espressa dall’autore si può definire “tout-court” religiosa e mistica e i versi stessi in questo senso si fanno preghiera nel rivolgersi l’io-poetante di volta in volta alla Madonna, a Dio, a Gesù e anche a Papa Francesco. In un panorama come quello della poesia italiana contemporanea nel quale dominano gli sperimentalismi e i neo orfismi, coglie nel segno della differenza la scrittura di Pendenza limpida e sorgiva nella sua semplicità che non è elementarità ma precipitato di una vena consapevole dei suoi intenti nell’esaltazione di Dio stesso e del creato. D’altra parte l’opera può essere letta come un poemetto per la sua compattezza plasmato da spirito cristiano in una dimensione di creaturalità quando l’essere poi diviene persona. Anche la natura viene ad essere detta con urgenza dal poeta spesso nella sua bellezza e non si deve dimenticare che l’uomo stesso è natura. Centrale per comprendere le intenzioni del poeta la poesia eponima: «Se dentro ti guardi / e il cuore ascolti silente, / la remora tu troverai, che argina e frena / pur le tue scelte assennate. / Percepire anche potrai / la desolante apatia, / che mentre ti offusca la mente, / anche il sorriso ti spegne / e non ti consente / di vivere ore serene / e giorni fecondi di bene. / Se dentro ti guardi / e rimuovi in te la paura / e quel velo opaco / che anche la strada ti oscura / in te scoprirai l’ardore / che renderà la tua vita / felice, serena e sicura…». Programmatici i suddetti versi nel loro ottimismo e da essi s’intende l’assunto del poeta consistente nel credere che proprio da un ripiegarsi su se stessi può scaturire la forza di varcare la soglia della speranza per divenire sereni se non felici nonostante le infinite contraddizioni della vita ed è implicito che la redenzione possa arrivare solo tramite la preghiera e la poesia stessa si fa preghiera, atto catartico per raggiungere la gioia presumibilmente gettando su Dio stesso le angosce e la paura. La felicità stessa può fare paura ma il poeta saggiamente sa dominarla superando lo “streben”, il senso dell’infinito e anche la malinconia dello spleen. E la stessa sicurezza il poeta la ritrova nel confidare direttamente nel Signore al quale il poeta rivolgendoglisi dice che sa che l’ascolta e che Lui accoglie amoroso ogni suo singulto. Nella poesia nella quale Pendenza si rivolge alla Vergine il poeta afferma che senza il suo materno aiuto egli è perduto nel mare magnum della vita e che con lei come alleata supererà le difficoltà non solo proiettandosi in un incerto futuro ma nella vita di ogni giorno. La silloge può essere letta come un inno di lode a Dio nel quale ogni cristiano lettore può identificarsi.

 

Raffaele Piazza

Ottorino Pendenza, Se dentro ti guardi, Prefazioni di Enzo Concardi e Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2019, mianoposta@gmail.com.

   

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Dirottare l’esistenza: “Eliodoro” di Mario Fresa

12 lunedì Dic 2022

Posted by Deborah Mega in Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ 2 commenti

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Eliodoro, Mario Fresa, Rosa Pierno

 

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Nel romanzo di Mario Fresa Eliodoro (Fallone editore, 2022) la letterarietà è certamente il soggetto-principe, mentre realtà e sogno si palesano come materiali indistinguibili: “certe mosche dalle cinque ali, violente come nei sogni”. È un testo metaletterario in cui il teatro inscena le proprie tecniche rappresentative, i personaggi stanno per gli autori o viceversa, con il coro che interviene, attante fra gli altri; insomma è una letteratura di secondo grado, come dichiarava Genette (in Palinsesti), vale a dire che mette in relazione, segreta o manifesta, un testo con altri testi. Ma è anche un romanzo acustico-visivo, in cui la parola dispiega il proprio desiderio di ingaggiare, con le arti visive e musicali, una gara. Viene in mente il paradosso di Zenone, quello della corsa tra Apollo e la tartaruga, dove il più veloce non raggiunge mai il più lento. Ce lo conferma Mario Fresa stesso, quando scrive “è un susseguirsi di immagini non più sovrapponibili, ciascuna delle quali non è mai identica a ciò che la precede”. Nel testo sui testi tutto si trasforma, non è più simile, ha subito trasformazioni irreversibili, una delle quali è la non ricomponibilità, la misurabilità smarrita. Certamente la coscienza, che dovrebbe reggere le briglie dell’unità, sembra frantumarsi e frammentarsi all’infinito. Quando la coscienza non compie più il suo dovere, le immagini, difatti, si moltiplicano, non vengono scelte in base alla necessità, soprattutto quelle relative a una logica della sussistenza biologica, ma si moltiplicano, quasi ad offrire un florilegio delle possibilità.

*

Ritornando alla parola, essa mostra un’invidia nei confronti delle arti plastiche e musicali. Nel senso che la parola, dall’alto della sua astrazione, le tenta tutte per superare, non la mimesi, giacché di mimesi mai vi è traccia nelle arti, ma appunto ciò che deriva dai sensi. Sarebbe mai la parola, già solo per questo, capace di tenere fermo il toro per le corna, di tenere a freno la sua stessa corsa? Intanto, la sintassi mostra un respiro corto; risente della velocità delle associazioni che vengono alla mente. Deve roteare, mitragliare in tutte le direzioni. Il lessico è accuratissimo, penso alle coppie di participi presenti (“guardanti respiranti”), agli aggettivi joyciani e longhiani profusi nel testo, ma soprattutto al linguaggio pirotecnico, capace non solo di tessere, fra le pagliuzze d’oro, alcune escrescenze dialettali, ma di tenere l’acceleratore premuto senza mai consentire che la tensione cada o si allenti! Se non che, per seguire, quanto più metamorficamente, le arti visive, accade che anch’essa si spacchetti in incongruenze: certi aggettivi sorprendenti rispetto al sostantivo che accompagnano denunciano la rincorsa delle parole ai riflessi, anziché alle sorgenti luminose; si disperde in rivoli fluenti di disgressioni locali. Esattamente come il progetto dell’opera pretende. Con la sua forza propulsiva e deragliante, che gli abbiamo visto sfoggiare nelle sue raccolte poetiche, Fresa fa risuonare la grancassa e rilucere il firmamento.  Il lettore non può lasciare nemmeno per un istante la guida al solo sguardo, staccare il cervello e scivolare sui declivi del consueto. La macchina di Fresa lo costringe a seguire con ansia il prossimo svincolo, il luogo ove si produce uno sviamento continuo: “è tempo di rinunciare a capire”. È tempo cioè di abbandonare la logica, di utilizzare gli strumenti della complessità, di abituarci a un nuovo paesaggio, a nuove figure (gli altri, “se li prendi a uno a uno sono gelati misti, mostruosi dorsi pieni di cecità, di fragore indescrivibile”).

*

La psicanalisi viene equiparata a un’indagine poliziesca che il paziente vuole depistare (e il pensiero corre subito ai testi di Dürrenmatt, dove sono l’ingiustizia e il sopruso a pretendere che sia impossibile annichilire l’indagine). Eliodoro, dallo psicoterapeuta, costruisce l’inconscio che gli aggrada. Ma ancora altri percorsi riflessivi si dipartono dalla frase “ogni malato ha un talento che non mostrerà mai a nessuno” poiché ci sovviene il ricordo della mostra La ricerca dell’identità di Gianfranco Bruno sulle capacità artistiche di soggetti etichettati come mentalmente disagiati o il lavoro ostinato di Nannetti sul muro dell’Ospedale psichiatrico di Volterra. Ciò esige che si estirpino certi paletti divisori all’interno della cultura, i quali sono utilizzati come paratie difensive poste dai benpensanti. Inoltre, l’indagine poliziesca è un genere letterario e i pensieri liberi della madre di Eliodoro ci riportano al discorso interiore della Molly di Joyce. Per quanto giriamo nel labirinto letterario, ci ritroviamo allo stesso punto. E dal linguaggio che non si esce: la realtà così come il sogno noi li restituiamo con la parola. Realtà e sogno sono allora cose già altre, già perdute: “o si parla o si ama” o anche “la vita non mentiva, ma era sempre una cosa dipinta”.

*

Frequentissimi anche i riferimenti non solo ai quadri della storia dell’arte, ma anche alla musica: il gatto che ha “il passo mahleriano”, l’”operistica spruzzatura”, “in un giro di Suite”, “e poi si mette ritto ritto come l’Eroica”, “andatura diavolesca tartiniana”. Certo, se il desiderio di descrivere la musica è ancora più difficile da raggiungere rispetto a quello di far parlare l’arte, nel testo di Fresa si assapora, non di meno, un rutilante, festosissimo ritmo. Sonorissimo. È un romanzo corale; si direbbe che ci siano tutti, da Clara e Schumann a von Eyck, e gli autori non citati esplicitamente vedono comunque i loro personaggi partecipare all’affresco tratteggiato da Mario Fresa, il quale avvisa che “cercheranno di nuovo di far tacere tutte le voci”. Ecco ciò contro cui si deve combattere. Disseppellirle, renderle attuali con la conoscenza, con lo studio, vuol dire fare largo a un pensiero critico, non omologato: “Lottiamo per trasformarci in un verbo finito” e, invece, dovremmo, per l’autore, restituire alla mente la sua potenza, non spaventarci delle sue risorse. Il sogno ridiventa il luogo del possibile, del rovesciamento. Si dovrà però anche comprendere che la storia è sempre la stessa. Che si è affetti dagli stessi vizi, che si hanno pensieri miseri sempre, che tutti compiono bastardate. Che invece, una posizione bisogna assumerla. La storia, presente nella mente dell’autore, diventa, nella sua totalità, attuale: Napoleone o Lenin sono contemporanei. Sono divenuti materiale esistenziale: Robespierre “schiva le pallonate della storia”: la sala della Pallacorda è produttore di metafore attinenti alla sovrapposizione di passato e presente. L’autore si assume la responsabilità di un resoconto da cui non ha alcun senso espungere qualcosa, ma che è da rivisitare e valutare! L’ironia di Fresa è attingibile ad ogni passo e vale come cartellino abbassato o alzato. Ci viene in mente La Divina Commedia per quella perlustrazione che vale come summa, costruzione di valori, mentre si esecrano gli ingiusti!

 

*

Oltre al mito, che funge da materiale costruttivo al pari delle percezioni e degli oggetti, dei personaggi romanzeschi (Malebolge, Ananke) o biblici (Ester), che sono materiali letterari, i quali appartengono alla nostra esistenza al modo dei materiali esistenziali, sono presenti anche materiali televisivi (previsioni meteorologiche, telegiornale), e poi il cinema, la poesia, le ballate, le canzonette. A ogni nome, da Cacciatore al Rinoceronte, sembra di assistere a un continuo scambio di identità. Ci sono ricordi, nella confessione che Eliodoro fornisce al suo psicoterapeuta, che sono parodie (si pensi alle pagine di Klossowski o di de Sade, di cui vengono restituiti protagonisti e vicende). Diversamente che nel gioco del Domino, i pezzi non cadono in maniera prevedibile, ma si aprono a raggiera, captando nuovi sviluppi testuali. E, d’altronde, non sono forse ascrivibile a ogni personaggio molteplici interpretazioni? Dunque, tutto è aperto. Che sarà mai il romanzo, se non lo sviluppo continuo e imprevedibile di casi, quelli sì, sempre prevedibili e finiti, della violenza sessuale, del predominio, del tradimento, dell’innocenza raggirata, delle speranze disilluse, così come naturalmente dei piaceri della carne e del gusto, della felicità, dell’allegria e dell’ingenuità infantile! Ma forse prevale la denuncia che ci fa riassaporare le pagine di Dickens, contro le sopraffazioni, gli appetiti sessuali, le aberrazioni comportamentali. Eliodoro è un testo che ingloba la morale come condizione necessaria per distinguere il bene dal male: ecco ciò su cui non si nutre mai un dubbio nel leggere il romanzo di Mario Fresa.

*

Tutti i materiali collaborano in egual grado alla tessitura dell’arazzo: il filo non si perde. L’associazione è sempre proficua, anzi, la fervida inventiva, la capacità associativa di Mario è strabiliante, oltre che sorprendente, e apre di fatto a nuovi percorsi di senso, di cui uno, particolarmente rorido, è il filone erotico. Nessun materiale letterario è fatto salvo dalla famelica ingordigia citazionista di Fresa. I capolavori che Eliodoro “rivede in mente ovunque” in ogni luogo divengono il nostro inconscio: risalgono, dirottando l’esistenza, il nostro presente. La logica è sopraffatta da codesta immissione continua di materiali testuali ed esistenziali, che passando al vaglio della scrittura, divengono effusiva lava. Non siamo, d’altra parte, lontani dalla Sicilia con Eliodoro, il mago di Catania, invero metamorfico, protagonista del romanzo, ma anche alter ego autoriale. Colpisce, nel romanzo di Mario Fresa, la resa stilistica omogenea capace di tenere testa alle enciclopedie musiliane, la composizione che vale non solo per il presente, ma che si trascina tutto il retaggio culturale messo a segno in tutti i campi dello scibile umano, scienza non esclusa! In questo senso, il romanzo ridiviene strumento efficacissimo che, al di là dell’annuncio sul suo stato di salute, rilancia la questione degli infiniti romanzi che mancano all’appello. Ma vale anche come verifica di ciò che sappiamo e di ciò che non abbiamo ancora imparato. Come se la storia, la narrazione cronologica degli eventi umani, non avanzasse, e per sempre si ritornasse alla favola dei bambini e dell’orco e fosse necessario un pensiero diverso per valutarne possibili origini e probabili esiti.

“La ragione cos’è? “A questa età si crede a tutto…”. “Giganti e fantasmi insieme”.

In un’età in cui sempre più prossima appare la dipartita, non è la ragione, quella ragione che separa e divide, che importa, quanto un accettare qualsiasi cosa, senza preclusione. L’esistenza di tutto e tutto insieme. Soprattutto in riferimento alla seguente questione da non deporre mai come fosse irrilevante: “Perché volere bene se può diventare qualcosa come niente, un breve incidente da cancellare dalla memoria dei più curiosi?”. Non sarà nemmeno una sperata faccenda di metempsicosi: in fondo tutti vivono nella mente degli altri. Certo, negli orti culturali, l’innesto è immediato e inevitabile. Si tratta di qualcosa che invita a non sterminare sensazioni e sentimenti in nome di una logica censurante, spesso scientifica. Se logica non può mancare, a maggior ragione debbono sedere a tavola sensazioni ed emozioni. Leggere Eliodoro è un atto terapeutico, come lo è ogni classico. Sgombra la mente, fa accedere all’intero, accoglie tutte le voci, non più sottoposte ad oblio, soprattutto quando sono una marca del male, consentendo di prendere posizione su una scacchiera finalmente sgombra da rimossi e cancellazioni, macerie di nessuna utilità per la storia.

                                                                                                Rosa Pierno

 

Mario Fresa, Eliodoro, Fallone editore, ‘Gli Specchi Mercuriali’, 2022, pp. 160, euro 22.

 

Mario Fresa

 

Mario Fresa (10 luglio 1973) ha collaborato e collabora a riviste italiane, francesi e internazionali come «Paragone», «il verri», «Nuovi Argomenti», «Caffè Michelangiolo», «Recours au Poème», «Nazione Indiana», «Smerilliana», «La Revue des Archers» e «Poesia». È presente in varie antologie pubblicate sia in Italia sia all’estero, tra le quali Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004), Almanacco dello Specchio n. 8 (Mondadori, 2008), Veintidós poetas para un nuevo milenio (in «Zibaldone. Estudios italianos»; Università di Valencia, 2017). Ha pubblicato vari libri. In poesia e in prosa: Liaison (Plectica, 2002, Premio Giusti Opera Prima); Alluminio (2008; tradotto in Francia da Viviane Ciampi); Uno stupore quieto (Stampa2009, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, 2015); Svenimenti a distanza (Il Melangolo, 2018); Bestia divina (La scuola di Pitagora, 2020). Nel campo saggistico, ha tra l’altro curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (nella collana «I Classici» di Rocco Carabba, 2010) e la traduzione e il commento dell’Epistola De cura rei familiaris attribuita a Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Ha curato, inoltre, il Dizionario critico della poesia italiana (Società Editrice Fiorentina, 2021). Fa parte del Comitato di redazione del semestrale «La clessidra» e della rivista internazionale «Gradiva» (Università di Stony Brook, New York). Una nuova raccolta poetica, Il mantello di Goya, uscirà nel 2023 a cura di Maurizio Cucchi.

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Versi trasversali: Antonio Sambiase

09 venerdì Dic 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Antonio Sambiase, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

 

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

ANTONIO SAMBIASE

 

Non arrenderti (p. 11-12)

 

Andare avanti per inerzia,

sentire il calore del sole

che brucia la pelle

ma non provare dolore.

 

Mi sento un pesco,

bloccato sotto il sole d’estate,

inerme, illeso.

 

Ma sento che devo andare:

camminare, correre, arrancare

per cercare il lume nel fondo,

per dar luce a questa misera vita

di bianco e nero vestita.

 

Non vedo sfumature,

ho un arcobaleno dentro

che non riesce ad uscire.

Mi sento freddo,

mi sento morto.

 

Sono un salice piangente,

ho i nervi a pezzi,

si contraggono, fanno male,

trattengo il mio dolore.

 

Sono un fiore di una landa desolata,

appassito, dal colore spento.

 

Steso me ne sto

su un misero letto d’ospedale.

 

Ritrovo me stesso (p.21)

 

In questa notte

tra musiche e parole

rivedo quel piccolo fanciullo.

 

Mi saluta, mi parla

non lo ricordo.

 

Una faccia così familiare.

 

Sospensione (p. 25)

 

Sono sospeso,

abito il mare,

abito la terra,

uccello marino e terrestre.

 

Vivo di ricordi,

vissuti o immaginati?

 

Altro non sono

se non un essere privo di forma.

Inconsistente nell’animo

e nella carne.

 

Fui forma o fumo?

Evaporo, prendo forma,

ho un corpo

tangibile ma inafferrabile.

 

Percorro rotte,

con mete note,

da una bussola guidato.

 

Oh, potessi non averti!

sarei senza meta,

senza strada,

sarei essere libero,

sarei aria, acqua e terra!

 

Di notte (p.45)

 

Di notte me ne stavo

ad osservar il duro incavo

tra il soffitto e la parete,

che mi proteggono,

i pensieri velocemente intenti a scorrere

come un burrascoso torrente,

distogliendo dalla mente

il tempo presente.

 

Un soffio (p.46)

 

La vita, un attimo, un secondo

d’un tratto mi ricordo di quel brio

che provai nel vederti giocondo.

 

Un soffio.

La vita, un testo, una storia

l’hai scritta su quel foglio

che in un attimo prese fuoco sulla via.

 

Un soffio.

La vita, la mia, la tua

è finita nel grande oblio

in alto al ciel mira la tua prua.

 

Navigando nell’ora (p.48-49)

 

Sono perso,

navigo in mare aperto.

 

Ho un corpo,

un peso costante,

un compagno nemico.

 

Ho una mente,

un peso costante,

una guida invisa.

 

Mi trascino

nel faticoso vivere.

Un’onda colpisce

la prua, oscillo

ma mi sorreggo.

 

Non la paura mi assale,

ma un’ansia del dopo.

Un’ansia dell’ora.

 

L’affronto,

non vinco,

ma scansata la ho.

 

Scelta errata o giusta?

Non so.

Ma respiro sereno.

 

Ora convive con me.

 

 

 

Donna guerriera

                                        ad Anna

 

Per la via, si ode un brusio

le campane suonano a lutto

è scomparsa la mamma di tutti.

 

Il suo nome rimbomba per le vie

“Anna, Anna è scomparsa”.

La piccola donna è venuta a mancare.

 

Giorni sinistri per lei sono stati,

lottava: era una donna guerriera.

Vinta sull’ultimo ring.

 

Ora è felice al di là della terra

per poter rincontrare

il suo uomo di vita.

 

Marito e moglie,

anni difficili, passarono insieme.

Una prole da sfamare.

 

Di nuovo insieme son ora,

si abbracciano felici.

Si sono ritrovati per una vita infinita.

 

Viaggio (p. 34)

 

Nell’illuso star bene,

l’animo è perso

e viaggia il pensier.

 

Altro non sono,

che una vela al vento

in questo invernale mare.

 

Testi tratti da Antonio Sambiase, “Momenti”, Controluna, 2022.

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Floriano Romboli, “Il fascino e la forza della letteratura”, Guido Miano Editore, 2021. Recensione di Raffaele Piazza.

05 lunedì Dic 2022

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Floriano Romboli, Il fascino e la forza della letteratura, Raffaele Piazza

Floriano Romboli

 

IL FASCINO E LA FORZA DELLA LETTERATURA

VOL.1

Saggi su Dante, Tasso, Graf, Zola, Fogazzaro, Pardini

Recensione di Raffaele Piazza

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“Tutto è respiro” di Alfredo Alessio Conti, Guido Miano Editore, 2022.Una lettura di Rita Bompadre.

02 venerdì Dic 2022

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Alfredo Alessio Conti, Rita Bompadre, Tutto è respiro

“Tutto è respiro” di Alfredo Alessio Conti (Guido Miano Editore, Milano 2022 pp. 64 € 15.00) racchiude la volontà stilistica dell’autore a distendere lungo l’arco di un nuovo canto poetico, la rinascita quotidiana della meraviglia. Il poeta abbraccia l’universalità di tutti gli elementi umani, riunisce nel ritmo dell’esistenza il rinnovamento emotivo, orienta la relazione interna del tempo, la percezione della realtà, l’essenza del soffio vitale, il principio filosofico di tutte le cose, esteso nello spazio e nel suo legame con la scrittura. Alfredo Alessio Conti percorre il cammino comune verso la partecipazione sensibile all’esperienza biografica, rinnova la sperimentazione espressiva della qualità persuasiva del linguaggio, ricerca una nuova capacità della parola, aderisce alla purezza del verso, mette in evidenza il senso ritrovato delle inquietudini, il lirismo protettivo dei sentimenti, l’energia dei significati impulsivi e le suggestioni morali. Il poeta comprende il complesso legame con l’universo, sottrae all’isolamento e all’angoscia dell’uomo la distinzione del miracolo della vita, indica l’intensità del mistero, intuisce la prospettiva esistenziale nel drammatico e meditativo conflitto tra la contingenza e la necessità nel divenire della materia speculativa, riconquista, attraverso l’esclusiva esperienza dell’insegnamento elegiaco, la fiducia della coscienza.

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Versi trasversali: Nicola Barbato

28 lunedì Nov 2022

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Nicola Barbato, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

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Anna Chiara Bruno e AA.VV., La libertà può volare, Besa Editore, 2022.

25 venerdì Nov 2022

Posted by Deborah Mega in COMUNICATI STAMPA, Eventi e segnalazioni

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La libertà può volare

Bruno Anna Chiara, Bosnjak Monai Diana, Cobaltini Letizia, Iacovone Maria,

Lacitignola Angela, Lo Prete Maria Piera

presentano

La libertà può volare

 BESA Editore, 2022

Da oggi, 25 novembre, in libreria,

nella Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.

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“Fra le pieghe del rosso” di Marcello Buttazzo, I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno

21 lunedì Nov 2022

Posted by Deborah Mega in COMUNICATI STAMPA

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COMUNICATO STAMPA

Il COMUNE DI LEQUILE, LA PROVINCIA DI LECCE in collaborazione con La Casa della Poesia di Como, I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, Universo del Mistero di Mario Contino, Poliedrika Aps, Fondo Verri di Lecce

MARTEDI 22 NOVEMBRE, ORE 19.00

presentano presso la

CHIESA DELLE CAPPUCCINELLE (Via San Vito – Lequile)

il libro di poesie ” TRA LE PIEGHE DEL ROSSO ” DI MARCELLO BUTTAZZO

(I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno)

Interverranno VINCENZO CARLA’ (Sindaco di Lequile), ANTONIO SPEDICATO (Assessore alla Cultura), STEFANO DONNO (Editore), SERENA CORRAO (Filosofa), VITO ANTONIO CONTE (Poeta, Scrittore). LETTURE a cura di LAURA FLAMINIO. MUSICHE a cura di ENZO MARENACI.

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Marisa Cossu, “Sintomi poetici”, Guido Miano Editore, Milano 2022. Recensione di Giuseppe Ruggeri.

14 lunedì Nov 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Giuseppe Ruggeri, Marisa Cossu

 

Marisa Cossu

SINTOMI POETICI

Recensione di Giuseppe Ruggeri

 

Quali sono i “sintomi” della poesia? Sembra su questo interrogarsi Marisa Cossu alla quale la pratica psicopedagogica ha insegnato la ricerca dei segni arcani della vita in mezzo ai detriti del tempo. Sintomi poetici è, di fatto, un florilegio di versi articolati in soluzioni metriche differenti, tutte puntualmente riportate in calce ai singoli brani. Così scorrono sotto gli occhi di chi ormai, per forza di cose, ne ha smarrito la sana abitudine sonetti, distici elegiaci, asclepiadei e financo acrostici che raccontano la visione poetica della nostra. Una visione ispirata da una Natura onnipresente che assurge la pietra – “corpo ruvido/ cuore inaridito, sempre immobile” a potenziale destinataria “di una speranza, forse, che lo illumini”. Mentre gli uomini, viceversa, quando sono ormai “corpi spogliati/ naufraghi nell’iperbole dell’io” seguono il destino delle nuvole che “salgono chiare in cielo/ iridi senza volto/ accumulate in albe evanescenti”. Uomini entrati ormai “nella notte/ dove giace memoria/ delle cose perdute, spinte nel buio, in angoli di strada,/ da un vortice stellato dove vola/ quel che resta del giorno”. Tra cui, per fortuna, anche la poesia.

 

Giuseppe Ruggeri

 

 

Marisa Cossu, Sintomi poetici, prefazione di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 92, isbn 978-88-31497-84-8, mianoposta@gmail.com

 

 

 

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