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Francesco Severini, Vagabolario, Viaggio miniato tra le leggende dei piccoli popoli nelle isole linguistiche d’Italia
La leggenda
Com’è nata la neve in Carnia
Tratta da
Renzo Balzan, Poesiis e Liendis de Tiere di Cjargne, A. Moro, Tumieç 2000
della quale esiste il testo originale
(una delle 21 tratte dal libro, relativa ad uno degli altrettanti “piccoli popoli” oggetto del mio studio e del libro).
Cemût che je nassude la nêf in Cjargne
Ducj in Cjargne lu san, almancul chei che a lòghin tal Cjanâl di Guart, che la mont clamade di Crostas e je une des plui ricjis di lejendis. A Culino, a Gjviano, a Tualis e a Salârs s’in puedin scoltà plui di une. Su la mont di Tencje si dan adun in cunvigne e a bàlin lis striis, come che si saveve ancje deant che lu scrivès tes sôs prosis la Percude, e che il Carducci lu cjantâs te sôs poesiis; ma che su la mont di Crostas e fos nassude la nêf o crodìn che a sèdin pardabon in pôs a savêlu.
E conte cheste liende che si jere a la fin dal mês di març e che i prins clips de vierte a tacavin bielzà a fâsi sintî. Dutcâs une buinore de tiere al scomençà a burî fûr come par un incjantesim, un lizêr vapôr ch’al lave jevansi simpri plui in alt, fintramai ch’al rivà a subissâ e a cuviergi i flums, i lâts, i plans, i boscs e la mont di Crostas. E plui il timp al passave, plui si faseve dut blanc.
Un blanc simpri plui penç. Cussì ogni cjosse e restà torcenade e subissade di chel ch’al jere aromai diventât une sorte di mâr di fumate cjandide. Ma vè che a un ciert pont e vignì fûr une piore che lè su disburide pe cleve di Tualis, e traviersà il bosc e svelte come un cjavrûl e corè su la cueste de mont fintremai a l’ultime cime, po cun tun grant varc e rivà sù tal cîl. Daûr di jè e rivà une seconde, e une tierce, e dîs e cinquante e cent… Alore pai infinîts prâts, colòr blâf dal cîl s’invià une gare, vivarôse e graciôse. Lis pioris al corevin lizeris une plui di chê âtre e i agnui ur svualavin daûr e a cirivin di fermâlis cjapanlis pai riçts de lôr velade di lane. Ma lis pioris si diliberavin, lassant tes mans dai agnui i bocui de coltre mulisite. A un ciert pont al rivà ancje il vint e si zontà a cheste sorte di zûc. La lane sgjarpide e lizere si niçulave ta l’arie muesse, slusint al soreli ch’al lave a mont daûr lis cretis. A sgurlavin i flocs cjandits in lêgre danze, si alçavin sù adalt e po biel planc a vignivin jù, a vignivin jù… La nevere e lè indenant fissè, fissè, pa dute la gnot, po sul scricâ de l’albe la neule e scomençà a viergisi e sot la lûs incierte de buinore la tiere braurôse e mostrà lis monts cuviertis dal blanc mantîl. In face a cheste vision al ridè apajât purpûr il soreli ch’al jevave su la mont di Crostas, come par un strieç ch’al jere riessût pulît.
Com’è nata la neve in Carnia
Forse non tutti sanno che sul monte Crostis, un giorno, è nata la neve. Questa leggenda racconta che si era alla fine del mese di marzo, e che i primi segni della primavera cominciavano già a farsi sentire. Cominciò d’un tratto a fuoriuscire un leggero vapore dalla terra, che si alzava sempre più in alto, fino ad arrivare a ricoprire i fiumi, i laghi, le pianure, i boschi e il monte Crostis. E più il tempo passava, più si faceva tutto bianco. Un bianco sempre più denso. Così ogni cosa venne circondata e avvolta da quello che era ormai diventato una sorte di mare di nebbia candida. Ma ecco che a un certo punto venne fuori una pecora che andò su per la salita di Tualis, attraversò il bosco e svelta come un capriolo corse sulla cresta della montagna fino su all’ultima cima, poi con un grande salto arrivò su nel cielo. Dietro di lei arrivò una seconda, e una terza, e dieci e cinquanta e cento… Allora sugli infiniti prati dal cielo iniziò una gara, vivace e graziosa. Le pecore correvano leggere una più dell’altra e gli angeli volavano loro attorno e cercavano di fermarle afferrandole per i riccioli del loro vello di lana. Ma le pecore si liberavano, lasciando tra le mani degli angeli i boccoli del loro soffice mantello. A un certo punto arrivò anche il vento ad unirsi a questa specie di gioco. La lana sfilacciata leggera dondolava nel vento, rilucendo al sole che stava salendo dietro le cime. Giravano attorno a se stessi i fiocchi candidi in una danza leggera, si alzavano su in alto e poi piano piano venivano giù, venivano giù… La nevicata è andata avanti fitta, fitta, per tutta la notte, poi alle prime luci dell’alba la nuvola cominciò ad aprirsi e sotto la luce incerta del primo mattino la terra mostrò i monti coperti dal bianco mantello. A questa vista rise appagato perfino il sole che si alzava sul monte Crostis, come per una stregoneria che era riuscita bene.
Vagabolario
Viaggio miniato tra le leggende dei piccoli popoli nelle isole linguistiche d’Italia
Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2016; br., pp. 264
SINOSSI
Il progetto Vagabolario nasce con l’intento di rendere plausibile il nesso tra la parola e l’immagine, il legame che scaturisce da vincoli intimi e giocosi mediante i quali è possibile dare ancora voce cristallina alla narrazione. Quella capace di suggerire e dar vita ad infiniti racconti, proprio come nella tradizione orale che rigenera fiabe e leggende, modificandole di volta in volta, arricchendone il senso, ridefinendone gli spazi ed i tempi d’azione. Il sottotitolo in tal senso, oltre il titolo stesso, ne definisce inoltre i contorni e gli ambiti. Si tratta appunto di un viaggio miniato, un viaggio per immagini vivo di racconti nel racconto, tra le leggende di quelle che sono state (in certi casi anche giuridicamente) definite isole linguistiche esistenti in varie zone d’Italia, ciascuna virtualmente inscritta entro confini regionali, il più delle volte troppo angusti e per questo limitanti. Dove variegati sono i popoli che le costituiscono e le abitano, seppure persino misconosciuti, eppure forti di un’energia straordinaria; quella che attinge, coniugandoli, sapere e attenzione alla vita. Il mio lavoro di ricerca intorno alle leggende di questi piccoli popoli – la definizione è solo apparentemente, volutamente minimizzante – è diretto ad una riscoperta, che in molti casi diventa vera e propria scoperta, dei rimandi ad una tradizione che fonda le proprie radici nel tessuto letterario dell’oralità. Il fine: restituire loro una dignità culturale capace di rimarcare, elevandola, l’identità peculiare di ciascuno di essi. Ventuno, dunque, i popoli, tanti quanti le lettere dell’alfabeto italiano. Di qui l’idea di altrettanti capolettera da rendere quali miniature di un singolare vocabolario, il mio personale Vagabolario, appunto: una sorta di breviario laico che attraverso un ordine ben noto, dalla A alla Z, scandisca il tempo della narrazione. Ventuno capolettera, ciascuna densa di figurazioni che illustrano la storia presa in esame – essa stessa stimolo primario di un soggetto (oggetto) visuale – spesso in maniera didascalica, altre volte lasciando che un’immagine chiave della leggenda ne divenga il punto focale. Il progetto non ha la pretesa di rappresentare una indagine demologica esauriente, tanto meno esaustiva, in merito ai piccoli popoli e alle loro leggende prese a riferimento. Mi auguro, piuttosto, essa sia stimolo per nuovi ed interessanti approfondimenti che possano far luce su alcune realtà ancora poco indagate, quando anche sconosciute, di un Paese già minato nelle sue fondamenta più solide, ovvero la disattenzione alla propria storia e alla sua straordinaria cultura. Non dimenticando, mai, che proprio nel ricorso alla tradizione un popolo, pur nelle sue infinite differenze identitarie, può trovare sempre ulteriori spunti per la coesione e la sua unitarietà. Il volume, stampato da Prospettiva Editrice, consta di una introduzione, di una breve prefazione di Antonella Orlacchio, della successione delle ventuno “stanze” ordinate alfabeticamente, come in un comune vocabolario, all’interno di ciascuna delle quali c’è l’immagine del capolettera miniato, alcune informazioni relative di ognuno dei “piccoli popoli”, in una sezione finale il rimando ad una loro relativa sitografia e bibliografia, oltre a rimandi generali sitografici e bibliografici, infine una nota biografica sull’autore.
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