Ci sono molti modi di far morire un cattivo amante.
Il primo e forse il più nobile
è quello di togliere l’acqua alle sue rose
lasciando che le spine lo dissanguino
lentamente, ucciderlo nel suo veleno
intossicandolo dello stesso amore osceno
che lo nutre.
Farlo ansimare del profumo di morte
che dolcemente esala
privarlo dell’ossigeno vitale che respira
quando si accosta con la bocca al petalo
nel dedalo vellutato del fiore
che non arriva al centro.
Fare in modo che la vertigine lo prenda
e lo trascini via lontano dall’oggetto amato
trascurarlo, gettando luce su un altro
più distante desiderio.
Renderlo infine trasparente ed etereo
inanimato, come un raggio di sole
che ti ha illuminato un attimo
con la forza amorevole e fatale
da far seccare per intero la tua pianta.
“Risacche” di Cipriano Gentilino (Terra d’Ulivi Edizioni, 2023 pp. 76 € 13.50) è una raccolta poetica che rimanda all’osservazione profonda dei movimenti sensibili, avvolti nello slancio interiore di ritorno di un’onda emotiva. L’autore accoglie le dinamiche esistenziali delle difficoltà umane, si confronta con l’origine delle contingenze, incrocia il vitale flutto della riflessione e si misura con le derive dell’uomo. L’intenso e intimo tracciato dei versi racchiude la consistenza espressiva degli stati d’animo, indica la destinazione filosofica del tempo, lungo le istintive possibilità di resistenza, spiega la determinazione del coraggio, decifra la natura evocativa delle immagini e il segno imperscrutabile delle ispirazioni. Cipriano Gentilino attraversa il sentiero della vita, si scontra con la voce dolorosa delle solitudini, si consegna al solco della scrittura, scolpito nell’immediatezza delle idee, nutre la consapevolezza di una preghiera pagana, custodisce la vocazione emblematica dell’oracolo delle interpretazioni. Espone il commento della realtà attraverso la viva conoscenza dei paesaggi, rintraccia l’eco struggente dei luoghi, ritrova l’epifania autentica dei destinatari, insegue il cammino esegetico di una solidarietà morale, abbraccia la cifra simbolica di ogni legame, conferma il valore ancestrale della poesia, in grado di svelare il significato inconfessato di ogni smarrimento. L’infinita qualità metaforica, tratteggiata nella poesia di Cipriano Gentilino, oltrepassa la vertigine del malessere, illustra la burrasca dei sentimenti, sintetizza l’amarezza dei contrasti, trasforma l’essenza dell’uomo nella dimensione introspettiva dell’empatia, assiste l’immenso dispiegamento delle impetuose increspature. Cipriano Gentilino impiega lo strumento conoscitivo del disincanto, affronta il crudele destino della contemporaneità, fronteggia l’ineluttabile provvisorietà, accorda le lucide inquietudini dell’abisso spirituale con la ricerca confortante di un equilibrio, rafforza, nella efficace motivazione dei versi, l’espressione dell’identità e rinnova l’intuizione dell’appartenenza. “Risacche” dona al lettore un desiderio animoso verso la libertà, mostra con l’accurata corrispondenza delle assonanze poetiche, l’osservazione delle proprie esperienze dentro il sussurro dell’anima. Il fragore ricettivo delle parole annuncia la vibrazione persistente del cuore, immedesima l’oscillazione delle passioni con la frantumazione delle speranze. Cipriano Gentilino ritrova la percezione della vicinanza affettiva, nella condivisione del dialogo poetico, scioglie la ricorrenza delle mancanze oltre il silenzio dell’estraneità, valica la stagione dell’ambiguità del vuoto, rievoca la densità degli affanni. L’universo psichico del poeta trascende una luminosa tensione che illumina le metamorfosi della moderna realtà, interroga l’inconscio, riemerge dalla simbologia di ogni limite, orienta l’evolversi del sentire, comunica la similitudine ontologica della risacca, estende la peregrinazione dell’umanità. Una sequenza visiva di ricordi e di richiami alimenta l’intervallo ripetitivo della nostalgia e dell’inclinazione elegiaca alla dispersione, trattiene il fondamento di colori e odori legati alla superficie originaria dell’accoglienza.
Siamo pesci rossi di vergini stantie tra righe di templi senza santi bolle perplesse d’apnea per un po’ d’aria e qualche parola.
Sul tepore
Una fiammella di lanterna intirizzita cerca olio anche d’avanzo per un po’ di inciampo un tepore anche assoldato in versi scandalosi irriverenti, prima che ci precipiti la notte.
Accostati
Accosta la tua sedia chino annuso la terra che ci riprende donami un bastone che mi alzi per respirarti le labbra accarezzami che osi sussurrarti poesia o così ci sembrerà.
Inquietudine
In questo imbrunire un’inquietudine di assenza antica, scricchiolo di foglia anonima, si baratterebbe per un nome o solo una parola adagiata sul fondo.
Frammenti
Scordate litanie d’annata siamo ombre al muro nel silenzio di epifanie, spiragli sparsi nei frammenti di sonno allo scandalo del risveglio.
Sera
Due bignè ancora di ieri e due fiocchi di neve questa sera,
una videochiamata a sud e un film di guerra a est,
e a luci spente due germogli di narcisi al riparo dal gelo
Dialoghi
Mi dissi ti voglio in silenzio poi non ti sentii più. Portasti arcobaleni di punti esclamativi ma ero già distratto.
Un’intervista per conoscere un giovane autore, il contenuto dell’opera e il processo col quale essa è giunta alla pubblicazione.
La redazione ringrazia Raffaella Rossi, per aver accettato di rispondere ad alcune domande sulla sua opera: Epidermide rara, Eretica Edizioni, 2023
Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?
Ho sempre amato scrivere, da quando ero una bambina, forse non capivo ancora cosa stessi facendo, adesso mi è più chiaro. Credo che questa mia passione sia nata proprio per essere un’osservatrice attenta della realtà circostante: per realtà intendo non solo il contesto naturale, anche quello sociale. La poesia per me è un modo di comunicare, è sicuramente un talento e se mi è stato donato, è importante condividerlo. I miei luoghi sono già poesia, adoro la nebbia in inverno che svela le colline con i piccoli germogli di uva quando anticipano la primavera, mi perdo nei paesaggi collinari della mia terra, nelle albe, gli ulivi mi parlano, i fiori mi parlano, c’è un contatto tra me e l’assoluto proprio quando entro in sintonia con i miei luoghi: io vivo in provincia di Avellino, a 480 m s.l.m., immaginate i profumi dei boschi in autunno, il grano in estate, sono contemplativa, cambierei i miei luoghi solo con la Sicilia orientale, mi piacerebbe vivere in Sicilia per tanti motivi, alle pendici dell’Etna con lo sguardo puntato verso il mare e gli odori degli agrumi nella testa. La componente autobiografica -proprio come i luoghi in cui vivo- è parte integrante della mia poesia, forse se non avessi vissuto la mia vita non sarei diventata autrice. Tra la mia vita, i miei luoghi e la poesia c’è un processo osmotico, come affermo sempre “la mia poesia sono io”, quindi ci sono dentro, tutta quanta. Scrivere è un modo per rendere infinite le cose che finiscono, per dare quel tocco di eterno alle esperienze della vita, belle o brutte che siano, a volte mi sento meglio scrivendo, quando si mette l’anima a nudo cambiano tante cose. Mi piace scrivere in modo diretto proprio per questo motivo, non amo girare intorno alle situazioni, se qualcosa fa male voglio dirlo, se qualcosa mi fa bene voglio scriverlo, non so per quale motivo, forse si nasce così, poeti, come chi nasce cantante o cuoco, insegnante, dottore o altro. Poi c’è da dire che ho studiato archeologia, le tracce sono importanti per ricostruire la storia, la poesia è fatta da tante fonti, il poeta è l’archeologo dell’anima.
Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?
Quando ero una ragazzina accompagnavo mia madre al mercato, girare tra i mercati mi annoiava molto sono sincera, allora passavo il tempo davanti a quelle bancarelle che vendevano i libri usati, all’epoca con mille lire potevi comprare bei libri. Anche oggi esistono ancora, con due euro riesci a trovare qualcosa di veramente interessante. Ricordo il primo poeta e scrittore al quale mi sono affezionata tanto è stato Cesare Pavese, avevo comprato da una bancarella il libro “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, lo trovai così spassionatamente vero. Non riconobbi Pavese neorealista che mi avevano insegnato alle scuole superiori, ma un poeta così solo, con l’animo messo a nudo che riusciva a comunicarmi il suo dolore attraverso le pagine di un libro. Ho letto tutti i poeti noti, devo dire che anche Giuseppe Ungaretti mi ha formata molto; sempre in quelle bancarelle comprai la sua raccolta e mi appassionai al poeta non “della guerra”, ma alla raccolta “Dialogo”, piena di luce, di passione e di speranza. Ho apprezzato tanto Rainer Maria Rilke, ho letto tante cose che mi hanno sempre incuriosita e spinta a provare. Devo citare Alda Merini, non solo per la sua poetica alla quale sono molto legata, ma per il suo modo di parlarci, di sentirla così donna, così vera, perciò mi piace leggerla sempre. Della Cavalli, invece, mi è piaciuta la schiettezza. Attualmente mi coinvolgono molto i poeti dei giorni nostri, ho molta stima per Beatrice Zerbini, la sento molto vicina anche dal punto di vista umano, credo che l’umiltà sia alla base della poesia, dove c’è umiltà riesco a percepire tanta vita. Non cito tutti i nomi ma adoro leggere le poesie che non conosco, mi piace migliorare, siamo in continuo divenire e la poesia ce lo insegna.
Ci parli della tua pubblicazione? Ricordi quando e in che modo è nata l’idea di scrivere questo libro e il soggetto? Quanto tempo hai impiegato a scriverlo?
Ho deciso di pubblicare le ultime poesie perché hanno tutte una matrice comune. La produzione era abbastanza vasta, ho scelto quelle più dirette che parlano dell’amore, come spiego nell’introduzione si parla dell’amore che io definisco vero, quello che si sente a pelle, quindi, Epidermide rara è un titolo polisemantico. Non entro in campi che non mi competono, ma la pelle se trova l’altra pelle vera riesce a sentirne tutte le vibrazioni. Impiego poco tempo per scrivere una poesia, dietro però c’è un lavoro molto complesso, a volte alcune poesie mi fanno piangere peggio di un parto.
Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?
Mi piacerebbe dire di sì, “certo che sì le mie poesie non cambieranno il mondo” scrisse Patrizia Cavalli. Ovviamente è un modo per dire che la poesia non risolve i problemi e i conflitti, però dona al lettore un momento di silenzio e condivisione. A parte l’utilità, credo che ogni poeta abbia un proprio stile personale, nessuno è uguale all’altro, anche io ho un modo personale di scrivere e può essere approfondito da chi si interessa della poesia, come a me piace interessarmi agli altri poeti e all’arte in generale. Può essere necessario per chi ha voglia di capire che siamo un po’ tutti nella stessa barca, c’è chi riesce ad esprimerlo attraverso più sensibilità e chi invece resta inerte.
Nel processo che ti ha portato a pubblicare ti sei avvalso dell’attività professionale di un editor oppure di un’agenzia letteraria? Hai frequentato una scuola di scrittura? Più in generale quali ambiti o ambienti del mondo letterario senti che ti appartengono e/o ti sono stati d’aiuto?
No, non ho contattato nessuno, tra me e la poesia c’è un rapporto intenso e di solitudine, del resto come nella vita, mi tocca fare tutto da sola, un po’ sono abituata. In futuro lo farò (forse). Ritengo importanti le riviste di poesia e di letteratura, in Italia c’è un buon lavoro, sono tutti molto appassionati, perché accostarsi al mondo della poesia significa essere un appassionato in generale, per natura.
Come hai trovato un editore?
Ho scritto agli editori di poesia, mi hanno accolta bene. Ho pubblicato con Eretica di Giordano Criscuolo perché sono in sintonia con il suo modo di pensare. Lui ha sempre espresso che non si scrive per vendere ma solo per emozionare, i versi tendono all’infinito. Quando ci siamo salutati prima che il libro uscisse, ci siamo detti grazie, “grazie per le emozioni che tu ci hai regalato” mi ha risposto Giordano. Credo sia una bella cosa.
La copertina e il titolo. Chi, come, quando e perché?
La copertina fa parte del progetto editoriale della casa editrice Eretica, la collana “Quaderni di poesia” ha la copertina rossa. Il titolo “Epidermide rara”, come ho espresso prima è polisemico, introduce il lettore verso la rarità dell’amore che si tocca a pelle e la rarità in generale. Sulla prima di copertina c’è questa poesia “Siamo noi/quei fiori bagnati /in mezzo a un campo di belve. /Non chiudermi la porta: /il vento asciuga l’acqua /e allarga le ali. Un po’ difficile, comprendo, ma i fiori bagnati resistono di più alle “belve”, almeno credo sia così.
A quale pubblico pensi sia rivolta la pubblicazione?
Domanda difficile: a chi vuole sognare un po’? A chi ha cuore, non lo so davvero, lo vedo poco indicato per i giovanissimi, però in privato mi scrivono che apprezzano.
In che modo e in quali luoghi stai promuovendo il tuo libro?
Ho un modo di promozione tutto personale, io regalo i miei libri, se avessi la possibilità, spedirei libri in tutto il mondo. Uso molto i social, se usati bene, possono nascere scambi culturali interessanti, infatti sto conoscendo tante persone interessate. Sto partecipando ai premi di poesia edita e per l’estate spero di partire con progetti di diffusione più concreti. Ci vuole molto tempo e spesso manca. Ultimamente realizzo piccoli video quotidiani con la mia faccia, non perché provo piacere nel farmi vedere, ma il contatto visivo è molto importante.
Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa)
Sono legata a più di una poesia, a una in particolare che forse è tutta l’essenza del libro, non cito il titolo perché per scelta le mie poesie sono senza titolo (non voglio vincolare e confinare le parole). Ho scritto dei versi che leggo spesso, quasi per un’esigenza vitale, c’è una poesia che parla della luce quando passa tra gli alberi proprio come fa l’amore quando apre un cuore e poi, c’è la parte finale della poesia essenza: ” (…)Io conosco gli inferni /e conosco il paradiso /conosco gli abissi/ e conosco i cieli/ ma sono capace di amarti/ e ti amo/ qui e adesso/ nel posto /dove si contano i respiri.” Al “posto dove si contano i respiri” ho dedicato il mio libro, è il respiro che fa l’amore, che fa la vita, i miei respiri li ho contati tutti, uno per uno, quando mi sono mancati. La sincerità di una persona verso l’amore sta proprio nel fatto che puoi aver visto il paradiso, puoi aver visto l’inferno, ma quando ami conta solo l’adesso, non esiste più niente. Esiste il respiro, il momento indimenticabile.
Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?
Mi piacerebbe che le persone leggessero di più, non solo le mie poesie e i miei libri, entrare nel mondo di un poeta non è difficile, c’è bisogno di empatia, questo mi aspetto, che un lettore non sfogli le pagine solo per sfogliarle o accontentarmi, ma che nella poesia riesca a trovare anche se stesso. Io leggo gli altri perché mi danno delle emozioni, mi fanno capire che tutto sommato non siamo così soli, questo vorrei anche per me.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Raffaella Rossi è nata ad Avellino nel 1983 e vive in un piccolo paese di provincia, dove svolge la professione di insegnante. Laureata in Archeologia presso l’Università degli Studi di Salerno, dal 2007 si occupa di poesia visiva, ponendo l’attenzione su forme di comunicazioni verbali, accompagnate da forme visive. Il messaggio poetico è sviluppato facendo convergere al segno grafico altri tipi di segni, mettendo l’accento proprio sulla semanticità di questi ultimi.
Ha pubblicato una silloge di poesie dal titolo “Stagioni e Riti” nel 2011. Nel 2023 ha pubblicato la raccolta poetica ”Epidermide Rara” con Eretica Edizioni. L’autrice ha ricevuto l’attenzione da parte di alcuni blog di poesie già con le sue prime poesie su un sito personale, ottenendo una prima traduzione in lingua spagnola per conto di “Laboratori Poesia”. Le sue poesie e recensioni poetiche per altri autori, sono fruibili on line e in una serie di antologie poetiche pubblicate dalle case editrice che hanno ritenuto meritevole la sua poesia ai concorsi. Per l’autrice, la poesia è la parola dell’anima, è un mezzo di comunicazione importante e salvifico, con funzioni anche demiurgiche. La poesia è un dono d’amore per se stessi e gli altri.
C’ero già andato l’anno scorso. Un nuovo editore aveva appena pubblicato il mio secondo romanzo e mi aveva invitato a Torino. Il mio volumetto faceva bella mostra di sé sul suo banchetto.
Nonostante non fossi più un giovincello (e oggi sono ancora più vecchio), mi feci prendere dall’entusiasmo “dell’autore presentato al Salone del libro”.
«Che cosa devo fare?» chiesi.
«Niente di speciale, ti metti qui davanti, con il tuo libro in mano, e se qualcuno si ferma tu gliene parli e cerchi di venderglielo».
È così per tutti, per tutti gli editori e per tutti gli autori, anche per i più famosi, cambia solo la “lochescion”: i più sfigati in piedi davanti agli stand a fare i piazzisti di pentole di carta, i più commerciabili in una saletta con tanto di microfono e compiacente relatore che li imbocca.Sarà che non sono mai stato portato per il marketing, ma mi sentivo uno scemo. Tra i “do solo un’occhiata” e i “grazie, ma ho già mangiato” (risposta veridica, lo giuro), mi chiedevo che cosa stessi facendo lì.
Quest’anno ci sono andato con minore entusiasmo. Non posso parlare male del mio editore, anzi, dei miei. Sono brave e oneste persone che fanno del bricolage più o meno avanzato, cioè fanno ciò che possono con quello che hanno. Entrambi mi hanno fatto un’intervista pubblicata sui social, il luogo virtuale che rende sempre meno socievoli i lettori e i frequentatori del salone (non sempre coincidono).
È un posto enorme, ben organizzato e altrettanto dispersivo. Entropico è forse l’aggettivo che meglio lo definisce. Tradotto in volgare: un casino innominabile. Coorti di ectoplasmi vagano senza meta tra i padiglioni, lo sguardo vuoto e la borsa piena di libri comprati seguendo le molteplici pubblicità stile “what else?” o grazie alla capacità di persuasione della sirena di turno, leggi l’abilità del “collaboratore” della casa editrice pagato poche centinaia di euro al mese, o con partita IVA incentivato dalla percentuale sulle vendite effettuate.
Un bailamme senza senso, un parossistico bazar dove trovi anche un catafalco del Ministero della Difesa (mi chiedo se difendano la “cultura” e soprattutto da chi), un altro della Rai da dove pontificano giornalai con il titolo di giornalisti, chioschi di rappresentanza delle Regioni, che con la scusa di un opuscolo pubblicitario promuovono attività commerciali e turismo (cioè lo spostamento di persone che starebbero meglio a casa loro in posti che sarebbero migliori senza di loro), un’esposizione di aspirapolvere Fo**etto (visto con i miei occhi) forse per spolverare i vecchi volumi, venditori di street food dagli olezzi pestilenziali e dai prezzi da oreficeria, insomma, un mercato mediorientale dove il principale movente dei “clienti” (attribuire loro l’appellativo di lettori è una scommessa) è quello di dire “io c’ero”.
Durante una pausa, all’esterno dei casermoni adibiti a esposizione faccio due parole con un omone dall’aspetto dimesso. Scopro che è un editore, o meglio uno che stampa manoscritti esenti da diritti d’autore, e che ha uno stand enorme proprio di fronte a quello del mio editore. “Nella giornata della memoria, con il Diario di Anna Frank tiro su 20-30.000 Euro”, mi dice orgoglioso.
Mi chiede in che veste partecipi al salone. Quando gli dico che sono un autore e che ho venduto più di un centinaio di copie si esalta e mi copre di complimenti. Secondo lui (prendo con le pinze le sue affermazioni) ciascuno dei circa 80.000 nuovi manoscritti pubblicati ogni anno vende più o meno 100 copie. Il resto va al macero. La maggior parte degli editori (lui non si definisce tale) sopravvive grazie alla rete di contatti di ogni autore, il quale, se vende una cinquantina di esemplari grazie alle sue presentazioni e firma-copie, gli garantisce la copertura delle spese. Poi ci sono i contributi all’editoria: statali, regionali, europei e via discorrendo. I distributori, soprattutto il più grande, sono delle associazioni a delinquere (ipse dixit).
Alla fine della conversazione, ne esco con la conferma di ciò che sospettavo: i toni trionfalistici, che ogni anno seguono la chiusura della kermesse torinese, lodando il successo di pubblico, il rinnovato interesse per la cultura, la sensibilità delle amministrazioni pubbliche, l’abnegazione degli organizzatori, l’entusiasmo degli editori e via discorrendo, lasceranno il posto non molto tempo dopo ai soliti piagnistei sul fatto che in Italia non si legge, sulla crisi dell’editoria, sull’analfabetismo di ritorno (da dove?) e sulla necessità di nuovi e più cospicui aiuti pubblici a un settore cardine della cultura nazionale.
Ritorno al banchetto del mio editore dove i miei omologhi autori si sfidano in una tenzone di selfie da postare sulle loro pagine social. Sono molto diverso da loro? Ognuno crede d’avere qualcosa d’imprescindibile da dire al mondo, un messaggio in bottiglia.Sono sommerso da un vociare incontenibile, una folla di miei simili che riversa parole in questo capannone annegato in un oceano di parole scritte. Milioni, miliardi di parole, Utili? Inutili?
La cifra essenziale di questo “Salone” è quella commerciale. Significa avere performance misurabili in termini di successo. Nudi, freddi numeri capaci di certificare che il “cliente” (lettore e/o autore) è divenuto performante, perfetto ingranaggio di una oliata macchina dove la divergenza, il senso critico sono considerati con fastidio un inceppo da aggiustare. Perché la vita è una darwiniana competizione in cui solo il più “competente” vince. E gli altri devono percepire il peso dello smacco, del fallimento, divenendo “scarti”. Conta solo vincere a qualunque costo, anche con la slealtà.
I miei libri sono una camola in un silos di milioni di metri cubi di farina.
«Allora perché ci vai al salone?»
Perché come tutti gli umani non sono esente dal demone della vanità. Perché anche a me piacerebbe vendere centinaia di migliaia di copie come i VIP che denigrano Dante, Manzoni, Dostoevskij o Verga e che, en passant, invitano i “clienti” a comprare i loro manoscritti.
Però, io non lo farei, se non altro per buona educazione, un vezzo riservato ai “boomers”.
Vado al salone perché, come diceva Dominique Angel, «Je passe mon temps à me libérer de ce que la nécessité m’oblige à mettre en place pour survivre».
Poi, secondo la legge dei grandi numeri, ti capita qualcuno davanti, uno sconosciuto che ha comprato su Ama*on il tuo libro, che l’ha letto, e te lo conferma citando questo o quel passaggio che gli è piaciuto, che gli ha lasciato qualcosa. E ti chiede la dedica, la medaglietta che lui pensa d’aver meritato attraverso la sua lettura.
E tu, non gliela fai la dedica? Sì, il Salone è proprio una fiera: delle vanità.
Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)
La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …
FRANCESCO RANDAZZO
Silenzio
Albeggi, tendaggi e sàgole,
pianto di rosmarino in bilico,
mentre sulla torre smemora
ogni sapienza esatta.
Dietro lo specchio opaco
ride la sfinge isterica
e con le mani stringe la cornice.
E poi silenzio, silenzio senza enigmi.
Finché la zagara
Arriverà la primavera
di questo freddo
di queste morti
resteranno fiori
pronti a rinascere
pagine da riscrivere
e bocche respiri
baci e lenzuola
Sulle teglie
di pomodori
stesi al sole
affiorerà
il sale bianco
I bambini
ruberanno le mandorle
correndo e inciampando
felici
Arriverà la primavera
per dimenticare
di questo freddo
di queste morti
Almeno per un poco
ci sembrerà impossibile
che si possa lasciare
di sé soltanto un brivido
un’improvvisa assenza
Finché la zagara c’ingannerà di nuovo
Finché le bucce d’arancia bruceranno l’unghia.
Ben vestito
A volte vado a letto vestito,
di tutto punto, giacca compresa,
ci fosse un terremoto fuggirei dignitosamente,
ci fosse un trapasso sarei già pronto,
ci fosse, come poi è, per lo più,
che semplicemente dormo,
me ne vado in giro ben vestito
nei miei sogni e al mattino
mi alzo ed esco così come sono,
con gli abiti stropicciati dal sonno,
e gli occhi furbi di chi va
continuamente tra due mondi,
senza andate e ritorni,
sempre in giro, altro dove,
altro quando, ben vestito,
spiegazzato di vita e di sogno.
Ai primi di novembre
Non mi piace venirvi a trovare, laggiù,
messi in fila, inscatolati nel cemento,
piantati nell’asfalto, freddati dal marmo,
con le date d’inizio e fine, perentorie.
Preferisco incontrarvi, come siete per me,
straordinariamente vivi e guariti dal male,
dagli errori e i rimpianti, bellissimi per sempre,
come forse non speravate o non avete saputo,
ma adesso e per sempre lo siete, in questo
enorme palazzo della memoria, il mio,
il nostro, che abitate con me, dentro stanze perfette.
Non ci sono rintocchi, né grida, né lacrime,
nessuno può disturbarci, persino ridere possiamo,
dimenticarci di tutto, rivivere solo il bene, sempre.
A qualcuno dovrò lasciare le chiavi,
ma questo palazzo non sparirà.
Acufeni
Acufeni intonati
in coro cinguettante
nel bosco della mente
Gorgheggi
stranamente
meravigliosi armonici
stupiscono e rivelano
quanto perfetto
possa essere
il caos dell’anima
la faglia nel
diapason
dell’equilibrio fisico
Quando torna il
silenzio
sorprendentemente la
calma sussurra
la certezza che la vita
dentro di noi
è un haiku
senza sillabe
Chimere
I sussurri dei fogli sparsi sul
tavolo, la polvere che incipria i libri
seri,
questo canto che viene da
lontano, da memorie di carezze
antiche,
un calpestio di passetti infantili,
una luce spenta all’improvviso,
tra gli scaffali corre una bicicletta,
e dai cassetti chiusi bussano
gnomi dispettosi spacciatori
d’incertezze, il caffè si fredda e sospira aromi,
il timore lontano grida minacce
ancora vive, feroci, umilianti.
Un battito di ciglia e il respiro ansioso,
tutto si esala nell’alambicco fragile,
della mente smarrita in dedalo
infinito.
Una mano sul volto per cancellare. E soltanto
una lacrima per assaggiarne il sale.
Non contare i passi
Non contare i passi che percorri nella notte,
ascolta soltanto il suono delle tue scarpe,
dalle finestre chiuse intrufola il pensiero,
muovi le braccia in una lingua muta,
attraversa il silenzio e le sue colonne
d’Ercole, perditi in un’avventura senza più
tempo, e ricorda di ringraziare ciò che
dimentichi, con un sospiro e un sorriso
disegnerai quella gioia impossibile nei giorni
spietati.
Francesco Randazzo, testi tratti da “Sabbia aspra”, Porto Seguro Editore, 2022
Il mio quotidiano navigare tra le cose.
Al mattino ho la fortuna di perdere tempo
prendere in prestito gli attimi e lasciarli andare
rimanere incantato dalle piccole tempeste
che si scatenano nella mia tazza di tè
meditare sulle risposte evasive che ho dato
a chi nella notte mi ha posto un quesito
mostrandomi immagini dell’adolescenza
sfocando lo sfondo di un mistero rimasticato
a cui ho cambiato la trama decine di volte.
Quel pezzo di cielo che mi fa meteorologo
di me stesso da un piccolo terrazzo di città
sondando il cielo dalle case e vedermi sondato
in ripresa aerea che si allontana dal mio fuoco.
Cosa mi porta a sognare rimanendo sospeso
come chi non riesce a vedere oltre il suo passo
mancando la presa del piede alla terra
facendo girare a vuoto la macchina fantastica
che ha perso il motivo di riprendere immagini?
Vedo nelle nebbie di questo maggio autunnale
esposto alla forza dei venti delle sue rose
gli esempi maturati, le lezioni indimenticabili
le nature matrigne che abbiamo partorito
noi patrigni e matrigne delle nostre madri.
Quanti misteri si leggono in una sola tazza!
Le notizie di un naufragio disciolte nel latte
lo stupore infantile di veder navigare qualcuno
a bordo di un’arca che costeggia case allagate.
Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale e delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento, viene pubblicato nel 1936 negli stati uniti il romanzo I fratelli Ashkenazi. L’autore è Lo scrittore polacco in lingua yiddish Israel Joshua Singer (1893-1944), figlio del rabbino Pinchas Mendl Zinger e fratello dello scrittore Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978. Il libro ha più di 700 pagine ma ciò non mi ha fermata perché avendo già fatto esperienza della scrittura di Singer con il suo bellissimo La Famiglia Karnowski, ero certa che ne sarebbe valsa la pena. Singer ebreo ashkenazita ci racconta il suo mondo, per molti un mondo lontano, estraneo e complicato, multiforme, multiculturale e caotico, un mondo pieno di contraddizioni. Il romanzo narra le vicende immaginarie di due fratelli inserititi in un contesto di verità storica, fra la metà del XIX secolo fino agli anni trenta del secolo successivo, fra la polonia e la Russia zarista.
Poiché la Polonia era ricca di filati di lana e di cotone ma mancava di tessitori vennero fatti entrare nel territorio polacco, con la promessa di non pagare le tasse e altri benefici, tessitori provenienti dalla Germania, tedeschi e ebrei ortodossi. Così, dopo la fine delle guerre napoleoniche, una lunga processione di tedeschi ed ebrei percorse le strade polverose della Sassonia e della Slesia fra villaggi già devastati dalle guerre di Napoleone, diretti verso la cittadina polacca di Lodz, chi nei carri o nei barocci, chi a piedi. Molti erano individui cenciosi, altri erano ricchi ebrei carichi di masserizie, ma tutti, ricchi e poveri, erano muniti di telai a mano.
La comunità ebraica riesce a inserirsi nel territorio di Lodz e addirittura ad allargarsi costruendo nuove case o ingrandendo le case già esistenti. Alcuni ebrei si mettono in proprio e aprono le loro attività autonome di tessitori.
Uno di questi ebrei, che si era fatto da sé riuscendo a diventare un imprenditore, era Reb Abraham Hirsh Ashkenazi, ebreo devoto e rispettoso delle tradizioni. La moglie era sul punto di partorire e si era a ridosso della Pasqua, ma lui volle ugualmente recarsi dal rabbino chassidico di Vorka per chiedere una benedizione per il figlio che gli stava per nascere, nonostante le strade fossero infestate dai ribelli e dai cosacchi. Il rabbino gli aveva predetto che i suoi figli sarebbero diventati ricchi ma non sarebbero mai stati devoti. Al suo ritorno trova che la moglie ha partorito due gemelli, Simcha Mayer e Jacob Bunim.
bambini di Lodz primi anni del 1900
I due fratelli sono dissimili fra di loro, sia nell’aspetto che caratterialmente, erano come il giorno e la notte. Il più grande è Simcha Mayer, minuto ma sempre triste benché dotato di intelligenza viva, l’altro Jacob Bunim all’apparenza meno intelligente ma più robusto e allegro. Il romanzo narra della rivalità di questi due gemelli, che si manifesta sin dai primi anni di vita. Il minore ama la bella vita, le belle donne e il buon cibo, finge col padre di essere devoto per non creare problemi, si è innamorato sin da piccolo delle bella Dinah, una bambina che gioca spesso con lui mentre il fratello minore, roso dall’invidia, sta a guardare. Da adulti si contendono il potere nella città di Łódz. Il maggiore sposa Dinah la donna amata dal minore. È furbo e sa operare inganni e astuzie, diventa ricco e si fa chiamare Max, accumula ricchezze su ricchezze, sgobba dalla mattina alla sera senza mai un attimo di riposo, sfrutta i lavoratori della fabbrica come un vero negriero. Odia il fratello minore perché nonostante lui non si dia da fare è come se fosse stato baciato dalla fortuna perché diventa più ricco di lui. Ha sposato, infatti, una donna ricchissima anche se il suo è un matrimonio infelice perché lui ama Dinah la moglie del fratello maggiore. Quasi tutta la seconda parte del romanzo racconta la lotta fra operai e imprenditori, i conflitti fra gli ebrei devoti e i gentili, fra polacchi e russi, fra i nobili e nuovi ricchi, lo sfruttamento dei tessitori considerati alla stregua di schiavi, la ribellione dei lavoratori, la lotta di classe e la rivoluzione russa. Simcha Mayer che ormai si fa chiamare Max Ashkenazi aveva trasferito molti dei suoi macchinari dalla polonia in Russia, ma a causa dell’abolizione della proprietà privata, perde tutti i suoi averi e viene rinchiuso in una prigione della nuova Unione Sovietica. Pentito del male che aveva causato agli altri in nome della ricchezza e della sua avidità, ormai vecchio e malato, comprende di aver sbagliato tutto costruendo il suo mondo nella sabbia e viene tratto in salvo proprio da quel fratello che lui aveva sempre odiato e invidiato. Così come in quel periodo storico erano gli ebrei, invidiati e odiati, tant’è che il malcontento e la rabbia della popolazione venivano spesso indirizzati dal governo russo attraverso i pogrom contro di loro, facendone un capro espiatorio. Questo romanzo, così come gli altri dello stesso autore, per chi è lontano dalla cultura del popolo ebreo, può rappresentare un’ottima occasione per comprendere meglio l’animo di questo popolo e le loro tradizioni, in quanto le vicende sono narrate da un vero scrittore ebreo ashkenazita di lingua yiddish vissuto a ridosso del periodo storico narrato, quasi fosse un testimone diretto.
In nessuna pagina del romanzo si può leggere la gioia di vivere o la serenità dei protagonisti. Nessuno dei personaggi presente nel romanzo sembra riuscire a essere felice, eppure la felicità è contemplata nella loro visione e nella loro tradizione religiosa, ma nel romanzo c’è sempre nelle vite dei personaggi un sottofondo di malinconia. Tutti, ciascuno per i propri particolari motivi dati dai problemi derivati dalla classe di appartenenza, sia per l’avidità, sia per la povertà, sia per la troppa ricchezza, per non sapersi accontentare mai, sia perché si combatte per la lotta di classe, o per i dettami della religione di appartenenza che a volte pesano come un macigno, ognuno per il suo ma tutti sono infelici. Molti sono i personaggi presenti nel romanzo e molte le loro vicende personali. Donne, uomini, figli, mogli, mariti, politici, ministri, nobili, imprenditori, filatori, venditori di scarti, agenti di commercio operai, ricchi, accattoni e straccioni, tutti vivono la loro infelicità in un mondo dominato dal caos e dalla confusione. Gli unici che sembrano porsi al di sopra di questo mondo mai felice sono i rabbini, depositari della saggezza e dell’ordine, come se lo studio e l’insegnamento della legge fossero un porto sicuro, un luogo preciso, e i rabbini, detentori di quella terra promessa, già insediati nella terra dove scorre latte e miele. Nel giudaismo la felicità è un comando, il Talmud dice che rallegrarsi durante una festività è dovere religioso. Sia nel Levitico che nel Deuteronomio si ordina di essere gioiosi, molte delle loro feste sono nel segno della gioia, la gioia della festa delle capanne, la gioia della Pasqua. È chiaro così che quasi nessuno dei personaggi del romanzo è un devoto e ciò causa infelicità. Il romanzo già nel titolo parrebbe avere come tema principale la storia di due fratelli e il dualismo esistente fra essi, ma è solo l’occasione per rappresentare i conflitti esistenti nell’animo umano e nei gruppi contrapposti: fra le diverse etnie, fra gentili ed ebrei, fra chassidin devoti e non osservanti, fra il socialismo e il capitalismo. Ciascuno portatore di malcontenti e dicotomie, dove i personaggi cambiano abito di volta in volta, a seconda delle circostanze, una volta sono le vittime e un’altra sono i carnefici assumendo ruoli intercambiabili adattandosi ai padroni e alla situazione storica ai confini territoriali del momento. Il libro appassiona e si legge facilmente nonostante le sue tante pagine e gli argomenti non molto leggeri perché la scrittura è fluida e la storia interessante, specialmente per chi ama questo tipo di scritture, cioè le saghe familiari e i romanzi storici in cui le vicende dei protagonisti sono inseriti nella realtà storica, anche se ho trovato un po’ lunghe la parte delle descrizioni delle lotte di classe e della rivoluzione popolare. Il romanzo mi è piaciuto meno de La famiglia Karnowski perché un po’ ripetitivo in certe parti e meno dinamico.
E’ terminata il 5 maggio scorso Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados, il progetto curato da Emilio Capaccio su questo sito nella categoria TRADUZIONI. L’ articolata iniziativa, inziata il 7 aprile dell’anno scorso ha accompagnato i lettori di Limina mundi per oltre un anno, suscitando interesse, abbiamo pensato quindi di rivolgere alcune domande al Curatore in un’intervista proposta nel sottostante podcast.
la linea rossa traccia il percorso ideale compiuto con i Racconti dimenticati
Qui sotto l’audio dell’intervista. La voce dell’introduzione è di Loredana Semantica, formulano le domande Deborah Mega e Loredana Semantica, risponde Emilio Capaccio. Buon ascolto
I volti dei 21 autori dei racconti dimenticati tradotti da Emilio Capaccio
EMILIO CAPACCIO
Emilio Capaccio è nato il 16 maggio del 1976. Ha vissuto a Campagna, in provincia di Salerno. Vive a Milano. Ha pubblicato in formato e-book: “Malinconico Oscuro”, traduzioni di poeti sudamericani inediti, con prefazione di Giorgio Mancinelli. Ha collaborato con la rivista internazionale di poesia: “Iris News”. Collabora con vari blog di poesia. Sue traduzioni e poesie sono presenti in varie antologie, blog e nella rivista “Il Foglio Clandestino, Aperiodico Ad Apparizione Aleatoria”. Ha pubblicato la raccolta poetica: “Voce del Paesaggio”, edita da Kolibris Edizioni 2016, con prefazione di Massimo Sannelli, e la raccolta poetica: “Canzoniere della Biondezza”, edita da L’Arciere del Dissenso 2019, con prefazione di Emilio Paolo Taormina. Come curatore e traduttore ha pubblicato le raccolte: “Radice”, del poeta spagnolo José Luis Hidalgo, Giuliano Ladolfi Editore 2017, e “Princesse Amande”, della poetessa francese Lucie Delarue-Mardrus, LietoColle 2017. Nel 2023, ha pubblicato per Neobar eBooks Via Lattea, traduzioni in rima della raccolta di sonetti inedita del poeta brasiliano, Olavo Bilac.
A questo link tutti gli articoli pubblicati da Emilio Capaccio su Limina mundi
Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)
La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …
Dentro un cerchio di appartenenza
su un un tavolo
come dentro l’enunciato di un insieme
stanno gli oggetti in numero di tre
un blister di pillole vuoto
un vecchio zaino, un libro.
Senza contare il foglio
sopra al quale sto scrivendo
privo di titolo e dedica.
Il tavolo racchiude questa flottiglia
e sulla sua pianura liquida
il mio sguardo si posa rotondo
come a contemplare un mare.
I movimenti rapidi della scrittura
(rapid writing movements)
smuovono onde e generano correnti
memoria che galleggia negli specchi
lasciano correre flussi di immagini
sopra un bianco abbagliante.
I ricordi soffiano nella direzione segnalata
da una ipotetica rosa dei venti
e lasciano che la penna percorra
la linea d’orizzonte del verso
come fa una vela.
E tutto questo avviene
con semplicità e con cura.
Come la felicità minore dell’uccello
che ha costruito un nido
con le lettere del suo canto,
come l’antica solitudine di un pesce
che nuota dentro la profondità
di un vasto sogno.
C’è analogia tra Andrea Temporelli e – a puro titolo d’ esempio – Cristina Campo, oppure Umberto Saba, Pablo Neruda, Italo Svevo, nel senso che sono tutti autori che hanno adottato uno pseudonimo. Gli pseudonimi separano mondi. Di qua il nome, di là gli altri. Da un lato l’essere dall’altro l’invenzione. Si opera la diversificazione, si celebra lo smarrimento, pulsa la repulsa del limite, mescendo lo scoramento del vivere si varca il transito nell’impossibile. Si travalica la nominazione imposta che opprime e aliena, come un battesimo all’esistenza che incarta e squarta. Nello schermo il pronunciamento, scevro da condizionamenti, si fa purezza d’inesistenza. L’impresa resta agganciare l’eterno allo scarto, partorire il trapasso, comprendersi fino alle scapole, ai polmoni in un’assurda, mai sazia, impagata ricerca di se stessi. Dentro uno pseudonimo si possono estrarre con l’uncino le ali dalle scapole e volare oltre i mondi. Edificare a parole un monumento d’amore e dolore. Non è poi così difficile per alcuni, nel senso che è simile alla vita. Eminentemente scrivere è un gesto antropico, gli animali non lo fanno, ma non è un gesto naturale, eppure per qualcuno scrivere è un atto di estrema naturalezza. Libera e conduce slancio e impulso, come guidare una vettura nelle strade deserte senza che gli altri siano d’intralcio: passanti, veicoli, conducenti. Il dolore invece è diverso, spina o croce, è all’opposto gravoso, difficile da reggere, impregna l’essere, lo attraversa e viverlo il dolore dà alla scrittura una consistenza e una compostezza che flette le arterie, le irrora allo spasimo.
I poeti in definitiva non scrivono che d’amore, di dolore e di morte. I poeti degni di questo nome. Se un poeta non scrive di questi temi ha scritto sul ghiaccio.
La silloge di Temporelli edita da interlinea, s’intitola L’amore e tutto il resto, il titolo è sintomatico di un’ordine. Messo l’amore al primo posto cosa resta? Echeggia un anelito dickinsoniano
I argue thee That love is life – And life hath Immortality –
Io ti dimostro che l’amore è vita e la vita ha l’immortalità
Oppure come non ricordare l’ancor più famoso distico
That Love is all there is, Is all we know of Love
Che l’amore è tutto È tutto ciò che sappiamo dell’amore.
Persino la morte svanisce a confronto dell’amore. Temuta, sfuggita, implacabile, irrimediabile, invocata nell’agonia per sollievo di sofferenza, la morte, nella lettura di Temporelli, è un “resto” insieme a tutto quanto d’altro c’è. L’amore domina su tutto. O meglio tutto si muove per amore, anche ciò che apparentemente non collega. Esso solo resta, ci sostiene, sopravvive. Quello ricevuto, quello donato, la sua memoria, è come un sigillo sull’anima, la forgia e la modella nella forma che essa ha nel momento in cui la eplichiamo sul foglio, tutta la memoria della nostra storia soccorre a tentare il travaso.
Alcuni dicono che si scriva dopo tante e tante letture, invece dopo tante e tante letture non scrivi, hai sulle spalle un tale peso che sprofondi, si scrive perché devi. E se devi lo fai anche prima di tante e tante letture, lo fai anche dopo, ma dopo i dubbi sono talmente tanti che dell’atto avverti tutta la responsabilità. Ti rendi conto che è un azzardo, che rischi il peccato di presunzione. Cosa puoi dire oltre ciò che è stato detto più e meglio da altri? Questa consapevolezza, se iniziale, può darsi che paralizzi o inaridisca. Invece quando “devi” non ti fai domande e non hai risposte, continui nel flusso che trascina oltre i dubbi, in una sorta di chiamata necessaria, nostalgica, disperata. A volte filo di voce finissimo altre strido, pianto, volo bianco.
L’amore e tutto il resto è un libretto formato 10 x 15 per centotrenta pagine circa, copertina in carta goffrata color avorio. Il sommario ci informa che il libro si compone di nove sezioni indicate coi numeri romani, ognuna contiene da 5 a 10 poesie, eccetto le sezioni IV e IX, la prima costituita dal poemetto “Terramadre”, l’altra da “Postilla per l’alieno”, da ascoltare qui.
Ciò che trovo impressionante da sempre della scrittura poetica è come essa “ci” scrive, come coliamo filati parola per parola nello stampo della poesia, vi alberghiamo nudi, per come siamo, spellati sulla pagina, buccia dopo buccia, incolliamo sul foglio le squame, le penne, le piume, ci spogliamo, lettera dopo lettera, verbo dopo verbo e in questo trapasso, evochiamo studi, memorie, attiviamo il nostro “genio” per vestire il dire di senso, per sostanziare quel denudarsi, in tutta la nostra dolcezza, sdegno, asprezza, razionalità, nel ventaglio amplissimo degli “stati” del nostro essere qui ora e vivi. Per trasferire al lettore uno scritto che sia denso di pensiero, corpo e non vacuità. Questo processo avviene chiaramente anche nella scrittura di Temporelli. Del resto è autore e critico di ampia esperienza, oltre che specialista della materia letteraria, cioè insegnante.
Il libro ha ricchezza di temi e compiutezza di pensiero. Vi si legge l’uomo, la storia, le amicizie, gli avvenimenti, patemi e patologie, la scrittura, l’infanzia, l’insegnamento, la religione, il collegio, gli amici, il calcio, lo studio, la morte e i tortuosi camminamenti riferiti con semplicità perché nodi affrontati e sciolti. Vi si leggono i molti interrogativi, perché, si tratta, lo dice l’autore, di un libro che si sviluppa in un arco temporale ampio di ben 27 anni, che ci sono tutti, si spazia da una A a una Z passando da molte porte, altrettante svolte. Un distillato di tanta vita.
Tutta la raccolta ha un suo tempo metrico percepibile sin dai primi componimenti, brilla in versi di felici illuminazioni, accostamenti originali su un apparecchiamento lessicale piano, scorrevole, appropriato. Il versificare è corredato da segni di interpunzione e talvolta da spaziature e a capo ad arte. E’ presente un sottofondo di sobrietà e vivacità, due fili conduttori dell’opera, per cui mai dire nulla più di quanto è necessario, in omaggio all’esigenza di sfrondare fino all’essenziale, e in secondo luogo non annoiare il lettore. Diversi testi hanno la solennità e l’accoratezza della preghiera. In tutto il libro non è tanto la ricercatezza dei termini che restituisce cultura, ma citazioni e riferimenti. Tra questi spicca l’incipit del commovente omaggio a Simone Cattaneo che riprende il dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io che diventa Ricky, io vorrei che tu, Davide, Massimo, Flavio, Alessandro ed io. L’amicizia è già tutta nella nominazione del consesso.
Lucenti i testi che raccontano la natura e le memorie, gli smarrimenti, ve ne sono disseminati, belli e limpidi anche i canti d’amore, intessuti a volte da tensioni sotterranee, sentori d’abbandoni o separazioni. Di altri testi la lettura è meno trasparente, si chiudono nell’ermetismo, talvolta l’oscurità vorrebbe un ausilio a dipanare il senso, ma forse è solo umana curiostà di intromettersi nel ventre ispiratore, aprire squarci di indiscrezione. Così nel poemetto Terramadre, dove si affronta il tema della morte con sviluppo drammatico – teatrale, racconti esperenziali, com-partecipazioni attoriali, essi concorrono al referto dell’ essenza dell’oscura signora, alla narrazione dell’impatto che l’agonia o l’evento producono e le ramificazioni interiori conseguenti alla perdita. E’ un fatto che giunti ad età avanzata abbiamo la vita costellata da mancanze dolorose, tanto più quanto più traumaticamente e precocemente è avvenuto questo invevitabile incontro e per le tante volte che avviene successivamente. Se ne parla qui con la consapevolezza che permea chi sa e può dirne senza apparire un balbettio d’esercizio letterario. Si direbbe che il poeta ha il piglio di chi fronteggia, non arretra e non cede, resiste, come in un corpo a corpo, in una sfida.
Postilla per l’alieno, che chiude il libro, ha un sentore del viaggio di Ulisse, appello rivolto a profani o a viaggiatori d’altri mondi, un messaggio d’onde radio verso porti astrali. Coniuga l’esotico e la citazione, propone destinazioni, ma non si tratta di luoghi qualunque: la Baia di Halong in Vietnam, il palazzo di Taj Mahal in India, il Cristo Redentore di Rio de Janeiro, la cascate del Diablo nell’Iguazù in Argentina, la Grande Muraglia Cinese e infine la quadriga della Basilica di San Marco a Venezia, sono tutti accomunati dall’essere di una stupefacente bellezza, tant’è che sono inseriti nell’elenco delle sette meraviglie del mondo oppure dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Temporelli cita poi l’affresco michelangiolesco de “La creazione di Adamo” nella Cappella Sistina, i poemi epici di Omero, gli angeli de “Il cielo sopra Berlino”, ed è nella chiusa che chiarisce come rifiutare tutta questa bellezza significa chiudersi all’ amore, gesto che darà forse pace, ma svuota.
A cogliere la sostanza di tutta l’opera possiamo dire con Etty Hillesum “Credo che il senso della vita sia nell’amore, nell’amore per gli altri, nell’amore per la natura, nell’amore per la bellezza, nell’amore per la verità. Credo che l’amore sia la forza più grande che ci sia, la forza che ci fa andare avanti, che ci fa sperare, che ci fa credere che la vita ha un senso.”
Alzati e grida al mondo / tutto il tuo dolore / quando la vita ti sta trasformando il cuore / in un’arida macchia di sangue. Ho scritto una poesia. Non ne avevo mai scritte prima d’ora.
Questa mattina è venuta la psicologa; mi ha dato dei fogli bianchi e mi ha suggerito di scriverci quello che voglio. Stasera verrà a ritirarli. E’ stata gentile, non me l’aspettavo. Quando esco da questo ospedale voglio festeggiare. Mi comprerò una tavoletta di cioccolato, enorme. La mangeremo insieme, i mieiamici e io. Ma come ci sono finita qui dentro? Ho fatto tutto quel che dovevo fare, tutto come in quei libri: “Pensa positivo!” “Se vuoi puoi!” “Sviluppa la tua forza di volontà!”. Io penso sempre positivo, ma proprio sempre! E siccome voglio allora posso.
Mi manca la frutta, qui ne danno troppo poca. La frutta fa bene, bisogna mangiarne tanta. Anche le verdure fanno bene. Invece la carne il pesce le uova fanno male. L’ho detto alla mia amica ma lei mi ha risposto che deve mangiare un po’ di tutto altrimenti poi si sente male. Non mi convince. La frutta fa bene a tutti, è lei che ha le fissazioni e così non ottiene ciò che vuole dalla vita! Io per esempio mangio tre grosse mele una via l’altra, e arance e kiwi e uva e mi sento piena di energia! Durante la giornata ricevo molti doni, molte persone piene di luce mi si avvicinano e mi fanno tanto bene. Le medicine invece fanno male, tutte quante. Il movimento fa benissimo, lo dicono sempre, i medici. Io corro al parco prima di iniziare il lavoro, perché poi mi tocca stare seduta per molte ore al giorno e certe volte anche di notte, quando non riesco a dormire mi metto in macchina e guido, guido fino al mattino, poi quando torno a casa vado in palestra, per farmi i muscoli. Nadia mi ha massaggiato, tempo fa. Mi sono sentita come rinascere! Gliel’ho detto alla mia amica. Lei mi ha sorriso e ha detto che è contenta di avermi aiutato. La depurazione poi è molto importate. Pulizia e depurazione… tre docce al giorno.
Ho chiesto a Nadia di accompagnarmi in quel centro, ti ripuliscono tutto l’intestino. Ma lei si è rifiutata, ha detto che sono già fin troppo pulita di dentro e di fuori. Non ci credo… ho dentro questo sangue morto che mi fa impazzire di dolore. Pulire il sangue pulire il cuore da tutti i pensieri, così bisogna fare! Le ho detto “non sei una vera amica”. Lei mi ha risposto che è vero, che non è di quelle amiche che ti seguono in ogni follia. Ma questa non è follia, è benessere! Io di lei però mi fido molto, mi fido del suo giudizio. Gli altri mi danno sempre ragione, lei a volte mi dà ragione e a volte no. Un giorno Nadia mi ha detto, sorridendo: “Tu sei doppia perché il tuo segno zodiacale è doppio”. Ho ricambiato il sorriso, anche se non ho capito la battuta. Io sono del segno della Bilancia, due piatti, due lati in equilibrio, in perfetta armonia. Credo che abbia voluto dirmi una cosa carina, lei mi vuole bene…
Venerdì, 21 marzo.
“Alzati e grida al mondo / tutto il tuo disprezzo / quando la vita ti ha sputato in faccia / una volta di troppo”. Ho scritto una poesia. Non ne avevo mai scritte prima d’ora, non sono tipo da poesie, io.
Stamattina è venuta la psicologa; mi ha portato alcuni fogli bianchi e mi ha suggerito di scriverci sopra quello che voglio. Stasera verrà a ritirarli (se non deciderò di farne pezzettini, naturalmente, ma questo non gliel’ho detto. Non mi piace che qualcuno si impicci dei fatti miei). Quando esco da questo maledetto ospedale voglio festeggiare. Mi farò portare a casa un Bigbang ai quattro formaggi e una montagna di patatine fritte. E una scura media. No, è meglio di no, voglio essere pronta per tornare al lavoro al più presto. Non posso guidare se bevo alcolici. Sto in macchina tutto il giorno e certe volte anche di notte, quando non riesco a dormire. Ma come ci sono finita qui dentro? Ho fatto tutto quel che dovevo fare, tutto come in quei libri: “Pensa positivo!” “Se vuoi puoi!” “Sviluppa la tua forza di volontà!” E io sono positiva, voglio e quindi posso, ho una volontà di ferro! Solo che, da qualche tempo, mi sento stanca, stanchissima. Mi sento come se il sangue non fluisse bene. Un giorno Nadia mi ha fatto un massaggio; odio essere toccata, ma per lei ho fatto un’eccezione. Lei è mia amica, mi vuole bene. E’ stato come se questo sangue rallentato, questo sangue morto avesse ripreso vitalità, energia.
Quando mangio il mio hamburger preferito c’è sempre qualcuno che mi consiglia di mangiare frutta e verdura, perché fanno bene. Tutte balle! Io scoppio di salute, i miei esami ematologici sono perfetti! Come suona bene, e-ma-to-logici! Io sono una persona logica, mi attengo ai fatti. Sono la dimostrazione vivente che frutta e verdura sono sopravvalutate. Spesso mi dicono che ho una bella pelle, e bei capelli e unghie perfette. Non possono essere tutti bugiardi, no? Eppoi uno specchio ce l’ho anch’io, mi guardo e vedo che sono in ottima forma, anche se ultimamente ho perso alcuni chili. Un giorno Nadia mi ha detto: “Tu sei doppia perché il tuo segno zodiacale è doppio”. Me lo ha detto sorridendo, quindi suppongo che intendesse fare una battuta, una battuta che non ho capito. Per dirla tutta, mi pare un’emerita scemenza. Le ho fatto un mezzo sorriso anch’io. Sono del segno della Bilancia, due piatti, due lati speculari in equilibrio dinamico, perfettamente armonizzati…
Sabato, 22 marzo
Buongiorno, cara, è l’ora della pastiglia. Occristo santo! Gianni vieni qui, presto!!!
Saturazione 90 e… 90! Subito in rianimazione! Metti la maschera a tutte e due. Sembrano attaccate cuore a cuore, come se una fosse uscita dall’altra!
E’ in cura da noi già da due anni e non sapevamo che avesse una sorella. Gemella, poi! Stavano abbracciate strettissime, non le abbiamo forzate per non fargli del male. Poi, a un certo punto, si sono staccate da sole.
Come avrà fatto a introdursi qui di notte?
Secondo me è entrata di giorno. Si è nascosta e poi ha raggiunto Lia appena si è fatto buio.
E ora dov’è?
Non si sa. E’ sparita poco dopo il distacco, praticamente volatilizzata.
“Notte inoltrata, silenzio profondo, rotto di colpo, dal passare di un treno, metallo pesante su fragile legno”. La composizione tra la parola e l’immagine, metafora della vita e del senso dell’interezza, racchiusa in queste righe, appartiene all’autore Alessandro Angelelli nel libro “Metallo pesante” (L’Erudita, 2022 pp. 67 € 16.00). I testi contengono la densità dell’osservazione poetica sul mondo e sulla natura degli uomini, diffondono la consistenza dell’ispirazione, offrono una consapevolezza accogliente, piena di sensibilità e di intensa affettività. Il poeta risiede nella dimora dell’anima, percepisce l’intima relazione tra il proprio peregrinare alla ricerca di una dimensione familiare dove custodire ricordi ed emozioni e l’identità interpretativa delle sensazioni. Alessandro Angelelli indica la regione interiore dalla quale partire per percorrere l’essenza dell’itinerario esistenziale e ampliare l’orizzonte dell’appartenenza. Descrive attraverso l’inquietudine romantica del percorso di vita, lo smarrimento e la frantumazione dell’esperienza, espone la volontà di comunicazione, insegue il desiderio di riacquistare il sentimento perduto. La strada per condividere il viaggio introspettivo rimanda al valore originario dell’essere, incrocia lo svolgimento della memoria e collega l’elaborazione del vissuto con il senso di ogni destinazione. “Metallo pesante” svela una collezione privata di inafferrabili momenti e di sfuggenti impressioni, mostra il vincolo confidenziale tra la malinconia del passato e l’incertezza del presente, avverte il carattere instabile di ogni incognita del futuro, l’inesorabile vulnerabilità del dolore, ma anche la stabilità fiduciosa della speranza. La poesia di Alessandro Angelelli è simbolo di un archetipo del cammino umano, un attraversamento evolutivo tracciato nella necessità di realizzare una direzione per la felicità e rinnovare il proprio itinerario, inoltrandosi nella promessa di raggiungere nuovi approdi di comprensione per sentirsi a proprio agio con se stessi. Rivisita la località ispiratrice del pensiero, analizza il territorio suggestivo della realtà, da corpo all’equilibrio degli impulsi per orientare l’autenticità del discorso. Alessandro Angelelli conosce il modo di rilevare e abbracciare la consistenza sensitiva del proprio territorio di arrivo, oltrepassa il passaggio lucido del dolore e della finitezza dell’assenza, trasmette la propria fermezza creativa con il presentimento immaginario di ogni atmosfera onirica. “Metallo pesante” rinforza l’intento profondo di riconquistare la componente del benessere, illustra l’incantevole cronaca del tempo nel riassunto seducente del quotidiano, congiunto alla contingenza della fugacità, alla tenerezza della memoria e alla commozione dei significati. Indaga sull’accordo dell’intuizione elegiaca e sostiene l’eterna e inevitabile discordanza tra la crudele fragilità e la grazia della serenità. Il libro è il compimento letterario di una coinvolgente resistenza, la fusione naturale immersa nella nostalgia dell’altrove, sperimenta l’incertezza dei legami, assapora l’indugio dell’attimo vissuto, mantiene il radicamento dell’intima necessità di espressione, l’intenzione di ogni luogo in cui sentirsi a casa e ritrovare la beatitudine dello spirito.
Nella foto con sulla testa un secchio capovolto (che moda fu mai quella dei tuoi tempi!) hai scritto: Qui sono scappata dal serraglio. Ma intorno non si sospettano leoni né tracce d’altre fiere. Da un’altra gabbia invece poi fuggisti e fu una gara tra galline e galli per gridare allo scandalo inaudito. La tua incuranza fu la loro pena perché non c’è di peggio per i polli che di veder fuggire un prigioniero.
Giorgia Stecher, poetessa siciliana, nata a Messina il 14 luglio 1929, deceduta a Messina il 24 aprile 1996.
Succede quando e non saprei come. Non sempre succede, però spesso e così sia, destino vuole succeda.
A volte succede in stato di moto o di quiete
che si accenda quella luce
e si apra quel varco nella mente
che appaia luminosa una possibilità di fuga
e quella luce che si irradia ci renda trasparenti
che un peso sullo stomaco venga digerito
seppure a fatica
e il succedersi sia ripartito
in ciò che accade e in quello che è accaduto
due pietre che rotolano lontane una dall’altra
fatti e fattoidi ai piedi della stessa collina.
Una cosa prende il posto di un’altra
portando in sé la verità di esistere
o l’errore di quello che potrebbe essere stata.
Succede a una tegola
di essere meno salda
sul tetto
succede al pedone che manchi una striscia
quando attraversa
succede che dall’altra parte della strada
qualcuno trovi ciò che cerca
e chi lo aspetta
e qualcun altro non trovi nulla
o che non cerchi affatto.
Dividere ciò che è successo
da quello che accadrà
separare il momento in cui il fiore sboccia
e l’idea che ci siano stati petali
nei tuoi pensieri fin da ieri.
Vivere, vivremo
fino a quando tutto si compirà:
chi dice che è incompiuto
tutto quello che ho vissuto?
Lo stoico dice che
è perfetto tutto ciò che accade.
L’imperfezione è una timida speranza
lunga tutta la strada della vita.
Navi nel deserto
di Luigi Weber
Il ramo e la foglia edizioni, gennaio 2023
pp. 376
Se c’era un detto autentico in bocca a quello sputasentenze di Schomberg, era “la mia strada la segnano i fuochi nella notte”. In un deserto punteggiato di piccole oasi, di rocche fortificate alte su speroni di pietra, tra piste di terra battuta per navi a ruote e città abbandonate che emergono dalle sabbie come relitti, giocano a scacchi con il destino e la morte un giovane capitano inesperto, un traditore, un naufrago, un uomo ossessionato dal desiderio di vendetta, una ragazza inquieta e la sua nutrice. Naviganti, Pirati, Isolane e Cittadini dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni. Attorno a loro, da ogni parte, si innalzano lenti nel cielo i sette pilastri della distruzione. I grandi romanzi e i personaggi di Joseph Conrad, affondati, sbriciolati e dispersi in un mare solido, tornano a incontrarsi e scontrarsi lungo le piste di una storia tutta nuova.
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«Sulla Kairos dormivano, tutti. Nessuno ancora sapeva dell’arrivo dei Pirati in quelle terre, e la sorveglianza semplicemente non esisteva. Io non dormivo, invece. Il deserto è piatto, l’aria notturna tersa, e l’incendio dell’infelice vittima ardeva molto sopra le dune, come la porta dell’inferno spalancata. Perfino da terra lo vidi distintamente, e mi si agghiacciò il sangue.» Luigi Weber è un insegnante di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna. Il Romanzo distopico Navi nel deserto è la sua opera prima. Nato dopo lunga gestazione, come dichiarato dall’autore in interviste apparse sul web, “Navi nel deserto è uno strano indefinibile oggetto, persino per me che ci convivo da un tempo lunghissimo. Un esordio romanzesco attempato, a cinquant’anni, e insieme paradossalmente giovanile, perché mi accompagna da quando ne avevo venti. A prima vista sembrerebbe un prodotto sospeso tra narrativa d’avventura per ragazzi, fantascienza e fantasy, mentre non è niente di tutto ciò. “
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Non importa come sia potuto accadere e perché, non si sa quando sia accaduto, non si conosce quale sia la catastrofe occorsa, se guerra atomica o spostamento dell’asse terrestre, o la caduta di un meteorite, ma la terra di un tempo non esiste più, i fiumi, i mari, le montagne, le città, tutto è coperto da una spessa coltre di sabbia. Affiora solo qui e là qualche spuntone metallico facente parte di qualche alta costruzione. Il mondo è sotto, è il Downtown, un mondo sommerso, “Indica la parte nevralgica delle antiche città, dove si alzavano tutti i grattacieli. Oh Dio, sapevo che c’era una in questa regione, ma come si fa a crederci…“ I personaggi portano i nomi dei protagonisti dei romanzi di Conrad, a partire dal protagonista principale, il capitano, che porta addirittura il nome dello scrittore Joseph Conrad. Ci sono molte citazioni che riguardano Conrad, ad esempio quando Freya, promessa a Julian Sands il naufrago che abita in una delle oasi, dice di sé che il suo è un cuore di tenebra. A differenza delle atmosfere di Conrad di Cuore di tenebra, che sono volontariamente ombrose e cupe; a differenza del romanzo la strada di McCartey, dove era accaduto qualcosa di terribile alla terra, dove il paesaggio scena dopo scena, dall’inizio e fino alla fine del romanzo, è sempre grigio, dove tutto è coperto di cenere e anche l’atmosfera e satura di cenere, in questo romanzo c’è sempre un sole abbagliante, potente, infuocato , che brucia “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.”
Le navi solcano i deserti su grandi ruote che seguono delle strade numerate su dei binari prestabili come una sorta di ferrovia dotata di scambi, come quelle dei treni, per passare da una strada numerata all’altra. Per quanto riguarda la struttura il libro è diviso in dieci interludi e vari capitoli, e coesistono diverse voci narranti. Alternando il punto di vista si vorrebbe accrescere il ritmo della narrazione. Notevoli le descrizioni dei paesaggi sabbiosi e dei colori, nonché degli stati d’animo complessi dei protagonisti. Benché l’ambientazione è futurista e post atomica, a volte si ha l’impressione che i personaggi siano regrediti nel passato e vivano le atmosfere dei regni greco-romano, o egiziano, o minoico.
Questa terra di oggi è abitata da uomini uguali a quelli che abitavano la terra di prima. Gli uomini hanno sempre le stesse emozioni e gli stessi sentimenti, l’uomo è sempre uguale a se stesso, simile nei difetti e nei pregi. Sotto la cenere della città di Pompei sono state trovati oggetti e suppellettili che anche noi, uomini moderni, avremmo trovato comodi da usare. Sono state trovate iscrizioni nei muri contro certi personaggi politici e pubblicità varie, fontane dove bere e piazze dove incontrarsi e passeggiare. I bisogni dell’uomo saranno sempre uguali, il bisogno di stare in gruppo, di condividere, di amare, di classificare, di odiare e di disprezzare il diverso e di aggregarsi a chi si ritiene sia più simile a noi. I pregiudizi e le discriminazioni accompagneranno sempre gli uomini qualunque sia il mondo abitato. L’umanità abitante questa terra sabbiosa e infuocata è riuscita a trovare una sua organizzazione. La società del romanzo è divisa in due gruppi, stanziali e nomadi. Gli stanziali sono i cittadini cioè gli uomini che hanno preferito arroccarsi nelle fortificazioni, e gli isolani che abitano le oasi in mezzo al deserto dove attraccano le navi. I nomadi sono i naviganti, cioè quelli che in giovane età sono usciti dalle rocche e hanno costruito delle navi nelle quali hanno trascorso insieme tutta la loro vita, e i feroci pirati che in genere sono i fuoriusciti dalle rocche il cui scopo è quello di inseguire i naviganti. Non conta chi sei, da solo non hai identità e dignità, conta solo a quale gruppo appartieni, ed è un’anomalia che il capitano Conrad sia un cittadino diventato navigante.
Si tratta di un romanzo distopico, d’avventura, avveniristico, fantascientifico, ma non solo, questo romanzo parla principalmente di uomini, delle loro paure e dei loro sentimenti. Dello sforzo giornaliero di sopravvivere in un ambiente che è diventato ostile e pieno di pericoli o che ti costringe a vivere murato vivo pur di non perdere la vita. A cambiare faccia e a fingerti altro per non perire. A perire per non cambiare. Un romanzo molto particolare, adatto e consigliato a chi ama il genere distopico e apocalittico.
bio Luigi Weber Nato nel 1972 a Rimini, ma dall’incontro tra un trentino di Rovereto e una toscana di Marradi, quindi sospeso tra il mare, le Alpi e gli Appennini, Luigi Weber da lungo tempo ormai si è risolto per la pianura, e vive e lavora nella città che più gli è congeniale, Bologna, con la sua famiglia. Qui ha studiato e si è laureato in Lettere Classiche, nel 1998; qui, dopo una pausa di alcuni anni trascorsa come giornalista in Romagna, è tornato definitivamente ad abitare, iniziando una collaborazione ormai più che ventennale con l’Ateneo in cui adesso insegna Letteratura Italiana Contemporanea. Nel frattempo ha vissuto anche nel magico mondo del teatro di ricerca, partecipando a nove indimenticabili edizioni del Festival di Santarcangelo come caporedattore del Quaderno del Festival. Per alcuni anni ha insegnato a scuola, a bambini delle medie di Imola e adulti nelle serali di Vergato, e anche quelli sono stati anni e incontri impossibili da scordare. Dal 2012 è diventato Ricercatore e poi dal 2014 Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica di Bologna. Ha scritti libri e curato edizioni e pubblicato saggi su molti autori e fenomeni letterari dell’Otto e del Novecento, da Manzoni al Gruppo 63, occupandosi di letteratura fantastica, poesia e romanzo sperimentale, letteratura di guerra e di viaggio. Dal 2021 fa parte del Comitato Direttivo della MOD, Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria.
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