Il poeta Giorgio Caproni vuole donare dei versi alla madre Anna Picchi, che siano chiari, spontanei, eleganti, anche se privi di ricercatezze, verdi, elementari e soprattutto destinati a durare nel tempo.
Per lei voglio rime chiare, usuali: in -are. Rime magari vietate, ma aperte: ventilate. Rime coi suoni fini (di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano, coralline, le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza (Annina era così schietta) conservino l’eleganza povera, ma altrettanto netta. Rime che non siano labili, anche se orecchiabili. Rime non crepuscolari, ma verdi, elementari.
Giorgio Caproni, “Il seme del piangere”, Garzanti, 1957.
Ilaria era la seconda delle tre sorelle Pastrone. Marta, la prima, s’era sposata appena ventenne, era andata in moglie a un giovane di belle speranze e molta ambizione, un propellente che lo rendeva arroccato a un rigido orgoglio di sé. Pessima dote da portare ai Pastrone, buona per un rigetto come un trapianto malriuscito, e per quanto Marta s’impegnasse a irrorare i rapporti di ciclosporina, cortisone e interferone, i rimedi avevano scarso successo. Agnese, la minore, era predestinata a raccogliere l’eredità dell’impresa familiare. Un negozio di abbigliamento messo su e ben avviato dai genitori, al punto d’essere la boutique più rinomata di Sanfilocco, in provincia di Gìtania. Agnese, dopo tanti anni di lavoro come dipendente, rilevò l’attività commerciale dalla madre, il padre era morto qualche anno prima. Lo fece obtorto collo, perché così era stato deciso, un destino già scritto verso il quale non ebbe volontà e ribellione sufficienti a opporsi, per quanto in cuor suo avrebbe preferito un’altra strada. Aveva frequentato la scuola d’arte e un lavoro creativo forse l’avrebbe attratta maggiormente, ma in certe faccende non pesano tanto i soldi e nemmeno il desiderio o l’entusiasmo, pressa il non vedere sbocchi o alternative migliori, l’essere consapevoli del rischio e dello spreco di demolire quanto già costruito in tanti anni di lavoro familiare: avviamento, credibilità, azienda, clienti, contatti, fornitori e benessere. Tutto ciò che significa impresa. Agnese diventò perciò imprenditrice per investitura familiare, senza particolare vocazione. Ilaria Pastrone, la seconda figlia, stava nel mezzo in ogni senso, non aveva talenti manifesti, piuttosto difetti, sapeva scrivere, ma non guidare, le piaceva mangiare bene, ma non cucinare, aveva un altro concetto di sé, ma difettava di determinazione. Aveva preferito studiare invece di lavorare nel negozio. Avere a che fare con una pluralità mutevole di clienti, percepiti come estranei, non l’attirava. Proprio per la sua scarsa inclinazione al commercio i genitori l’avevano esclusa dalla gestione dell’attività. Alla fine degli anni settanta l’unico desiderio che Ilaria riuscì a focalizzare con una qualche convinzione, era di allontanarsi da casa, dai genitori che percepiva come opprimenti e da una storia d’amore naufragata. Davide, il suo ragazzo fin dai tempi del liceo, dopo sei anni di fidanzamento, l’aveva tradita e lasciata per la sua migliore amica. Una vicenda talmente banale da essere penosa. Ilaria infatti non ne parlava mai, sentendosi nel raccontarla allo stesso tempo stupida e patetica. La delusione subita la segnò a tal punto che Ilaria non si innamorò più, non si sposò e non ebbe figli. Fu come se l’aspetto sentimentale dell’esistenza fosse definitivamente morto, sepolto da quell’episodio devastante. Del resto innamorarsi veramente è un’alchimia che ha del magico, accade poche volte nella vita per circostanze che si combinano tra loro in modo speciale. L’incontro, il bisogno, l’attenzione concorrono e si intrecciano con le stimmate della fatalità e spesso la sensazione che si avverte è che non poteva essere altrimenti, quasi operasse una forza cosmica potente e misteriosa, non tanto munita di frecce e calzari alati, ma piuttosto serpeggiante di vibrazioni. Può succedere all’opposto che il tempo trascorra e nulla accada, nessun fremito o segnale. Tutto dorme o tace. C’è altro a cui pensare.
Era il 1978 quando Ilaria decise di partire per Milano. C’erano già lì due cari cugini Carlo e Luigi con le loro famiglie impiantati nel hinterland, uno a Cusano Milanino, l’altro a San Donato Milanese. Essi costituirono una buona base d’appoggio per cercare alloggio e per trovare un lavoro. Ilaria trovò entrambi, il primo in via Torre di Guardia, 14 al centro di Milano, in una casa di ringhiera e l’altro presso un’importante azienda di telecomunicazioni. Quest’ultimo divenne il lavoro di tutta una vita fino al suo pensionamento. Di case invece Ilaria ne cambiò diverse, fino a sistemarsi in ultimo in una bella casa nuova e propria appena fuori Milano. Ilaria tornava spesso al Sud, alla casa d’origine specie al principio della sua permanenza in Lombardia. Le mancavano la famiglia, il cielo, il sole, il mare. La famiglia perché a distanza i rapporti conflittuali coi genitori s’erano dissolti, mentre le sorelle, essendosi sposate, l’avevano resa zia e lei adorava i suoi nipoti. Ilaria attraversava tutta la penisola almeno una volta all’anno, in estate, per andarli a trovare e con loro ritrovare quel clima solare e limpido che caratterizzava la Sicilia, la sua isola, del tutto diverso dall’aria nebbiosa e carica di smog della città metropolitana. Quando partiva aveva la valigia piena di regali per i nipoti. Una valigia ben diversa da quella di cartone verde legata con la corda del suo primo viaggio da emigrante. Questa appena comprata era morbida e leggera in similpelle color tabacco di ottima qualità, colma di doni: abiti, giochi, immancabili pigiami e un bel costume arancione comprato per sé alla Rinascente da sfoggiare sulle spiagge della Sicilia orientale. Ilaria affrontava un viaggio lunghissimo che la portava dalla città lombarda a Sanfilocco e al ritorno viceversa. Era un viaggio estenuante, ma interessante che la rapportava alla molta e varia umanità dei compagni di viaggio, anche se la sua natura schiva non ne traeva particolare piacere. Per molti anni Ilaria affrontò il lungo viaggio in treno, ciò fino a quando l’aereo non diventò il mezzo consueto per tratte così lunghe. Il cambiamento avvenne col ribaltamento del rapporto di convenienza tra aereo e treno, ma questo non accadde subito, solo molti anni più tardi, dopo l’ingresso nel nuovo secolo. A quel punto però la spinta a viaggiare di Ilaria s’era attenuata, giunse poi a scomparire del tutto col passare del tempo e l’avanzare dell’età. Ormai a Sanfilocco, sorelle e nipoti avevano dimensionato la propria vita al progetto scelto, ai propri desideri, i genitori erano morti, si formavano nuove famiglie, nascevano i pronipoti. Restavano solo nei ricordi i lunghi viaggi compiuti col treno che negli anni settanta e dintorni erano una specie di atto eroico. I treni erano stipati di emigranti che tornavano alle loro case in vacanza. Chi in Sicilia, chi in Calabria o Campania e alle altre regioni meridionali. La misura dell’affollamento del treno era testimoniata dai viaggiatori che, ultimi arrivati, non avendo trovato posto, sostenevano il viaggio seduti su sedili retrattili a molla distribuiti lungo i corridoi, retrattili perché i sedili scattavano verso l’incavo della parete dove erano alloggiati non appena cessava il peso che li teneva aperti. Chi compiva il viaggio in questa modalità doveva alzarsi in piedi ogni volta che qualcuno intendeva passare nei corridoi per recarsi ai servizi o scendere alla stazione successiva. Il passeggero ciondolava scomodo e sonnacchioso per tutto il resto del tempo. Erano necessarie ventiquattr’ore per percorrere oltre millecinquecento chilometri di ferrovia. Alla fine del viaggio i wc erano impraticabili. I cestini traboccanti di carta igienica sporca e cartacce, bucce di banana e arance. Il pavimento era sudicio e infangato, nauseante l’olezzo dell’urina. (segue)
ph. Loredana Semantica (scorci di ferrovia nella tratta Catania Siracusa)
Video: Luigi Filippo Peritore (che attualmente frequenta la terza elementare) e Gabriele Peritore
Durata: 9 minuti
Testo: Un’analisi critica sul primo mondo, il mondo occidentale che siamo abituati a conoscere, strutturata sui toni del provocatorio, dell’assurdo, dell’ironia amara. Un racconto per immagini, scandite dalla voce, sul rapporto tra l’essenza umana e la realtà moderna in una metropoli, con tutti i suoi aspetti contraddittori, esposti in prima persona, vissuti sulla pelle. Con la potente sensazione di impossibilità nel cambiare le cose che non vanno, ma, al contempo, con la necessità impellente di invertire la rotta imposta. L’invito accorato e disperato a trovare una terza via.
Musica: Un vertiginoso giro di blues che sa perfettamente inserirsi tra le righe ed esaltare il testo, realizzato dal grande musicista Rough Max Pieri.
Video: Per quanto riguarda il filmato, si tratta di un vero e proprio video sperimentale, perché l’intenzione principale era coinvolgere dei bambini ma non volevo fare un video sui bambini, così ho pensato di realizzare il video di un bambino. Ho prestato il braccio adulto alla mente pensante di un bambino di sei anni. Mi sono fatto operatore di camera per veicolare la visione e la visuale, di mio figlio Luigi F., del suo modo di percepire e vivere la metropoli senza filtri e giudizi morali. In linea con la poesia, la protagonista è rimasta la città, vista, però, dall’altezza e con gli occhi di un bambino. Mi sono fatto guidare sui particolari che lo colpivano di più e poi ho cercato di dare un senso logico in sede di montaggio.
Gabriele Peritore
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Farmacista, blogger, scrittore e poeta, Gabriele Peritore è nato ad Agrigento. Dopo anni importanti passati a Palermo, Foligno e Montefiascone, attualmente vive a Roma e collabora con la testata giornalistica online Magazzini Inesistenti, di cui è stato Caporedattore centrale dal 2016 al 2019.
È uno dei poeti protagonisti del documentario “Poeti” del regista Toni D’Angelo in concorso alla 66ima edizione del Festival del Cinema di Venezia 2009.
Nel 2010 una poesia tratta dalla silloge “A respiro trafitto” diretta dal video artista Quinto Ficari ha partecipato allo ZebraPoetry FilmFestival di Berlino, il più importante festival di videopoesia in Europa.
Ha curato, inoltre, la pubblicazione delle opere inedite di Luigi Filippo Peritore “Il fascino di un’isola e delle sue contraddizioni”, vincitore del premio “Libro dell’anno 2008, opera antologica” (Ca. Gi. Editore) e la monografia del pittore Giorgio Pirrotta (2009).
Nel 2010, insieme ai poeti amici Cony Ray e Marco Orlandi, ha dato vita al progetto “La Poesia È Reale” in collaborazione con il circuito delle biblioteche di Roma e a sostegno di Emergency.
Presente alla Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati in qualità di poeta per un progetto a favore dell’Aquila: L’orizzonte perduto e il dolore trattenuto.
Partecipa a Festival e Rassegne Letterarie, tra cui Più libri più liberi – Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria – Roma, 2012; Caffeina Festival, Viterbo, 2012 e 2013.
Presente in diverse antologie, ha pubblicato:
“L’isola confine” (romanzo, 2014, Edizione Libreria Croce)
“Vino e Venere” (romanzo, 2012, Edizioni Libreria Croce).
“Luigi Filippo Peritore, intellettuale agrigentino” (saggio monografico, 2008, Ca. Gi.
Editore).
“Io sono la vera vite”, simbologia e fitoterapia delle piante dei Vangeli (saggio, 2007,
William Ernest Henley (1849-1903), inglese (foto web)
UN AMORE DAL MARE (Traduzione di Emilio Capaccio)
Sotto la notte che mi copre scevra di stelle, (O tribolazione del vento che rotola!) Nera come la nube di qualche tremendo incantesimo, Il sussurro del sospirante mare Pare il bisbiglio singhiozzante di due anime Che tremano in una passione d’addio.
Ai desideri che triplicarono in me la vita, (O malinconia del vento che rotola!) Ai sogni che sembrarono predire il futuro, Alle speranze che montarono in me come il mare, A tutte le dolci cose inviate sulle anime felici, Non posso che sciogliere un silente addio.
E alla fanciulla che fu sì tanto per me (O lamento di questo vento che rotola!) Poiché non posso costringela a vivere, Sotto la notte, accanto al mar che risuona, colmo dell’amor che avrebbe potuto unirci le anime, Un triste, ultimo, lungo, supremo addio.
*
A LOVE BY THE SEA
Out of the starless night that covers me, (O tribulation of the wind that rolls!) Black as the cloud of some tremendous spell, The susurration of the sighing sea Sounds like the sobbing whisper of two souls That tremble in a passion of farewell.
To the desires that trebled life in me, (O melancholy of the wind that rolls!) The dreams that seemed the future to foretell, The hopes that mounted herward like the sea, To all the sweet things sent on happy souls, I cannot choose but bid a mute farewell.
And to the girl who was so much to me (O lamentation of this wind that rolls!) Since I may not the life of her compel, Out of the night, beside the sounding sea, Full of the love that might have blent our souls, A sad, a last, a long, supreme farewell.
Per comprendere Baudelaire (1821-1867) occorre rendersi conto del posto che occupa nella storia della poesia non soltanto francese. Autore decadente dalla genialità sregolata, poeta maledetto, critico, traduttore, è considerato uno dei padri del Simbolismo e del Decadentismo. Continua a leggere →
Il testo è tratto da ” 100 poesie” nuova raccolta di poesie di Franca Alaimo, uscita da pochissimo per Italic Pequod in Portosepolto, 2024 (introduzione di Alessandro Fo).
Poesie tratte da: Giulio Giadrossi – Dati sensibili Terra d’ulivi editore, 2024
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Giulio Giadrossi (1988) ha pubblicato la silloge poetica Di stanza a Trieste (Ensemble editore, 2020). Alcuni suoi scritti sono apparsi su Charta Sporca, sul Multiperso di Carlo Sperduti e la rubrica Passaggi di Argo.
William Ellery Channing (1818–1901), americano (foto web)
CANZONE DEL MARE (Traduzione di Emilio Capaccio)
Va la nostra barca libera alle onde, sulla curva della marea, ove si frange il flutto ricciuto, come traccia di vento su bianchi fiocchi di neve: via, via! È un sentiero sul mare.
Possono infuriare le raffiche — far tendere la vela, perché i nostri spiriti sanno strappare al vento la forza, e le nubi plumbee cedono alla mente solare, non temiamo il turbine della burrasca.
Onde sulla spiaggia e schiuma marina selvaggia, con un balzo, uno scatto e un urrà improvviso, dove l’alga si lega alla sua dimora, e gli uccelli marini si bagnano sulle creste spumose, onda dopo onda, s’arricciano, mentre bianca la sabbia dalla riva acceca.
*
SEA SONG
Our boat to the waves go free, By the bending tide, where the curled wave breaks, Like the track of the wind on the white snowflakes: Away, away! ’Tis a path o’er the sea.
Blasts may rave,— spread the sail, For our spirits can wrest the power from the wind, And the gray clouds yield to the sunny mind, Fear not we the whirl of the gale.
Waves on the beach, and the wild sea-foam, With a leap, and a dash, and a sudden cheer, Where the seaweed makes its bending home, And the sea-birds swim on the crests so clear, Wave after wave, they are curling o’er, While the white sand dazzles along the shore.
Dalla Nota dell’autrice alla raccolta Altre Stagioni di morte e di amore, PlaceBook Publishing, 2024
“Arriveranno altre stagioni, e noi staremo ad aspettarle. Col naso in aria, affacciati alla finestra e con quella voglia continua di cambiare il ritmo di ogni giorno. Torneremo a desiderare la primavera col suo profumo fresco e il taglio sbarazzino, l’opulenza dell’estate con i suoi fianchi larghi e colmi di splendore, ci innamoreremo dell’autunno col suo cappello a cono e il bastone d’ulivo ritorto che batte foglie morte, anche l’inverno infine tornerà a cullarci col suo vento freddo e a baciarci con le sue labbra secche, bruciate dalla neve. Seguiremo il tempo e il suo eterno movimento, perché è così che si stempera l’inganno della vita, perché è così che si compie da sempre il nostro viaggio.”
La raccolta si articola in 4 sezioni intitolate a ciascuna stagione dell’anno, di seguito quattro poesie scelte dalle sezioni “Primavera” e “Autunno”.
Primavera, I e II
Non cantai la mela ma il morso inciso nel bianco della polpa, non la luna piena ma lo spicchio sottile nel cielo nero nero, non cantai il frutto ma il destino scritto del fiore appena colto, non la gioia del saluto ma ogni partenza e il suo dolore muto, e se non cantai mai la pienezza è perché la poesia carezza il vuoto asciutto che sta nella mancanza. * Ti porto la parola storta cresciuta sopra i rami, il caffè versato caldo sul bianco del ricamo, ti porto i piedi nudi sul ciglio della strada, l’inciampo irriverente sul dorso del mio nome, ti porto nel mio mondo ch’è poco più di niente, aperto come un tronco ch’aspetta un nuovo fiore.
Autunno, IV e IX
Siamo della madre che non ci ha voluto del padre distratto dell’amore sbagliato, siamo dell’altro. Di ogni giudice che ha condannato il nostro torto, di ogni prete che ci ha ascoltato, e poi non ci ha assolto. Siamo del maestro che ci ha ammaestrato, del figlio sbagliato, siamo – volto contro volto – di ogni passante che ci ha incrociato
-per strada – ma non ci ha mai guardato.
* Ho palpebre spesse, più del sorriso dell’ultima volta che t’ho visto; il passo svelto, non cadenzato sulla lunghezza dello sguardo e neve sul collo che gela i nervi e serra gli occhi agli angoli d’intorno. Mi affaccio ancora alla finestra – la domenica mattina – e guardo fuori: c’è un sentiero di parole che fiorisce sul ramo muto della tua voce.
Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)
La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.