Il mio quotidiano navigare tra le cose.
Al mattino ho la fortuna di perdere tempo
prendere in prestito gli attimi e lasciarli andare
rimanere incantato dalle piccole tempeste
che si scatenano nella mia tazza di tè
meditare sulle risposte evasive che ho dato
a chi nella notte mi ha posto un quesito
mostrandomi immagini dell’adolescenza
sfocando lo sfondo di un mistero rimasticato
a cui ho cambiato la trama decine di volte.
Quel pezzo di cielo che mi fa meteorologo
di me stesso da un piccolo terrazzo di città
sondando il cielo dalle case e vedermi sondato
in ripresa aerea che si allontana dal mio fuoco.
Cosa mi porta a sognare rimanendo sospeso
come chi non riesce a vedere oltre il suo passo
mancando la presa del piede alla terra
facendo girare a vuoto la macchina fantastica
che ha perso il motivo di riprendere immagini?
Vedo nelle nebbie di questo maggio autunnale
esposto alla forza dei venti delle sue rose
gli esempi maturati, le lezioni indimenticabili
le nature matrigne che abbiamo partorito
noi patrigni e matrigne delle nostre madri.
Quanti misteri si leggono in una sola tazza!
Le notizie di un naufragio disciolte nel latte
lo stupore infantile di veder navigare qualcuno
a bordo di un’arca che costeggia case allagate.
Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale e delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento, viene pubblicato nel 1936 negli stati uniti il romanzo I fratelli Ashkenazi. L’autore è Lo scrittore polacco in lingua yiddish Israel Joshua Singer (1893-1944), figlio del rabbino Pinchas Mendl Zinger e fratello dello scrittore Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978. Il libro ha più di 700 pagine ma ciò non mi ha fermata perché avendo già fatto esperienza della scrittura di Singer con il suo bellissimo La Famiglia Karnowski, ero certa che ne sarebbe valsa la pena. Singer ebreo ashkenazita ci racconta il suo mondo, per molti un mondo lontano, estraneo e complicato, multiforme, multiculturale e caotico, un mondo pieno di contraddizioni. Il romanzo narra le vicende immaginarie di due fratelli inserititi in un contesto di verità storia, fra la metà del XIX secolo fino agli anni trenta del secolo successivo, fra la polonia e la Russia zarista.
Poiché la Polonia era ricca di filati di lana e di cotone ma mancava di tessitori vennero fatti entrare nel territorio polacco, con la promessa di non pagare le tasse e altri benefici, tessitori provenienti dalla Germania, tedeschi e ebrei ortodossi. Così, dopo la fine delle guerre napoleoniche, una lunga processione di tedeschi ed ebrei percorse le strade polverose della Sassonia e della Slesia fra villaggi già devastati dalle guerre di Napoleone, diretti verso la cittadina polacca di Lodz, chi nei carri o nei barocci, chi a piedi. Molti erano individui cenciosi, altri erano ricchi ebrei carichi di masserizie, ma tutti, ricchi e poveri, erano muniti di telai a mano.
La comunità ebraica riesce a inserirsi nel territorio di Lodz e addirittura ad allargarsi costruendo nuove case o ingrandendo le case già esistenti. Alcuni ebrei si mettono in proprio e aprono le loro attività autonome di tessitori.
Uno di questi ebrei, che si era fatto da sé riuscendo a diventare un imprenditore, era Reb Abraham Hirsh Ashkenazi, ebreo devoto e rispettoso delle tradizioni. La moglie era sul punto di partorire e si era a ridosso della Pasqua, ma lui volle ugualmente recarsi dal rabbino chassidico di Vorka per chiedere una benedizione per il figlio che gli stava per nascere, nonostante le strade fossero infestate dai ribelli e dai cosacchi. Il rabbino gli aveva predetto che i suoi figli sarebbero diventati ricchi ma non sarebbero mai stati devoti. Al suo ritorno trova che la moglie ha partorito due gemelli, Simcha Mayer e Jacob Bunim.
bambini di Lodz primi anni del 1900
I due fratelli sono dissimili fra di loro, sia nell’aspetto che caratterialmente, erano come il giorno e la notte. Il più grande è Simcha Mayer, minuto ma sempre triste benché dotato di intelligenza viva, l’altro Jacob Bunim all’apparenza meno intelligente ma più robusto e allegro. Il romanzo narra della rivalità di questi due gemelli, che si manifesta sin dai primi anni di vita. Il minore ama la bella vita, le belle donne e il buon cibo, finge col padre di essere devoto per non creare problemi, si è innamorato sin da piccolo delle bella Dinah, una bambina che gioca spesso con lui mentre il fratello minore, roso dall’invidia, sta a guardare. Da adulti si contendono il potere nella città di Łódz. Il maggiore sposa Dinah la donna amata dal minore. È furbo e sa operare inganni e astuzie, diventa ricco e si fa chiamare Max, accumula ricchezze su ricchezze, sgobba dalla mattina alla sera senza mai un attimo di riposo, sfrutta i lavoratori della fabbrica come un vero negriero. Odia il fratello minore perché nonostante lui non si dia da fare è come se fosse stato baciato dalla fortuna perché diventa più ricco di lui. Ha sposato, infatti, una donna ricchissima anche se il suo è un matrimonio infelice perché lui ama Dinah la moglie del fratello maggiore. Quasi tutta la seconda parte del romanzo racconta la lotta fra operai e imprenditori, i conflitti fra gli ebrei devoti e i gentili, fra polacchi e russi, fra i nobili e nuovi ricchi, lo sfruttamento dei tessitori considerati alla stregua di schiavi, la ribellione dei lavoratori, la lotta di classe e la rivoluzione russa. Simcha Mayer che ormai si fa chiamare Max Ashkenazi aveva trasferito molti dei suoi macchinari dalla polonia in Russia, ma a causa dell’abolizione della proprietà privata, perde tutti i suoi averi e viene rinchiuso in una prigione della nuova Unione Sovietica. Pentito del male che aveva causato agli altri in nome della ricchezza e della sua avidità, ormai vecchio e malato, comprende di aver sbagliato tutto costruendo il suo mondo nella sabbia e viene tratto in salvo proprio da quel fratello che lui aveva sempre odiato e invidiato. Così come in quel periodo storico erano gli ebrei, invidiati e odiati, tant’è che il malcontento e la rabbia della popolazione venivano spesso indirizzati dal governo russo attraverso i pogrom contro di loro, facendone un capro espiatorio. Questo romanzo, così come gli altri dello stesso autore, per chi è lontano dalla cultura del popolo ebreo, può rappresentare un’ottima occasione per comprendere meglio l’animo di questo popolo e le loro tradizioni, in quanto le vicende sono narrate da un vero scrittore ebreo ashkenazita di lingua yiddish vissuto a ridosso del periodo storico narrato, quasi fosse un testimone diretto.
In nessuna pagina del romanzo si può leggere la gioia di vivere o la serenità dei protagonisti. Nessuno dei personaggi presente nel romanzo sembra riuscire a essere felice, eppure la felicità è contemplata nella loro visione e nella loro tradizione religiosa, ma nel romanzo c’è sempre nelle vite dei personaggi un sottofondo di malinconia. Tutti, ciascuno per i propri particolari motivi dati dai problemi derivati dalla classe di appartenenza, sia per l’avidità, sia per la povertà, sia per la troppa ricchezza, per non sapersi accontentare mai, sia perché si combatte per la lotta di classe, o per i dettami della religione di appartenenza che a volte pesano come un macigno, ognuno per il suo ma tutti sono infelici. Molti sono i personaggi presenti nel romanzo e molte le loro vicende personali. Donne, uomini, figli, mogli, mariti, politici, ministri, nobili, imprenditori, filatori, venditori di scarti, agenti di commercio operai, ricchi, accattoni e straccioni, tutti vivono la loro infelicità in un mondo dominato dal caos e dalla confusione. Gli unici che sembrano porsi al di sopra di questo mondo mai felice sono i rabbini, depositari della saggezza e dell’ordine, come se lo studio e l’insegnamento della legge fossero un porto sicuro, un luogo preciso, e i rabbini, detentori di quella terra promessa, già insediati nella terra dove scorre latte e miele. Nel giudaismo la felicità è un comando, il Talmud dice che rallegrarsi durante una festività è dovere religioso. Sia nel Levitico che nel Deuteronomio si ordina di essere gioiosi, molte delle loro feste sono nel segno della gioia, la gioia della festa delle capanne, la gioia della Pasqua. È chiaro così che quasi nessuno dei personaggi del romanzo è un devoto e ciò causa infelicità. Il romanzo già nel titolo parrebbe avere come tema principale la storia di due fratelli e il dualismo esistente fra essi, ma è solo l’occasione per rappresentare i conflitti esistenti nell’animo umano e nei gruppi contrapposti: fra le diverse etnie, fra gentili ed ebrei, fra chassidin devoti e non osservanti, fra il socialismo e il capitalismo. Ciascuno portatore di malcontenti e dicotomie, dove i personaggi cambiano abito di volta in volta, a seconda delle circostanze, una volta sono le vittime e un’altra sono i carnefici assumendo ruoli intercambiabili adattandosi ai padroni e alla situazione storica ai confini territoriali del momento. Il libro appassiona e si legge facilmente nonostante le sue tante pagine e gli argomenti non molto leggeri perché la scrittura è fluida e la storia interessante, specialmente per chi ama questo tipo di scritture, cioè le saghe familiari e i romanzi storici in cui le vicende dei protagonisti sono inseriti nella realtà storica, anche se ho trovato un po’ lunghe la parte delle descrizioni delle lotte di classe e della rivoluzione popolare. Il romanzo mi è piaciuto meno de La famiglia Karnowski perché un po’ ripetitivo in certe parti e meno dinamico.
E’ terminata il 5 maggio scorso Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados, il progetto curato da Emilio Capaccio su questo sito nella categoria TRADUZIONI. L’ articolata iniziativa, inziata il 7 aprile dell’anno scorso ha accompagnato i lettori di Limina mundi per oltre un anno, suscitando interesse, abbiamo pensato quindi di rivolgere alcune domande al Curatore in un’intervista proposta nel sottostante podcast.
la linea rossa traccia il percorso ideale compiuto con i Racconti dimenticati
Qui sotto l’audio dell’intervista. La voce dell’introduzione è di Loredana Semantica, formulano le domande Deborah Mega e Loredana Semantica, risponde Emilio Capaccio. Buon ascolto
I volti dei 21 autori dei racconti dimenticati tradotti da Emilio Capaccio
EMILIO CAPACCIO
Emilio Capaccio è nato il 16 maggio del 1976. Ha vissuto a Campagna, in provincia di Salerno. Vive a Milano. Ha pubblicato in formato e-book: “Malinconico Oscuro”, traduzioni di poeti sudamericani inediti, con prefazione di Giorgio Mancinelli. Ha collaborato con la rivista internazionale di poesia: “Iris News”. Collabora con vari blog di poesia. Sue traduzioni e poesie sono presenti in varie antologie, blog e nella rivista “Il Foglio Clandestino, Aperiodico Ad Apparizione Aleatoria”. Ha pubblicato la raccolta poetica: “Voce del Paesaggio”, edita da Kolibris Edizioni 2016, con prefazione di Massimo Sannelli, e la raccolta poetica: “Canzoniere della Biondezza”, edita da L’Arciere del Dissenso 2019, con prefazione di Emilio Paolo Taormina. Come curatore e traduttore ha pubblicato le raccolte: “Radice”, del poeta spagnolo José Luis Hidalgo, Giuliano Ladolfi Editore 2017, e “Princesse Amande”, della poetessa francese Lucie Delarue-Mardrus, LietoColle 2017. Nel 2023, ha pubblicato per Neobar eBooks Via Lattea, traduzioni in rima della raccolta di sonetti inedita del poeta brasiliano, Olavo Bilac.
A questo link tutti gli articoli pubblicati da Emilio Capaccio su Limina mundi
Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)
La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …
Dentro un cerchio di appartenenza
su un un tavolo
come dentro l’enunciato di un insieme
stanno gli oggetti in numero di tre
un blister di pillole vuoto
un vecchio zaino, un libro.
Senza contare il foglio
sopra al quale sto scrivendo
privo di titolo e dedica.
Il tavolo racchiude questa flottiglia
e sulla sua pianura liquida
il mio sguardo si posa rotondo
come a contemplare un mare.
I movimenti rapidi della scrittura
(rapid writing movements)
smuovono onde e generano correnti
memoria che galleggia negli specchi
lasciano correre flussi di immagini
sopra un bianco abbagliante.
I ricordi soffiano nella direzione segnalata
da una ipotetica rosa dei venti
e lasciano che la penna percorra
la linea d’orizzonte del verso
come fa una vela.
E tutto questo avviene
con semplicità e con cura.
Come la felicità minore dell’uccello
che ha costruito un nido
con le lettere del suo canto,
come l’antica solitudine di un pesce
che nuota dentro la profondità
di un vasto sogno.
C’è analogia tra Andrea Temporelli e – a puro titolo d’ esempio – Cristina Campo, oppure Umberto Saba, Pablo Neruda, Italo Svevo, nel senso che sono tutti autori che hanno adottato uno pseudonimo. Gli pseudonimi separano mondi. Di qua il nome, di là gli altri. Da un lato l’essere dall’altro l’invenzione. Si opera la diversificazione, si celebra lo smarrimento, pulsa la repulsa del limite, mescendo lo scoramento del vivere si varca il transito nell’impossibile. Si travalica la nominazione imposta che opprime e aliena, come un battesimo all’esistenza che incarta e squarta. Nello schermo il pronunciamento, scevro da condizionamenti, si fa purezza d’inesistenza. L’impresa resta agganciare l’eterno allo scarto, partorire il trapasso, comprendersi fino alle scapole, ai polmoni in un’assurda, mai sazia, impagata ricerca di se stessi. Dentro uno pseudonimo si possono estrarre con l’uncino le ali dalle scapole e volare oltre i mondi. Edificare a parole un monumento d’amore e dolore. Non è poi così difficile per alcuni, nel senso che è simile alla vita. Eminentemente scrivere è un gesto antropico, gli animali non lo fanno, ma non è un gesto naturale, eppure per qualcuno scrivere è un atto di estrema naturalezza. Libera e conduce slancio e impulso, come guidare una vettura nelle strade deserte senza che gli altri siano d’intralcio: passanti, veicoli, conducenti. Il dolore invece è diverso, spina o croce, è all’opposto gravoso, difficile da reggere, impregna l’essere, lo attraversa e viverlo il dolore dà alla scrittura una consistenza e una compostezza che flette le arterie, le irrora allo spasimo.
I poeti in definitiva non scrivono che d’amore, di dolore e di morte. I poeti degni di questo nome. Se un poeta non scrive di questi temi ha scritto sul ghiaccio.
La silloge di Temporelli edita da interlinea, s’intitola L’amore e tutto il resto, il titolo è sintomatico di un’ordine. Messo l’amore al primo posto cosa resta? Echeggia un anelito dickinsoniano
I argue thee That love is life – And life hath Immortality –
Io ti dimostro che l’amore è vita e la vita ha l’immortalità
Oppure come non ricordare l’ancor più famoso distico
That Love is all there is, Is all we know of Love
Che l’amore è tutto È tutto ciò che sappiamo dell’amore.
Persino la morte svanisce a confronto dell’amore. Temuta, sfuggita, implacabile, irrimediabile, invocata nell’agonia per sollievo di sofferenza, la morte, nella lettura di Temporelli, è un “resto” insieme a tutto quanto d’altro c’è. L’amore domina su tutto. O meglio tutto si muove per amore, anche ciò che apparentemente non collega. Esso solo resta, ci sostiene, sopravvive. Quello ricevuto, quello donato, la sua memoria, è come un sigillo sull’anima, la forgia e la modella nella forma che essa ha nel momento in cui la eplichiamo sul foglio, tutta la memoria della nostra storia soccorre a tentare il travaso.
Alcuni dicono che si scriva dopo tante e tante letture, invece dopo tante e tante letture non scrivi, hai sulle spalle un tale peso che sprofondi, si scrive perché devi. E se devi lo fai anche prima di tante e tante letture, lo fai anche dopo, ma dopo i dubbi sono talmente tanti che dell’atto avverti tutta la responsabilità. Ti rendi conto che è un azzardo, che rischi il peccato di presunzione. Cosa puoi dire oltre ciò che è stato detto più e meglio da altri? Questa consapevolezza, se iniziale, può darsi che paralizzi o inaridisca. Invece quando “devi” non ti fai domande e non hai risposte, continui nel flusso che trascina oltre i dubbi, in una sorta di chiamata necessaria, nostalgica, disperata. A volte filo di voce finissimo altre strido, pianto, volo bianco.
L’amore e tutto il resto è un libretto formato 10 x 15 per centotrenta pagine circa, copertina in carta goffrata color avorio. Il sommario ci informa che il libro si compone di nove sezioni indicate coi numeri romani, ognuna contiene da 5 a 10 poesie, eccetto le sezioni IV e IX, la prima costituita dal poemetto “Terramadre”, l’altra da “Postilla per l’alieno”, da ascoltare qui.
Ciò che trovo impressionante da sempre della scrittura poetica è come essa “ci” scrive, come coliamo filati parola per parola nello stampo della poesia, vi alberghiamo nudi, per come siamo, spellati sulla pagina, buccia dopo buccia, incolliamo sul foglio le squame, le penne, le piume, ci spogliamo, lettera dopo lettera, verbo dopo verbo e in questo trapasso, evochiamo studi, memorie, attiviamo il nostro “genio” per vestire il dire di senso, per sostanziare quel denudarsi, in tutta la nostra dolcezza, sdegno, asprezza, razionalità, nel ventaglio amplissimo degli “stati” del nostro essere qui ora e vivi. Per trasferire al lettore uno scritto che sia denso di pensiero, corpo e non vacuità. Questo processo avviene chiaramente anche nella scrittura di Temporelli. Del resto è autore e critico di ampia esperienza, oltre che specialista della materia letteraria, cioè insegnante.
Il libro ha ricchezza di temi e compiutezza di pensiero. Vi si legge l’uomo, la storia, le amicizie, gli avvenimenti, patemi e patologie, la scrittura, l’infanzia, l’insegnamento, la religione, il collegio, gli amici, il calcio, lo studio, la morte e i tortuosi camminamenti riferiti con semplicità perché nodi affrontati e sciolti. Vi si leggono i molti interrogativi, perché, si tratta, lo dice l’autore, di un libro che si sviluppa in un arco temporale ampio di ben 27 anni, che ci sono tutti, si spazia da una A a una Z passando da molte porte, altrettante svolte. Un distillato di tanta vita.
Tutta la raccolta ha un suo tempo metrico percepibile sin dai primi componimenti, brilla in versi di felici illuminazioni, accostamenti originali su un apparecchiamento lessicale piano, scorrevole, appropriato. Il versificare è corredato da segni di interpunzione e talvolta da spaziature e a capo ad arte. E’ presente un sottofondo di sobrietà e vivacità, due fili conduttori dell’opera, per cui mai dire nulla più di quanto è necessario, in omaggio all’esigenza di sfrondare fino all’essenziale, e in secondo luogo non annoiare il lettore. Diversi testi hanno la solennità e l’accoratezza della preghiera. In tutto il libro non è tanto la ricercatezza dei termini che restituisce cultura, ma citazioni e riferimenti. Tra questi spicca l’incipit del commovente omaggio a Simone Cattaneo che riprende il dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io che diventa Ricky, io vorrei che tu, Davide, Massimo, Flavio, Alessandro ed io. L’amicizia è già tutta nella nominazione del consesso.
Lucenti i testi che raccontano la natura e le memorie, gli smarrimenti, ve ne sono disseminati, belli e limpidi anche i canti d’amore, intessuti a volte da tensioni sotterranee, sentori d’abbandoni o separazioni. Di altri testi la lettura è meno trasparente, si chiudono nell’ermetismo, talvolta l’oscurità vorrebbe un ausilio a dipanare il senso, ma forse è solo umana curiostà di intromettersi nel ventre ispiratore, aprire squarci di indiscrezione. Così nel poemetto Terramadre, dove si affronta il tema della morte con sviluppo drammatico – teatrale, racconti esperenziali, com-partecipazioni attoriali, essi concorrono al referto dell’ essenza dell’oscura signora, alla narrazione dell’impatto che l’agonia o l’evento producono e le ramificazioni interiori conseguenti alla perdita. E’ un fatto che giunti ad età avanzata abbiamo la vita costellata da mancanze dolorose, tanto più quanto più traumaticamente e precocemente è avvenuto questo invevitabile incontro e per le tante volte che avviene successivamente. Se ne parla qui con la consapevolezza che permea chi sa e può dirne senza apparire un balbettio d’esercizio letterario. Si direbbe che il poeta ha il piglio di chi fronteggia, non arretra e non cede, resiste, come in un corpo a corpo, in una sfida.
Postilla per l’alieno, che chiude il libro, ha un sentore del viaggio di Ulisse, appello rivolto a profani o a viaggiatori d’altri mondi, un messaggio d’onde radio verso porti astrali. Coniuga l’esotico e la citazione, propone destinazioni, ma non si tratta di luoghi qualunque: la Baia di Halong in Vietnam, il palazzo di Taj Mahal in India, il Cristo Redentore di Rio de Janeiro, la cascate del Diablo nell’Iguazù in Argentina, la Grande Muraglia Cinese e infine la quadriga della Basilica di San Marco a Venezia, sono tutti accomunati dall’essere di una stupefacente bellezza, tant’è che sono inseriti nell’elenco delle sette meraviglie del mondo oppure dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Temporelli cita poi l’affresco michelangiolesco de “La creazione di Adamo” nella Cappella Sistina, i poemi epici di Omero, gli angeli de “Il cielo sopra Berlino”, ed è nella chiusa che chiarisce come rifiutare tutta questa bellezza significa chiudersi all’ amore, gesto che darà forse pace, ma svuota.
A cogliere la sostanza di tutta l’opera possiamo dire con Etty Hillesum “Credo che il senso della vita sia nell’amore, nell’amore per gli altri, nell’amore per la natura, nell’amore per la bellezza, nell’amore per la verità. Credo che l’amore sia la forza più grande che ci sia, la forza che ci fa andare avanti, che ci fa sperare, che ci fa credere che la vita ha un senso.”
Alzati e grida al mondo / tutto il tuo dolore / quando la vita ti sta trasformando il cuore / in un’arida macchia di sangue. Ho scritto una poesia. Non ne avevo mai scritte prima d’ora.
Questa mattina è venuta la psicologa; mi ha dato dei fogli bianchi e mi ha suggerito di scriverci quello che voglio. Stasera verrà a ritirarli. E’ stata gentile, non me l’aspettavo. Quando esco da questo ospedale voglio festeggiare. Mi comprerò una tavoletta di cioccolato, enorme. La mangeremo insieme, i mieiamici e io. Ma come ci sono finita qui dentro? Ho fatto tutto quel che dovevo fare, tutto come in quei libri: “Pensa positivo!” “Se vuoi puoi!” “Sviluppa la tua forza di volontà!”. Io penso sempre positivo, ma proprio sempre! E siccome voglio allora posso.
Mi manca la frutta, qui ne danno troppo poca. La frutta fa bene, bisogna mangiarne tanta. Anche le verdure fanno bene. Invece la carne il pesce le uova fanno male. L’ho detto alla mia amica ma lei mi ha risposto che deve mangiare un po’ di tutto altrimenti poi si sente male. Non mi convince. La frutta fa bene a tutti, è lei che ha le fissazioni e così non ottiene ciò che vuole dalla vita! Io per esempio mangio tre grosse mele una via l’altra, e arance e kiwi e uva e mi sento piena di energia! Durante la giornata ricevo molti doni, molte persone piene di luce mi si avvicinano e mi fanno tanto bene. Le medicine invece fanno male, tutte quante. Il movimento fa benissimo, lo dicono sempre, i medici. Io corro al parco prima di iniziare il lavoro, perché poi mi tocca stare seduta per molte ore al giorno e certe volte anche di notte, quando non riesco a dormire mi metto in macchina e guido, guido fino al mattino, poi quando torno a casa vado in palestra, per farmi i muscoli. Nadia mi ha massaggiato, tempo fa. Mi sono sentita come rinascere! Gliel’ho detto alla mia amica. Lei mi ha sorriso e ha detto che è contenta di avermi aiutato. La depurazione poi è molto importate. Pulizia e depurazione… tre docce al giorno.
Ho chiesto a Nadia di accompagnarmi in quel centro, ti ripuliscono tutto l’intestino. Ma lei si è rifiutata, ha detto che sono già fin troppo pulita di dentro e di fuori. Non ci credo… ho dentro questo sangue morto che mi fa impazzire di dolore. Pulire il sangue pulire il cuore da tutti i pensieri, così bisogna fare! Le ho detto “non sei una vera amica”. Lei mi ha risposto che è vero, che non è di quelle amiche che ti seguono in ogni follia. Ma questa non è follia, è benessere! Io di lei però mi fido molto, mi fido del suo giudizio. Gli altri mi danno sempre ragione, lei a volte mi dà ragione e a volte no. Un giorno Nadia mi ha detto, sorridendo: “Tu sei doppia perché il tuo segno zodiacale è doppio”. Ho ricambiato il sorriso, anche se non ho capito la battuta. Io sono del segno della Bilancia, due piatti, due lati in equilibrio, in perfetta armonia. Credo che abbia voluto dirmi una cosa carina, lei mi vuole bene…
Venerdì, 21 marzo.
“Alzati e grida al mondo / tutto il tuo disprezzo / quando la vita ti ha sputato in faccia / una volta di troppo”. Ho scritto una poesia. Non ne avevo mai scritte prima d’ora, non sono tipo da poesie, io.
Stamattina è venuta la psicologa; mi ha portato alcuni fogli bianchi e mi ha suggerito di scriverci sopra quello che voglio. Stasera verrà a ritirarli (se non deciderò di farne pezzettini, naturalmente, ma questo non gliel’ho detto. Non mi piace che qualcuno si impicci dei fatti miei). Quando esco da questo maledetto ospedale voglio festeggiare. Mi farò portare a casa un Bigbang ai quattro formaggi e una montagna di patatine fritte. E una scura media. No, è meglio di no, voglio essere pronta per tornare al lavoro al più presto. Non posso guidare se bevo alcolici. Sto in macchina tutto il giorno e certe volte anche di notte, quando non riesco a dormire. Ma come ci sono finita qui dentro? Ho fatto tutto quel che dovevo fare, tutto come in quei libri: “Pensa positivo!” “Se vuoi puoi!” “Sviluppa la tua forza di volontà!” E io sono positiva, voglio e quindi posso, ho una volontà di ferro! Solo che, da qualche tempo, mi sento stanca, stanchissima. Mi sento come se il sangue non fluisse bene. Un giorno Nadia mi ha fatto un massaggio; odio essere toccata, ma per lei ho fatto un’eccezione. Lei è mia amica, mi vuole bene. E’ stato come se questo sangue rallentato, questo sangue morto avesse ripreso vitalità, energia.
Quando mangio il mio hamburger preferito c’è sempre qualcuno che mi consiglia di mangiare frutta e verdura, perché fanno bene. Tutte balle! Io scoppio di salute, i miei esami ematologici sono perfetti! Come suona bene, e-ma-to-logici! Io sono una persona logica, mi attengo ai fatti. Sono la dimostrazione vivente che frutta e verdura sono sopravvalutate. Spesso mi dicono che ho una bella pelle, e bei capelli e unghie perfette. Non possono essere tutti bugiardi, no? Eppoi uno specchio ce l’ho anch’io, mi guardo e vedo che sono in ottima forma, anche se ultimamente ho perso alcuni chili. Un giorno Nadia mi ha detto: “Tu sei doppia perché il tuo segno zodiacale è doppio”. Me lo ha detto sorridendo, quindi suppongo che intendesse fare una battuta, una battuta che non ho capito. Per dirla tutta, mi pare un’emerita scemenza. Le ho fatto un mezzo sorriso anch’io. Sono del segno della Bilancia, due piatti, due lati speculari in equilibrio dinamico, perfettamente armonizzati…
Sabato, 22 marzo
Buongiorno, cara, è l’ora della pastiglia. Occristo santo! Gianni vieni qui, presto!!!
Saturazione 90 e… 90! Subito in rianimazione! Metti la maschera a tutte e due. Sembrano attaccate cuore a cuore, come se una fosse uscita dall’altra!
E’ in cura da noi già da due anni e non sapevamo che avesse una sorella. Gemella, poi! Stavano abbracciate strettissime, non le abbiamo forzate per non fargli del male. Poi, a un certo punto, si sono staccate da sole.
Come avrà fatto a introdursi qui di notte?
Secondo me è entrata di giorno. Si è nascosta e poi ha raggiunto Lia appena si è fatto buio.
E ora dov’è?
Non si sa. E’ sparita poco dopo il distacco, praticamente volatilizzata.
“Notte inoltrata, silenzio profondo, rotto di colpo, dal passare di un treno, metallo pesante su fragile legno”. La composizione tra la parola e l’immagine, metafora della vita e del senso dell’interezza, racchiusa in queste righe, appartiene all’autore Alessandro Angelelli nel libro “Metallo pesante” (L’Erudita, 2022 pp. 67 € 16.00). I testi contengono la densità dell’osservazione poetica sul mondo e sulla natura degli uomini, diffondono la consistenza dell’ispirazione, offrono una consapevolezza accogliente, piena di sensibilità e di intensa affettività. Il poeta risiede nella dimora dell’anima, percepisce l’intima relazione tra il proprio peregrinare alla ricerca di una dimensione familiare dove custodire ricordi ed emozioni e l’identità interpretativa delle sensazioni. Alessandro Angelelli indica la regione interiore dalla quale partire per percorrere l’essenza dell’itinerario esistenziale e ampliare l’orizzonte dell’appartenenza. Descrive attraverso l’inquietudine romantica del percorso di vita, lo smarrimento e la frantumazione dell’esperienza, espone la volontà di comunicazione, insegue il desiderio di riacquistare il sentimento perduto. La strada per condividere il viaggio introspettivo rimanda al valore originario dell’essere, incrocia lo svolgimento della memoria e collega l’elaborazione del vissuto con il senso di ogni destinazione. “Metallo pesante” svela una collezione privata di inafferrabili momenti e di sfuggenti impressioni, mostra il vincolo confidenziale tra la malinconia del passato e l’incertezza del presente, avverte il carattere instabile di ogni incognita del futuro, l’inesorabile vulnerabilità del dolore, ma anche la stabilità fiduciosa della speranza. La poesia di Alessandro Angelelli è simbolo di un archetipo del cammino umano, un attraversamento evolutivo tracciato nella necessità di realizzare una direzione per la felicità e rinnovare il proprio itinerario, inoltrandosi nella promessa di raggiungere nuovi approdi di comprensione per sentirsi a proprio agio con se stessi. Rivisita la località ispiratrice del pensiero, analizza il territorio suggestivo della realtà, da corpo all’equilibrio degli impulsi per orientare l’autenticità del discorso. Alessandro Angelelli conosce il modo di rilevare e abbracciare la consistenza sensitiva del proprio territorio di arrivo, oltrepassa il passaggio lucido del dolore e della finitezza dell’assenza, trasmette la propria fermezza creativa con il presentimento immaginario di ogni atmosfera onirica. “Metallo pesante” rinforza l’intento profondo di riconquistare la componente del benessere, illustra l’incantevole cronaca del tempo nel riassunto seducente del quotidiano, congiunto alla contingenza della fugacità, alla tenerezza della memoria e alla commozione dei significati. Indaga sull’accordo dell’intuizione elegiaca e sostiene l’eterna e inevitabile discordanza tra la crudele fragilità e la grazia della serenità. Il libro è il compimento letterario di una coinvolgente resistenza, la fusione naturale immersa nella nostalgia dell’altrove, sperimenta l’incertezza dei legami, assapora l’indugio dell’attimo vissuto, mantiene il radicamento dell’intima necessità di espressione, l’intenzione di ogni luogo in cui sentirsi a casa e ritrovare la beatitudine dello spirito.
Nella foto con sulla testa un secchio capovolto (che moda fu mai quella dei tuoi tempi!) hai scritto: Qui sono scappata dal serraglio. Ma intorno non si sospettano leoni né tracce d’altre fiere. Da un’altra gabbia invece poi fuggisti e fu una gara tra galline e galli per gridare allo scandalo inaudito. La tua incuranza fu la loro pena perché non c’è di peggio per i polli che di veder fuggire un prigioniero.
Giorgia Stecher, poetessa siciliana, nata a Messina il 14 luglio 1929, deceduta a Messina il 24 aprile 1996.
Succede quando e non saprei come. Non sempre succede, però spesso e così sia, destino vuole succeda.
A volte succede in stato di moto o di quiete
che si accenda quella luce
e si apra quel varco nella mente
che appaia luminosa una possibilità di fuga
e quella luce che si irradia ci renda trasparenti
che un peso sullo stomaco venga digerito
seppure a fatica
e il succedersi sia ripartito
in ciò che accade e in quello che è accaduto
due pietre che rotolano lontane una dall’altra
fatti e fattoidi ai piedi della stessa collina.
Una cosa prende il posto di un’altra
portando in sé la verità di esistere
o l’errore di quello che potrebbe essere stata.
Succede a una tegola
di essere meno salda
sul tetto
succede al pedone che manchi una striscia
quando attraversa
succede che dall’altra parte della strada
qualcuno trovi ciò che cerca
e chi lo aspetta
e qualcun altro non trovi nulla
o che non cerchi affatto.
Dividere ciò che è successo
da quello che accadrà
separare il momento in cui il fiore sboccia
e l’idea che ci siano stati petali
nei tuoi pensieri fin da ieri.
Vivere, vivremo
fino a quando tutto si compirà:
chi dice che è incompiuto
tutto quello che ho vissuto?
Lo stoico dice che
è perfetto tutto ciò che accade.
L’imperfezione è una timida speranza
lunga tutta la strada della vita.
Navi nel deserto
di Luigi Weber
Il ramo e la foglia edizioni, gennaio 2023
pp. 376
Se c’era un detto autentico in bocca a quello sputasentenze di Schomberg, era “la mia strada la segnano i fuochi nella notte”. In un deserto punteggiato di piccole oasi, di rocche fortificate alte su speroni di pietra, tra piste di terra battuta per navi a ruote e città abbandonate che emergono dalle sabbie come relitti, giocano a scacchi con il destino e la morte un giovane capitano inesperto, un traditore, un naufrago, un uomo ossessionato dal desiderio di vendetta, una ragazza inquieta e la sua nutrice. Naviganti, Pirati, Isolane e Cittadini dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni. Attorno a loro, da ogni parte, si innalzano lenti nel cielo i sette pilastri della distruzione. I grandi romanzi e i personaggi di Joseph Conrad, affondati, sbriciolati e dispersi in un mare solido, tornano a incontrarsi e scontrarsi lungo le piste di una storia tutta nuova.
*
«Sulla Kairos dormivano, tutti. Nessuno ancora sapeva dell’arrivo dei Pirati in quelle terre, e la sorveglianza semplicemente non esisteva. Io non dormivo, invece. Il deserto è piatto, l’aria notturna tersa, e l’incendio dell’infelice vittima ardeva molto sopra le dune, come la porta dell’inferno spalancata. Perfino da terra lo vidi distintamente, e mi si agghiacciò il sangue.» Luigi Weber è un insegnante di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna. Il Romanzo distopico Navi nel deserto è la sua opera prima. Nato dopo lunga gestazione, come dichiarato dall’autore in interviste apparse sul web, “Navi nel deserto è uno strano indefinibile oggetto, persino per me che ci convivo da un tempo lunghissimo. Un esordio romanzesco attempato, a cinquant’anni, e insieme paradossalmente giovanile, perché mi accompagna da quando ne avevo venti. A prima vista sembrerebbe un prodotto sospeso tra narrativa d’avventura per ragazzi, fantascienza e fantasy, mentre non è niente di tutto ciò. “
***
Non importa come sia potuto accadere e perché, non si sa quando sia accaduto, non si conosce quale sia la catastrofe occorsa, se guerra atomica o spostamento dell’asse terrestre, o la caduta di un meteorite, ma la terra di un tempo non esiste più, i fiumi, i mari, le montagne, le città, tutto è coperto da una spessa coltre di sabbia. Affiora solo qui e là qualche spuntone metallico facente parte di qualche alta costruzione. Il mondo è sotto, è il Downtown, un mondo sommerso, “Indica la parte nevralgica delle antiche città, dove si alzavano tutti i grattacieli. Oh Dio, sapevo che c’era una in questa regione, ma come si fa a crederci…“ I personaggi portano i nomi dei protagonisti dei romanzi di Conrad, a partire dal protagonista principale, il capitano, che porta addirittura il nome dello scrittore Joseph Conrad. Ci sono molte citazioni che riguardano Conrad, ad esempio quando Freya, promessa a Julian Sands il naufrago che abita in una delle oasi, dice di sé che il suo è un cuore di tenebra. A differenza delle atmosfere di Conrad di Cuore di tenebra, che sono volontariamente ombrose e cupe; a differenza del romanzo la strada di McCartey, dove era accaduto qualcosa di terribile alla terra, dove il paesaggio scena dopo scena, dall’inizio e fino alla fine del romanzo, è sempre grigio, dove tutto è coperto di cenere e anche l’atmosfera e satura di cenere, in questo romanzo c’è sempre un sole abbagliante, potente, infuocato , che brucia “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.”
Le navi solcano i deserti su grandi ruote che seguono delle strade numerate su dei binari prestabili come una sorta di ferrovia dotata di scambi, come quelle dei treni, per passare da una strada numerata all’altra. Per quanto riguarda la struttura il libro è diviso in dieci interludi e vari capitoli, e coesistono diverse voci narranti. Alternando il punto di vista si vorrebbe accrescere il ritmo della narrazione. Notevoli le descrizioni dei paesaggi sabbiosi e dei colori, nonché degli stati d’animo complessi dei protagonisti. Benché l’ambientazione è futurista e post atomica, a volte si ha l’impressione che i personaggi siano regrediti nel passato e vivano le atmosfere dei regni greco-romano, o egiziano, o minoico.
Questa terra di oggi è abitata da uomini uguali a quelli che abitavano la terra di prima. Gli uomini hanno sempre le stesse emozioni e gli stessi sentimenti, l’uomo è sempre uguale a se stesso, simile nei difetti e nei pregi. Sotto la cenere della città di Pompei sono state trovati oggetti e suppellettili che anche noi, uomini moderni, avremmo trovato comodi da usare. Sono state trovate iscrizioni nei muri contro certi personaggi politici e pubblicità varie, fontane dove bere e piazze dove incontrarsi e passeggiare. I bisogni dell’uomo saranno sempre uguali, il bisogno di stare in gruppo, di condividere, di amare, di classificare, di odiare e di disprezzare il diverso e di aggregarsi a chi si ritiene sia più simile a noi. I pregiudizi e le discriminazioni accompagneranno sempre gli uomini qualunque sia il mondo abitato. L’umanità abitante questa terra sabbiosa e infuocata è riuscita a trovare una sua organizzazione. La società del romanzo è divisa in due gruppi, stanziali e nomadi. Gli stanziali sono i cittadini cioè gli uomini che hanno preferito arroccarsi nelle fortificazioni, e gli isolani che abitano le oasi in mezzo al deserto dove attraccano le navi. I nomadi sono i naviganti, cioè quelli che in giovane età sono usciti dalle rocche e hanno costruito delle navi nelle quali hanno trascorso insieme tutta la loro vita, e i feroci pirati che in genere sono i fuoriusciti dalle rocche il cui scopo è quello di inseguire i naviganti. Non conta chi sei, da solo non hai identità e dignità, conta solo a quale gruppo appartieni, ed è un’anomalia che il capitano Conrad sia un cittadino diventato navigante.
Si tratta di un romanzo distopico, d’avventura, avveniristico, fantascientifico, ma non solo, questo romanzo parla principalmente di uomini, delle loro paure e dei loro sentimenti. Dello sforzo giornaliero di sopravvivere in un ambiente che è diventato ostile e pieno di pericoli o che ti costringe a vivere murato vivo pur di non perdere la vita. A cambiare faccia e a fingerti altro per non perire. A perire per non cambiare. Un romanzo molto particolare, adatto e consigliato a chi ama il genere distopico e apocalittico.
bio Luigi Weber Nato nel 1972 a Rimini, ma dall’incontro tra un trentino di Rovereto e una toscana di Marradi, quindi sospeso tra il mare, le Alpi e gli Appennini, Luigi Weber da lungo tempo ormai si è risolto per la pianura, e vive e lavora nella città che più gli è congeniale, Bologna, con la sua famiglia. Qui ha studiato e si è laureato in Lettere Classiche, nel 1998; qui, dopo una pausa di alcuni anni trascorsa come giornalista in Romagna, è tornato definitivamente ad abitare, iniziando una collaborazione ormai più che ventennale con l’Ateneo in cui adesso insegna Letteratura Italiana Contemporanea. Nel frattempo ha vissuto anche nel magico mondo del teatro di ricerca, partecipando a nove indimenticabili edizioni del Festival di Santarcangelo come caporedattore del Quaderno del Festival. Per alcuni anni ha insegnato a scuola, a bambini delle medie di Imola e adulti nelle serali di Vergato, e anche quelli sono stati anni e incontri impossibili da scordare. Dal 2012 è diventato Ricercatore e poi dal 2014 Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica di Bologna. Ha scritti libri e curato edizioni e pubblicato saggi su molti autori e fenomeni letterari dell’Otto e del Novecento, da Manzoni al Gruppo 63, occupandosi di letteratura fantastica, poesia e romanzo sperimentale, letteratura di guerra e di viaggio. Dal 2021 fa parte del Comitato Direttivo della MOD, Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria.
Tre poesie di Nina Cassian . Illustrazioni di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
Preghiera
Se esisti per davvero – fatti avanti, sii nuvola, caprone, aviatore, porta con te occhi, bocca, voce, – chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi, prendimi tra le braccia, proteggimi, nutrimi con la settima parte di un pesce, fammi un fischio, dissodami le dita, ricolmami di aromi, di stupore, – resuscitami.
La tentazione
Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto. Per la prima volta vedrai i pori schiudersi come musi di pesce e potrai ascoltare il mormorio del sangue nelle gallerie e sentire la luce scivolarti sulle cornee come lo strascico di un abito; per la prima volta avvertirai la gravità pungerti come una spina nel calcagno e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole. Ti prometto di renderti talmente vivo che la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili, che le sopracciglie diventeranno due ferite fresche e ti parrà che i tuoi ricordi inizino con la creazione del mondo.
Ermetica
Se ci fosse un luogo dove conficcare un altro grido quale potrebbe essere, la roccia o il mare
o l’occhio dell’uccello della notte, fisso e tondo, duro come la pietra, giallo come la luna?
Ah, tutto è impenetrabile. E il grido viene fuori dalla bocca
pendulo come la lingua dell’impiccato.
Nina Cassian, poetessa, scrittrice, traduttrice rumena, nata in Romania, a Galati, il 27 novembre 1924, morta a New York il 15 aprile 2014
In Porto franco di Giuseppe Martella si approda, si trova riparo in una “circolarità“, nello spirito, che intuisce prima il mondo esterno e lo traduce per mezzo del linguaggio dal particolare all’universale, mediante il tratto caratterizzante della tensione sperimentale, aperta a più direzioni. È come se tutta l’opera fosse ispirata dall’idea- guida che la poesia possa e debba ospitare i modi diversi e ogni esperienza di vita. In questa chiave il ritmo è vivacissimo e tutto è affidato al sortilegio della parola, allusiva in apertura dell’opera, a uno dei sonetti più famosi di Dante, rimasto fuori dalla Vita Nova: “Ma sì, ma quando, ma poi,/ se tutti noi/ fossimo presi per incantamento/ e trasportati indietro e poi in avanti…” (p.7, Per ipotesi), un sogno rimasto fuori dalla storia , perché solo in un senza- tempo e in senza- spazio la vita può coincidere con la poesia. Con questo motivo del plazer, Giuseppe Martella combina originalmente due sezioni: Gran Canaria e L’ora bruna del presentimento. Il tema del magico incantesimo a Gran Canaria e l’andare senza meta nell’ampia distesa del mare”, isola d’aria persa in mezzo al mare” (p.11) con la riflessione del poeta( p. 25), ispirata a valori laici e terreni: “ E prendi la misura, giusta finché ne hai tempo/e prendi il tempo a tua misura/ magari a usura, prendilo a prestito/qui se è il caso – tanto/ tutto è in affitto qui un tanto al mese/ il sole l’aria il mare/ il passeggiare così senza pretese…” , infine “interrogare la luce” come per riassaporare una rara luce di fronte al rapido trascorrere del tempo, l’unica possibilità per l’io-poeta di dare un senso al passaggio degli anni e per riacquistare un’identità. Scrive giustamente nella Postfazione Rosa Pierno: “Come in un aforisma socratiano anche Martella in negativo dichiara l’incapacità di definirsi (“non so chi sono”). Si tratta di un’esplicita presa di distanza dall’immagine tradizionale del poeta detentore di verità o una tecnica espressiva dell’autore in una rete di significati extra-linguistici che percorre tutta l’ opera e ne crea la sotterranea e coinvolgente complessità? “La valorizzazione semantica è il luogo ove avviene lo scambio con la realtà, ove la macchia diviene senso, staccandosi definitivamente dal reale per andare a sistemarsi nella rete dell’artefatto culturale” (dalla postfazione di Rosa Pierno). Chi legge, infatti, deve decifrare le nascoste allusioni, conoscere particolari biografici, deve ricostruire sottintesi, circostanze e contesto. Dev’essere cioè in qualche modo connivente e un po’ complice con l’autore. Martella tende a crearsi un proprio linguaggio diversificato dalla “lingua della tribù” come si esprime Mallarmé; non solo tende a crearsi un proprio mondo, in qualche modo alternativo rispetto alla realtà quotidiana: “E breve mi ritorna in mente/il ritornello/ però tutto a rovescio che non so/ neppure se sia quello di prima) oppure un altro – o della foglia/ il dolore nel ramo che si incrina/ – sulla soglia dove il rumore/ si trasforma in suono e poi parola/ e poi vola fra me e te –rimane fra di noi – come se/ fosse un arcobaleno, sole/ un effetto di luce nella pioggia/ una lama nel cuore/ un boomerang di ritorno/ un osso di rapace/ scagliato d’improvviso a ciel sereno.” (Canone inverso p.40). La forma dà vita e corpo all’intuizione, ma senza l’intuizione la forma non sussisterebbe. Se la “materia poetica … corre negli animi di tutti, tuttavia solo l’espressione, cioè la forma, fa il poeta”[1], dal che si arguisce, a parere di Croce, che l’eccellenza artistica discende dall’unione di intuizione ed espressione e può nascere solo quando si realizzi tale felice condizione. In Porto franco un sapiente lavoro di cesello interessa tutti i livelli del testo, fonico- ritmico, lessicale e sintattico, ma la cura della forma lascia spazio ai temi meditativi espressi in un tessuto fittissimo di echi e rispondenze rifioriti nelle risonanze interiori e nel canto di Giuseppe Martella.
[1] B. Croce, in Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902)
Note bibliografiche
Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO). Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi letterari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contemporanea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online. Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio “Lorenzo Montano” 2020. Altri inediti sonogià apparsi su “Il giardino dei poeti”, “Versante Ripido” e la sezione Instagram di “Poesia Blog Rainews”. Porto franco è la sua opera prima in versi.
Fra le sue altre pubblicazioni a stampa:
• Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB 1997;
Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)
La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …
ANTONIA DE GATTIS
*
Se ci incontreremo
Se ci incontreremo, dammi consolazione
e non amore per questa lunga
e lunga attesa,
oltre il tempo che mi consuma.
Cullami tra le tue braccia,
accarezzami
e calma se puoi la mia inquietudine.
Concedimi l’orgoglio
di sentirmi solo tua.
Ti ho aspettato, amore
oltre il tempo che ci consuma.
Cullami, accarezzami,
lascia che si addormenti accanto a te
il mio cuore stanco.
*
Il primo desiderio
Il primo desiderio è addormentarmi,
tenendo la tua mano stretta
finché l’alba si schiuderà tra le tue ciglia.
Il secondo desiderio è la tua bocca
dopo il caffè, il miele e il burro
su una fetta di pane tostato.
Il terzo e il quarto
sono già meno importanti
di questo piccolo miracolo,
che siamo io e te,
lo stare quieto
di un giorno come un altro.
*
Dei perduti amanti
Dimmi, dove vuoi che posi la mia mano
prima ancora della mia bocca
in questo vicolo cieco
e un muro a farci da alcova.
Dimmi, dove vuoi che posi i nostri sogni
di perduti amanti se le tue labbra
hanno il sapore amaro della rinuncia.
Sento rumori di passi in lontananza.
Qualcuno ride, qualcuno piange.
Qualcuno alza un calice
che non celebrerà nessuna vittoria.
Ho paura e il canto della sirena
è sempre un canto di morte.
Adesso la mia mano è sul tuo petto
e ogni granello di sabbia nella clessidra del tempo
è una perdita inarrestabile.
Chi ha deciso dei nostri anni?
A chi dobbiamo l’infausta scelta?
Intorno a noi, la guerra.
*
Ricostruirsi, un pezzo alla volta.
Rinascere, con lentezza.
Ho solo bisogno che mi accarezzi.
*
Quando saremo insieme
Quando saremo insieme
ci sveglieremo stanchi
al mattino.
Cammineremo la notte
uno accanto all’altra,
in un unico disegno d’ombra.
Quando staremo insieme
rideremo
di questi giorni infelici.
Con una mano
scosterai i capelli dal mio volto
e io, lentamente, sorriderò al tuo.
*
Tanta malinconia
Un ragazzo ucraino
giocava a pallone,
cercava un piccolo momento di libertà.
Un’esplosione lo ha dilaniato.
Le bombe fanno questo,
cancellano le fattezze di un corpo.
Come in ogni guerra,
una vita uccide un’altra vita
e c’è tanta malinconia.
*
Testi tratti da Antonia De Gattis, “Eternità”, Città del Sole edizioni, 2023.
C’è stato dato di fare i sogni con la luna
e dopo averli fatti agitati come oggetti in bottiglia
vederli stagliati come satelliti
piccoli o grandi rifiuti cosmici
aggirarsi per tempi indefiniti
e provare a stare dalla parte
del loro sguardo
del loro naso
della loro bocca aperta di sogni.
Loro osservano me che li ho fatti
e li ho temprati col sangue
delle mie sette vite inespresse
scandagliano l’angelo giallo
che circumnaviga rotondo o falciforme
intorno alla mia testa
così terrena e acquosa
inondandola di maree e cattivi presagi.
Di giorno si addormentano ma non del tutto.
Di giorno stanno nel palmo di una mano
ruzzolano tra i piedi
pendono come fermagli da un orecchio
si annodano per ricordarmi che esistono.
Io li ringrazio per la vitale inesistenza dei loro moniti
per i segnali confusi che mi giungono
dallo spazio dell’universo cieco
profondo e sconosciuto
che sta dentro la mia ghianda.
Quella che conservo sempre in tasca
quella che accarezzo con le dita
per cercare la fortuna.
Politico, scrittore e militare, ritenuto uno dei più importanti fautori della novella storica. La sua opera, nondimeno, spazia attraverso una moltitudine di generi differenti: poesia, drammaturgia, racconti brevi,“folletines” satirici, saggistica. Fu diplomatico, membro del Congresso, governatore e guerrigliero durante l’invasione francese (1862-1867). È considerato una delle figure più emblematiche del XX secolo in Messico. La sua opera si contraddistingue per l’uso di un linguaggio semplice e preciso, con tratti umoristici e sarcastici. Il lavoro giornalistico, invece, spicca per essere assai critico e per dare una rappresentazione veritiera della situazione politica del suo paese, rimanendo fermo sulle sue posizioni liberali.
— Mi volete dire – disse Delfina — perché continuate a prendervi cura di quella povera gatta zoppa?
— È una storia – rispose sorridendo — che ora vi racconto, sebbene non sia né lunga né allegra.
Io e la Pepa la portammo da Siviglia; la compagnia teatrale che ci aveva condotti fin lì finì per litigare pochi giorni dopo. Avevamo un bel contratto, sette pesetas, spostamenti pagati e un guadagno libero per il coro delle signore. L’impresario era un uomo di grande impegno ma di poche risorse. Sarà stato circa tre anni fa. Era estate, speravamo di ricrearci un po’ e di approfittare dell’opportunità di visitare le province.
Avevamo portato un buon repertorio: da Getafe a Paraíso, La canzone della Lola, Los bandos de Villafrita, La Gran Vía, …e, di corsa, al mare. Ma come diceva, e diceva bene, l’impresario, la compagnia pone e il pubblico dispone. E perché la soprano non era bella ed era stonata, o perché quello con la barba tartagliava, o per la caratteristica bizzarra dell’occhio destro, o perché Dio solo lo sa, fatto è che la compagnia non andò bene a Siviglia, e già dalla prima rappresentazione il pubblico cominciò a prendersela con noi, con il pretesto che il tenore aveva fatto una gaffe andando avanti a cantare quando non toccava più a lui. Nelle prime esibizioni non c’erano pezzi che non suscitassero prese a pedate; in seguito non fu più così, perché, non essendoci rimasti più di tre duros nell’armadietto, non c’era neanche il pubblico pagante che se la prendesse con noi. Non si trovava altra soluzione: la compagnia non poteva pagarci e noi dovemmo accontentarci di ricevere un biglietto di terza classe sul treno diretto per Madrid. Con quello, e cinque duros che aveva la Pepa, più altri quattro che avevo risparmiato, arrivammo qui, prendemmo un alloggio e ci mettemmo a cercare una parte; macché! Visto che l’estate era inoltrata, tutti i teatri avevano più attori di quanto ce ne sarebbe stato bisogno: né al Felipe, né al Recoletos, né al Principe Alfonso, né al Tívoli, che era stato inaugurato in quei giorni, riuscimmo a trovare un posto, i nove duros finirono presto, e i bagagli scivolarono sul banco dei pegni, e le rogne abbondarono più frequentemente del copione di una commedia.
Ho trascurato di dirvi che, quando prendemmo l’alloggio, avevamo trovato quella gattina, magra e affamata, ma così affettuosa che, come disse la Pepa, avremmo dovuto tenere con noi perché Dio ci aiutasse, e la povera bestiola faceva proprio simpatia, perché mangiava il baccalà con le patate avanzato dal pranzo con lo stesso piacere con cui mandava giù le briciole sulla tovaglia della colazione. Potrei giurare, addirittura, che fu lei a mangiare il guanto di capretto della Pepa, che non riuscimmo più a trovare.
Ci alzavamo molto tardi, dopo mezzogiorno, e andavamo a letto molto presto per non dover fare più di un pasto al giorno; non avevamo soldi, ma il nostro buonumore non ci lasciava mai e tutto quello che capitava ci faceva ridere, perché prendere sul serio ogni cosa era come suicidarsi.
Una mattina scoprimmo che la situazione era più grave del solito, non avevamo più niente da impegnare e dovevamo mangiare. Pensando e ripensando, alla Pepa venne in mente di vendere la sedia che il vicino di casa ci aveva prestato perché avessimo un posto dove sederci. L’idea non era male e mi ripromisi di toglierci da quella situazione.
Per fortuna il vicino non c’era, faceva il macchinista del tranvia e non sarebbe ritornato che alla sera. Aprii la porta, assicurandomi che le scale fossero deserte; afferrai la sedia, corsi al piano di sotto e non mi fermai fino a quando non arrivai alla casa di un vecchio commerciante di mobili, che mi diede due pesetas. Immediatamente andai a comprare pane, vino, carbone e due braciole che mi ballavano in mano.
Con quale piacere mi accolse la Pepa. Misi la spesa sul braciere e penetrai nella sala per togliermi lo scialle e lavarmi le mani, raccontando alla Pepa le mie peripezie. Ma tutti i mali vengono dalla lingua; ci mettemmo a parlare come se non avessimo avuto fame, e quando tornammo in cucina…non c’è bisogno che vi racconti come mi sentii quando vidi la gatta mangiare l’ultimo pezzo di braciola.
Vi dico solo che fu tale il colpo che tirai alla povera gatta, che da allora si trascina zoppa.
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