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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi autore: marian2643

Memoria e fantasia nel romanzo “Elvira des Palmes” di Emilio Paolo Taormina. Recensione di Anna Maria Bonfiglio.

27 mercoledì Apr 2022

Posted by marian2643 in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Elvira des Palmes, Emilio Paolo Taormina

 

 

Nella Palermo Felix dei primi del Novecento, alle soglie di un secolo che avrebbe visto splendori e rovine, a fianco dell’ormai mitica e citatissima dinastia dei Florio si muoveva un’ampia fascia di ricchi imprenditori borghesi arrivati dall’estero per impiantare attività commerciali sul suolo panormita. Fra i Withaker, i Sandron e gli Ingham si insediarono anche i Ragusa che iniziarono impiantando una piccola attività alberghiera e si espansero fino alla costruzione di uno fra i più eleganti  hotel di Palermo, il Grand Hotel et des Palmes. La storia di Elvira, protagonista del romanzo di Emilio Paolo Taormina, si muove nell’aria di questa Palermo in bilico fra due secoli e ne tramanda la memoria storica attraverso la vicenda di una famiglia che è il ritratto di un ceto sociale emergente, quello che non appartiene all’aristocrazia ma che soverchia, per cultura e raffinatezza, quello meramente borghese, una famiglia nella quale l’arte è sempre presente, che mantiene rapporti con studiosi e artisti e il cui capostipite è un entomologo di fama internazionale. Zigzagando fra presente e passato l’autore s’insinua nelle trame di una storia familiare per carpirne gli aspetti più reconditi e misteriosi, per indagare, ricordare, ipotizzare, in una parola per risalire alle proprie origini. Fra memoria e immaginazione egli dipana le vicende della propria famiglia e al contempo traccia il quadro sociale di quella Belle Époque che è rimasta come mito di quel tratto di Storia che va dalla fine dell’Ottocento ai primi anni del secolo successivo. Taormina entra nelle maglie di un’intricata rete di parentele per potere infine dare un’identità ad un’antenata che non figura nell’albero genealogico della sua famiglia ma che egli sa essere ad essa appartenuta. L’oscurità che avvolge la nascita di Elvira è un velo che ricopre il passato di più generazioni, riuscire a strapparlo significa riportare alla luce l’essenza di una “stirpe”. Il testo, che testimonia anche la vena lirica dell’autore, è attraversato da sciabolate che fendono vari argomenti, dalla disciplina entomologica, di cui era un esperto Enrico Ragusa, alla coloritura dell’ambiente socio-culturale e all’analisi della realtà storica della Sicilia fin de siècle. La cifra stilistica che identifica tutta la produzione di Taormina è la disposizione ad innestare alla prosa un richiamo lirico che interseca i vari passaggi della sua narrazione ed è testimone ineludibile della sua essenza di poeta.

 

Anna Maria Bonfiglio

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L’impegno femminista nella scrittura delle donne

08 martedì Mar 2022

Posted by marian2643 in COSTUME E SOCIETA', LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

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Ada Negri, Amanda Guglielminetti, Erica Jong, George Sand, Madame de Staël, Olympe de Gouges, Sibilla Aleramo, Simone de Beauvoir

Nel 1791, in piena rivoluzione francese, la scrittrice Olympe de Gouges compì la prima mossa ufficiale di quello che in seguito sarebbe stato conosciuto e riconosciuto come movimento femminista: ritenendo che in clima di rivendicazioni avessero potuto ottenere diritto di cittadinanza anche quelle delle donne, presentò alla Costituente la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Giudicando troppo audace l’azione della scrittrice il buon Robespierre risolse il caso con i mezzi di sua competenza e cioè con la decapitazione della malcapitata. Senza considerare che per eliminare per sempre la questione avrebbe dovuto decretare il taglio della testa di tutte le donne future. Quasi contemporaneamente alla De Gouges un’altra donna, Anne Louise Germaine Necker, meglio conosciuta come Madame de Staël, continuava a percorrere quella strada che conduceva la donna ad esprimere la volontà di determinarsi come entità pensante, capace di generare, oltre che figli, anche arte. Madame de Staël, il cui salotto è rimasto nella storia, brillò per il suo genio letterario e per il suo impegno politico ed ebbe un posto di grande rilievo nel movimento culturale e ideologico del suo tempo. Il suo romanzo Delfina è sicuramente una delle prime opere letterarie sulla condizione femminile e rispecchia l’anticonformismo e l’atteggiamento di sfida dell’autrice durante il Consolato. Delfina d’Albémar è una giovane vedova di carattere fiero ed indipendente che sfida l’opinione pubblica e ascoltando esclusivamente gli impulsi del cuore ama Leonzio di Mondoville il quale invece tiene in gran conto il giudizio della società. L’atteggiamento sprezzante di Delfina nei confronti della morale tradizionale viene punito con il disprezzo e la sua rivendicazione alla felicità trova compimento nella morte. Il romanzo porta un’epigrafe molto significativa che la dice tutta tanto sulla morale corrente del tempo quanto sul desiderio dell’autrice di riscattare il ruolo femminile: “Un uomo deve saper sfidare l’opinione pubblica, una donna sottomettervisi”. Nel secolo successivo, in pieno Romanticismo, emerse, quale elemento di scandalo nel contesto dell’epoca, una figura di grande importanza, quella della scrittrice George Sand. La condotta libera e l’anticonformismo di Aurore Dupin, questo il suo vero nome, non erano solo un modo di épater le bourgeois, ma una provocazione per affermare il diritto della donna all’indipendenza e alla libertà di manifestarsi.
Fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento tre scrittrici s’imposero in Italia per l’impegno intellettuale teso a destare l’attenzione sulla condizione femminile: Ada Negri, Amalia Guglielminetti e Sibilla Aleramo, ognuna delle quali pose un importante tassello nel vasto mosaico dell’emancipazione della donna. La Negri, prima e unica donna ammessa all’Accademia d’Italia, nasce a Lodi nel 1870, orfana di padre sin dalla primissima infanzia, vive la sua giovinezza dentro il nucleo sociale del proletariato, essendo la madre operaia in una filanda. Cerca di affrancarsi da questo mondo di piccoli lavoratori attraverso lo studio e il matrimonio con un piccolo industriale tessile ma l’estrazione proletaria resta in lei un punto fermo. Ed infatti la sua prima raccolta di poesie, Fatalità, è tutta rivolta al tema della condizione operaia femminile e della sofferenza che ne deriva. Ma già nella seconda scatta una forma di esaltazione per la propria condizione di donna che, superate le leggi delle ipocrite convenzioni, riscatta il proprio ruolo seguendo gli istinti. Spezzato il vincolo matrimoniale e risolto il compito della maternità, la poetessa interrompe la parabola moglie-madre e si avvia ad esprimere il senso cosmico del rapporto uomo-donna. Sebbene inserita in un momento letterario che risente dei modelli estetici dannunziani e quindi legata ad un’esaltazione romantica, Ada Negri afferma la presenza di un mondo femminile che emerge sulla “limitazione che impedisce la piena realizzazione di sé”.
Più che l’emancipazione politica, sociale ed economica, Amalia Guglielminetti rivendica la libertà della donna borghese sul piano del rapporto amoroso dei due sessi. Assumendo una posizione che la mette in polemica col mondo maschile, cerca attraverso la letteratura di imporre un modello di donna che viva le pulsioni dell’eros con sincerità e consapevolezza, in posizione paritaria rispetto all’uomo. Nata a Torino nel 1885 da una famiglia di industriali benestanti, Guglielminetti rimase orfana di padre molto giovane, a lui dedicò la sua raccolta di poesie, Voci di Giovinezza, pubblicata a diciotto anni. Dopo la morte del genitore fu mandata in una scuola religiosa, i cui ricordi ritrasse nella sua seconda raccolta di poesie intitolata Le vergini folli che creò scompiglio nella società benpensante di Torino. Il libro attirò l’attenzione del giovane poeta Guido Gozzano e tra i due iniziò un’ intensa relazione epistolare che ben presto si tramutò in una tormentata storia d’amore. Nel 1909 uscì la terza collezione di poesie, Le seduzioni, con la quale la poetessa costruì la sua fama di donna perversa e sensuale. Questa è la raccolta che definisce maggiormente la Guglielminetti e che sintetizza la sua essenza come “colei che va da sola”. In seguito una tormentata relazione sentimentale con lo scrittore erotico Pitigrilli le causò un collasso nervoso ed un ricovero, esperienze che segnarono per sempre lo stile della poetessa, che da quel momento divenne più duro. Il suo romanzo La rivincita del maschio (1923) fu preso di mira dalla Lega della Pubblica Moralità poiché ritenuto immorale ed osceno.
Più sofferto e vissuto, il romanzo Una donna di Sibilla Aleramo è la confessione aperta della vita della sua autrice fino allo strappo estremo che la consegna ad un ruolo nel quale finalmente non si sente figura di contorno. In questo senso l’impegno della scrittrice non è soltanto di carattere creativo, ma anche morale, sociale e politico e si manifesta come la significazione dell’ansia femminile a vincere la propria condizione limitante. Negli anni del suo apprendistato, Aleramo era stata attiva nel movimento per l’emancipazione della donna, collaborando a riviste e giornali, e partecipando alle campagne per il voto alle donne e per la pace e a quelle contro l’alcolismo, la prostituzione e la tratta delle bianche. Femminista militante, nel suo romanzo mette sotto accusa la società maschilista che non riconosce alla donna nessun genere di autonomia e ne castiga la forza creativa e intellettuale. Nella seconda parte del Novecento la fila delle scrittrici che hanno camminato nel solco delle loro antesignane si è sempre più ingrossata e sarebbe troppo lungo seguirla in questo contesto, ma voglio ricordarne due. La prima è Erica Jong, scrittrice intellettuale malgrado il suo primo libro, Paura di volare, sia stato reclamizzato come prodotto del filone erotico. Jong ha trattato il percorso del femminismo seguendone i vari passaggi: dal primo romanzo, nel quale la protagonista iniziava l’ascesa verso la liberalizzazione del suo “io” tenendo conto della lezione freudiana, a Come salvarsi la vita, sua seconda opera nella quale la stessa protagonista viveva la stagione della responsabile realizzazione di sé, per arrivare al terzo titolo della trilogia, il romanzo Ballata di una donna nel quale Jong figura gli esiti non risolti del femminismo e si pone gli interrogativi del post-femminismo. E vorrei concludere ricordando la scrittrice francese Simone de Beauvoir. Nata a Parigi, fu fra le prime donne a cui venne consentito di completare gli studi all’ École Normale Supérieure. Di provenienza alto-borghese, già dall’adolescenza decide di dedicare la sua vita allo studio e alla scrittura e pertanto sceglierà di non sposarsi e di non avere figli. Legata allo scrittore Jean Paul Sartre, con lui contribuisce allo sviluppo e all’espressione della filosofia esistenzialista. Il suo libro Il secondo sesso, una ricerca nella storia dell’oppressione della donna, è diventato un classico della letteratura del Novecento. In questo libro de Beauvoir presenta, attraverso fonti storiche, letterarie e mitologiche, lo sviluppo dell’oppressione del maschio nei confronti della donna che lo conduce ad un oggettivazione della stessa come norma positiva. La querelle  continuerà, sostiene la scrittrice, finché gli uomini e le donne non si riconosceranno come uguali. Quale dei due sessi desidera maggiormente questa eguaglianza? Ella chiede e si chiede. La donna, che pur aspirando ad emanciparsi desidera tuttavia mantenere i privilegi? O l’uomo che la vuole mantenere nelle sue limitazioni? La verità, conclude, è che se il cerchio vizioso è così duro da rompersi, è perché i due sessi sono ciascuno la vittima dell’altro e di sé.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

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Flavio Almerighi – Lettere, Ed. Macabor, 2021

26 mercoledì Gen 2022

Posted by marian2643 in LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Flavio Almerighi, Lettere

 

Con Lettere Flavio Almerighi aggiunge un altro importante tassello alla sua produzione poetica. La raccolta, suddivisa in quattro sezioni, si presenta come una corrispondenza epistolare senza un preciso destinatario, un monologo per tutti e per nessuno, nel quale ogni lettore può riconoscere qualcosa di sé. La scrittura poetica di Almerighi è un arco che si flette in direzioni infinite, sempre riuscendo a centrare il bersaglio, ora con frecce appuntite di ironia, ora con amarezza o polemica verso un modus vivendi in cui non si riconosce, infine con lo sguardo amorevole verso gli affetti personali e con l’abbraccio dettato dall’umana pietas. Una cifra stilistica, quella di Flavio Almerighi, che sopravanza ogni stilema avanguardistico, pur avendone introiettato la lezione, e che ricusa la sovrabbondanza sentimentale conservandone il valore intrinseco. Nel corpo dei testi rinveniamo la durezza della condizione esistenziale (Messo al mondo, legato, in prova) e la tenerezza dell’affetto taciuto  (ti sia lieve la mia lettera/lanciata alta/assieme a un bacio); l’indignazione per la carica di odio razziale (Voi che siete uomini,/sporchi dentro e sporchi fuori,/uccidete i Cananei…ma siate civili,/caricateli su barche/senza remo né vela/e vengano dispersi in mare) e l’amore come male benefico (è sequenza di metastasi benigne/e anticorpi a renderle felici). La lingua poetica di Almerighi ha toni alti, modulate in forma lirico-colloquiale le sue lettere sapranno trovare la destinazione giusta.

 

Anna Maria Bonfiglio

 

 

Lettera per i diciott’anni

 

Piccola cara che non trovo,

ora sei scappata e dici

credi che non capisca?

Io indocile a chiederti

di finire il pranzo,

mi ostino a compilare

l’album della tua vita.

Sono troppo piccolo

per capire,

un po’ come quando si andava

da Gatteo a Villamarina.

Cercavo felicità

in molti libri

intonsi e a buon prezzo,

ora uomo e vela

affronto ogni colpo di vento.

Pochi metri vicina,

ora distante, penserai forse

che per i tuoi diciott’anni

non è andata così male.

 

 

 

Lettera

 

 

Ora tocca a te comprendere

l’estate sconosciuta

senza tradizioni di famiglia.

 

Candela flessibile

consumata sotto l’altare

di chi non crede,

carne e stoppino, là

dove spiaggiano desideri.

 

Dimmi tu di te,

quali siano le tue rondini

come mai sono già partite,

quanto ti spaventa e meraviglia

se un cane

vuole leccarti la mano.

 

Io sto qui

a cercare e vendere,

ho tutto sott’occhio

quando non precipito,

ti sia lieve la mia lettera

lanciata alta

assieme a un bacio.

 

 

 

Violaine

 

 

La vecchia barattava la pensione sociale

per un po’ d’aria,

non le importava il resto:

mangerò domani, ripeteva.

Altri tre baci e saranno quattromila.

 

C’era una radio accesa,

serviva un po’ di tempo per sentirla

per quelle valvole mai calde.

La musica partiva, scordavamo l’attesa

e il risalire di silenziose maree.

 

C’era un cielo dapprima sereno,

qualche nuvola innocente lo macchiava.

La pioggia,

così a lungo invocata,

declinava l’invito.

 

Una pazienza infinita,

storie da raccontare, prima,

durante e dopo il passaggio del fiume.

Il passato prendeva per mano il futuro

ogni giorno.

 

 

Uccidete i Cananei

 

 

Voi che siete uomini,

sporchi dentro e sporchi fuori,

uccidete i Cananei,

mangiatene figli e spose,

lasciate i feriti a terra,

muoiano poco per volta

divorati dagli uccelli:

uccidete quei senza dio,

uccidete i sacrifici umani

le biblioteche.

Uccideteli.

Hanno nuche tenere.

Date alla terra il loro latte,

il loro sangue nero

non importa l’età,

nascono e muoiono

col marchio d’infamia,

spargete sale sulle loro città,

vuotatele di ogni bene,

se necessario lasciate superstiti,

ma siate civili,

caricateli su barche

senza remo né vela

e vengano dispersi in mare,

a voi, signorine, ripeto,

investite il ricavato

in nuove armi per ripartire

un’altra crociata

 

 

Abbiate cura di voi,

dei vostri figli e della Legge.

Non trascurate di nascondere

quanto possa restarvi in tasca

in caso il diluvio

bussi alle vostre porte.

Vi diranno usurai,

mangiatori di carne umana.

Tutti ricorderanno Shylock

nessuno Gesù Cristo.

 

 

La Moldava

 

quel giorno di aprile,

dalla rovina sopravvissuti a stento,

bambini finalmente liberi

scendemmo in strada,

non c’erano tripudio e parate,

il tempo ci avrebbe rotto le mani

 

inspiegabilmente da lontano una musica

arrivò, infinitamente bella e nuova

dopo tanto tempo di macchine per cucire

sirene e rifugi

 

ci avvicinammo a una radio accesa,

col cuore commosso e niente altro

ascoltammo La Moldava

 

 

 

altre ombre

 

perduta da tempo

quel giorno tornò la neve,

stesso fruscio d’organza,

qualcosa fuggì

al normale raggiro

della ragione

 

come sussulto

a valle

mille anni dopo

luci accese

palazzine

pensiline

 

accartocciato sul cuore,

lo stesso foglio

dona alla luce altre ombre

fino a quando resteranno

confitti a terra

soltanto pensieri

 

dato un fruscio

la lettera s’imbuca,

il calamaio nero

rovesciato su preziosi amori,

cancella ogni coscienza

il cui principio è silenzio

 

 

Testi tratti da Lettere di Flavio Almerighi, Ed.Macabor, 2021.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL GUSTO DEL LIBERTY NELLA POESIA DI PAUL GÉRALDY

01 mercoledì Dic 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Paul Géraldy

Entra: ecco la camera confusa e provvisoria
 
dov’ero solo e dove aspettandoti vivevo,
 
e la mia tristezza con la sua lampada e gli armadi,
 
ed ecco il ritratto di mia madre a vent’anni.
 
 
Ecco le mie dispense e i miei poeti,
 
i dischi preferiti, i miei Bach e i miei Schubert,
 
il calendario nuovo dove con una croce
 
è segnato il giorno della tua festa,
 
e poi ecco i miei versi

 

Inizia così, con l’invito ad entrare nella propria camera, e quindi nella propria vita essendone la camera il luogo-simbolo, la storia d’amore  in poesia che Paul Géraldy ha intitolato TOI ET MOI. Storia  di due cuori che s’incontrano, si amano, si annoiano, si dividono e infine si ricongiungono, a perpetuazione di un’abitudine d’amore ormai tanto radicata da non poter essere divelta. Storia comune che la parola poetica riveste di fascino e fa assurgere a fatto unico. TOI ET MOI esce in Francia nel 1913, il suo autore è un giovane poeta che il tempo ha collocato nel limbo degli autori minori fino a consegnarlo all’oblio. La sua è una poesia che non suscita clamori, non presenta particolari innovazioni rispetto al tempo coevo e non si ascrive nel registro di movimenti o stili che hanno avuto peso nell’evoluzione della letteratura moderna. Eppure possiede una sua grazia di gusto liberty e rappresenta uno dei primi indizi di quella forma poetica di sapore realista che in seguito sarebbe esplosa con altri poeti di maggior fortuna, quale ad esempio Jacques Prévert. Paul Géraldy, al secolo Paul Le Fèvre, nato nel 1885 e morto nel 1983, è oggi un poeta sconosciuto ai più, tuttavia questo suo libro, che peraltro fu fra le sue opere quella più conosciuta, è un esempio di quella letteratura che agli inizi del secolo riuscì a coinvolgere un numeroso pubblico di lettori. Se proprio vogliamo fare dei collegamenti possiamo fare riferimento a quella letteratura definita rosa che nel primo dopoguerra sostituì  il sensualismo dannunziano con un romanticismo di carattere borghese. Paul Géraldy fu anche autore di testi teatrali che egli stesso chiamò “tragedie leggere”, drammi imperniati sui conflitti interiori e sui giochi psicologici dell’amore; inoltre pubblicò un libro di memorie dal titolo Carnet di un autore drammatico e un libro di massime sull’amore dal titolo Amore, appunti e massime.  Al suo stile, che fu definito mondano e leggero, non si può negare quel fascino, costituito appunto da un’apparente fatuità, che è lo stesso fascino di un’epoca che viveva il fermento della frattura con i canoni del classicismo. Le poesie di TOI ET MOI ricordano quelle cartoline inizio-secolo dalle immagini avviluppate da intrecci e ghirigori floreali, un gusto estetico che rappresenta il tempo in cui viene espresso, quel tempo definito belle époque che all’uscita del libro è al suo spasimo finale. Le poesie della raccolta sono di carattere colloquiale, una storia d’amore da leggere con lo spirito del tempo cui si riferisce e l’amore vi trabocca espresso con veemenza e spesso con sovrabbondanza di effusioni e di  tenerezze. Ricordiamo che al momento della sua uscita le atmosfere dannunziane impregnano ancora i salotti ed in simile contesto la poesia di TOI ET MOI può rappresentare un punto di rottura per la forma dell’espressione che si avvale di un lessico dove la parola non ha risonanze auliche né si esprime per simboli. La raccolta è una sorta di diario attraverso il quale il poeta ripercorre il cammino della sua storia d’amore, dal primo incontro alla conclusione. I versi sono la scarna rappresentazione della realtà, sono il quotidiano che si fa poesia per accogliere l’oggetto dell’amore ed inglobarlo in un mondo fatto di cose tangibili: i dischi, gli armadi, la lampada, il ritratto, e di tensioni intime, segrete: la malinconia, i versi. Mano a mano che la donna amata s’inserisce in questa realtà d’amore il discorso poetico si allarga e abbraccia una visione sempre più ampia dove trovano posto la malinconia per un distacco, la gelosia, l’incantamento, il dubbio, la tenerezza, l’inquietudine, il litigio.

Poesia d’atmosfera, talvolta resa con un fraseggiare di tenere dolcezze, talaltra comunicata con impalpabile lievità. Il registro colloquiale si impreziosisce a tratti di versi che lo illuminano e ne riscattano il dettato strettamente connesso alla banalità della vita quotidiana ( quella malattia di cui poco mancò che non morissi ; un profumo d’anima t’inventi che non ti conoscevo ancora; ci amiamo soltanto per avere cominciato). In un alternarsi di stati d’animo che vanno dall’esaltazione alla caduta si snoda una storia d’amore  resa unica dalla capacità del poeta di imprimerle un carattere speciale. Poesia di gusto liberty, si diceva, non solo per la descrizione dell’ambiente dalla quale emergono gli abiti, i cappelli, le lampade, le stanze, i satin, i pizzi, le frange, ma soprattutto per l’atmosfera che vi aleggia: raffinata, sospirata nei dialoghi, sospesa per gli interrogativi, gli esclamativi, le reticenze. Un quadro d’epoca che se da un lato rende datata la raccolta dall’altro ne fa testimonianza di tutto un modo di vivere e di vivere l’amore. Un piccolo documento di vita borghese in cui la poesia è l’estremo tocco di eleganza.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

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Natalia Ginzburg, la scrittrice della semplicità

22 mercoledì Set 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Il giorno 8 ottobre del 1991 ci lasciava Natalia Ginzburg, scrittrice, drammaturga, editor della casa editrice Einaudi. A trent’anni dalla sua scomparsa vogliamo ricordarla con questa nota che ne testimonia la vita e l’opera.

NATALIA GINZBURG, LA SCRITTRICE DELLA SEMPLICITA’

Nell’ottobre del 1991 ci lasciava una delle maggiori scrittrici del secondo Novecento Italiano, Natalia Ginzburg, romanziera, autrice teatrale e saggista. Nata a Palermo nel 1916 e vissuta fin dall’infanzia a Torino, dove la famiglia si era trasferita, pubblicò il suo primo racconto, I bambini, sulla rivista Solaria a diciassette anni, ma ancor prima aveva scritto altro e primo fra tutti Un’assenza, pubblicato da Einaudi negli anni Trenta sulla rivista Letteratura.

Natalia Levi (questo il cognome del padre di origine ebrea) è l’ultima dei figli di Leone Levi, medico e insigne docente universitario, e di Lidia Tanzi, milanese di confessione cattolica, nella cui casa si radunano intellettuali, scrittori e i politici avversari del fascismo; e come antifascisti Leone e i suoi figli maschi sono nel mirino del regime e arrivano a provare anche la prigione. La giovane segue privatamente le classi elementari, frequenta il liceo ma, iscrittasi all’Università, non arriverà mai a laurearsi. Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, docente universitario di origine russa e geniale autore di saggi e traduzioni. A causa della sua origine ebrea e del suo antifascismo egli viene perseguitato fino ad essere inviato al confino in un paese dell’Abruzzo dove lo raggiunge la moglie Natalia con i due figli, Carlo e Andrea, ai quali si aggiungerà dopo poco tempo l’ultima nata, Alessandra. E’ là che la Ginzburg scrive il suo primo romanzo, La strada che va in città, che però firma con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte e che Giulio Einaudi pubblicherà nel 1942. Nel 1944, dopo vari arresti e rilasci, Leone Ginzburg muore a Regina Coeli sotto le torture fasciste. Tornata a Torino Ginzburg lavora per la casa editrice Einaudi dove incontra e segue nei suoi primi passi Italo Calvino; nel 1947 pubblica il suo secondo romanzo, E’ stato così, al quale viene assegnato il premio “Tempo”. Nel 1950 sposa in seconde nozze il saggista e studioso di letteratura inglese Gabriele Baldini, direttore dell’istituto Italiano di Cultura di Londra, dal quale avrà due figli, Susanna, nata nel 1954 con un grave handicap, e Antonio, nato il 6 gennaio del ’59 e morto appena un anno dopo. A Londra, dove ha raggiunto il marito, scrive Le voci della sera. Con il romanzo Lessico famigliare, fra i suoi forse il più ricordato, vince l’edizione del 1963 del premio “Strega”. Una storia di famiglia e non un’autobiografia, come lei stessa precisa nell’avvertenza che precede la narrazione, perché non è di se stessa che l’autrice racconta, ma delle persone che costituiscono il nucleo familiare, padre, madre, fratelli, e di quelle che attorno a quest’ambito gravitano: personaggi del mondo della cultura, della vita politica e sociale, di quella letteraria e universitaria, un universo umano che si raccorda tanto con la Storia quanto con la vita individuale e privata di quelli che lo costituiscono. Lessico famigliare ricostruisce le vicende dei Levi in un arco di tempo che va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta raccontate attraverso la riproduzione del linguaggio che si parlava nella famiglia: quello dell’iroso padre Giuseppe, burbero ma amorevole, della madre Lidia, ilare canterina, dei litigiosi fratelli. I motti, i modi di dire che si ripetono sempre uguali nella routine quotidiana evocano momenti ed esperienze, in un continuo gioco di richiami, e costituiscono un cifrario che permette ai componenti della famiglia di riconoscersi. “Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso” – annota l’autrice nell’avvertenza al testo -“Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia”.
Nel 1969 Natalia Ginzburg rimane ancora una volta vedova. Durante gli anni ’70 inizia ad interessarsi attivamente di politica militando nelle file della sinistra indipendente, è anche un momento di fertile produzione letteraria, ai romanzi, ai saggi e agli articoli si aggiungono i testi teatrali, fra i quali Ti ho sposato per allegria, che viene rappresentato con rilevante successo. Nel 1983 pubblica La famiglia Manzoni, ricostruzione storico-familiare della stirpe dello scrittore, e contemporaneamente viene eletta al Parlamento come indipendente nelle liste del PCI. La scrittura della Ginzburg si distanzia da quella della generazione degli “impegnati”, essendo quello che scrive frutto della memoria e della fantasia che per istinto, e non per pratica programmata, si aggancia alla letteratura. La sua cosiddetta “semplicità”, il suo riferirsi all’esistenza con sguardo sereno, nonostante le dolorose vicissitudini, che produsse in Pavese una reazione di incredulità e di critica, è la risposta ad una letteratura manipolata e sperimentalistica, è l’analisi puntuale e discreta delle multiformi facce dell’esistenza e si connota per l’ironia, l’umanità ed il confronto con il vissuto. Natalia Ginzburg muore fra il 6 e il 7 ottobre del 1991, al suo funerale, che per scelta dei figli è officiato con il rito cattolico,  partecipa commosso il mondo della letteratura, dell’arte e del cinema.

Anna Maria Bonfiglio

 

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Fernando Lena, “Black Sicily”, Edizioni Arcipelago Itaca, 2020. Nota critica di Anna Maria Bonfiglio.

15 mercoledì Set 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Black Sicily, Fernando Lena

 

Fernando Lena nasce nel 1969 a Comiso, nella provincia di Ragusa, dove frequenta l’Istituto d’Arte e si diploma con la specializzazione di orafo per la produzione di gioielli. Appassionato di musica, inizia a scrivere negli anni ’80 testi di genere pop adottati e adattati da alcune band di amici, il suo primo “ispiratore” è quel genio ribelle e talentuoso di Jim Morrison dal quale Lena mutua la scrittura allucinata e metaforica. A Comiso ha l’opportunità di frequentare la fondazione creata da Gesualdo Bufalino, il quale lo spinge a pubblicare e lo indirizza alla lettura dei maggiori poeti. Per le edizioni Archilibri pubblica la sua prima plaquette ispirata da otto dipinti di Piero Guccione cui fa seguito il libro “Nel rigore di una memoria infetta” dal quale viene tratto lo spettacolo itinerante “La smorfia crudele di un bambino”. Risultato finalista al Premio Astrolabio, pubblica per la nota collana i Quaderni dell’Ussero il poemetto “La quiete dei respiri fondati”. Si tratta di una breve e intensa silloge i cui testi raccontano il dolore di alcune creature relegate nel manicomio criminale di Aversa. Qui la voce del poeta è nitida, velata dalla pietas e al contempo vibrante di rabbia per “l’indifferenza civile” che circonda quel luogo e i suoi abitanti: “da qui già si sente/l’odore estremo dell’emarginazione,/le mie vene lo conoscono/come conoscono l’alito dei cadaveri/mai del tutto seppelliti dall’indifferenza civile.” Nelle poesie che compongono il poemetto “Sette giorni per amarti -Andata e Ritorno” lo sguardo del poeta coglie la meraviglia di una conoscenza inaspettata, un incontro che fa fiorire il desiderio di vita e di amore in un contesto ambientale ben lontano dalla claustrofobica atmosfera di Aversa; i versi si sciolgono tra notte e giorno, cielo e mare, sole e luna, un quadro semantico che agglùtina elementi della natura e sentimenti umani, coloriture mediterranee e stati d’animo umbratili, nel racconto di un incontro e di un addio.

In questa recente raccolta, Black Sicily, Lena dimostra di avere maturato un’evoluzione sviluppando un corpo poetico che non attinge né alla dissoluzione dei poeti maudits né alla trasgressione dei poeti del post modernismo, direi piuttosto che le corde principali del suo registro siano ancora una volta il senso della umana pietà e la nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. Il discorso poetico si articola in due direzioni,  il presente e il passato, collegate da un invisibile filo che le ricompone in un unicum di dolente costrizione, il dialogo in assenza con il padre perduto si raccorda con la realtà vissuta nel presente dal figlio, un nodo che diviene ragione per prendere coscienza del male del mondo. Quante accezioni possiamo cogliere nell’aggettivo black, nero? Oscuro, malvagio, demoniaco, luttuoso… nero è il colore della perdita, nero il rimpianto, anche il ricordo può essere nero se porta con sé la consapevolezza di avere oscurato una parte di vita, nera è la terra che respinge, esilia. Con questo testo Lena aggiunge dolore al dolore ma lo fa con una coscienza nuova, accordando la sua cifra stilistica su una più “felice” risoluzione.

                                                                                               Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

I due abeti davanti casa

sono tutto quel che è rimasto

del tuo desiderio di padre,

li hai voluti piantare alla mia nascita

e ora sono quasi cinquant’anni

che non perdono un giorno d’ossigeno

mentre io di fiato ne ho perso

correndo in direzioni mai soleggiate,

ma al buio ahimè ci si abitua

per quel destino da talpa,

ma più che sottoterra

è stato sotto la pelle

che ho cercato a fondo un mondo

tenuto assieme dalle cicatrici.

 

 

            *

 

 

 V                                                     

 

(qualcosa di radicale)

 

 Questi, sono giorni aperti

alla luce della sera

come occhi velati di tapparelle

perché anche il freddo

è un pensiero che arriva dal mare,

davanti a te stamattina

qualcuno si scalda di noia,

tu apri il giornale e leggi

del figlio del muratore albanese

saltato in aria in cantina

mentre distillava grappa,

la potenza etilica ahimè

ha un qualcosa di radicale

non arma ma manda in pezzi

ogni vocazione di realtà.

 

 

*

 

VI

 

(appunti per un congedo)

 

Nella camera dell’ospedale

la sera giocavamo a carte

a lui sanguinavano le gengive

mentre mi diceva che era tutta colpa

di quel suo mestiere da carrozziere

si era avvelenato così l’unico organo

che avrebbe fatto chiarezza

su un futuro che sapeva di non avere,

però a carte era un Dio

mescolava il sangue del cielo

con il suo e il tempo sembrava

meno terminale di quanto non fosse

in un uomo che stava per morire.

Il tempo questa certezza

che ti lascia opaco

quando il sole si spegne

nel black out del respiro.

 

*

 

XIV

 

(Ipercoop)

 

Qualche volta devastato dal calore

ami fermarti in uno di quei centri commerciali

a misurare la solitudine su uno

di quegli scaffali, eppure quel cercare

non allunga il tempo del tuo

vanificare i vizi alle ghiandole,

tra fegato e pancreas ahimè

lo scirocco arriva sempre così

come un tumore araldico

e all’improvviso è nel luogo

in cui stai morendo di una morte in affitto.

 

*

 

XXV

 

Il silenzio è tragico

da queste parti in inverno

e gli agguati non sono

soltanto esplosioni di balistica,

sangue cieco, ma anche

piccole stanze che non odorano

di voci, di mosche stordite

incapaci di un atterraggio,

e intanto pensi

a come pensare qualcosa

di illuminato ti schiarisca

bene questo essere

un paroliere delle tenebre,

un killer di primavere.

 

*

 

 XXVIII

  

(treni)

 

I treni avevano infinite voci

abbandonate in uno scalo,

e qualche volta ci dormivi

pure con quei clochard

disorientati come quel ragazzo

che aveva attraversato una lingua di mare

per rimanere con quell’accento

del piccolo marinaio naufragato  nell’LSD.

 

Oceani e oceani di mostri

dalla parola dilatata

mentre il tuo continente

era un precipizio di caos.

 

 

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Mario Luzi e il rapporto con Palermo

08 mercoledì Set 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Il fiore del dolore, Mario Luzi

 

PALERMO, APRILE ’86

 

E’ placida Palermo sotto le nuvole.
Rari perforano gli aerei
la sfioccata coltre, s’infilano, ma quasi controvoglia, in questa
sgoccigliante domenica
d’aprile che assonna tutto il golfo.
(…)

 

Questo è l’incipit di una lunga poesia che Mario Luzi scrisse per Palermo in una delle sue tante visite alla città che amava e nella quale godeva di una cerchia di amici, intellettuali e poeti, con i quali condivideva gli interessi letterari. Come si evince dal titolo, era l’anno 1986 e al poeta fiorentino era stato assegnato il Premio Mondello per la raccolta di poesie “Per il battesimo dei nostri frammenti”, ma era anche il periodo storico in cui la città era oppressa dalle stragi di mafia ed è proprio della dualità della sua natura che la poesia parla, mettendo su piani opposti la ricchezza storica e ambientale di Palermo e la sua faccia delinquenziale. Il risultato è un testo di grande impatto emotivo per il linguaggio lirico e per l’accorata disamina di una realtà sociale dolorosa e spiazzante. Possiamo serenamente affermare che Mario Luzi a Palermo era “di casa”, accolto dagli amici del Circolo Culturale Pitrè, fra cui meritano di essere citati i poeti Elio Giunta, Lucio Zinna, Piero Longo, Paolo Messina, e in relazione con la rivista Spiritualità e Letteratura diretta dall’editore-poeta Tommaso Romano. Nel 1989 il poeta fiorentino compone il testo Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, rappresentato nel palermitano Teatro Biondo e in seguito in altre sedi teatrali; quindici anni dopo, su richiesta del regista Pietro Carriglio, scrive Il fiore del dolore, sull’assassinio di Padre Pino Puglisi, presbitero nel quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso da mano mafiosa e beatificato nel 2013.

Rappresentazione de “Il fiore del dolore” al Teatro Biondo di Palermo

Nel 1994 viene organizzata a Palermo una due giorni dedicata a Mario Luzi che si conclude al Teatro Biondo, dove il poeta incontra gli studenti dei licei classici palermitani, ed è in questa occasione che ho modo di avvicinarlo e scambiare con lui alcune battute. Ne viene fuori una breve intervista durante la quale il poeta esprime alcuni punti di vista sulla poesia e sui poeti del secondo Novecento. “Dire qualcosa di sé –esordisce- è difficile perché nel momento in cui ci si definisce siamo già diversi e quindi non ci possono essere formule nelle quali imprigionarsi. Tuttavia ho anche un passato sul quale posso tentare di rispondere, naturalmente con approssimazione perché la verità delle cose si può solo captare. La verità è fatta di cose imponderabili che non arrivano ad una concettualità definita.”

Nella sua Lezione sulla poesia contemporanea che tiene agli studenti Luzi afferma fra l’altro: “La poesia è sempre contemporanea quando incide nella sostanza dell’umano e approfondisce delle situazioni che sono universali e che ogni uomo nella sua temporalità può provare. In questo senso vi posso dire che la poesia più contemporanea è quella di Dante che ci insegna il rapporto strettissimo fra la parola e la cosa. L’eccezionalità della poesia di Dante è di avere conciliato il vissuto e il vivente con quello che è l’aspirazione dell’uomo a ritrovare un’armonia e un’unità a cui la storia fa violenza. La poesia di Dante non esaurisce mai il suo messaggio, è quella più compiuta perché ha aderenza con la vita e con l’esperienza e per questo non invecchia, ma anzi è richiesta dallo spirito umano per fortificarsi.”

Gli porgo qualche domanda: “Sappiamo di tante occasioni che hanno visto la sua presenza a Palermo, posso chiederle se quello con la nostra città è un rapporto privilegiato?”

Risposta: “Direi di sì, conto qui parecchi amici con i quali ho rapporti costanti ed affettuosi.”

D. “Si parla spesso della morte della poesia, qual è la sua opinione in proposito?”

R. “Queste sono baggianate che si sono sempre dette. E del resto la poesia vive della sua morte.”

D. “Pensa che l’esercizio della poesia sia più difficile in questo nostro Sud un po’ emarginato rispetto alla cultura imperante?”

R. “Direi di no. Magari ci sono difficoltà pratiche per la divulgazione della poesia, ma se c’è un convincimento di fondo non è possibile chiudere la bocca al poeta.”

D. “Ritiene che oggi la poesia possa avere ancora una funzione educativa?”

R. “Sì, certo, non necessariamente in senso pedagogico. La poesia è una sostanza profonda di cultura e di moralità che non può non lasciare traccia. Libertà interiore e spazio individuale, questo il lascito della poesia a chi la frequenta.”

D. “Un’ultima domanda, inevitabile quando si parla con un poeta: perché e per chi si scrive poesia?”

R. “Il poeta scrive perché si compia il destino della parola che è quello di essere ascoltata.”

Rileggendo le testuali risposte di Luzi ci si può rendere conto di quanto le sue parole, ancora dopo tanti anni, siano attuali.

ANNA MARIA BONFIGLIO

 

Palermo, aprile ’86

 

E’ placida Palermo sotto le nuvole.
Rari perforano gli aerei
la sfioccata coltre, s’infilano, ma quasi controvoglia, in questa
sgoccigliante domenica
d’aprile che assonna tutto il golfo.
Poi calano sulla lontana pista.
Nessun altro frastuono arriva, il rombo
ed il marasma
hanno lasciato le sue strade,
neppure l’ululato
delle molte ambulanze e delle scorte
ora la traversa.
Gli scatti e i morsi,
gli stolzi ed i sussurri della sua oscura malattia
conoscono un inspiegabile letargo.
Le muraglie e le cupole si staccano
sui chiostri e sui giardini
in un chiarore infido, morbido.
Tranquillo il porto e i bacini,
semideserte e le banchine,
mediocre la stazza delle navi.
I rimorchiatori sono fermi.
Si purga dai suoi mali o altri ne prepara
Palermo in questa oasi
se è un’oasi che si è aperta nel suo ventre, come pare,
e non un’officina di crimini e morte
intenta a un più subdolo lavoro
che così si affina…
Immagino soltanto o subodoro
mi daranno orribile certezza? Interpellati
i miei amici di qua
sono simili a uomini di mare
per cui nulla è imprevedibile,
sono aperti a ogni segnale
e catafratti a ogni male, sebbene sotto sotto
amari, sebbene non rassegnati al peggio.
Saprò forse domani che questo splendido torpore
era fitto di crude operazioni, ed anche
questo abbaglio
ingannevole ci ammalia… così è Palermo.

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TRE DONNE

31 mercoledì Mar 2021

Posted by marian2643 in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Il profumo del mandorlo


ALBA

Dopo un inverno interminabile, flagellato da piogge e nevicate, finalmente era arrivato il sole. Dentro l’auto la temperatura era alta, nonostante dal finestrino aperto entrasse qualche refolo di vento. Era la prima volta che si incontravano, dopo un paio di mesi trascorsi nella burrasca di eventi che avevano turbato l’armonia della loro amicizia. Fra di loro, adesso, aleggiava un silenzio fatto di parole vuote, di frasi stereotipate, e infarcito di commenti banali sul traffico domenicale. Parole che nascondevano la paura di dire o di ascoltare altro da quel repertorio di idiozie che si stavano scambiando. Saveria guidava sbuffando, grattava le marce ed inviava occhiate preoccupate all’indicatore del carburante. Gloria mostrava il suo solito sorriso accomodante e tentava di distrarre Saveria dal suo nervosismo raccontando che aveva fatto la pulizia del viso, che la sua collega Gisella era affetta da una labirintite e che le piante del suo terrazzo si stavano riprendendo dopo le gelate subìte. Le piante (ma avrebbe potuto essere qualunque altra cosa) avevano riportato Diego alla mente di Alba. La floricoltura era un interesse che lui e Gloria condividevano, chissà quante volte Diego le aveva portato piantine e bulbi e aveva colto per lei le rose del suo piccolo giardino, così come una volta, non troppo tempo fa, le raccoglieva per lei, confidandole che raramente si risolveva a strappare i fiori dalle piante se non per casi eccezionali e assegnando al gesto un valore ben più grande di quello che gli si potesse attribuire. Emozionata, Alba s’inebriava al profumo di quel mazzetto di fiori e, appena appassiti, ne riponeva qualcuno fra le pagine di un libro. Chissà se anche Gloria conservava i cadaveri degli omaggi floreali di Diego.

            Fra strappi e frenate erano giunte sul viadotto San Michele. A destra, invisibile ma perfettamente delineato nella sua memoria, sorgeva il rustico di Diego, il loro rifugio; era il luogo della loro intimità, dove, dopo l’amore, restavano a parlare a lungo, di poesia, di esoterismo, di amici comuni. In uno di quei pomeriggi Diego aveva portato con sé un mazzo di tarocchi e aveva cercato di istruire Alba sulla loro simbologia. Le aveva raccontato di suo nonno, che “leggeva le carte” ed aveva avuto fra i suoi clienti nientemeno che Mussolini. Lei lo ascoltava e si appassionava ai racconti di lui, le si apriva la visione di un mondo infinitamente lontano da quello che era stato ed era il suo. Ora provava una fitta di nostalgia al pensiero che non avrebbe mai più ritrovato quelle ore rubate al monotono fluire delle sue giornate. E si diceva che era strano come quei gesti comuni potessero, in retrospettiva, apparire assoluti e insostituibili.

Imboccato il vialetto d’accesso, ecco la casa che Saveria e Gloria da due anni avevano preso in affitto per trascorrervi le estati. Mancavano da sette mesi, da quel settembre che le aveva viste, entusiaste, organizzare grigliate e country-party. Era stato durante l’ultimo di quei party che lei aveva avuto le prime avvisaglie di quello che sarebbe accaduto. Diego si era mostrato annoiato, manifestando attenzioni solo per Gloria. Alba si era accusata di essere la solita sospettosa, si rimproverava la sua mancanza di fiducia e la sua ossessione nei confronti di Diego.

            Dopo avere indossato i grembiuli e i guanti da giardinaggio, Gloria e Saveria si erano date da fare con zappe e rastrelli per sistemare le aiuole e piantare le nuove talee. Alba stava distesa sulla sdraio con il viso rivolto verso il cancello. Sul vialetto transitavano le macchine dei vicini e ad ogni passaggio lei trasaliva immaginando di stare aspettando Diego. Sapeva che non sarebbe successo, Diego non le avrebbe più raggiunte. La sua era diventata una presenza negata che pure s’imponeva con il peso dell’assenza. Forse ci sarebbe stata meno amarezza se fra loro tre avessero potuto parlarne, ma parlarne avrebbe significato sollevare la cortina dell’ignoto, aprire il vaso di Pandora ed essere pronte a sopportarne i venefici vapori.

Alba si domandava perché mai aveva acconsentito a trascorrere questa giornata proprio lì, dov’era più presente il ricordo delle recenti vicende, con Saveria e Gloria, testimoni e complici del sovvertimento che aveva investito la sua vita.

            Mentre Gloria si allontanava per una doccia, Saveria si dedicava alla preparazione del barbecue e, mentre spezzava legnetti e ammucchiava foglie secche, rivolgeva ad Alba uno sguardo affettuosamente indagatore: “Allora, come va?” E in questo interrogativo si affollavano una quantità di domande. Alba sapeva che Saveria avrebbe voluto aiutarla, che avrebbe voluto condividere il suo disagio e darle i giusti consigli, ma non voleva leggere nello sguardo e nelle parole dell’amica il larvato compatimento, preferiva sorriderle e dirle che andava tutto bene.

GLORIA

Quell’aria da vedova inconsolabile che aveva assunto Alba la irritava. Certo, avrebbe voluto farla sentire in colpa e lei detestava sentirsi in colpa. La rodeva la curiosità di sapere se stava ancora con Diego o se avevano rotto, ma Gloria era decisa a non cadere nella sua trappola. Temeva di lasciarsi prendere dal nervosismo e non voleva che succedesse, sarebbe stato fare il suo gioco. Sotto la doccia, mentre lasciava che l’acqua le scorresse addosso, pensava che  non era possibile far finta che non fosse successo niente e dimenticare le ore che lei e Diego avevano trascorso in quella casa. Era stata un’estate bellissima. Arrendersi alle attenzioni di Diego era stato sorprendente. Anche se aveva cercato di non prenderlo troppo sul serio, alla fine aveva vinto lui.

Alba e Saveria si stavano occupando del fuoco, le vedeva vicine vicine a parlottare. Immaginava che anche Saveria avrebbe voluto scavare nella sua vita e ricevere le sue confidenze. Quando aveva saputo di lei e Diego si era mostrata contenta, ma ora le sembrava che tutta la sua comprensione fosse per Alba. Perché alla fine sono i perdenti che stuzzicano quella parte pronta alla commiserazione, sono quelli che suscitano simpatia e per i quali si parteggia, ma Gloria a questa simpatia rinunciava volentieri, preferiva essere considerata fredda e inattaccabile e non tutta sospiri e malinconie, reclinata come un ciclamino moribondo.  Guardava il rametto di lunaria appeso alla maniglia della finestra che le aveva portato Diego in un meriggio di grilli. In ognuna di quella piccole foglie argentee le sembrava fosse rimasta impigliata la luce dei suoi occhi, quella luce che le aveva regalato attimi di stupore.

 

SAVERIA

Le faceva rabbia che Alba e Gloria non stessero assaporando il gusto di quella giornata che avrebbe potuto dissipare la tensione. Mostravano un atteggiamento innaturale, ed era chiaro che fra di loro l’ombra di Diego aveva scavato un percorso buio che nessuna delle due voleva percorrere. Forse se avesse  raccontato loro di quella mattina di dicembre in cui Diego le aveva chiesto d’incontrarla, sarebbero riuscite a ritrovare un briciolo di buonsenso e avrebbero smesso di pensare a Diego come al più grande bene perduto.

Quella mattina, seduta di fronte a lui al tavolino di un bar, dopo averlo ascoltato aveva pensato che la sua anima era come il suo corpo, scarna, sdutta, in una parola: minuscola. E come il suo corpo si raggomitolava e scompariva nel cavo della poltroncina che lo accoglieva, così la sua anima si avvolgeva su se stessa e si ricopriva per rendere invisibile il poco di sé.

            Diego l’aveva guardata con uno sguardo nuovo, diverso da quello che conosceva e lei aveva cominciato a sentirsi a disagio.

            “Ebbene- aveva detto ad un certo punto- di cosa volevi  parlarmi?”

            “Ho una storia con Gloria – aveva risposto lui senza indugio- ma è una cosa che non sta in piedi, iniziata per noia e continuata per inerzia. Qualcosa a cui non ho dato nessuna importanza.”

            “E perché allora me ne stai parlando?”

            “Perché è con te che vorrei stare.”

            “E Alba?”

            Lui aveva alzato le spalle con noncuranza.

L’indifferenza ed il cinismo con i quali stava mettendo in gioco i sentimenti di Alba e di Gloria l’avevano sconcertata. Aveva sempre pensato a lui come ad un uomo leale, lo aveva considerato un amico, una persona di cui fidarsi ed ora invece le appariva un gran bastardo che non si faceva scrupolo di usarle per riempire i suoi vuoti.

Prima di avviare il motore Saveria aveva dato un’ultima occhiata al cancello,  aveva abbracciato con lo sguardo casa e giardino per assicurarsi che tutto fosse a posto, infine aveva imboccato il vialetto per tornare sulla carrozzabile. Lungo la strada bar e pizzerie avevano acceso le insegne, il mare aveva preso il colore del piombo fuso ma, al largo, residue macchie di smeraldo ricordavano il lucore mattutino. In fondo era stata una buona giornata, calma e riposante, solo percorsa da una segreta vena di malinconia.

Saveria adesso guidava tranquillamente, in silenzio. Gloria aveva poggiato la testa allo schienale ed aveva chiuso gli occhi, Alba teneva ostinatamente lo sguardo al di là del finestrino. Si stava lasciando alle spalle, questa volta per sempre, il viadotto San Michele, il rustico di Diego e l’estate di un anno da dimenticare. Diego era un fantasma, un’ombra che non sarebbe sparita alla prima luce della nuova stagione, l’avrebbero incontrata ancora, nelle parole che avrebbero taciuto, negli occhi degli amici che avrebbero domandato di lui e forse l’avrebbero portata a lungo dentro come un dolore incarnito. Saveria pensava che qualcuno avrebbe dovuto spezzare quella specie di incantesimo che le teneva inchiodate come statuine di cartapesta sul loro trono di gesso e quel qualcuno non poteva che essere lei. Allora aveva fermato l’auto sulla prima piazzola di sosta che aveva incontrato e aveva detto: “Bene, ragazze, è arrivato il momento che vi racconti una storia.”

Anna Maria Bonfiglio

 

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Gino Pantaleone,  Lĭbĕr – Storia della scrittura, biblioclastie, letture resistenti – Ed. EXLIBRIS. Intervista all’Autore a cura di Anna Maria Bonfiglio.

24 mercoledì Mar 2021

Posted by marian2643 in Interviste

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Gino Pantaleone, Lĭbĕr – Storia della scrittura

 

 

Con questo libro, frutto di accurate ricerche e di paziente studio, l’autore compie un’operazione di carattere divulgativo in seno alla storia della scrittura dalle origini ai nostri giorni, un excursus narrativo e critico che riguarda il prodotto libro nella sua evoluzione, dai primi segni ai codici miniati fino alla stampa, per concludere con la problematica del loro rifiuto da parte delle istituzioni attraverso il rogo. Un “libro sui libri” a certificare il valore e l’importanza che essi hanno avuto e hanno nell’evoluzione della Storia.

INTERVISTA  ALL’AUTORE

  • E’ uscita lo scorso autunno la tua ultima, in ordine di tempo, pubblicazione, Lĭbĕr, un volume di carattere divulgativo che racconta la Storia della scrittura dalle origini ai giorni nostri. Come è nata l’intenzione di affrontare un argomento così impegnativo e quale è stata la finalità che pensavi potesse avere un libro di questo genere?

Come tu ben sai ogni scrittura nasce da diverse esperienze che convergono e si concentrano fino a diventare un tema ben preciso. Ascolto, letture, studi approfonditi… la lettura dell’Epopea di Gilgamesh sumerico, del Libro dei morti egiziano, la visita alle grotte dell’Addaura, vederne i graffiti, ad esempio, sono state esperienze illuminanti. Un altro imput è stato pure l’aver presentato, da relatore, insieme al poeta Lucio Zinna, il primo volume della Storia della poesia del prof. Salvatore Lo Bue, che riguarda proprio la poesia mesopotamica ed egiziana. Il resto lo hanno fatto l’amore per i libri antichi che ho visto in varie biblioteche della Sicilia, i codici miniati, vere e proprie opere d’arte, la formulazione di un ragionamento sul perché si bruciano i libri e sul perché i libri e la loro lettura invece appassiona così tanto sino alla dipendenza. Tutto questo mi ha fatto approfondire questa ricerca. Al solo pensiero che l’Epopea di Gilgamesh, questa grande e potente opera, fu scritta in una serie di tavolette di 30cm per 30cm con caratteri incomprensibili ai più, ed oggi invece la possiamo leggere tutti, dico tutti, scritta nel nostro codice alfabetico, tutto questo non è strabiliante? Io spero che queste mie curiosità le abbiano anche i potenziali lettori del libro, di Lĭbĕr.

  • Lĭbĕr è un testo sui generis, non si inscrive nella categoria della narrativa né della saggistica e meno che meno in quella della poesia, a quale genere di lettori hai pensato nel comporlo? E quale è stato il nucleo generativo del libro?

Per la stesura di questo volume ho consultato diciotto libri, quindici siti specializzati, ho dovuto chiedere alcune autorizzazioni per la pubblicazione di immagini a musei, siti e persone; alcuni mi hanno chiesto soldi, altri mi hanno negato di pubblicare, ad altri è bastato inviargli due copie del libro per farmi pubblicare un’immagine (ad esempio il Museo delle Civiltà di Roma per la Fibula Prenestina). Ho visitato due biblioteche per completare il lavoro sui codici miniati ed ho pubblicato foto di libri fatte sui leggii e tra gli scaffali. Insomma, vista la vasta mole di lavoro nella ricerca, penso che Lĭbĕr si avvicini più alla saggistica. Se lo avessi scritto per ciò che ho letto, sarebbe diventato un vero e proprio macigno, io, invece, ho pensato di renderlo fruibile a tutti raccontando si, l’evoluzione della scrittura, ma includendo momenti di vita vissuta e inserendo un cospicuo numero di curiosità che, nel complesso lavoro di interpretazione delle varie scritture, diventano lo stimolo principale, il vero sale della lettura di questo volume. Penso che i lettori di Lĭbĕr potrebbero essere i buoni lettori di libri, in quanto libro che parla di libri nella sua storia, nella sua nascita, nelle forme assunte nel tempo, nei materiali utilizzati sino all’invenzione della stampa. Altri lettori potrebbero essere coloro che amano conoscere l’evoluzione delle varie forme di comunicazione, dal graffito, alla cuneiforme, al geroglifico, al primo alfabeto fenicio, il susseguirsi delle varie scritture sino al latino e al medioevo da cui la nostra lingua attuale ha preso forma.

  • Prima di Lĭbĕr tu hai pubblicato quattro raccolte di poesia, due saggi e un testo che raccoglie le interviste ad alcuni poeti palermitani di lunga militanza, tre diverse categorie di scrittura, quale delle tre è stata quella a cui ti sei accostato per prima, e quale quella che senti ti appartenga maggiormente?

Il mio primo amore indubbiamente è la poesia. Chi mi conosce bene, e tu sei una di queste, sa bene da quanto tempo io mi sono gettato sui versi anche se il mio primo libro è datato 1995, Urla di dentro e il secondo 1997, Io così, se volete. Si, è vero, poi sono sparito. Per una decina d’anni, ho dovuto affrontare una parte impegnativa della mia vita, anche se, nel frattempo ho ascoltato, e per ben quattro anni, le lezioni di Poetica e Retorica a Lettere tenute dal prof. Salvatore Lo Bue. Poi, nel 2007 è uscito Il vento occidentale, altra raccolta di poesie. Quindi, amo la poesia, sentita, studiata, approfondita. Il libro che tu citi sulle conversazioni intraprese con poeti e poetesse siciliane di lunga militanza, tra le quali ci sei anche tu, mi ha dato possibilità di prendere consapevolezza di molti fattori relativamente alla funzione creativa, alla formazione dello stile, all’evoluzione personale della versificazione soggettiva in riferimento alla propria vita vissuta, alla propria esperienza, al proprio modo di interpretare la poesia. Un altro lavoro-studio per me questo testo, penso anche un ottimo abbecedario per chi vuole intraprendere questa complessa strada che ha come obiettivo finale spandere bellezza. I miei libri mi appartengono tutti, ma se devo fare un resoconto affettivo, il saggio al quale sono più legato è Il Gigante Controvento – Michele Pantaleone, una vita contro la mafia, è stato quello che ha avuto un consenso indescrivibile, ho fatto più di settantacinque presentazioni in Italia tra circoli culturali, sedi di associazioni e scuole di ogni ordine e grado. A zio Michele (lo chiamavo così ma non abbiamo mai saputo se fummo parenti), uomo scomodo e per questo diffamato e delegittimato, glielo dovevo. Ed è anche grazie al libro che allo scrittore di Villalba è stata dedicata una via a Palermo.

  • Quale fra i tuoi libri finora pubblicati è quello di cui ti senti maggiormente soddisfatto e perché?

Tra i libri di poesie, per quello che mi riguarda, i Canti a Prometeo sono quelli che sento più vicini a me in quanto hanno avuto una lavorazione di ben undici anni. Un genere poetico fuori moda trattandosi di ventidue sonetti, un lunghissimo lavoro di labor limae, che avrò abbandonato e ripreso centinaia di volte, iniziato nel 2007 e che ha visto la luce solo nel 2018.

Per la saggistica penso proprio che Lĭbĕr sia il frutto di una giusta ed equilibrata maturazione anche se non mi aspettavo questa grande attenzione che quotidiani, riviste, programmi radio, scrittori e amici comuni stanno dando al testo. Evidentemente l’oggetto libro, nel suo essere estremo, pericoloso sino ai roghi e bello sino alla dipendenza, desta eterno interesse.

  • Quali sono stati gli artisti, poeti o scrittori in prosa, che hanno contribuito alla tua formazione di autore letterario e in che modo?

Autori che ho studiato a fondo e che mi hanno segnato in genere nella poesia sono Shakespeare, Dante, Leopardi, Pessoa, Negri, Rilke, Caproni, Achmatova, i Lirici Greci, Hemingway, Tagore, Baudelaire, Horderlin, Merini… l’elenco è lungo ma questi credo siano da me i più letti e apprezzati. Narrativamente Dostoevskij, Valery, Yourcenar, Calvino, Balzac, Goethe, Mandel’stam, Pirandello, Wolf, Wilde… anche qui, l’elenco è lungo ma ho citato quelli che mi sono venuti per prima. Leggo soprattutto e volentieri i poeti e le poetesse di casa nostra, che conosco e che apprezzo. La lettura è una forma di apertura a trecentosessanta gradi. C’è chi scrive della cruda realtà, chi invece è visionario e rappresenta l’inesistente, chi riesce a raccontare i propri sogni, c’è chi sta a cavallo tra il sogno, la visione e la realtà. Ed è da queste letture e dalle personali prove di scrittura che ognuno di noi forma il proprio stile che diventa il vero suggello, come la firma in calce.

  • Quali sono i tuoi prossimi progetti di scrittura?

Dopo aver scritto un libro per bambini dal titolo Alice in wonderland a Palermo, fra non molto verrà pubblicato Alice in wonderland sul Parco delle Madonie, patrocinato proprio dall’Ente Parco delle Madonie. Così come Alice sogna e si perde a Palermo descrivendone le bellezze e facendosi descrivere i posti più belli di Palermo da personaggi inesistenti, la stessa cosa succede sul Parco delle Madonie attraversando i quindici comuni che lo rappresentano in un racconto realistico e nello stesso tempo fantastico. Per il resto sto tornando alla poesia con i miei Studi sulle attese. Si, si chiamerà così la mia prossima raccolta di poesie, ma per il momento non diciamolo a nessuno.

Gino Pantaleone

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Gino Pantaleone è nato e vive a Palermo. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia, tre saggi di carattere socio-politico e il libro di interviste ad alcuni autori siciliani Entronautica. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in campo nazionale fra cui il premio speciale della giuria al concorso letterario Piersanti Mattarella. E’ autore di una rivisitazione della fiaba di Alice dal titolo “Alice in Wonderland…a Palermo”.

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IL DOLORE DEL VIVERE ~ Note sulla poesia di Camillo Sbarbaro

24 mercoledì Feb 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Camillo Sbarbaro

 

Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicoli

carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia

mobile di un rigagno…

 

Questo è l’incipit dell’epigramma che Eugenio Montale scrisse per Camillo Sbarbaro in esergo al suo libro Poesia e prosa, curato da Vanni Scheiwiller e prefato dallo stesso Montale, una sestina in cui è racchiusa tutta la potenza simbolica che l’autore assegna alla poetica del ligure: un universo esplorato con l’occhio limpido del fanciullo che gioca “con carta colorata” alla rappresentazione di una vicenda esistenziale intessuta di piccole cose. In Fuochi Fatui lo stesso Sbarbaro parlò di se stesso assimilando i suoi repentini stupori a quelli di un fanciullo “ammesso a far man bassa in un emporio di giocattoli”. Nella sua prosa frammentistica, che non raramente tocca punte di autentica liricità, il poeta ritorna sovente al suo mondo di fanciullo come a un’isola dove solo è possibile spegnere quel disagio nei confronti della vita che è la costante espressione della sua poesia.
L’arte di Sbarbaro ha una genesi indecifrabile, è un nodo di autobiografismo vago, privo di qualsiasi sostegno documentale, nasce e “si fa” voce di un sapere lucido, disincantato, espressione sostanziale di un’esistenza che ha un solo punto fermo, la natura, al cui contatto l’uomo-Sbarbaro approda ad un’autentica emozione. La natura, sola presenza benefica in un mondo che lo lascia indifferente, riscatta la povertà di avvenimenti della sua vita, cura gli stati di nevrosi che a periodi lo colgono, lo riconcilia con una realtà che, pur nel suo fondo di avarizia, può dargli ancora qualcosa: (Benedetto amore. Oggi che ho il piede sulla soglia, pochi passi bastano per raggiungere l’uliveto sul mare, dove per ore, in silenzioso a tu per tu con una muriccia di fascia, passerò di gioia in sorpresa…).
La sua vita è come divisa in due corpi: da una parte la letteratura, dall’altra la scienza, che pratica come lichenologo, e nello stesso tempo unica, quando dall’una e dall’altra si distacca per contemplare con pena irreversibile il sentimento del dolore: (Vedo allora che nulla nella vita/ è buono e nulla è triste, ma che tutto/ è d’accettare nello stesso modo;/ e penso che convenga rassegnarsi/ ché tutto eguaglia la necessità).

Camillo Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure nel 1888. Il padre Carlo, ingegnere e architetto, è un militare a riposo, la madre è Angiolina Bacigalupo. Ammalatasi di tubercolosi, Angiolina morirà nel 1893 affidando i suoi due figli Camillo e Clelia alle cure della sorella Maria (la Benedetta a cui Sbarbaro dedicherà le poesie di Rimanenze). Dopo un breve soggiorno a Voze, nel 1894 la famiglia si trasferisce a Varazze, dove Camillo frequenta le scuole fino al ginnasio. Nel 1904, incoraggiato dallo scrittore Remigio Zena, inizia la sua attività poetica. Frequenta il liceo a Savona dove ha l’occasione di conoscere il filosofo Adelchi Baratono, fratello del suo futuro amico Pierangelo.
Dopo aver conseguito il diploma Sbarbaro si impiega nella Società Siderurgica di Savona. Nel 1911 la società viene assorbita dall’Ilva di Genova e Sbarbaro è costretto a trasferirsi nel capoluogo ligure. In quello stesso anno, grazie ad una sottoscrizione dei compagni di liceo, viene stampata Resine, la sua prima raccolta di liriche. Successivamente le sue poesie e la sua prosa lirica compaiono sulle maggiori riviste letterarie italiane: La Riviera Ligure, Lacerba, La Voce.
Allo scoppio della prima guerra mondiale decide di abbandonare la mal sopportata vita impiegatizia e si arruola volontario nella Croce Rossa Italiana. Alternandosi tra le trincee e le retrovie scrive le prose più belle dei suoi Trucioli. Nel 1927 comincia ad insegnare all’Istituto genovese Ariecco dei Padri Gesuiti, ma lascia improvvisamente l’incarico per non dover subire la tessera del Fascio che gli era stata imposta. L’anno seguente escono nel volume Liquidazione alcune delle prose scritte negli anni postbellici, che testimoniano il definitivo passaggio da un gusto vociano-frammentista ad una più costruita e complessa prosa d’arte. Nel 1928 Sbarbaro vende a Stoccolma un primo importante erbario di muscinee. Nel 1931 esce la rivista Circoli, fondata da Adriano Grande, che nel primo numero ospita i suoi splendidi Versi a Dina, piccolo canzoniere amoroso. Il rapporto col regime si complica e l’anno successivo la censura esige tagli e soppressioni dalle bozze del suo nuovo libro, Calcomanie, che non vedrà la luce se non nel 1940 in una versione dattiloscritta allestita per gli amici in venti copie. In seguito al bombardamento navale di Genova (9 febbraio 1941) si trasferisce a Spotorno con la zia e la sorella. Vi resterà fino al novembre del 1945, iniziando una feconda attività di traduttore dei classici greci e francesi. Nel 1914 per conto de La voce era stata pubblicata a Firenze la silloge Pianissimo. La raccolta è un monologo dal tono dimesso, quasi soffocato, espresso in endecasillabi. La tematica esistenziale presenta ampi squarci di tormento interiore articolato senza alcuna violenza linguistica, i testi si offrono al lettore come pronuncia scabra ed essenziale di un’angoscia che non trova conforto. Il poeta si vede come sdoppiato, un uomo che cammina portandosi appresso un’anima che “la sirena del mondo” non può incantare; tutto ciò che lo circonda è quello che è, nessuna illusione, ma la rassegnazione a una condizione di vita segnata dall’indifferenza.

L’accostamento alla tematica di ispirazione leopardiana, di cui si è parlato a proposito della poesia sbarbariana, si arena quando più si fa evidente la reale differenza che intercorre fra le pulsioni dei due autori: la poesia di Camillo Sbarbaro condivide con quella del Leopardi il sentimento di sordo dolore nei confronti della vita, ma se ne distanzia per la fondamentale disposizione dell’anima. Sbarbaro non piange i sogni perduti, le illusioni tradite, il desiderio di ciò che non è possibile possedere, che nel Leopardi sono filosofica affermazione di una condizione di vita comune a tutti gli uomini, ma si fa testimone di una sua personale solitudine interiore, generata dall’aridità che lo circonda, e scioglie il dolore che lo raggela in un canto cupo e impietrito. La sua poesia è sfiducia nei confronti della vita ma allo stesso tempo segno di un forte attaccamento ad essa anche nell’epifania del dolore. (Per la felicità grande di piangere/per la tristezza eterna dell’amore/per non sapere e l’infinito buio…/per tutto questo amaro t’amo, Vita).
Sbarbaro vuole scontare la vita. Inerte, atono di fronte all’esistenza non ne rifiuta neanche la più piccola parte, sa che il vuoto attorno a sé sarà per sempre ma di questo non piange. Non semplice accettazione, dunque, ma meditata resa ad una condizione che non può essere diversa. La solitudine di Sbarbaro è una reclusione fatale che gli permette di osservare la realtà con occhio oggettivo. Il suo canto di dolore si innerva su due motivi: lo sconforto universale, generato dalla consapevolezza che nessuno può sottrarsi all’ineluttabilità dell’esistenza, e la pena privata, una sofferenza tutta personale, radicata nel fondo della coscienza. A questo dolore il poeta non può e non vuole rinunciare perché in esso configura la vita stessa: (perché quando non soffro neppur vivo). Quella che egli stesso definisce “la condanna d’esistere” investe tutta l’umanità ed ecco che la sua pena diviene dolore del mondo e dei tanti condannati sorridenti che vanno verso l’abisso dell’esistere, egli “s’impaura”.

A proposito di Pianissimo si è parlato anche di matrice culturale baudelairiana e non è difficile rilevare che alcune liriche offrono molti spunti che autorizzano un accostamento alla poesia di Baudelaire. La tematica di Sbarbaro apre un varco verso la concezione della poesia moderna del secondo Novecento, così come quella di Baudelaire fu uno spartiacque fra la poesia del primo Ottocento e quella che si avviava a rappresentare un modello di umanità calata nell’era della prima rivoluzione industriale. L’atonia vitale, la pietrificazione interiore dell’individuo che assiste da spettatore inerte alla vita, la frantumazione della propria identità nei rapporti con il mondo esterno, sono la misura del disagio che l’uomo Sbarbaro avverte nei confronti di un’esistenza che subisce.

I sentimenti del poeta si sciolgono solo nel canto che gli affetti familiari gli sanno suscitare e al padre egli rivolge il suo pensiero purificato dall’immanente presenza di quel dolore che suscita la consapevolezza della perdita: “Padre che muori tutti i giorni un poco/e ti scema la vita e più non vedi/con allargati occhi che i tuoi figli…”, versi che implicano il senso dell’impotenza escatologica e la pena della solitudine senza speranza alla quale l’indifferenza della vita condanna l’uomo. Il rimpianto di non aver saputo esprimere concretamente i sentimenti che lo legano alle persone care corrode l’anima del poeta che cerca riscatto e salvezza nella propria capacità di ancorarsi al dolore: “Voglio il Dolore che mi abbranchi forte/e collochi nel centro della Vita”.

Elemento necessario e catartico, il sentimento del dolore è la struttura essenziale della poetica sbarbariana dalla quale l’autore si discosta appena nelle brevi pause di abbandono. Nei bellissimi Versi a Dina il canto di dolore si distende pur rimanendo latente nell’anima per il senso di provvisorietà che l’episodio d’amore non cancella. Il poeta ha consumato la sua ansia d’amore in anonimi letti di postriboli, ne ha assaporato il retrogusto amaro che ogni volta lo ha svuotato d’ogni voglia di vivere. A questa sensualità spesa troppo in fretta ha pagato il suo tributo di pena: nel momento stesso in cui sono stati placati i sensi sono scattati il vuoto e la desolazione, l’alienazione al diritto di soffrire: “Sento d’esser passato oltre quel limite/nel qual si è tanto umani per soffrire”.
Ma, oltrepassata la frontiera dei sensi, ecco, a rischiarare un’esistenza di trame povere e a rendere vivi fantasmi e immagini di una giovinezza consumata nella fantasia, palesarsi il sentimento che coniuga amore e pulsione erotica. La vita che prima era stata un deserto si anima di una presenza viva: “E la vita sapessi a me che fu,/Amore, prima che ti conoscessi…/Un deserto la terra; a volte, il mondo/come sfocata immagine che trema”. L’inquietudine si scioglie nella certezza della realtà nuova, spezza l’amara solitudine e riporta l’uomo a contatto con l’altro. Il tempo di stupirsi, di placare il tormento interiore in una pausa riconciliatrice ed ecco che tutto è già rimpianto. L’Immagine, fatta vita e ritornata oscurità, si fa ricordo, memoria che trasmuta fatti e luoghi, risorsa vitale per l’anima consumata dalla pena del vivere; ritorna il dolore, generato dal senso di perdita. “Oh come poca cosa quel che fu/da quello che non fu divide!”I termini del vissuto si confondono fra emozioni provate e realtà immaginate e riportano al passato suscitando suggestioni che si risolvono nell’icasticità di immagini scarne e strazianti: “(…) non era che un crudele immaginare”.
Quella di Sbarbaro, secondo Emilio Cecchi, è “un’arte di autoanalisi”; la vita del poeta ligure è il segreto che ciascuno custodisce in sé e la sua poesia, di cui Giovanni Boine scrisse che “a capirla basta il cuore e l’aver vissuto”, ne è la sola certezza. Sbarbaro fu uomo che non rifuggì la povertà, si tenne lontano da mode e conventicole e non seguì che la sua sensibilità. Il suo dettato poetico è una partitura nitida dalla quale si sprigiona la forza erompente dell’arte. Il suo fu un mondo chiuso che gli permise spazi altissimi dove le sue sensazioni di cupo sconforto si sciolsero nella manifestazione espressiva. Il dolore del vivere, che sempre lo accompagnò, non gli impedì di provare uno stupore quasi infantile ogni qualvolta la sua anima colse gli aspetti benevoli della natura, al cospetto della quale provò l’ineffabile sensazione della libertà: “(…) e come per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…
Se Baudelaire vede il poeta come l’albatro che caduto in mano alla ciurma insensibile ne diviene lo zimbello, Sbarbaro lo assimila alla fanciulla che se ne va da sola nient’altro possedendo che il suo canto. “A noi che non abbiamo/ altra felicità che di parole(…)/se non è troppo chiedere, sia tolta/prima la vita di quel solo bene”.

Camillo Sbarbaro muore all’Ospedale S.Paolo di Savona il 31 ottobre del 1967, dopo un lungo periodo segnato da gravi crisi depressive.

Anna Maria Bonfiglio

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Cinque poesie di Nicola Romano tratte dalla sua nuova raccolta “Fra un niente e una menzogna”, Ed.Passigli, con la prefazione di Elio Pecora.

27 mercoledì Gen 2021

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, LETTERATURA E POESIA

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Nicola Romano, Tra un niente e una menzogna

Della poesia di Nicola Romano va sottolineato lo spessore della tematica che si accompagna alla forza evocativa della parola meditata, immediata e mediata, espressa in funzione significante. I nuclei tematici privilegiati sono essenzialmente contenuti nello sguardo verso la realtà che radicalizza l’uomo-poeta al mondo in cui vive e l’incontro con un nuovo tempo fisico e interiore che lo pone di fronte alla necessità di ri-considerare l’esistenza vissuta e da vivere. La disposizione strutturale dei temi non ha un inquadramento organico, i testi sono distribuiti per tematiche miste, pur mantenendo unità di stile. Il livello semantico è una fusione di termini, sia di carattere quotidiano che di uso ricercato, quando non specialistico e neologistico, fino a qualche invenzione lessicale in funzione  della resa metrica. I testi aprono un ventaglio di argomenti dove s’insediano i motivi e gli interrogativi del vivere quotidiano declinati attraverso uno sguardo che indaga e riflette non soltanto su ciò che è al suo esterno ma su quello che la ragione e lo spirito detta. Una poetica, quella di Romano, che si inserisce in quadro che definirei di “mitografia del quotidiano”, per lo sguardo acuto, ironico e talvolta compassionevole verso tutto ciò che viene percepito e vissuto.

Anna Maria Bonfiglio

  

RED CARPET

 

Non metteranno mai

tappeti rossi

sulle tue strade

sparse ed ineguali

o sui percorsi stretti ed allagati

come quel mare freddo

chiuso in gola

 

quindi

 

consacra il tempo

semplice e ordinario

del nuovo giorno

che ti nasce in bocca

allacciati le stringhe sul muretto

datti una sferza tra le cose mute

sorridi se ti taglia un gatto nero

stranisci a quel

che rutta un manifesto

e non turbarti

all’amnesia d’un nome

che scortica la mente

e poi di colpo

intero si rivela

 

 

ASSENZA

 

Tutto sta nel capire

dove mi sprofonda la tua assenza

se falsa noncuranza

o interna solitudine

è questo armeggiare

nel palmo d’un divano

tra un facile sudoku

e un po’ di vino

Con un sentore d’assurdo

risalgono canali a quel principio

che fa nascere il corso d’ogni storia

e le mani rovistano le sacche

di quei pensieri assorti ed intricati

come spighe di canne scarmigliate

 

ed un lamento scorre fino ai piedi

se tenera ferita è la tua assenza

 

 

QUEL VAGO

 

Le porte sbattute dal vento

ribattono un vento di mare:

oscilla nel sonno leggero

la cupa lanterna

tra i muri del cuore

dilaga la polvere e il muschio

continua a patire sui prati

la febbre del tempo peggiore

 

Chissà tutta intera una vita

se esclude quel tempo migliore

pensato tra ali di canto

e odori rapiti ai verzieri

D’inesauribile attesa

quel vago che trema negli occhi

e non sa che dispiace

 

 

MERAVIGLIA

 

È bello stare qui

non manca nulla

confabulo col sole

che scalda le finestre

le vie sono un teatro

dove tutto è palese

e quel che busco

è più del necessario

per mantenere lune

sempre accese

 

D’intorno strappo

cespi di parole

che poi sminuzzo

come vuole il cuore

e a compendio

di tanta meraviglia

accanto a me trattengo

corbezzoli ed aloe

 

e una valigia piena

per fuggire

 

 

VACUITÀ

 

Cosa rimane

dei numerosi giorni accatastati

come ordinate spighe nei covoni

e di tutto un continuo trafficare

sui marciapiedi lisi delle strade

delle risa scambiate a crepapelle

sul volto degli amici più vicini

o degli sparsi attimi straniati

tra portici in granito ed osterie

 

e cosa resta

delle fatiche spinte fino a sera

per lanciare le reti sul domani

o delle labbra offerte con tremore

dentro un’oscurità senza parole?

 

Rimane solo nebbia che s’imbianca

tra i pali dei lampioni alla marina

e d’una vita forse trasognata

solo un fondiglio erboso di ruscello

 

 

Giornalista pubblicista, Nicola Romano vive a Palermo, dove è nato nel 1946. Con opere edite ed inedite è risultato vincitore di diversi concorsi nazionali di poesia. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione in esperanto e su riviste spagnole, irlandesi e romene. Suoi testi sono presenti in “Fahrenheit” di Radio Rai3. Attualmente dirige la Collana di poesia dell’editrice “Spazio Cultura” di Palermo.

Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: I faraglioni della mente (1983), Amori con la luna (prefazione di Bent Parodi, 1985), Tonfi (1986), Visibilità discreta (prefazione di Lucio Zinna, 1989),  Estremo niente (con una nota di Melo Freni, 1992), Fescennino per Palermo (1993), Questioni d’anima (prefazione di Aldo Gerbino, 1995), Elogio de los labios (a cura di Carlos Vitale, Barcelona, 1995), Malva e Linosa – haiku (prefazione di Dante Maffìa, 1996), Bagagli smarriti (prefazione di Fabio Scotto, 2000), Tocchi e rintocchi (prefazione di Sebastiano Saglimbeni, 2003), Gobba a levante (prefazione di Paolo Ruffilli, 2011), Voragini ed appigli (prefazione di Giorgio Linguaglossa, 2016), Birilli (sei poesie con una incisione di Girolamo Russo, 2016), D’un continuo trambusto (prefazione di Roberto Deidier, 2018), Tra un niente e una menzogna (prefazione di Elio Pecora, 2020).

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100 ANNI DI LEONARDO SCIASCIA ~ METAFORE E CONTRADDIZIONI

13 mercoledì Gen 2021

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Leonardo Sciascia

Nei primissimi anni ’80 del secolo scorso venni invitata dal Comune di Porto Empedocle, mio luogo di origine, a partecipare come “giovane poetessa”  ad un convegno letterario che radunava alcuni degli autori del territorio agrigentino. Mi ritrovai dunque in un contesto di personalità della cultura non solo siciliana ma di carattere nazionale fra cui Antonino Cremona, Federico Hoefer, Alfonso Gaglio, Andrea Camilleri e Leonardo Sciascia. Di Hoefer e Camilleri, quest’ultimo non ancora nel solco del successo dovuto alla serie montalbaniana, conoscevo qualcosa, essendo stati entrambi amici di gioventù dei fratelli di mia madre, gli altri mi erano pressoché ignoti, salvo Sciascia di cui avevo letto Il giorno della civetta e qualche altro titolo. Di lui ho un ricordo visivo vago, in particolare un mezzo sorriso fra l’ironico e il compiaciuto. Timida e alle prime armi nel campo della scrittura, non osai interloquire con nessuno di loro, in seguito ebbi modo di presentare a Palermo sia Hoefer, col quale si stabilì una bella amicizia, sia Camilleri, che al contrario non ebbi più modo di incontrare. Di Leonardo Sciascia continuai a leggere molti altri libri, con un interesse sempre maggiore ma in difficoltà nell’inquadrare la sua opera in una categoria letteraria, fin quando non giunsi alla lettura di La Sicilia come metafora, un libro-intervista della giornalista francese Marcelle Padovani, che mette a fuoco la persona e l’opera sciasciana.  Ma chi è Leonardo Sciascia?

“Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini dagli occhi azzurri. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia-Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva preso da sua madre insieme agli occhi azzurri, mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire «velo del capo». Una volta, il console di Libia a Palermo mi ha detto che, per indicare un’amicizia strettissima, nel suo paese si parla di «due teste in una stessa sciascia”.

Nato a Racalmuto, paese dell’agrigentino, si trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove il padre inizia a lavorare come amministratore in una zolfara nissena. Frequenta il corso magistrale dove insegna Vitaliano Brancati, suo professore e primo riferimento culturale, consegue il diploma e inizia ad insegnare.

“Il pomeriggio lo passavo da uno zio sarto. Per apprendere il mestiere. Il mio trasferimento a Caltanissetta fu casuale. Se mio padre non avesse avuto il posto ad Assoro, non ci saremmo trasferiti a Caltanissetta. È stata una fatalità che ha inciso molto sul mio destino. Se fossimo rimasti a Racalmuto, io avrei fatto il sarto.”

Per fortuna delle patrie lettere la vita di Leonardo Sciascia ebbe diversa sorte. Per tutta la seconda metà del Novecento fu lo scrittore che attraversò la storia civile italiana, con le sue opere segnò l’inizio di quella letteratura che metteva il dito nella piaga del sistema mafioso la cui struttura si era insediata anche nell’apparato politico. La sua non fu denuncia, ma analisi lucida e impietosa della connivenza tra Stato e potere illegale, esercitata fin dal regno borbonico. Da uomo attento e analitico, lo scrittore è consapevole della difficoltà, per non dire dell’impossibilità, di giungere alla realizzazione di un perfetto sistema politico e sociale, tuttavia ritiene un dovere vivere e lottare perché questo possa essere raggiunto.

“Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: «Ha contraddetto e si è contraddetto», come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante «anime morte», a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano.”

Riferendosi al ruolo dell’intellettuale, Sciascia sostenne che in Sicilia gli intellettuali costituiscono un corpo estraneo che il tessuto sociale rigetta in quanto rappresentano la coscienza del passato e la preoccupazione per l’avvenire.

“C’è stato un progressivo superamento dei miei orizzonti, e poco alla volta non mi sono più sentito siciliano, o meglio, non più solamente siciliano. Sono piuttosto uno scrittore italiano che conosce bene la realtà della Sicilia, e che continua a esser convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno. Date queste condizioni, sono ancora uno scrittore siciliano? E che cos’è uno scrittore? Da parte mia, ritengo che lo scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose.”

Scettico e talvolta amaro, per lo scrittore racalmutese il cammino della Sicilia è stato sempre un percorso difficile ancorché illuminato da grandi civiltà e da importanti tradizioni etnico-culturali che non ne hanno purtroppo cancellato la connotazione di terra di conquista. E coglie una lancinante verità nell’affermare che il fasto lasciato come retaggio dagli spagnoli ai siciliani, che continuano a praticarlo, gli uni lo vivevano da padroni, gli altri da schiavi. Alcune delle tante considerazioni e prese di posizione di Sciascia suscitarono a suo tempo aspre critiche e pungenti polemiche, soprattutto dopo che egli scese in politica, prima con il PCI di Achille Occhetto, dal quale diede le dimissioni perché contrario al “compromesso storico”, e dopo con il Partito Radicale, in seno al quale fu eletto alla Camera dei Deputati. Dopo la pubblicazione de L’affaire Moro le polemiche si moltiplicarono. Nel suo pamphlet Sciascia lascia trasparire il suo dissenso per come si era concluso il tragico rapimento di Aldo Moro, addossandone implicitamente la colpa all’apparato dello Stato che non aveva acconsentito a trattarne il rilascio. Egli smonta la tesi che era stata adottata dall’establishment politico, secondo la quale le lettere che il sequestrato scriveva pregando di cedere alle richieste dei terroristi erano dettate da uno stato di offuscamento mentale derivato dalla carcerazione, e lascia trasparire la propria posizione di dissenso. Quando si apre la tragica stagione degli omicidi di stato per mano mafiosa è ancora lui che sferra attacchi contro il sistema del “pentitismo”, non ritenendo etico “premiare”, a fronte di una testimonianza accusatoria, chi si era materialmente reso colpevole di uccisioni e stragi. Da una parte il rifiuto della violenza, dall’altra una costante critica al potere costituito e ai suoi segreti inconfessabili. Furono atteggiamenti che gli alienarono parte dei consensi, ma la sua presenza letteraria non ne rimase offuscata e le sue opere continuarono ad essere apprezzate fin oltre oceano.

“Considero il potere, non già alcunché di diabolico, ma di ottuso e avversario della libertà dell’uomo. Sono tuttavia indotto a lottare perché, all’interno del potere, si abbiano ricambi, possibilità di “alternative”, novità, una migliore organizzazione della giustizia, una libertà sempre più ampia, ragion per cui mi impegno quando c’è una battaglia da combattere. Mi rendo perfettamente conto di essere animato da un certo spirito di contraddizione, ma so che ogni essere umano che esercita un’attività intellettuale non può non esserne animato.”

La bibliografia di Leonardo Sciascia è sterminata, egli ha scritto di tutto: poesie, racconti, romanzi, saggi, teatro, pamphlet, aforismi, articoli giornalistici, e curatela di volumi collettanei e monografici per grandi case editrici italiane. Ho letto recentemente che la sua linea letteraria è stata definita Realismo critico. Non so quanto questa definizione possa essere adeguata, forse è ancora troppo presto per le etichette di “corrente”, o più verosimilmente la sua opera sfugge a ogni precisa categoria letteraria, mantenendo una sua propria identità che assomma la lezione pirandelliana e l’illuminismo volterriano. Ma possiamo affermare che dal suo magistero sono stati certamente influenzati due altri grandi scrittori siciliani, Andrea Camilleri e Gesualdo Bufalino, l’uno per la felice creazione del commissario Montalbano, spigoloso e ironico, l’altro per le risonanze barocche della sua scrittura. Amato e odiato, apprezzato e criticato, con la sua presenza e con la sua opera Leonardo Sciascia ha segnato tutta la seconda parte del secolo ventesimo lasciando un’impronta indelebile.

Anna Maria Bonfiglio

Nota – Le parti in corsivo sono tratte da “La Sicilia come metafora”, intervista a Leonardo Sciascia di Marcelle Padovani, Mondadori 1979

 

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Il Cosmo Simbolico di Cristina Campo

18 venerdì Dic 2020

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Il Cosmo Simbolico di Cristina Campo

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Cristina Campo, Diario Bizantino

Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l’ultimo gradino…

ora è sparsa l’acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.

T’ho barattato, amore, con parole.

Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava –

ti riconoscerò dall’immortale
silenzio.

 

Risiede in questi versi l’essenza del silenzio. Il nome sfuggito, la parola che lo anima è il peccato “imperdonabile”; il “baratto” del sentimento a favore della parola è un’ autoaccusa che si scioglierà solo “nell’immortale silenzio”. Quello  di Cristina Campo è un discorso per ellissi, un territorio in cui la vera ricchezza è tutto ciò che manca. D’altra parte non disse lei stessa che “aveva scritto poco e che meno avrebbe voluto scrivere”? L’eccedenza è quasi una paura, il mostrarsi più del necessario è in contrasto con la sua scelta esistenziale ed infatti fra la sua vita e la sua opera non esiste cesura, perché per Campo tra vita e pensiero, tra vita e arte non solo non deve esserci contrasto ma deve instaurarsi una vera e propria identificazione. Tutto ciò si sostanzia in una “assenza” che è incarnazione di una realtà più profonda dell’apparenza, rivelazione del vero significato delle cose, che non sta in quello che rappresentano ma in ciò a cui rinviano. Nel percorso verso questi rimandi lo sguardo si allunga fino ad arrivare a percepire il nucleo dei simboli che in essi risiedono. “L’incredulità nell’onnipotenza del visibile” è atteggiamento consustanziale alla scrittrice, è pratica che non abbandona, è la centralità di una poetica che guarda al mondo alluso, quello della fiaba, dei vangeli, della poesia, dove la “parola” è rivelazione del trascendente.

“Che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?” Si chiede Cristina. Quello che unisce i due mondi è il simbolo e nella visione campiana il simbolo è fede in una Verità che parla attraverso di esso, è esperienza spirituale, esigenza di far combaciare la realtà naturale con una realtà sovrannaturale. Il suo mondo simbolico, mutuato in massima parte dalla liturgia della messa latina prima e bizantina poi, è lo specchio del cosmo celeste, epifania che rinvia all’Entità Divina. Ma il simbolo è altresì annidato nel tessuto delle fiabe ed è l’universo della fiaba uno dei nuclei più significativi della poetica campiana, un universo esplorato sia con la stesura di racconti fiabeschi ispirati ai migliori favolisti dell’Ottocento sia con accurati ed originali saggi. Nella concezione campiana il poeta è colui che restituisce la parola al suo valore simbolico e che trasferisce la verità in figure che coincidono con ciò che la parola significa. Il suo percorso intellettuale e ideologico segue quattro linee: il linguaggio, il paesaggio, il mito e il rito. Linguaggio essenziale, espresso per sottrazione più che per abbondanza, teso verso la Bellezza dell’Assoluto, da lei considerata quarta virtù dopo Fede Speranza e Carità. Campo, figura d’intellettuale appartata ed estranea al suo tempo, fa della costante ricerca della perfezione il suo ideale di vita e di scrittura, nel segno di una concezione ortodossa della cristianità che la conduce a combattere le riforme liturgiche del Concilio Vaticano II e ad avvicinarsi ai riti bizantini che ritiene più appropriati alla sua sete di assoluto.  

“Ci sono due mondi – io vengo dall’altro”. Si apre con questi versi, posti anaforicamente all’inizio di ogni strofe, il “poema” Diario Bizantino, ultima opera di Cristina Campo, licenziata poco prima della sua morte e pubblicata postuma. Il mondo da cui viene Cristina è sempre l’altro, e quello che unisce i due mondi è il simbolo, fede in una Verità che parla attraverso l’esperienza spirituale, esigenza di far combaciare la realtà naturale con una realtà sovrannaturale. La potenza semantica del Diario Bizantino è da vertigine, la sua simbologia, ancorchè pervasa di spiritualità, trascende il carattere meramente religioso e testimonia un’aderenza più o meno consapevole al linguaggio esoterico. Ogni lemma, ogni immagine conserva un significato che va oltre: il Lume coperto, il sepolto Sole; le incorporee Legioni, gli Arcistrateghi di luce; l’anello bianco di San Vitale. E tutto rimanda ad altro. Nella visione campiana il simbolo è fede in una Verità che parla attraverso di esso.

“L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra. […]. Essa è dunque, alla fine, la forma più legittima, assoluta d’immaginazione. Quella a cui allude senza dubbio l’antico testo di alchimia là dove raccomanda di dedicare all’opera la vera immaginazione e non quella fantastica.”

Cristina Campo vive artisticamente nel periodo in cui la cultura è rivolta verso le tensioni politiche e la poesia verso quei fronti che guardano da una parte all’impegno sociale e dall’altra agli sperimentalismi e alle neo-avanguardie. Il suo ruolo è dunque marginale rispetto al milieu imperante, le finalità della sua scrittura guardano sempre verso un orizzonte che connoti il suo dettato di valori spirituali ed estetici, essendo per lei Bellezza e Divino un corpo unico. Muore nel 1977, a 54 anni, nel silenzio quasi totale di una società letteraria che non ne aveva valutato la sostanziale caratura.

Anna Maria Bonfiglio

 

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Ancora sulla violenza contro la donna

02 mercoledì Dic 2020

Posted by marian2643 in COSTUME E SOCIETA', LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Cuore di preda, Loredana Magazzeni

Succede a volte che, seguendo le informazioni diffuse dai mass media, tv, radio, giornali, internet, sentiamo pronunciare una parola tanto ripetutamente che finiamo per assuefarci al suo suono e a svuotarla del suo vero e profondo significato. Diventa improvvisamente un topos, un luogo comune che tutti, per strada, nei salotti, nelle conversazioni fra amici, usano senza soffermarsi più di tanto sul valore e il peso che può avere. Credo che tutto questo possa essere applicato al termine femminicidio, che sentiamo pronunciare ogniqualvolta viene uccisa una donna. Femminicidio, o femicidio, secondo la primaria versione della parola che traduce il termine inglese femicide, è espressione dal significato terribile che definisce l’uccisione di un essere umano in quanto appartenente al genere femminile, quello che la filosofa De Beauvoire, chiamò provocatoriamente Secondo sesso. La donna è l’Altro, afferma nel suo famoso saggio la scrittrice, è quello che l’uomo, nel suo considerarsi Soggetto, colloca nella posizione di Oggetto. Su questa situazione di non riconoscimento si è fondato e si perpetua il concetto di subordinazione del genere femminile. A distanza di tanto tempo la riflessione della filosofa francese rimane attuale ed è ancora legittimo porsi la questione della gerarchia dei sessi e domandarsi se sia finalmente possibile accogliere in maniera definitiva nel contesto intellettuale e sociale l’idea di “genere” inteso come categoria che raggruppa la specie umana. Perché malgrado la conquista sul piano formale e ideologico dell’uguaglianza resta il problema dell’impostazione dei rapporti fra i sessi, problema perpetuato nel corso dei secoli ed ereditato dalla concezione biblica di Eva nata da un osso in soprannumero di Adamo, e cioè di un “essere occasionale”, come lo definisce San Tommaso. A metà degli anni ’90 del secolo scorso, la scrittrice e performer Eve Ensler pubblicò un libro dal titolo I monologhi della vagina nel quale, attraverso testimonianze femminili, denunciava una realtà di violenza espressa nelle manifestazioni più subdole. Il testo suscitò, com’era prevedibile, vaste polemiche, ma fu letto e rappresentato in forma teatrale in molte parti del mondo, compresa l’Italia, e recitato dalle più grandi attrici di teatro. Nel 2015 la stessa Ensler pubblica un documento in cui racconta le violenze esercitate dagli integralisti dell’Isis sulle prigioniere dissidenti o disobbedienti, episodi di una crudeltà inenarrabile, difficili da credere generati da mente umana e che fa paura persino riportare; in seguito Ensler pubblica il libro Se non ora quando? Contro la violenza e per la dignità delle donne, nel quale afferma: “abbiamo bisogno di scrittori in quest’epoca terribile di inganni e manipolazioni”. Cosa possono fare i poeti, retoricamente definiti esseri avulsi dalla realtà? Certo non sarà un libro di poesia a fermare  lo scempio che si compie sulle donne, né basteranno gli spettacoli, i documentari, le inchieste. Pure, tutto questo qualcosa fa: aiuta a capire. E capire significa prendere coscienza che quei fatti di cronaca che ci turbano fuggevolmente, fra una notizia e l’altra, sono vicini a noi più di quanto crediamo. Significa smuovere le acque ancora stagnanti di una cultura civile e sociale arroccata su concetti resistenti a morire. E significa anche aiutare le donne vittime di violenza a rendersi consapevoli che dall’oscurità del tunnel in cui sono cadute si può fuggire superando la paura e la vergogna, ribellandosi, accusando, denunciando. L’antologia Cuore di preda, curata dalla scrittrice Loredana Magazzeni, nasce  per volontà di Gianmario Lucini, poeta, critico e editore, uomo di grandissima sensibilità, intellettuale impegnato a combattere l’ingiustizia e il decadimento morale, scomparso purtroppo prematuramente, e  raccoglie i testi di ottantasei poetesse che declinano il tema del femminicidio e della violenza di genere dando voce al silenzio che accompagna il dolore delle vittime. Silenzio generato dalla paura, dalla mancanza di autostima, dal senso di colpa, dall’abitudine ad essere dominate. Scorrendo i testi di questa raccolta percepiamo i nuclei tematici più forti e più pervasivi dell’argomento violenza, legati da un filo rosso che attraversa vicende dolorose e traumatizzanti mutuate da fatti reali di cui quasi giornalmente veniamo a conoscenza. E non è fuori luogo o esagerato parlare al riguardo di una forma di “olocausto”, in ragione del fatto che si tratta di una violenza dettata dalla volontà di esercitare un potere che annulli, cancelli, estingua il genere femminile, non come esistenza fisica, ma come esistenza sociale e psicologica, come volontà di esprimere se stesso, come affermazione di entità non omologabile. Cuore di preda è il genere femminile, ancora raccolto “in un mondo di buio, nucleo di resistenza sacro, eredità lascata dalla madre”, come lo definisce la poesia di Anna Elisa De Gregorio. Perché è già dalle madri che si va configurando l’esistenza delle figlie, madri che subiscono percosse e tacciono per vergogna e dichiarano, per obbligo verso se stesse, di amare ancora il loro uomo.

Se questa è una donna

Con quale numero sarà ricordata

la violenza di ieri su una donna

nel quartiere taldeitali della tale città?

La voce che esce dal televisore,

mentre divagano periferie senza vita,

elenca cronache già dimenticate:

quella che era, l’altra che aveva…

donne raccolte in un mondo di buio.

 

Di donne destinate a subire parla la poesia di Nunzia Binetti :

Io già lo so

(…) Io cosa per editto maledetta, finto monile

Espio una condanna e sono anima lesa

silenzio indotto, resa, mai altro che utero o marsupio

che zagara sfiorita nel giardino a spingere il recinto

col mio canto morto.

 

E di una detenzione volontaria, determinata dall’impossibilità del corpo a ricercare un senso nuovo dopo il deturpamento, dopo l’oscurità di un abisso di cui ci si sente complici, parla il testo di Maria Teresa Ciammaruconi: L’uomo che ha vessato ha perso vigore, è ormai incapace di prendere e di dare, sarebbe facile fuggire, ma la violenza ha generato assuefazione, la paura ha svilito ogni desiderio di libertà, il danno è irreversibile:

Violenza non codificata

Non è per bontà che ora rinunci al sangue

e non è mite la carezza che doma la fera

ma paura che ha perso la traccia del desiderio

seminato lungo la nostra strada in regalo

a fare unica una vita qualunque.

La tua rinuncia è la mia prigione senza sbarre

violenza non codificata per detenzione a vita.

Incapace di cattura il predatore muore

e condanna la preda alla solitudine  della sicurezza.

 

Di Lella De Marchi

e poi mi hanno detto

e poi mi hanno detto:

il tempo aggiusta tutto

anche il tuo corpo offeso

e spaccato,

certo, non temere,

un giorno tutto questo

non ti farà più male

 

ed io ho pensato:

ho fatto davvero qualcosa di sbagliato

perché mi hanno di nuovo violentato.

 

Cuore di Preda è una delle tante operazioni che sono state realizzate per mettere a fuoco una problematica che non cessa di essere attuale e per sensibilizzare istituzioni e società civile a non abbassare la guardia. Tanto è stato fatto e tanto dovrà continuare ad essere perseguito. Confidiamo che alle voci poetiche di queste donne si uniscano tante altre voci ancora, anche maschili, perché si sciolgano fin gli ultimi nodi di un colpevole silenzio.

 

Anna Maria Bonfiglio

 

 

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“Cadere, volare” di Clelia Lombardo, Avagliano Editore, 2020. Nota critica di Anna Maria Bonfiglio.

18 mercoledì Nov 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Clelia Lombardo

 

Dopo la docustoria La ragazza che sognava la libertà, racconto di un femminicidio per decisione mafiosa, Clelia Lombardo, docente, poetessa e autrice di teatro, esce in libreria con il romanzo Cadere, volare, edito da Avagliano, storia di una giovane donna che si trova a dover affrontare le due realtà più importanti del proprio percorso di vita: l’inizio del viaggio nella concretezza del lavoro scelto e l’incontro con la possibilità di dare una svolta decisiva alla sua vita sentimentale. Nives insegna ai ragazzini di una scuola media di un piccolo paese dell’entroterra palermitano; giovani appena approdati alla prima adolescenza, figli di genitori impreparati alla propria genitorialità e perciò non in grado di indicare strade o trasmettere valori; madri vittime esse stesse di un’educazione retrograda e padri inesistenti, o violenti o invischiati nella minuta delinquenza locale. Un panorama scoraggiante per una giovane professoressa, Nives vorrebbe provare a scalfire l’indifferenza e il disinteresse dei suoi alunni, vorrebbe che potessero traghettare il guado verso l’età adulta consapevoli dell’importanza che può avere lo studio, dar loro la possibilità di vivere in modo migliore. Nella sua vita c’è Salvo, l’uomo di cui si è innamorata e che la ama, vive finalmente con fiducia il sentimento d’amore, dopo incontri vuoti e una prima giovinezza di solitudine affettiva. Poi Salvo le parla di matrimonio. Nell’incipit del romanzo ci troviamo in medias res, da questo punto inizia il racconto che, fra il presente vissuto con i suoi alunni e i loro problemi e gli incontri con l’amato, porterà Nives a ripercorrere la sua dolorosa storia di famiglia e a confrontarsi con un rapporto sentimentale che avverte come “una rete a maglie larghe da cui nella stessa misura l’amore entrava e usciva”.

Cadere, volare è un libro “onesto”, non fa l’occhiolino al lettore trattando questioni di carattere moralistico o pruriginoso, è una storia privata in cui la protagonista si mette in discussione e si pone a confronto con la realtà e con il proprio modo di intendere la vita. Ha creduto di avere trovato il suo ubi consistam nel lavoro e nell’amore, di aver superato la desolata solitudine dell’adolescenza e la morte prematura della madre, ma il passato che torna alla memoria ha perso il gusto amaro e ha portato una languida malinconia. Cosa vuole Nives? Non lo sa bene, sa però che se deve scegliere non deve essere una scelta di comodo o di opportunità, ma piuttosto “la sua scelta”. Sente l’urgenza di vivere in un mondo migliore di quello che le gira attorno, “questo non è il mondo che voglio”, pensa, e non pretende di poterlo cambiare ma di vivere come se ciò fosse possibile. Pensa che Salvo, nel corso di quell’anno in cui si sono amati, ha mostrato dei tratti caratteriali che la inquietano, è rigido, sfuggente, e lei ha paura, di sbagliare, di ritrovarsi sola. Nives ha paura di perdere coloro che ama.

Quello di Clelia Lombardo è uno stile netto, sempre in equilibrio nel tratteggiare il carattere dei personaggi che appartengono a sfere socio-culturali diverse e che tuttavia  si intersecano nel tessuto della storia; l’autrice adotta la forma narrativa della terza persona, mantenendo il giusto distacco nel definire il punto di vista delle varie figure del romanzo colte nei  momenti più significativi del racconto: gli alunni nella loro specificità di creature ancora spaesate in un mondo di cui conoscono solo il volto amaro, Nives nella fase in cui aveva sperato di trovare quel “qualcosa che nessuno può offrire all’altro”, e Salvo fra il desiderio di concretizzare il rapporto con lei e la difficoltà di comprenderne del tutto la sensibilità. Una storia peculiarmente psicologica, che tratteggia finemente i personaggi e si sofferma sulla delicata realtà degli adolescenti e sulle loro problematiche connesse all’ambito sociale cui appartengono. Un romanzo, questo della Lombardo, che la colloca fra le più promettenti narratrici del panorama contemporaneo.

 

Anna Maria Bonfiglio

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L’IMPOSSIBILE VERITÁ DEI “SEI PERSONAGGI” PIRANDELLIANI

21 mercoledì Ott 2020

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

Dalla sua prima rappresentazione in stesura definitiva, avvenuta il 18 maggio del 1925 a Roma, Sei personaggi in cerca d’autore è senza dubbio l’opera pirandelliana più replicata. Considerata il dramma più emblematico di tutta la drammaturgia di Luigi Pirandello e al contempo il più aperto ad ogni possibile lettura ed interpretazione, esso ci pone di fronte all’irrisolta questione dell’Essere e dell’Apparire, mantenendo nel tempo la sua vitalità ed il suo carattere originale. Il ruolo di Pirandello, che nell’epoca fra le due guerre mondiali sostituisce quello totalizzante dello scrittore-demiurgo, incarnato dal D’Annunzio, è quello dell’intellettuale che possiede la capacità di mettere a nudo le contraddizioni dell’età del primo capitalismo industriale. Il drammaturgo siciliano riesce a cogliere i primi aspetti di quella che sarà la massificazione dell’umanità: il meccanizzarsi della vita quotidiana e la solitudine dell’individuo che vede frantumarsi la propria personalità vivendo una realtà diversa da quella che percepisce con l’anima. Simbolo della condizione oggettiva di una umanità priva di certezze e ricca di contraddizioni e di illusioni, il personaggio pirandelliano cerca la liberazione da una società disumanizzante e una consistenza alternativa che gli dia l’identità a cui ambisce ma che non riesce a raggiungere se non nelle forme del suo inseguirla. Egli è tutt’uno col dramma che vive e rappresenta, i conflitti di cui è attore sono la sua stessa natura, il suo agire è guidato dal dilemma che la vita gli propone, e nell’incertezza della possibilità di risolverlo egli si vede sdoppiato divenendo il fulcro del contrasto stesso; si radicalizza nella convinzione che l’infelicità propria è la stessa che accomuna tutti gli esseri umani e perciò nessuno può sfuggirla.

Paradigma del conflitto tra l’aspirazione a comunicare con l’altro e l’impossibilità ad essere costituiti nella loro verità, i Sei personaggi senza autore, Padre, Madre, Figlio, Figliastra e  due bambini,  irrompono sul palcoscenico, dove una compagnia teatrale sta allestendo uno spettacolo, e chiedono di essere rappresentati nel loro dramma umano. Questo è l’unico modo perché le loro vite, nate dalla fantasia dell’autore, possano trovare un’identità. Ma la loro aspirazione a essere riconosciuti nella verità che raccontano si scontra con l’impossibilità da parte degli attori di far vivere la loro storia sul palcoscenico. Tuttavia la difficile trasposizione sulla scena della loro vicenda solletica la vanità del regista il quale avverte che il dramma di quella famiglia borghese, a tratti banale, a tratti tragico, merita di essere rappresentato. I sei personaggi raccontano la loro verità, che non è mai univoca, ma non riescono a riconoscersi negli attori che entrano nelle loro parti. Personaggi, dunque, condannati a restare “senza autore”, a peregrinare da un teatro all’altro con l’unica speranza di vedere rappresentata solo una parte della realtà che li sostanzia. E senza autore è, del resto, il personaggio pirandelliano in genere, affidato ad ogni possibilità di interpretazione, celebrato proprio per l’impossibilità di essere collocato in uno standard che ne faccia un’entità definita. Il contrasto fra la Vita e la Forma, che resta il nucleo di tutta la problematica pirandelliana, sfiora ne I sei personaggi il problema dell’arte. Agli attori che devono recitare il loro dramma è delegato il compito di sciogliere in forma compiuta la vita e di condurla alla dimensione dell’arte. Ma quella vita che vanno a rappresentare sfugge dalla loro comprensione e si rivela necessità di movimento, trasformazione, incompiutezza. Altri attori se ne approprieranno per farla rivivere in altre Forme, in un gioco dilatato fino all’impossibile. La tragedia dei sei personaggi sta nella disperata consapevolezza di non poter far mai giungere agli altri la loro Verità; il loro raccontarsi resta un tentativo senza risposta, una voce che può essere ascoltata ma non accolta, un inutile denudarsi. La Verità sarà sempre un passo indietro, sarà sempre un grido taciuto.

Anna Maria Bonfiglio

 

(Fonte dell’immagine)

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Angelo Maria Ripellino – La buffoneria del dolore

16 mercoledì Set 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Angelo Maria Ripellino, Anna Maria Bonfiglio

Darling, lo so, il mio continuo lamento ti attedia,

questa eterna altalena tra ebbrezza e malore.

Il mio rammarico è forse volontà di commedia.

Grande è la buffoneria del dolore.

 

Angelo Maria Ripellino nasce a Palermo il 4 dicembre del 1923, da Carmelo, insegnante di Lettere, poeta e scrittore di drammi teatrali, e Vincenza Maria Trizzino, titolare di una farmacia. Ha appena sette anni quando la famiglia si trasferisce a Mazara del Vallo, dove il padre ha ottenuto un incarico presso il locale Liceo Parificato e dove Angelo frequenta le scuole fino al completamento delle classi ginnasiali. Nel 1937 a Carmelo viene assegnata una cattedra al liceo “Giulio Cesare” di Roma e la famiglia si sposta nella Capitale, che diverrà la città di adozione del poeta, quella dove continuerà gli studi e inizierà, ancora studente, la sua attività letteraria scrivendo per alcuni giornali e pubblicando poesie, racconti, recensioni e brevi saggi. Iscritto alla Facoltà di Lettere, sceglie di interessarsi dell’universo letterario slavo e diventa allievo di Ettore Lo Gatto, uno dei primi studiosi di letteratura russa in Italia. Ancora giovanissimo, viene aggredito da una infezione tubercolare che, sebbene curata con applicazioni di pneumotorace, in seguito lo costringerà a sottoporsi ad una pneumectomia. Continuerà tuttavia la sua attività letteraria e intensificherà il suo impegno per gli studi di slavistica soggiornando a Praga dove incontrerà Ela Hlochová che diverrà sua moglie e sua collaboratrice e gli darà due figli, Milena e Alessandro.

Dal 1948 al 1952 Ripellino insegna all’Università di Bologna Filologia slava e Lingua ceca; con l’incarico di Lingua e Letteratura russa al Magistero di Roma ritorna nella sua “città” dove inizia un felice percorso come traduttore di alcuni poeti russi, lavorando al contempo alla Storia della poesia ceca contemporanea. Pariteticamente si dedica al teatro e alle arti cosiddette “minori”: critica cinematografica, teatro delle marionette, musica, trasmissioni radiofoniche.  Il suo percorso erratico fra le varie tipologie di studi e di scritture ne fa trasparire il proposito di inseguire una sorta di sincretismo fra tutte le espressioni artistico-letterarie. Continua a scrivere poesia e nel 1960 pubblica la sua prima raccolta, Se non ora quando, ma, seppure accolti dalle migliori riviste letterarie, i suoi versi restano indietro rispetto a quella che si va configurando come figura di slavista, etichetta che prevarrà sempre sulla sua qualità di artista delle lettere. “Slavista! Mi gridano donne con  frappe sul capo./ (…) Slavista! Mi beffano da un carro funebre/ (…) Chiedo perdono. E’ deciso. La prossima volta/ farò un altro mestiere”, scrive nella poesia n.2 di Notizie dal diluvio.

Nel 1964 Ripellino viene aggredito da una recrudescenza tubercolare e ricoverato nel sanatorio di Dobříš, vicino Praga, sotto le cure del primario Petr Ostrý che lo recupera alla vita. Da questa esperienza nasce la raccolta di poesie La fortezza d’Alvernia, poematico diario della vita che fugge, declinato attraverso rimandi letterari e figurativi della sua multiculturalità, che egli definisce “teatro d’ombre” e “cartolina illustrata della speranza”. La silloge, proposta a Einaudi per la pubblicazione, viene rifiutata, presumibilmente per lo scarso interesse suscitato in Italo Calvino che definirà Ripellino “un poeta fuori del tempo” e “un futurista in ritardo”, e, dopo ulteriori rifiuti da parte di altri editori, sarà pubblicata da Rizzoli nel 1967.

 (…)  Sebbene io sia imbrattato delle fuliggini della Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di calderai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie radici. Penso talvolta che questo sradicamento sia la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico. Torno giù a precipizio sovente dal continente all’isola amara, irrorata di luci di agrumi, ai giorni lontani in cui sereno viaggiavo con una modesta famiglia nel caldo di una casetta domenicale, come nel ventre di un ciprino carpio. Poi si versò una giara di olio in soffitta. L’olio colava per gli scalini. Ebbero inizio le sciagure. Il letto si coprì di infausti cappelli. Ancor oggi essi ingombrano la mia poesia. Dell’infanzia insulare mi porto dietro un fagotto di emblemi: il ricordo di dolci comprati alla ruota del monastero, le stanze mortuarie con le salmodianti comari in nero, i presepi con arance e lumie, il basso continuo della tristezza, che pende dai nostri occhi come le cispe di un tracoma e una certa pagliacceria fanfarona.” Così il poeta Angelo Maria Ripellino, “imbrattato” di cultura mitteleuropea, rivendica la sua ascendenza isolana, in uno scritto ad apertura della pubblicazione di Sinfonietta. “Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto e i congegni, le «meraviglie» del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga.(…).

Nel 1969 Ripellino pubblica, questa volta sì con Einaudi, la raccolta di poesie Notizie dal diluvio, costituita da settantasette poesie divise in due parti, da lui stesso definita “diario di un anno calamitoso”, riferendosi sia alla sua salute che va sempre peggiorando che alla tragica conclusione di quel movimento politico e sociale che fu la Primavera di Praga e che egli aveva seguito come inviato de L’Espresso. Il libro è una specie di “arca” nella quale il poeta raccoglie persone, animali e fatti che hanno costituito il suo mondo per eternizzarli nella sua storia privata restituendoli in metafore, allegorie, analogismi e neologismi, in un rutilante universo semantico di strabiliante ricchezza. Tutta la poesia ripelliniana è un vortice di opulenza lessicale, una partitura di infinite significazioni nella quale vorticano la musica, la pittura e i pittori, il teatro e i teatranti, i mùsici e i pagliacci, gli animali di ogni specie, e i colori di un arcobaleno personale dove primeggia il giallo, il colore del sole.

“Ancora la giovinezza mi chiama, falòtica /come le cicogne dello Zwin./ Ancora mi affligge la sua effigie gotica./Non resisto agli occhi verdi che mi amano,/ io, principe carpatico in rovina”. Sono i versi della terza parte della poesia n.67 della raccolta Sinfonietta, uscita ancora per Einaudi nel 1972. Qui i testi assumono una coloritura plumbea, con chiari riferimenti alla salute che va aggravandosi, e tuttavia ancora accompagnata da metafore di “luce” nell’assunzione di lemmi quali fuoco, candele, angeli; una raccolta definita “ostica” per il lessico e la sintassi, e catalogata come risultato di “un oscuro barocchismo”. E’ quella che più mette l’accento sulla vicenda personale dell’autore, sulla sua consapevolezza di non aspettarsi più niente altro che sofferenza e tuttavia restando “in una grande allegria funebrina”. “Alla tua età si può ricominciare,/ma io, bambina, ormai devo raccogliere/ le somme del passato, ristoppare/ con giorni avventicci il mio destino,/ con spilorcia avarizia fare i conti, / io che giuoco sempre a rimpiattino/ col disfavore di Domineddìo.”  Egli stesso in un’intervista aveva dichiarato: “Gran parte della mia scrittura è diventata il vezzeggiamento di questo eterno malessere.”

Sempre da Einaudi nel 1976 viene pubblicato Lo splendido violino verde, raccolta ripartita in due sezioni: Das letzte Varieté (L’ultimo Varietà), e Don Pasquale (con riferimento all’opera di Donizetti); opera della piena maturità che assomma tutti i temi della poetica ripelliniana  rinominando personaggi, musiche, artisti, ora con vis ironica ora con clownesca malinconia. Pervade tutto il testo un andamento antitetico fra la gioia di vivere e la coscienza del male che lo opprime: “L’eterna altalena tra ebbrezza e malore(…)il miele del male”, dove il male accostato al miele rivela l’aggressione del sopravvenuto diabete, che in seguito lo costringerà all’amputazione delle dita di un piede. Come sempre il campo semantico usato da Ripellino è ad ampio spettro, aggomitola il contingente con la memoria del passato attraverso accostamenti incompatibili, metafore e paronomasie; all’oscuro barocchismo di Sinfonietta fa eco un tono di gioiosità malinconica, come di chi si appresti ad invecchiare per il processo naturale della vita. “Piano piano anche tu ti sfilerai dalla stretta/ cruna della rivolta/ per diventare un vecchietto benpensante che sgretola/ croste di massime ottuse (…) sarai raggricchiato, minuscolo, nano/ nella luce palustre della tua notte che avanza,/ avrai tanto freddo, come Varsavia a novembre.” Nell’acrobatico ordine linguistico di Ripellino vive tutta una folla di soggetti e contenuti che riemergono nuovi, liberati dalla cenere del vissuto.

Il 21 aprile del 1978 un collasso cardiocircolatorio, causato dall’aggravarsi delle patologie di cui era afflitto, spegne, ad appena cinquantaquattro anni, Angelo Maria Ripellino. La sua raccolta Autunnale barocco esce nel 1977 e vince il Premio Prati; è l’ultima sua presenza nel mondo delle lettere, ma in precedenza aveva pubblicato altri lavori in prosa: nel 1965 Il trucco e l’anima, sui grandi registi del teatro russo, che gli vale il Premio Viareggio; nel 1973 Praga magica, la sua opera più conosciuta; nel 1975 Storie del bosco boemo. Postumo, a cura di Giacinto Spagnoletti, viene stampato Scontraffatte chimere, che raccoglie tutti gli inediti, anche quelli giovanili, del grande poeta siciliano. Sebbene appassionato cultore, traduttore e saggista di opere della letteratura russa e boema, Angelo Maria Ripellino si ritenne sempre primariamente poeta e lo amareggiò che, nella società letteraria del tempo,  non venisse messo mai al primo posto questo suo ruolo. Solo all’inizio di questo nuovo secolo alcuni giovani studiosi hanno intrapreso un percorso di recupero e di studio dell’opera poetica ripelliniana e curato nuove edizioni delle sue raccolte edite e delle sue poesie inedite.

Anna Maria Bonfiglio

 

Poesie

 

Verrai ogni tanto a visitarmi sottoterra
come una bionda Persefone
in mezzo alle larve baritonali.
Ricordi: già ne parlammo a Wiesbaden.
mi promettesti che quando prenderò alloggio dall’orco
di tanto in tanto verrai
per un breve soggiorno
a consolare la mia malinconia,
il mio desiderio della terra,
a narrarmi degli amici.
E non importa se figli
ti prenderanno per matta, pensando
che ciò che è morto va dimenticato
e che è assurdo questo lugubre turismo.

* * *

Non si accorgeranno nemmeno
di quello che hai scritto.
Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi.
Resterai sguattero, guitto
in questa fiera di gattigrù delle lettere:
Sei un viluppo di piume, una balla di fieno,
carica di gorgheggianti uccellini.
Ma per chi cantano? Chi mai li ascolta?
Merda. Sarebbe meglio scrivere
novelle per pennivendoli, romanzi zuccherini,
storielle piovose, canzoni da balera.
Ma è tardi ormai. Scriverai ancora versi,
questa feccia di vino che nessuno vuole bere.

 

* * *

Tu pensi che, quando cresce il tuo male,

si spengano i fuochi, le barche non prendano il mare,

si proibisca ai cani di latrare,

i figli si incantino come sculture di sale.

 

Oh no, lascia perdere. Osserva

la ghiandaia azzurra che ruba

il suo ultimo cucchiaino d’argento.

Ferma lo sguardo sgomento

Sull’estranea bellezza di questa caraffa in cui luccica

tutto il ghiaccio del mondo.

 

 

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Nota di lettura di Anna Maria Bonfiglio su “Nei giorni per versi” di Anna Maria Curci, Ed. ArcipelagoItaca, 2019

20 mercoledì Mag 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Anna Maria Curci

Ci sono libri che leggi per interesse, libri che leggi per piacere, libri che leggi per imparare. Poi ci sono libri che non smetti mai di leggere, libri che ti accompagnano per tutta la vita e che ogni volta che li leggi ti trasmettono qualcosa di nuovo e di diverso. E’ a questa categoria, che per comodità definirei evergreen, che appartiene Nei giorni per versi della poetessa, scrittrice e traduttrice Anna Maria Curci. Ho incontrato la scrittura di Anna Maria leggendo delle pagine di prosa nelle quali, attraverso i colori degli abiti indossati, venivano ricordati figure e fatti della vita dell’autrice e ne sono rimasta affascinata. E’ passato qualche anno ma ricordo ancora l’emozione che quella lettura mi ha trasmesso, rinviandomi ad un tempo che anche io avevo vissuto e ricordandomi nella figura della madre la mia stessa madre. Così ho iniziato a seguirla, ammirando lo stile della sua scrittura, la professionalità nell’espansione del proprio “sapere”, sempre misurata e profonda, e la generosità nella promozione della poesia degli altri. Tutto ciò ha trovato ulteriore compimento nella lettura della sua silloge poetica di cui affettuosamente mi ha fatto prezioso dono.

Nei giorni per versi  mi ha catturato subito ma mi ha anche messo un po’ di soggezione: cosa potevo dire io di una così perfetta operazione di stile, dove significato e significante si intersecavano e la parola poetica, tanto criptica quanto suggestiva, apriva un mondo infinito di interpretazioni? E più leggevo più mi sentivo immersa in un universo di significazioni. La voce poetica di Anna Maria Curci “netta la parola come sfogliando un cespo fino al suo cuore tenero”, scrive nella accurata e illuminante prefazione Patrizia Sardisco, sottolineando proprio la capacità dell’autrice di fulminare con il verso l’attimo cogente che spetta al lettore decodificare. Già il titolo della silloge si pone come primo nucleo generativo di indagine: nei giorni per versi, anaforico e musicale; trascorrere i giorni inseguendo i versi, dedicando tempo ai versi; ma anche nei giorni per-versi, laddove il tempo si manifesta nella sua valenza persecutoria. Le centosettantatré quartine di endecasillabi che compongono la raccolta si snodano senza soluzione di continuità riferendoci un quadro diaristico che fulmina riflessioni, ricordi, squarci di ironia e fustigazioni di costume in un ensamble (e uso questo termine a ragion veduta per l’intrinseco innesto musicale dei versi) di risonanze che coniugano motivi di cronaca quotidiana e colti riferimenti letterari. Il genere letterario che Anna Maria Curci declina in questa raccolta è l’epigramma, canone dominante per l’espressione poetica che traduca in rapida sintesi un’arguta e mordace critica:

 

“Quei rondinotti rannicchiati all’Elba

sono cresciuti, si son fatti corvi.

Non gracchiano, starnazzano eleganti,

librano versi telecomandati”.

 

Metafora del proliferare versificatorio, la quartina ricorda le novecentesche schermaglie di poeti quali, solo per citarne alcuni, Caproni, Montale e Flaiano che se le mandavano a dire tanto in maniera manifesta quanto in metafora. E ancora Curci:

 

“Si affanneranno nuove schiere d’api

a degustare (già mutato il gene)

sputando il seme, trattenendo il vago.

Il festone chiassoso empie le gote.”

 

Garbo ed eleganza accompagnano l’ironia e il rammarico per l’uso-abuso del genere poesia, parola che può ritorcersi contro:

 

“Quando mi troverai già sfilacciata

dalla tua attesa inerte, mio poeta,

bollandoti la fronte penserai

che mai io sono innocua, io parola.”

 

Sferzante monito al doveroso riguardo che  esige l’espressione poetica. Ma l’obiettivo della nostra poetessa zooma anche su altre realtà, indaga la contemporaneità, gli affetti, l’arte, ha sguardi di tenerezza per il passato:

 

“A fine luglio, nei giorni di pioggia,

giocavamo a Monopoli o a Carriere.

Meteo e tempo ci erano propizi.

Mai più sarebbe stato come allora.”

 

Andando avanti nella lettura incontriamo quartine di carattere intimo, la poetessa a confronto con se stessa, un’eva versus eva, donna, figlia, moglie, madre, docente, che si ritrovano infine in un unicum.

“Mi cullo in quello che di me dicevi;

          metà e metà, formica e poi cicala,

          un ibrido che ascolta, stipa e canta.

          Ti cerco nella sera sopraggiunta.”

 

E allora i versi si abbandonano  all’umbratile malinconia, alla tentazione di una resa dei conti, ai fatali distacchi, “oggetti smarriti alla dogana”. La lettura ci aggancia alle pagine e una dopo l’altra non sai più quale quartina scegliere da citare per chiudere questa mia breve nota di lettura:

“Man mano che si accende lume a lume

           Sostiamo nel silenzio che rapprende

           Lo squarcio all’improvviso rivelato.

           Noi che veniamo al mondo lacerando.”

 

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

 

 

 

 

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VITE ORDINARIE di Franca Alaimo (Ladolfi Editore)

22 mercoledì Apr 2020

Posted by marian2643 in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Anna Maria Bonfiglio, Franca Alaimo

Il romanzo di formazione di una donna che voleva spezzare le catene del perbenismo

Questo denso romanzo è la storia di un rapporto di affetto e di complicità fra due donne, due cugine, attorno alle quali s’intrecciano le vite di molti altri personaggi, sia dell’ambito affettivo-familiare sia di carattere occasionale, che hanno in qualche modo contiguità con le protagoniste principali. La narrazione inizia con l’attesa di una fine: Giovanna aspetta una notizia che sa essere funesta e l’attende prendendosi cura delle sue rose e divagando con la mente su alcuni ricordi. Comincia così a delinearsi la natura di questo rapporto parentale, che non si spezzerà mai se non con la perdita fisica di una delle due parti. Giovanna è stata una bambina vivace, intelligente e creativa, dotata di grande volontà e di acuta sensibilità; ha conosciuto molto presto la verità sulla sua condizione di figlia adottiva, ma ha taciuto, macerandosi nel desiderio di conoscere le sue reali origini e manifestando talvolta insofferenza verso i propri genitori adottivi. Ha un rapporto di affettuosa intimità con il padre, non così con Luisa, la madre, con la quale entra ben presto in conflitto. In questo triangolo familiare si configura il legame con la cugina Nina, di alcuni anni maggiore di lei, che con il tempo diverrà di reciproco scambio anche intellettuale. Iniziamo così ad entrare nell’apparato parentale di Giovanna, costituito da nonni, zii, cugini e affini, che cominciamo a conoscere man mano che sfilano davanti al corpo senza vita di Nina, riportando alla memoria di Giovanna tutto il passato. Rivedere la signora Cannella, amica della madre, apre il primo spaccato di ricordi: Giovanna, che è appena una ragazzina, accompagna la madre dall’amica e, non vista, ascolta le loro conversazione; scopre così che la mamma mette in discussione il suo aspetto fisico che ritiene affatto attraente. La giovane entra in conflitto con la madre, il suo carattere si fa indipendente e determinato, ribelle all’educazione repressiva che le si vuole imporre. E’ Nina, la cugina più grande, che la protegge e  le permette di vivere con lei le esperienze di donna adulta. In queste pagine, come in molte altre, l’autrice mostra una notevole vocazione  per la descrizione dei particolari: luoghi, figure fisiche, natura, tutto viene filtrato dal suo occhio attento ai minimi dettagli e questo definisce il codice stilistico del romanzo.

Il libro è suddiviso in venticinque capitoli, ognuno dei quali rilascia una tessera del mosaico che andrà a costituire il percorso di Giovanna dalla fase preadolescenziale alla maturità, e in questo senso uno snodo importante è il capitolo sette che descrive l’incontro della protagonista con la coetanea Costanza. Sono pagine particolarmente intense, che raccontano di un’amicizia vissuta come un’iniziazione in un’atmosfera di rigore mistico. Siamo nella settimana santa e Giovanna si trova con i genitori ad assistere alla processione del Venerdì Santo dai balconi della casa di Costanza. Chi ha avuto modo di conoscere e seguire almeno una volta questa pratica religiosa ritroverà in queste pagine la stessa emozione e la stessa contrizione che essa induce nell’anima di chi la segue. L’autrice ne fa una descrizione così dettagliata e partecipata, così figurativamente esatta da far sentire il lettore emotivamente presente. Tutto è rappresentato in forma minuziosa e realistica: i cestini con i petali di rose, il balcone adornato da una tovaglia di lino ricamata, la processione che esce dalla Cattedrale e sfila per il corso, il Cristo e l’Addolorata. Finita la processione, le due ragazzine si allontanano dai grandi per rifugiarsi nella camera di Costanza e scambiarsi le proprie confidenze. Qui si consuma metaforicamente il passaggio di Giovanna dalla condizione infantile allo stato dell’adolescenza; con l’acquisizione del drammatico segreto che Costanza confida all’amica e con la scoperta dei loro corpi nudi le due giovinette si avviano al loro destino di adulte.

Giovanna e Nina, pur amandosi, si scontrano sulle questioni dei principi morali e religiosi e sulla condotta di vita. La prima avverte fin dall’adolescenza l’esigenza di scavalcare l’educazione piccolo-borghese dell’entourage familiare, di affrancarsi dalla famiglia e di vivere nella libertà l’amore per l’arte; la seconda, pur avvertendo il cambiamento sociale in atto, non possiede l’energia intellettuale della cugina e resta imprigionata nei pregiudizi e nei tabù che le sono stati trasmessi. Il loro rapporto resta comunque integro e insieme attraversano la temperie del ’68, seppure con aperture diverse. Nina rimane permeata dal suo involucro convenzionale, Giovanna, ormai studentessa universitaria, frequenta i colleghi della contestazione e condivide i loro programmi, più per una forma di provocazione verso l’educazione ricevuta che per vero impegno politico. Il romanzo è anche la rappresentazione di una fetta di società piccolo borghese attraverso la cui esistenza è possibile conoscere, e per alcuni lettori ri-conoscere, usi e costumi di un tempo ormai superato ma anche la rete di affetti e di complicità che univa i componenti di una famiglia e i loro piccoli espedienti per la sopravvivenza e per il mantenimento dell’immagine sociale. La struttura formale di Vite ordinarie è organizzata in modo che ogni capitolo risulti una narrazione a se stante che, se estrapolata dal contesto, può essere letta come un racconto concluso. Costanza, La signora Cannella, La storia di Sebastian, Il giorno delle lumache, solo per fare degli esempi, vivono autonomamente pur essendo parte integrante del quadro d’insieme. Franca Alaimo compie con questo romanzo un percorso nel tempo, la sua Giovanna non fa bilanci, non si arroga nessun diritto di giudizio, prende atto del corso che ha avuto la sua esistenza e va avanti consapevole della ricchezza e delle perdite che la vita ha in serbo per ogni creatura e, alla fine, vince la scommessa.

Anna Maria Bonfiglio

 

 

 

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Di Pirandello poeta

01 mercoledì Apr 2020

Posted by marian2643 in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Luigi Pirandello, poesia

Di Luigi Pirandello romanziere e drammaturgo non si finisce mai di scrivere, poco invece si ricorda della sua modesta (per numero) produzione poetica della quale in definitiva non si è mai detto troppo bene. Personalmente ho avuto modo di parlarne in un convegno a lui dedicato in quel di Porto Empedocle, suo e mio paese d’origine, e nell’occasione portare alla superficie quella parte della sua opera considerata minore. Luigi Pirandello pubblica la sua prima raccolta di poesie, Mal giocondo, nel 1889 a Palermo e l’ultima, Fuori di chiave, nel 1912 a Genova. La sua produzione poetica copre quindi un arco di tempo a cavallo fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, periodo di transizione fra due secoli, momento storico caratterizzato dal tramonto della civiltà del positivismo e dal sorgere di un’epoca protesa alla ricerca di nuovi valori e altre certezze. Ciò genera nel poeta quello smarrimento morale che egli indaga nel saggio giovanile Arte e coscienza d’oggi, nel quale fra l’altro si pone questa domanda:”Quali saranno le norme della condotta, quali azioni saranno reputate giuste o ingiuste?” Interrogativo ancora attuale, per motivi certo diversi ma non per questo meno importanti. Il disorientamento di cui parla Pirandello in questo saggio investe soprattutto i giovani dei quali egli dice:”(I giovani) danno di sé uno spettacolo ancor più triste. Nei(loro) cervelli e nelle (loro) coscienze regna una straordinaria confusione“. Il passaggio da un secolo all’altro è quello che abbiamo vissuto e viviamo anche noi, poeti contemporanei che hanno varcato la soglia del duemila direi quasi con la stessa confusione, con gli stessi problemi di coscienza, sebbene di natura diversa e di altra provenienza. La crisi a cui si riferisce Pirandello è quella dell’Italia post-unitaria, della repressione dei Fasci siciliani, dello scandalo della Banca Romana che metteva il dito nella piaga della corruzione della classe dirigente ed è la crisi storica e la delusione giovanile che irrompono in Mal giocondo,  libro che già nell’ossimoro del titolo riconduce alla visione di tutta la tematica pirandelliana. In questa prima prova poetica dello scrittore agrigentino si rileva la sfiducia nelle classi dirigenti, negli uomini politici responsabili di mal governo, in uno stato rimasto sostanzialmente burocratico e poliziesco. L’amarezza che ne viene fuori per il fallimento delle speranze risorgimentali sarà poi espressa più compiutamente nel romanzo I vecchi e i giovani dove assume contorni più decisi e densi di significati simbolici. A questa tematica fa da contrappunto la polemica contro la repressione dell’eros, il desiderio di vita e la ribellione alla convenzionalità delle leggi moralistiche. La cifra stilistica è sostenuta da una lingua viva, lontana dal logorato uso letterario e rinnovata da un’espressione semanticamente essenziale.

A monte della seconda raccolta, Fuori di chiave, si intravede in filigrana la poetica del saggio L’umorismo, quel “sentimento del contrario” che nella poesia Preludio orchestrale riporta alla condizione dell’uomo che avverte la pena di non essere in armonia con se stesso e con il mondo, che si sente creatura alienata, appunto “fuori di chiave”. Il tema della dissociazione della personalità, delle molteplici espressioni dell’io, delle “forme” in cui vive l’individuo, gabbie che lo imprigionano e lo separano dall’altro se stesso, è ancora attuale e vissuto in certa poesia contemporanea che avverte il disagio di un’esistenza priva di certezze e d’ogni consolatoria illusione, vittima della cosiddetta società dell’immagine che ha costruito modelli fisici sempre più diretti alla perfezione fisica e sempre meno tesi alla vera ed autentica essenza dell’uomo. Nella poesia Ritorno, scritta a Porto Empedocle nel 1910, Pirandello affronta il legame che unisce l’uomo alle sue radici geografiche. Egli parla all’altro se stesso, al giovane che dal terrazzo della sua casa, “cassero d’una nave a cui volgea/prospera allora e lieta la fortuna“, sentiva la smania dell’attesa che lo allontanava da tutto ciò che lo circondava. La fisionomia del borgo marinaro, la realtà fisica e sociale del luogo (il porto, il mare, le banchine dalle quali gli zolfatari trasportavano lo zolfo sulle navi da carico) ritornano accompagnate dall’amarezza per l’avversa sorte che “cangiò la fortuna” della sua famiglia. Non sembri allora peregrino accostare questa tensione poetica all’attuale filone di tanta letteratura dell’emigrazione, spesso espressa nell’ambigua valenza di desiderio di appartenenza alla nuova terra e nostalgia dell’habitat originario.

Pirandello poeta avverte l’esigenza del rinnovamento del linguaggio, cerca una sua originale lingua che non percorra strade già sperimentate e sebbene molti dei temi affrontati siano fisiologicamente inattuali possiamo riconoscervi l’estetica baudelairiana della condizione poeta: un sovversivo che crede nella forza della poesia come atto d’accusa verso un sistema governato da leggi se vogliamo utopiche ma necessarie alla sopravvivenza dell’artista.

Anna Maria Bonfiglio

 

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