E’ difficile scrivere un articolo intelligente sui premi letterari, è come dissertare sugli incentivi alla migliore performance aziendale. Individuare i meriti oggettivi è impossibile, nessun datore di lavoro è onnisciente, decide in base alla propria visione e i premi puntualmente producono una spaccatura; un premiato gongolante da un lato e una pletora di dipendenti immusoniti all’altro capo.
E’ recente la proclamazione di Vivian Lamarque vincitrice della prima edizione del premio Strega-poesia, l’attribuzione del Nobel per la letteratura a Jon Fosse, e, guardando all’ambiente letterario “social” più vicino, quasi in sincronia sono stati resi noti gli esiti dei premi: Lorenzo Montano, Un monte di poesia e Guido Gozzano. La prima considerazione che mi è venuta alla mente è che quest’anno c’è stato un singolare sovrapporsi contemporaneo di proclamazioni. Frutti autunnali che maturano come l’uva. Non so se ciò sia avvenuto casualmente o sia stata una scelta strategica per produrre il risultato di inondare il “mercato” d’informazioni, cioè sollevare onda su onda e spiaggiare le possibili critiche subito superate dalla notizia successiva.
Per lo Strega, mi pare che la premiazione della poetessa Vivian Lamarque abbia accontentato un po’ tutti, condivisibile la scelta della giuria, già da molti preconizzata. E’ un genere poetico apparentemente leggero, con punte di profondità che fanno pensare, con sottofondo di ironia che fa sorridere. Una poesia che solletica e consola, paziente, acuta, bonaria. Il titolo della raccolta “L’amore da vecchia” strizza l’occhio alla narrazione biografica e autoironica, affine, quanto meno in spirito (meno nella forma) a quella di Wislawa Szymborska, premio Nobel 1996. Mi sembra perciò di poter dire che nell’ultimo trentennio sia più apprezzata la poesia gradevole, accattivante, che tenta di essere popolare e distrae dalla pesantezza dell’essere.
Singolare, inconsapevole e perciò in un certo senso poetico il contrasto inscenato sul palco della serata finale tra le figure di premiata e conduttrice. Tra l’outifit della poetessa, semplice e comodo, nient’affatto appariscente dai capelli alla punta delle scarpe in tutta la sua statura piccoletta, in confronto a Ema Stokholma, la presentatrice francese, figura chilometrica, con erre moscia roteante, outfit geometrico elegante, capelli sbarazzini sul capo svettante a vertiginose altezze. Il contrasto era talmente spudorato da essere ironico, quasi corollario alla poesia della Lamarque.
La critica accademica non è entusiasta di questa scelta, l’eco è giunto nella serata di premiazione per bocca della stessa vincitrice che ha riportato l’appunto di puerilità rivolto alla sua poesia. Dal mio canto invece chiedo quale spessore critico abbia l’autrice, i saggi e gli approfondimenti, quanti libri abbia letto e quante poesie d’altri, domande che non hanno il fine di denigrare o screditare ma capire quanto le dinamiche della creazione dialoghino con una riconosciuta profondità critico-letteraria, ampia conoscenza della produzione poetica nostrana/internazionale oppure se ne prescindano, come si miscelano le due attitudini poetico/critica in ogni poeta di successo conclamato. Pongo il dubbio, ma conosco già la risposta, e non sta nella qualità della poesia in sé, né nelle doti dell’autore, né tantomeno nella sua preparazione letteraria o brillante lavoro critico e propedeutico. Il mistero alchemico si risolve in tre vocaboli: consenso, potere, business. Collante tra tutti il colpo di fortuna.
Sul palcoscenico la Lamarque s’è detta fortunata di ricevere il premio in vita, mentre altri poeti ricevono il riconoscimento dopo la loro morte. Considerazione che fa centro in due direzioni. Da un lato perché il premio Strega storico di narrativa quest’anno è stato attribuito postumo, dall’altro perché di frequente accade con la poesia che se ne comprenda pienamente valore e spessore solo dopo che gli autori sono morti, quando cioè non sono più loro stessi a recare testimonianza del proprio dire, ma all’inverso è il proprio dire che dà testimonianza di qualcosa d’importante scritto in vita. Cioè qualcosa che con la morte non può proseguire e che avvertiamo come una perdita. Notoriamente infatti i poeti dopo morti non scrivono più. Qualcuno ha notato che la vittoria della Lamarque è stata scarsamente celebrata dai poeti social. Spiego il fenomeno con la funzione preminente assunta dal social postpandemico nell’ambiente letterario, specificatamente tra i poeti e scrittori. Esso ad alcuni serve quasi totalmente a promuovere parossisticamente e ossessivamente solo se stessi. Una sorta di implosione dell’ego. L’altra ragione, ma è un’illazione – potrebbe essere l’effetto “premio aziendale” (vedi sopra al primo capoverso). Alla fin fine tutti vorremmo essere uno strega.
Degli altri premi: Montano, Un monte di poesia e Guido Gozzano ho notato l’avanzare di nomi per me nuovi in posizioni di pole position. Da anni ho tanti poeti tra i contatti premiati in passate edizioni e in ciò vedevo una sorta di consacrazione del loro essere poeti di successo. Quest’anno invece leggo tanti nomi non noti e non mi pare siano tutti giovani esordienti. Il fenomeno è interessante. Sembrerebbe una sorta di cambio delle guardia o un accantonamento del pregresso. Forse i miei contatti non scrivono più consapevoli della vanità di ogni cosa? Partecipano, ma le loro opere non vengono prese in considerazione? Scrivono ma in un modo che non intercetta le coordinate della specifica commissione? Non partecipano per la scontentezza dei piazzamenti pregressi? Anche qui: tutti vorremmo essere uno strega?
Ognuno nel partecipare a un premio si atteggia con lo spirito che più gli si addice e che muta nel tempo. C’è chi partecipa perché mira al premio in denaro, chi per ricevere un riconoscimento della propria scrittura, dubbioso che essa abbia un valore, chi per aumentare il proprio prestigio personale arricchendo il medagliere, chi per farsi leggere (taluno peraltro dubita che i giurati lo facciano veramente), chi perché frequenta la cerchia letteraria che lo gestisce, e la sostiene, non solo con la quota di partecipazione, ma alimentando la provvista di opere, chi perché apprezza l’operato culturale dell’organizzazione…
Lessi tempo fa a proposito dei premi la considerazione espressa da un professore universitario che ha fatto parte di molte giurie letterarie e che trovo pienamente condivisibile. Nell’ambito di commissioni valutatrici i premi e gli stessi riconoscimenti attribuiti non sono corrispondenti soltanto al valore del valutato o qualità del suo lavoro, ma rispondono a logiche interne (e, probabilmente, anche a pressioni esterne) che muovono il piazzamento verso l’alto o verso il basso o addirittura escludono il candidato, lo sacrificano alle logiche del gruppo. Peso, autorevolezza di uno dei membri in commissione ad esempio. Per spiegare meglio ai profani cosa significhi logica in modo alternativo e terra terra racconto un aneddoto. Molti anni fa, desiderosa di un migliore incarico di lavoro, una collega in gamba si rivolse a un dirigente che faceva grandemente affidamento su di lei e la stimava, egli, per suo conto, sondò il terreno delle possibilità presso i vertici aziendali. L’esito negativo delle consultazioni fu riferito all’interessata condensato in una frase: “E’ che lei non la conosce nessuno”. Una simile motivazione estemporanea potrebbe rientrare nella logica sotterranea delle valutazioni dei premi. Un’ altra non troppo distante dalla precedente, ma in senso opposto è che non si può escludere/scontentare il “pezzo grosso” (autore-editore), per quanto magari il suo lavoro/prodotto non brilli più di tanto o più di altri. Sono tutte, s’intende, esemplificazioni. Va da sé che logica e qualità non sempre vanno a braccetto e le giurie cercano di fare del loro meglio perché non sia troppo evidente.
E quindi essere escluso non significa che il lavoro proposto non abbia un valore tale che avrebbe potuto avere un riconoscimento (difficilmente il primo premio), essere vincitore non significa che altri, collocatisi in posizioni sottostanti, non fossero maggiormente meritevoli. Per chi sta nel mezzo tra questi estremi un più confacente posizionamento poteva essere verso l’alto o viceversa più giù nella “graduatoria”. Possibili rimedi: inserirsi nelle giurie cercando di fare di meglio, creare il proprio premietto condominiale e tentare di farlo divenire storico tra quarant’anni, non partecipare in alcun ruolo. Rimedio quest’ultimo che sottrae alla logica dei premi, gli altri due invece vi si tuffano dentro. Dimenticavo di dire che i concorsi letterari sono specchio di un mondo competitivo, su quanto questo sia criticabile e su come sarebbe meglio funzionasse il mondo in modo alternativo ci sarebbe da scrivere trattati.
Spendo, in una breve digressione, due parole sull’argomento quota di partecipazione, che delineano l’id quod plerumque accidit, memore di aver letto on line di non partecipare a premi letterari in cui si paga una quota di iscrizione perchè non sono seri. A mio avviso non corrisponde al vero, per quanto quelli gratuiti siano comprensibilmente più attraenti. Un’organizzazione che sia strutturata giuridicamente e opera sostiene delle spese, dunque, se è tale e chiede quota di partecipazione, è per sostenere le spese (dal fracobollo alla luce elettrica, al commercialista ecc.). Se il premio è prestigioso e non chiede quota di iscrizione è perchè si autofinanzia ad esempio è una fondazione ben gestita (conta cioè su un capitale iniziale generosamente concesso, generalmente per disposizione di morte e lo fa fruttare) oppure è supportata da finanziatori che ovviamente decidono tutto, per es.casa editrice. Se invece l’organizzazione non è strutturata e chiede una quota di partecipazione lo fa per sostenere le spese compresa la provvista per corrispondere un premio in denaro, se previsto, se invece non chiede contributi è praticamente certo che qualcuno dei gestori sta mettendo mano al portafoglio personale e spende di suo, anche solo nel senso di lavorare tanto e gratuitamente.
In conclusione, appunto perché si sa che la logica dei premi è un concorso di fattori/visioni/aggregazione, più simile ai processi di votazione parlamentare o condominiale che alla conta matematica delle risposte nei test di un concorso, occorre sempre comprendere che il risultato è l’esito di un bilanciamento di opposti e convergenti fattori e, pertanto, da accettare per quello che è. In altri termini occorre partecipare senza eccessive aspettative. Se è andata male e la delusione brucia – la delusione del resto è un sentimento incontrollabile come l’amore, come l’invidia – allora, per dimenticare in fretta, tornare al tornio, le mani sull’argilla, fare i vasari. Cantare.
Il mondo va così… di Battiato.
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