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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi autore: adrianagloriamarigo

La sindrome dell’assenza e la preda delle immagini nelle poesie di Paolo Lago

25 venerdì Mar 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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I Pirati del Sud, La rosa di Pola, Paolo Lago, Paolo Landi

Paolo Lago: I Pirati del Sud, Campanotto, Pasian di Prato 2018

 

La rosa di Pola, Transeuropa, Massa 2019

 

Le raccolte di poesie I Pirati del Sud e La rosa di Pola di Paolo Lago disegnano una serie di visioni che si richiamano in maniera compatta lungo il percorso di una esperienza poetica dettata da un autentico rigore espressivo e da una pronunciata dimensione esistenziale. Per rendere palese la forza delle immagini evocate dall’autore ritengo utile analizzare il dettato di alcune di queste liriche, ricavando una serie di conclusioni che possano emergere dal tessuto particolare dei loro lineamenti compiuti. La prima poesia in questione appartiene a I pirati del Sud, è senza titolo come tutte le altre delle raccolte ed è inserita nella sezione che è denominata come il testo nel suo complesso. «Perderti davvero in quella striscia di luna sul mare»: l’immagine descrive la perdita come lontananza e accostamento di due contenuti della visione che disegnano in fondo un lembo di beatitudine; «ho solo parole per dirlo»: si indica il paradosso di una espressione che avverte l’indigenza delle parole, come se il dire per definizione potesse sottendere altro, per cui il verso punta all’inesprimibile colmo di una pienezza alla quale dovrebbe corrispondere altro rispetto al tracciato esile della parola. E ancora: «ho una penna per morire ai tuoi fianchi lontani su terre»: la penna è l’organo della parola che stabilisce la vicinanza alla perdita, adesso segnata come morte dell’autore, che intende morire accanto alla immagine e alla sostanza visiva della perdita. Di seguito: «puntini rossi e paesi di luce mi sono fiochi dalla mia isola-nave»: il luogo dello sguardo instaurato è dunque nello stesso mare in cui si annuncia la perdita e in cui si smarrisce il desiderio di una partecipazione che acquieti l’animo con il morire. E inoltre: «ho parole per perderti nell’addio delle acque, ho colori e silenzi per perdere occhi»: la visione culmina attraverso l’epifania di una perdita che è anche una resurrezione nel lembo accogliente delle acque, nel conforto delle parole e nel piacere dei colori; e tutto si immerge nella sindrome della negazione e della elisione, dove la perdita è associata all’addio, i colori sono associati alla perdita degli occhi e il silenzio avvolge il momento mistico della perdita stessa che segna una pienezza profonda. Ma non si tratta di un’estasi che affondi in una sorta di esaltazione: «morire in quella striscia di luna sul mare sarebbe lieve, sopravvivo solo  per il dolore greve delle parole». E allora il connubio con la perdita non può essere conseguito, e restano quelle parole che non possono raggiungere l’orizzonte perseguito, e con il peso del loro essere rimandano al paradosso dovuto alla lievità di una perdita non raggiunta. Anche la poesia che segue appartiene a I Pirati del Sud, e questa volta il titolo della relativa sezione è Naufragi. «Al largo la tempesta dei suoi occhi / per poco non mi ha affondato, e a poco / servivano quei balenii fiochi / del faro, nella notte perduto fuoco»: abbiamo un accostamento del desiderio che genera inquietudine e timore, al punto che si avverte la perdita rispetto alle tracce residue del mondo circostante. E tuttavia: «nel porto dei tuoi occhi, le lunghe ciglia / carezzavano il mio scafo che più non osa /  il mare e in quiete stava la mia chiglia, / rapita da un tramonto dalle dita di rosa.»; accade allora che l’immagine si converta, e la precedente linea di fuga si trasformi nella dimensione di un’accoglienza; così il largo e la tempesta lasciano il luogo al porto e alla quiete, e dopo l’angoscia del primo contatto la presenza che ha fatto irruzione induce una sensazione di rapimento che quasi trasmette la beatitudine perseguita nella lirica precedente, e conseguita adesso nel limbo di questa strofa. Ma ancora: «E la tua voce era voce di sirena / ed era nebbia, buio, silenzio, era lei / che mi cullava e scandiva la pena». In questo modo, abbiamo una sintesi tra l’angoscia del primo sguardo e il rapimento segnato dal seguito; infatti la voce culla, ma è voce di sirena, e con essa ritornano le tracce della negazione e della elisione, dove non abbiamo più la perdita e il morire, ma una serie di elementi avvolgenti che tuttavia blandiscono carezzando il naufrago; e la pena richiama il dolore greve delle parole della poesia precedente, ma questa volta emerge il conforto di un abbraccio che trattiene il soggetto e blandisce la sua inquietudine. Infine: «e carezze infinite per i sogni miei, / là a terra, fra i docks e i marinai, era serena / canzone, ma tu canti ed io non so chi sei.». Adesso l’immagine è quasi catturata e ricondotta a terra, al di fuori del luogo naturale del mare, e accompagna colui che ha motivato l’angoscia dell’esordio; e tuttavia la canzone è serena, per cui l’incipit è superato, mentre nella lirica precedente alla fine si conferma lo status dell’indigenza. Questa poesia invece appartiene a La rosa di Pola, alla sezione che ha per titolo La fortezza del Nord. «Ho perduto i tuoi occhi, vampira / sui campanili della fortezza del Nord»: ritorna il fantasma della perdita, legato a uno sfondo esotico; ritorna l’immagine degli occhi, che questa volta non fanno irruzione ma richiamano con il gesto della scomparsa. Di seguito: «da noi sia lontano lo strepito di croci di legno, / di atroci battaglie e di teschi, / la mischia feroce di guerre dei regni del Nord». Il contesto esotico si allarga mettendo in disparte il suo scenario fiammeggiante nel momento stesso nel quale viene convocato alla visione. Inoltre: «È una sera tranquilla / e il tuo morso di luce / mi porta ad un mare d’argento, / a guardare i battelli passare». Il seguito si oppone allora a quanto precede mettendo in scena una dimensione di quiete, entro la quale emerge la traccia della luce che sostituisce la scomparsa degli occhi, ed apre alla visione di un incanto quasi fiabesco in antitesi con i risvolti epici ed ossianici; e in questo modo l’assenza e la mancanza degli occhi sono la premessa per il dono di uno sguardo e di uno spettacolo che il poeta può contemplare a partire dall’evento di una scomparsa oblativa. Così la poetica delle liriche precedenti viene scavata illuminando l’esito di una creazione che si dispone a partire dalla sindrome dell’abbandono. E ancora: «Ma i tuoi occhi ho perduto / fra strade cruente, / fra la gente del Nord che sorride feroce / sui moli che hanno voce di organi cupi». Il riflesso esotico adesso investe il presente, contaminato forse con lo scenario delle leggende; e un turbine visionario dispiega il gesto che ha motivato l’evento della scomparsa: la sindrome dell’assenza dispiega il suo corso allargando lo spettro della visione. E infine: «di violini che si destano in croce / e i tuoi occhi nel vento / che preannuncia l’inverno / siano labbra su un sussurro di vene / siano morsi di rosso / che mi sfiora appena». Questa parte finale della lirica in una sorta di dissolvenza incrociata rappresenta il passaggio dagli echi incombenti dello scenario a una apparizione compiuta  di colei che era scomparsa, e continua comunque ad essere assente: l’immagine della vampira torreggia con i suoi simboli, i suoi effetti sonori e il suo colore, e dolcemente affonda nel gesto di una violenza apparente che viene accolta nei termini di un sortilegio.      Potremmo dire che in queste poesie il problema della perdita assuma una veste ambivalente: da un lato abbiamo l’assenza che genera il senso del vuoto e lo smarrimento, dall’altro abbiamo la preda delle immagini che vengono afferrate e il loro potere consolatorio. Ma non sembra che vinca la ricerca di una consolazione in grado di risarcire l’effetto di perdita; piuttosto, l’assenza medesima e la distanza sembrano segnare il culmine di una beatitudine dello sguardo e di un estro della memoria; o ancora, si direbbe che le immagini convocate a partire dalla  loro scomparsa siano predilette proprio attraverso la forma della loro distanza. E in fondo, se la sirena è inconoscibile per definizione, da un lato è illusorio scoprire le sue sembianze, e da un altro lato l’eventuale scoperta potrebbe avere un esito annichilente. L’effetto estetico della consolazione delle immagini richiama allora un punto di vista leopardiano secondo il quale il dominio della illusione è l’unico modo attraverso il quale attingere una pienezza; ma in queste poesie non si avverte alcuna eco di una sorta di pessimismo cosmico, e la loro misura da camera si limita al sortilegio di alcune sembianze rispetto alle quali non viene posto il problema di un fondamento; ed è in questo senso che l’autore attraverso gli stessi ingredienti malinconici invita il lettore a perdersi nel godimento della visione poetica, concepita nei termini di una espressione possibile della esistenza. È poi anche vero che questo invito a fruire di un orizzonte estetico è legato ad una passione per gli scenari esotici, nonché ad alcuni fantasmi erotici o amorosi del poeta; ma entrambi questi elementi vengono risolti in un’atmosfera sospesa, entro la quale l’ignoto e la sindrome dell’assenza richiedono di avventurarsi dentro gli enigmi di una immaginazione allo stato puro, incline ad una conciliazione  che assume il proprio modo di essere.

Paolo Landi

 

 

da I pirati del sud   in I pirati del sud

 

Non dirmi che ho perso l’amore

nel deserto di un aperto dolore,

perché per te ho steso suoni di nave

verso la notte alta dalle croci di stelle,

 

bruciato come l’olivastro sulla strada

sono sceso a patti con chi ha solo il porto negli occhi,

e malandrino muore martire del mare per vie senza cuore.

 

Ma sogni io ho teso,

ho regalato sguardi di canto ai palazzi abbruciati,

alle vite già spese,

stupendamente stese al sole fra caseggiati,

ma loro non cambiano e restano

su strade feroci e crudeli

dopo avere imparato in scuole atroci di periferia

quanto sia bella e orrenda la vita.

 

Ho steso sogni,

ho sogni di nave da regalare,

ho silenzi assordanti da accarezzare

per un bacio ai tuoi occhi che mi rendono folle

tra le folle stupende

di questa terra crudele di luce.

 

 

 

da La rosa di Pola   in Desiderio di vento

 

Portami al tuo sogno d’inverno,

vampira,

fra mucchi di legna accatastata

e affreschi policromi sbiaditi

su palazzi di pietra.

Ci si prepara all’autunno

e l’autunno è dolce quassù,

rivestito di rosso di piante e di labbra,

le tue labbra nel bosco che rilucono piano.

Sento già l’odore di legna bruciata,

odore di autunni e di inverni d’incanto,

scendono alte le ombre sui monti:

portami alla tua neve che ami,

alle foglie morte di ottobre,

alle tue folate di vento

da ascoltare al riparo in giacigli di luce lunare,

le malie amare lasciale fuori

dalla porta di legno.

Segno d’autunno è il vento di oggi,

una pioggia leggera e l’odore di stufe

ed è un sogno di vento

il tuo sogno,

il tuo desiderio

sia carezza che apre il mio canto

 

Paolo Lago

 

Biobibliografia

 

Laureato in lettere classiche all’Università di Pisa, Paolo Lago è dottore di ricerca in “Letterature Straniere e Scienze della Letteratura” presso l’Università di Verona e in “Scienze linguistiche, filologiche e letterarie” presso l’Università di Padova. Critico letterario e cinematografico, collabora con “Alias”, “Carmilla online”, “Il Pickwick”, “Il lavoro culturale”, “Yawp: giornale di letterature e filosofie”; è autore di numerosi saggi critici fra i quali ricordiamo L’ombra corsara di Menippo. La linea culturale menippea, fra letteratura e cinema, da Pasolini a Arbasino e Fellini, Le Monnier, 2007; I personaggi classici secondo Metastasio, Fiorini, 2010; La nave, lo spazio e l’Altro“, Mimesis, 2016; Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij, Clinamen, 2019. Ha pubblicato le raccolte di poesie I pirati del sud, Campanotto, 2018 e La rosa di Pola, Transeuropa, 2019. Attualmente insegna materie letterarie presso il liceo “Federigo Enriques” di Livorno. Per “Città filosofica” ha tenuto due cicli di lezioni sul cinema (Lynch, Tarkovskij, Herzog, Pasolini), ha partecipato a tre edizioni di “Luogo al dialogo” e curato il Convegno “Pasolini uomo di lettere” tenutosi a Livorno nel 2018.

 

 

 

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Incontro con il traduttore. Il mestiere del traduttore secondo Silvio Raffo.

18 venerdì Mar 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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EMILY DICKINSON, Natura la più dolce delle madri, Silvio Raffo

 

Vorremmo conoscere qualcosa di più sul mestiere (o professione?) del traduttore, su questo “tradire” per “restituire” in altra lingua dall’originaria un testo che spesso è scelto per affinità: il contenuto, la forma, il significante esercitano sicuramente nel traduttore una fascinazione per la quale si sceglie di trasferire in altra lingua la bellezza percepita nel testo originario. Ci rivolgiamo al poeta Silvio Raffo, traduttore dall’inglese in lingua italiana di poetesse anglo–americane, in particolare di Emily Dickinson di cui è il maggiore studioso.

  1. Silvio Raffo, grazie di aver accolto il nostro invito. I lettori del blog “Limina Mundi” sono interessati a conoscere il lavoro del traduttore; tu, però, sei anche poeta, scrittore, saggista, collabori inoltre a riviste specialistiche di poesia e hai curato le opere di poetesse italiane dimenticate portando a nuova luce Sibilla Aleramo, Amalia Guglielminetti, Ada Negri: ci illustri la tua formazione, il percorso, l’evoluzione, la scelta di tradurre i libri degli altri e perché la preferenza della lingua inglese, in particolare la poesia delle poetesse?

Ho iniziato a tradurre poesia per puro diletto, diciamo per amore. Sentivo il bisogno di ricreare in italiano i testi dei miei poeti preferiti per correggere i difetti delle traduzioni che conoscevo, in molti casi aridamente letterali o pomposamente enfatiche (specie per i grandi dell’Ottocento). L’inglese è sempre stata la mia lingua prediletta, una sorta di lingua interiore, come del resto il greco. Il colpo di fulmine si è verificato con Emily Dickinson, di cui a 14 anni lessi sull’antologia To make a prairie it takes a clover and one bee. Fra i 14 e i 17 anni tradussi circa un centinaio di liriche su un quadernetto. Era soprattutto un modo di rimediare alla solitudine. Le altre poetesse sono tutte sue sorelle minori. Sono state sempre delle ‘relazioni’ oltre che delle traduzioni. Amori ultraterreni con amate invisibili. Solo nella maturità, verso i cinquant’anni, ho accolto nel mio harem anche figure maschili: Philip Larkin, Branwell Bronte, Alfred Douglas. Si trattava sempre di soggetti solitari, sradicati, incompresi o, per usare un termine abusato, “diversi”.

  1. Padronanza della lingua madre e della lingua da tradurre; fini conoscenze tecniche nell’ordine della parola, della grammatica, della sintassi; sensibilità inventiva e poetica sono le caratteristiche fondamentali che occorre possedere per la traduzione: tuttavia non è difficile pensare che il traduttore sia anche autore, sia corredato di un esprit de finesse indispensabile al buon esito dell’opera.

 

Sono convinto che per tradurre bene poesia occorra essere poeti. È proprio l’esprit de finesse che non può mancare, la sintonia profonda di due anime poetiche anche tecnicamente affini. Non potrei mai tradurre autori non melodici o perlomeno caratterizzati da una riconoscibile musicalità. Da Adelphi mi fu proposto Derek Walcott e rifiutai. Quando il traduttore è un poeta, il risultato è una ri-creazione vitale del modello di partenza, cui si mantiene fedele per metri, ritmi e spesso anche rime: traduzione e al tempo stesso opera autonoma, vivente di vita propria. E può talvolta accadere che una traduzione–miracolo, incredibile ma non impossibile, sia poeticamente più convincente dell’originale.

 

  1. Intorno alla figura del traduttore esiste un luogo comune: la “solitudine del traduttore”. È solo un retaggio romantico o realmente è condizione necessaria o, forse, acquisita nelle lunghe ore a contatto con “i libri degli altri”, i dizionari, l’ascolto del suono delle parole nella lingua originaria e in quella finale?

 

È condizione a mio avviso necessaria.

 

  1. Ancora: quanto è importante l’incontro con altri traduttori, il confrontarsi con altre esperienze, il viaggio, la conoscenza diretta con un autore per il quale si nutre un sentimento di ammirazione, una specchiatura derivante dall’uso della parola, dai contenuti dei testi?

 

Raramente, direi quasi mai, mi sono confrontato con altri traduttori. Solo quando ho lavorato su testi in spagnolo e francese ho tenuto conto di versioni altrui, sempre discostandomene, alla dovuta distanza. Piuttosto ho chiesto consigli nel corso di un lavoro di traduzione a persone della cui autorità mi fidavo, come ad esempio per la Dickinson a Margherita Guidacci.

 

  1. È corretto pensare che, riguardo al linguaggio, l’esperienza della traduzione «insieme al tempo che scorre, forma degli strati nella nostra lingua madre, e inevitabilmente le parole che usiamo sono sempre nostre», come dichiara la traduttrice Gioia Guerzoni?

 

Le parole, si, sono sempre nostre.

 

  1. Quanto è importante la fedeltà al testo? È pensabile, accettabile l’idea di fare la sovrapposizione della lingua finale a quella iniziale? Oppure la lingua, ogni lingua, ha una struttura psichica che non consente il calco e, pertanto, l’invenzione è non solo naturale, ma addirittura auspicabile come atto del pensiero immaginale, soprattutto nei luoghi della poesia?

 

Come ci insegna la psicolinguistica, disciplina che ho insegnato per anni ai traduttori e interpreti, ogni lingua ha una sua specifica struttura psichica (come un suo specifico effetto fonetico) che non consente calchi. Certo è compito del traduttore trovare combinazioni il più possibile simili a quelle del testo originale. Se Edgar Allan Poe usa fonemi dal suono e dall’effetto lugubri per rendere una determinata situazione psichica, il traduttore dovrà cercare di fare altrettanto nella sua lingua. Se Verlaine nella sua Chanson d’Automne usa i fonemi «sanglots longs», il traduttore preferirà in italiano il vocabolo ‘singulto’ a ‘singhiozzo’ per riprodurre l’effetto della liquidità strangolata.

 

  1. Ne deriva che la traduzione presenta sempre un problema, poiché si va a compiere non solo la versione della psiche di una lingua nella psiche di un’altra lingua, ma anche la versione della psiche dell’autore nella psiche del traduttore, il quale viene a trovarsi nella posizione di decifratore del mondo logico– immaginifico dell’autore senza mai raggiungerne gli abissi, testimoniando invece che sussistono, imprendibili, gli «arcani più segreti del meraviglioso fenomeno della parola» (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione)

 

Sì, certo, è un gioco di interazione osmotica. Non si può compiere senza una comunicazione intrapsichica.

 

  1. Inoltre: esiste un “talento”, una disposizione innata al linguaggio per cui il traduttore avvicina la parola dell’autore in una sorta di invisibilità in modo da non far percepire la propria abilità linguistica?

 

Il talento è qualità indispensabile, condicio sine qua non.

 

  1. Ritieni appropriata anche a te l’espressione del traduttore messicano Hiram Barrios «Costruiamo ponti» da cui si deduce che il traduttore si pone in una relazione etica, da mediatore culturale, per cui la traduzione è non solo rendere al lettore l’ambiente vibrante l’anima del testo, ma anche l’avvicinare culture e saperi differenti, prospettare scambi culturali, incontri di intelletti?

 

Sottoscrivo alla lettera: il traduttore è mediatore culturale.

 

Silvio Raffo

 

Biobibliografia

Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. Ultime opere: il romanzo Gli angeli della casa, Elliot Edizioni, 2021, la silloge poetica Il taccuino del recluso, Interno Poesia, 2021, la traduzione di una scelta dei “Bollettini dell’Immortalità” di E. Dickinson Natura la più dolce delle madri, Elliot Edizioni, 2021. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019

da  Natura la più dolce delle madri

12

The morns are meeker than they were –

The nuts are getting brown –

The berry’s cheek is plumper –

The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf –

The field a scarlet gown –

Lest I sh’ d be old fashioned

I’ll put a trinket on.

 

 

 

12

Si son fatte più miti le mattine –

son diventate più scure le noci –

e le bacche hanno un viso più rotondo –

la Rosa ha abbandonato la città.

L’Acero indossa una sciarpa più gaia,

e la campagna una gonna scarlatta.

Per non esser fuori moda

indosserò un gioiello.

 

 

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John Taylor: “TRANSIZIONI”, Lyriks, 2021. Sei frammenti e un commento breve di Adriana Gloria Marigo.

04 venerdì Mar 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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John Taylor, Transizioni

TRANSIZIONI, traduzione di Marco Morello; tre illustrazioni di Alekos Fassianos

 

John Taylor: TRANSIZIONI

LYRIKS, 2021

Postfazione di Tommaso Di Dio e Franca Mancinelli

 

A partire da L’oscuro splendore, passando per Oblò, fino a Transizioni la poetica di John Taylor si colloca e perfeziona intorno ad alcuni precisi temi che assurgono a valore di mitologema: se nella prima raccolta i versi scolpiti con finezza essenziale ci consegnano la «ricerca della luce nell’oscurità e l’oscurità nella luce» secondo una cartografia poetica che annuncia le forme della terra, le fluidità dell’acqua, le incisive presenze affioranti dalle basse maree, le enigmatiche luccicanze di «qualche fonte di luce / nascosta» e in Oblò si compie il rito del viaggio – topos carico di variazioni fenomeniche, di allusioni a vaghi accadimenti che s’inverano nella parola “isola” e nel simbolo circolare dell’oblò che lascia intravedere una marittimità nordica, intramata di foschie, «linee nebbiose», «grigia pioviggine», «blu di mezzanotte» –, in Transizioni l’iniziale baluginante “splendore” si posa con ferma sovranità attimale entro i confini di una geografia che nel poeta vibra come cara presenza archetipale: la luce onnipresente che cade è luce rarefatta e incidente, transita «… sulla pietra / attraverso la sabbia / per tornare al mare» dove non s’inabissa e continua a brillare. Il rito della luce mediterranea in Atene, il rito della luce settentrionale a Sète: due luoghi percorsi dai numi della terra, dell’aria, del mare che tutto toccando, tutto inverano, tutto dissolvono affidando all’attimo, al fuggevole ritmo del tempo la cura del ricordo, la memorazione delle «acque millenarie», la percezione «del cambiamento costante», le cui figure esprimono le stratificazioni dell’umana avventura, le presenze dissolte e riemergenti lungo il tempo, le ineludibili disposizioni del cosmo «mentre cerchi / bagliori stabili sulla superficie // che si regolano / che regolano / per un istante» la inevitabile frammentata malìa del mondo.

.

Adriana Gloria Marigo

 

 

da  IL TACCUINO ATENIESE

 

*

come un uccello

preso al laccio in una trappola

geometrica

conosci solo il desiderio

di volar via dalle forme

*

da una sagoma semicesellata

te ne sei andato

l’incompletezza

completa

*

colonne sorreggono ancora un tetto

per tutta la vita

sei andato in giro

immaginando il pieno

immaginando il vuoto

oggi questo sembra

pietra

aria

luminosa

piena

vuota

luce solare

 

 

da IL MARE A SÈTE

*

apparizione

poi parvenza

se vi è differenza

lo scintillio

dell’aria

sull’acqua

 

così uniforme

così avvolto dalla luce nebbiosa

il mare qualcos’altro

in quest’ora senza vento

che cos’è

vicino e lontano

è sempre cos’è

e cosa non è

*

sassi arrotondati levigati

da acque millenarie

o dal tuo improvviso desiderio di purezza

al limite della sabbia

e del cambiamento costante

nella tua mente

li prendi in mano

li esamini

li rigetti in mare

tutti i sassi imperfetti

tutti i desideri imperfetti

*

forse i gabbiani

devono credere

e persino le conchiglie di carne viva

nei loro recessi acquatici

tra le alghe ondeggianti

tu non lo sai

forse il vento

forse le onde

faranno delle allusioni

mormorando mentre si allontanano

tenti di ascoltare

questo primo mattino

se solo

fosse il primo mattino

 

 

 

Biobibliografia

John Taylor è scrittore e traduttore. Nato nel 1952 a Des Moines (Stati Uniti), vive in Francia dal 1977. È autore di racconti, prose brevi e di poesie. Tra i suoi libri più recenti: The Dark Brightness (2017), Grassy Stairways (2017) e Remembrance of Water & Twenty-Five Trees (2018). In italiano sono usciti, nella traduzione di Marco Morello: Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon, 2007), Se cade la notte (Joker, 2014) e L’oscuro splendore (Mimesis-Hebenon, 2018). Portholes (Oblò) è in uscita nell’autunno 2019 per Pietre Vive Editore. Ha tradotto dal francese diversi poeti tra cui Philippe Jaccottet, Pierre-Albert Jourdan, Pierre Chappuis, Pierre Voélin e José-Flore Tappy. Nel 2013 ha vinto il premio dell’Academy of American Poets per un progetto di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions, 2015). Recentemente, ha tradotto Libretto di transito di Franca Mancinelli: The Little Book of Passage (The Bitter Oleander Press, Fayetteville, New York 2018).

 

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Incontro con il traduttore. Il mestiere del traduttore secondo Hiram Barrios.

25 venerdì Feb 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Hiram Barrios, Silenzi scritti. Aforismi. Antologia Bilingue Italiano-Spagnolo

 

Volevamo conoscere qualcosa di più sul mestiere (o professione?) del traduttore, su questo “tradire” per “restituire” in altra lingua dall’originaria un testo che spesso è scelto per affinità: il contenuto, la forma, il significante esercitano sicuramente nel traduttore una fascinazione per la quale si sceglie di trasferire in altra lingua la bellezza percepita nel testo originario. Ci rivolgiamo a Hiram Barrios, traduttore letterario dall’italiano in lingua spagnola.

  

  1. Hiram, grazie di aver accolto il nostro invito. I lettori del blog “Limina Mundi” sono interessati a conoscere il lavoro del traduttore; tu però sei anche saggista, scrittore, aforista: ci illustri la tua formazione, il percorso, le riviste cui collabori e dirigi, l’evoluzione della scelta di tradurre i libri degli altri e perché la preferenza della lingua italiana?

Ringrazio io per l’invito, è una magnifica opportunità che mi si offre per condividere ciò che ci unisce al di là della distanza geografica: la passione per la letteratura. Sono uno scrittore, pubblicista e traduttore messicano; ho pubblicato una dozzina di libri tra aforismi, poesia breve e critica letteraria (segnatamente saggi, antologie e curatele). Ma è anzitutto l’aforisma il fulcro della mia riflessione intellettuale. In Italia sono uscite due pubblicazioni alle quali ho collaborato grazie all’invito di Donato Di Poce: Silenzi scritti. Aforismi. Antologia Bilingue Italiano-Spagnolo (I Quaderni del Bardo, 2020) e l’antologia di poesia Clandestini / Clandestinos (I Quaderni del Bardo, 2021). Alla prima ho collaborato in qualità di aforista, traduttore e curatore; riguardo alla seconda, ho tradotto i testi italiani in spagnolo e redatto l’introduzione bilingue. In Messico dirigo, per conto dell’Università Nazionale (UNAM), una collana di aforismi: “Esquirlas” (“Schegge”), che raccoglie le nuove proposte del genere in lingua spagnola. Sono collaboratore abituale delle riviste Taller Igitur e Bitácora de Vuelos (in Messico) e faccio parte della Redazione della rivista-blog Zona di Disagio, diretta da Nicola Vacca (in Italia). Ho cominciato a cimentarmi nella traduzione come esercizio per migliorare la mia conoscenza della lingua italiana. All’inizio non aspiravo a pubblicare le mie traduzioni. È stato un professore di italiano a spronarmi a farlo. Non mi considero un traduttore “professionale”, ma un semplice apprendista, uno scrittore che vuole condividere le sue scoperte in un’altra lingua. Non lavoro per nessuna casa editrice o istituzione. Non sono tenuto a rispettare un programma di lavoro o a tradurre qualcosa che non sia di mio interesse. Questa libertà di scelta presenta molti vantaggi per chi, come me, è soprattutto interessato a condividere la passione per la letteratura. Sotto i titoli di Voces paranoicas [Voci paranoiche] (Cuadrivio, 2013) e Mamá Morfina [Mamma Morfina] (Labirinto Ediciones, 2021) ho curato la poesia del giovane Eros Alesi (1951-1971), un poeta pressoché sconosciuto in Italia, al contrario che in Messico, dove parte della sua produzione poetica è nota da decenni grazie all’impegno del traduttore messicano Guillermo Fernández. Ho scoperto da adolescente la poesia di Alesi, che mi ha fortemente impressionato. Il mio desiderio di imparare l’italiano è in parte dovuto all’esperienza di quella lettura. Le sopraddette pubblicazioni rappresentano un tributo non solo a Eros Alesi, ma anche al suo traduttore Guillermo Fernández: proprio grazie a tutti i poeti e alle numerose edizioni bilingui che quest’ultimo ha pubblicato in Messico mi sono formato una prima idea di come si debba tradurre in spagnolo la poesia italiana. Traduco solo quello che mi piace come lettore, che mi insegna qualcosa. Nella maggior parte dei casi si tratta di selezioni di poesie o di aforismi che poi pubblico su riviste messicane. Ho tradotto aforisti come Carlo Gragnani, Guido Ceronetti, Rinaldo Caddeo, Fabrizio Caramagna, Stefano Cazzato, Stefano Elefanti, Alberto Casiraghy, Amedeo Ansaldi; e poeti come Roberto Roversi, Bartolo Cattafi, Alda Merini, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Antonella Anedda, Gianni D’Elia, Donato Di Poce, Nicola Vacca, Ulisse Casartelli o Sergio Carlacchiani. Non ho avuto il piacere di incontrare personalmente nessuno degli scrittori che ho tradotto, ma credo di poter chiamare amico ciascuno di loro: la stima trascende il regno delle lettere.

 

  1. Padronanza della lingua madre e della lingua da tradurre; fini conoscenze tecniche nell’ordine della parola, della grammatica, della sintassi; sensibilità inventiva e poetica sono le caratteristiche fondamentali che occorre possedere per la traduzione: tuttavia non è difficile pensare che il traduttore sia anche autore, sia corredato di un esprit de finesse indispensabile al buon esito dell’opera.

La traduzione richiede capacità di lettura e di scrittura. Si traduce anche grazie a una volontà di apprendimento creativo. La traduzione letteraria non è esclusiva degli scrittori, ma richiede comunque amore per la parola. Sebbene esistano professionisti della traduzione letteraria, sono sempre stati gli scrittori ad ottenere i risultati più brillanti ed efficaci. In spagnolo, per esempio, sono fondamentali le traduzioni che Jorge Luis Borges ha tratto dalla lingua inglese – ad esempio l’Orlando. A biography (1928), da Virginia Wolf – o le traduzioni che Octavio Paz ha fatto dei surrealisti francesi. La traduzione della poesia da/in spagnolo-italiano annovera illustri cultori, ispanisti e mediatori culturali quali Emilio Coco o Antonio Nazzaro, che sono a loro volta poeti. La sensibilità inventiva e poetica è un aspetto che contraddistingue spesso il traduttore-autore. La traduzione letteraria si trasforma così in una riflessione sugli stessi processi creativi.

  

  1. Intorno alla figura del traduttore esiste un luogo comune: la “solitudine del traduttore”. È solo un retaggio romantico o realmente è condizione necessaria o, forse, acquisita nelle lunghe ore a contatto con “i libri degli altri”, i dizionari, l’ascolto del suono delle parole nella lingua originaria e in quella finale?

Penso che la solitudine sia una condizione necessaria. Ma, nel mio caso, la solitudine è solo la premessa all’esercizio della traduzione. Nella maggior parte delle traduzioni che ho fatto, mi sforzo di identificarmi quanto più possibile nella sensibilità dell’autore, che possiede una profonda conoscenza della lingua di partenza e delle sue potenzialità poetiche, per restituire al meglio le sue parole. Grazie agli scambi di letture con poeti italiani e con i miei colleghi in Messico, decido anche quali libri o quali autori meritino di essere conosciuti in spagnolo.

 

  1. Ancora: quanto è importante l’incontro con altri traduttori, il confrontarsi con altre esperienze, il viaggio, la conoscenza diretta con un autore per il quale si nutre un sentimento di ammirazione, una specchiatura derivante dall’uso della parola, dai contenuti dei testi?

La traduzione è in primo luogo apprendimento. Non smetti mai di approfondire la lingua che traduci, così come la tua lingua madre. Ricordo che fu un’edizione bilingue di Bartolo Cattafi, tradotta e curata da Guillermo Fernández, che mi spinse a tentare la versione alternativa di una poesia. In Le mosche del meriggio (1959), Cattafi aveva scritto:

fu sempre obliqua l’ombra

che ci seguì in silenzio.

Fernández tradusse così:

siempre fue oblicua la sombra

 que nos siguió en silencio.

L’ultima riga, pensai allora, sarebbe riuscita più incisiva in spagnolo con un leggero aggiustamento della sintassi. Rimaneggiai così: “siempre fue oblicua la sombra / que en silencio nos siguió”.  Questo cambiamento, pur minimo, consente alla poesia di trovare un’altra intonazione, cambiando le sillabe toniche e conseguentemente il ritmo. Ho anche ritrovato versioni più riuscite delle mie, ed è sempre bello sapere che si può migliorare. Confrontarsi con gli altri, scambiarsi idee, lavorare insieme aiuta ad avere una migliore comprensione delle cose. Leggere e studiare altri traduttori contribuisce ad ampliare le prospettive e quindi perfezionare gli esiti. Apprezzo in particolare le traduzioni dall’italiano allo spagnolo di Antonio Colinas, Horacio Armani e Fabio Morabito.

 

  1. È corretto pensare che, riguardo al linguaggio, l’esperienza della traduzione «insieme al tempo che scorre, forma degli strati nella nostra lingua madre, e inevitabilmente le parole che usiamo sono sempre nostre», come dichiara la traduttrice Gioia Guerzoni?

Senza dubbio. Siamo quello che pensiamo e quello che diciamo. Siamo fatti di parole, delle nostre e di quelle di altri. Ci sono parole in spagnolo che mi ricordano odori, colori, immagini dell’Italia, e parole italiane che associo a esperienze quotidiane, a cose che mi succedono in Messico. Per esempio, la parola “queso” (“formaggio”) mi ricorda quasi sempre piatti della cucina italiana; la parola “stanza” mi viene in mente quando sono stanco.

 

  1. Quanto è importante la fedeltà al testo? È pensabile, accettabile l’idea di fare la sovrapposizione della lingua finale a quella iniziale? Oppure la lingua, ogni lingua, ha una struttura psichica che non consente il calco e, pertanto, l’invenzione è non solo naturale, ma addirittura auspicabile come atto del pensiero immaginale, soprattutto nei luoghi della poesia?

La fedeltà al testo è la ragion d’essere dei traduttori; l’impossibilità di ottenerla la sua penitenza. Ci sono scuole di traduzione che predicano la massima fedeltà, anche a prezzo di qualche sacrificio in termini di efficacia nella resa; altre, come la “trascreazione” di Haroldo do Campos, auspicano piuttosto una traduzione che non sia che il pretesto per una creazione autonoma a partire dalla parafrasi. La sovrapposizione a volte è necessaria, soprattutto in poesia. Ma ci sono giochi di parole, immagini retoriche, riferimenti culturali o anche parole che perdono il loro significato originario se tradotti letteralmente, in modo pedissequo. A volte è necessario rimodulare la sintassi di una figura retorica. A volte è proprio ‘tradendo’ che ci si può avvicinare meglio ad un’idea…

 

  1. Ne deriva che la traduzione presenta sempre un problema, poiché si va a compiere non solo la versione della psiche di una lingua nella psiche di un’altra lingua, ma anche la versione della psiche dell’autore nella psiche del traduttore, il quale viene a trovarsi nella posizione di decifratore del mondo logico– immaginifico dell’autore senza mai raggiungerne gli abissi, testimoniando invece che sussistono, imprendibili, gli «arcani più segreti del meraviglioso fenomeno della parola» (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione)

Forse la fedeltà al testo è un’illusione. Forse è impossibile non tradire il testo o l’autore. La traduzione può sembrare in alcuni casi un’utopia. L’impossibilità di tradurre un autore in un testo specifico è sempre presente. La cosa interessante in ogni caso è capire quali sono gli ostacoli che impediscono di trasmettere un messaggio da un codice all’altro.

 

  1. Inoltre: esiste un “talento”, una disposizione innata al linguaggio per cui il traduttore avvicina la parola dell’autore in una sorta di invisibilità in modo da non far percepire la propria abilità linguistica?

Non so se si tratti di un “talento”. Forse sì, ma un talento acquisito. La sfida del traduttore è quella di rendere le parole che un autore scrive nella propria lingua in modo tale che possano essere sentite, ascoltate, comprese e interpretate in una lingua diversa, senza nel contempo perdere le dimensioni estetica, culturale o politica, e senza falsificare il messaggio o la parola originari. Il traduttore deve essere un soggetto invisibile: il compito primario del suo lavoro è di preservare, nei limiti del possibile, le parole di un altro.

 

  1. In un tuo breve scritto riporti un concetto importante: «Costruiamo ponti». Si deduce che tu ti ponga in una relazione etica, da mediatore culturale, per cui la traduzione è non solo rendere al lettore l’ambiente vibrante l’anima del testo, ma anche l’avvicinare culture e saperi differenti, prospettare scambi culturali, incontri di intelletti.

Infatti: ho sempre auspicato la costruzione di “ponti”: tra Messico e Spagna, tra Italia e Messico, oppure tra le diverse nazioni americane che hanno in comune la lingua spagnola. Conoscere la lingua italiana mi ha permesso di addentrarmi in un’altra tradizione culturale e, cosa ancora più importante, mi ha permesso di far conoscere scrittori interessanti che meritano di essere letti e commentati oltre i loro confini. La lingua è portatrice di cultura: traducendo una poesia si traduce un modo di interpretare il mondo, di abitarlo. Condividere i diversi modi in cui si scrive, in spagnolo o in italiano, serve ad ampliare gli orizzonti culturali. Conoscere gli altri è un modo, forse il migliore, di conoscere sé stessi.

 

Hiram Barrios

 

Biobibliografia

Hiram Barrios (Città del Messico, 1983). Scrittore, editore e traduttore. È autore dei libri di saggi El monstruo y otras mariposas (Il mostro e altre farfalle) (2013) e Las otras vanguardias (Le altre avanguardie) (2016) e delle sillogi aforistiche Apócrifo (Apocrifo) (2014 e 2018) e Artimañas (Stratagemmi) (2021). È altresì autore delle antologie bilingui Voces paranoicas. Bitácora Inédita (Voci paranoiche. Registro inedito) (2013) e Mamá Morfina (Mamma Morfina) (2021) di Eros Alesi; ha inoltre curato l’edizione di Gotas tóxicas. Aforismos y minificciones (Gocce tossiche. Aforismi e minicificazioni) di Sergio Golwarz (2015), e i compendi Lapidario. Antología del aforismo mexicano (Lapidario. Antologia dell’aforisma messicano) (2015 e 2020) e Aforistas mexicanos actuales (Aforisti messicani contemporanei) (2019). In collaborazione con Donato Di Poce ha pubblicato l’antologia di aforismi Silenzi scritti / Silencios escritos (2020) e Clandestini / Clandestinos (2021). Fa parte della Redazione della rivista digitale Zona di Disagio. La sua opera letteraria è stata inclusa in antologie provenienti da Messico, Spagna, Italia e Perù.

 

Aforismi di Hiram Barrios:

https://zonadidisagio.wordpress.com/2021/09/28/raffiche-aforismi/

Slenzi scritti:

https://www.cyranofactory.com/i-silenzi-scritti-silencios-escritos-a-cura-di-hiram-barrios-e-donato-di-poce/

Lapidario. Antología del aforismo mexicano. Recensione di Fabrizio Caramagna:

https://aforisticamente.com/hiram-barrios-lapidario-antologia-dellaforisma-messicano/

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Incontro con il Traduttore. Il mestiere del traduttore secondo Claudia Piccinno.

18 venerdì Feb 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

≈ Commenti disabilitati su Incontro con il Traduttore. Il mestiere del traduttore secondo Claudia Piccinno.

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Claudia Piccinno, Clay Tablets in Nietzsche's Cave, Raed Al-Jishi

 

Volevamo conoscere qualcosa di più sul mestiere (o professione?) del traduttore, su questo “tradire” per “restituire” in altra lingua dall’originaria un testo che spesso è scelto per affinità: il contenuto, la forma, il significante esercitano sicuramente nel traduttore una fascinazione per la quale si sceglie di trasferire in altra lingua la bellezza percepita nel testo originario. Ci rivolgiamo a Claudia Piccinno, traduttrice dall’inglese in lingua italiana.

 

  1. Claudia Piccinno, grazie di aver accolto il nostro invito. I lettori del blog “Limina Mundi” sono interessati a conoscere il lavoro del traduttore; tu però sei anche poetessa, scrittrice, critico letterario e organizzatrice di eventi poetici interculturali: ci illustri la tua formazione, il percorso, le riviste cui collabori e dirigi, l’evoluzione della scelta di tradurre i libri degli altri e perché la preferenza della lingua inglese?

Grazie a te Gloria e a Limina Mundi per queste domande stimolanti. Chi è Claudia Piccinno? Sono una maestra, laureatami poi in lingue e letterature straniere. Ho scelto di insegnare già a vent’anni, pur avendo da sempre il sogno di diventare scrittrice. Vinsi il concorso per l’allora scuola materna nel 1990 (oggi si dice scuola dell’infanzia) e dopo sei anni in Lombardia, vinsi quello per le scuole elementari (oggi scuola primaria) nella verde Emilia Romagna. In tutti questi anni ho sempre fatto la maestra e la mamma, ma non ho mai smesso di riempire quaderni e disseminarli nei cassetti. Ho iniziato a pubblicare poesia dal 2011, ma dopo l’euforia iniziale, sentivo forte il rischio che la produzione poetica sfociasse in un delirio narcisistico. Promuovere i miei libri diventava a volte un pretesto per fare regali ai parenti e agli amici e sentivo comunque di non essere presa sul serio. Nel 2013 partecipai alla cerimonia di un premio internazionale ed ebbi modo d’incontrare poeti stranieri che mi chiesero di tradurre i miei versi in inglese per poterli assaporare meglio. Sono sempre stata una lettrice onnivora, ma decisi di rispolverare e approfondire i miei studi. Ho collaborato nel frattempo a numerosi blog ed e-magazine con recensioni e note di lettura e sicuramente ci sono state collaborazioni proficue, ma solo dal 2016 ho iniziato a tradurre i libri degli altri. L’illuminazione avvenne  su un battello sul Bosforo. Ero ospite a Istanbul di un festival intercontinentale per giovani poeti, mi avevano pubblicato il primo libro in lingua turca con testo a fronte in inglese. Gli altri ospiti mi donavano i loro libri e scoprivo un universo di affinità, sensibilità e bellezza. Mi dissi che dovevo farli conoscere in Italia, da qui le traduzioni dall’inglese in lingua italiana per Atunis Galaktika, Our poetry Archive, Farapoesia. Il primo libro però l’ho tradotto dallo spagnolo che ho studiato da autodidatta, era una plaquette di Oscar Limache, peruviano, dal titolo Volo d’identità. Mi è capitato di tradurre anche dal francese, ma la lingua che sento più congeniale è l’inglese, che è poi la lingua veicolare per arrivare a interlocutori lontani. Da un paio d’anni curo la rubrica poesia per la Gazzetta di Istanbul e sono redattrice per l’Europa nella rivista turca Papirus, il che significa che traduco in inglese o seleziono testi di poeti europei che poi vengono tradotti in lingua turca. Mi occupo di tradurre poesia anche per Menabò online, Verbumpress e di recente ho iniziato a collaborare con Alma poesia, per la rubrica I ponti di Alma.

 

  1. Padronanza della lingua madre e della lingua da tradurre; fini conoscenze tecniche nell’ordine della parola, della grammatica, della sintassi; sensibilità inventiva e poetica sono le caratteristiche fondamentali che occorre possedere per la traduzione: tuttavia non è difficile pensare che il traduttore sia anche autore, sia corredato di un esprit de finesse indispensabile al buon esito dell’opera.

Certamente, l’intuizione del cuore è lo step più importante, e ti dirò di più, negli anni se torno su un testo già tradotto e pubblicato, mi capita di modificarlo, perché improvvisamente mi arriva quel significato nascosto che inizialmente non decifravo in pieno, la “precipitazione” di cui parlava Cristina Campo. La traduzione è un’opera in itinere che richiede aggiustamenti continui, perché muta la nostra predisposizione all’ascolto.

 

  1. Intorno alla figura del traduttore esiste un luogo comune: la “solitudine del traduttore”. È solo un retaggio romantico o realmente è condizione necessaria o, forse, acquisita nelle lunghe ore a contatto con “i libri degli altri”, i dizionari, l’ascolto del suono delle parole nella lingua originaria e in quella finale?

Occorre fare silenzio per ascoltare l’altro. Dunque la solitudine è sia condizione necessaria, sia un esercizio da perseguire. Più che di solitudine parlerei però di isolamento per fare silenzio. Coi libri, con le parole degli altri, io non mi sento mai sola.

 

  1. Ancora: quanto è importante l’incontro con altri traduttori, il confrontarsi con altre esperienze, il viaggio, la conoscenza diretta con un autore per il quale si nutre un sentimento di ammirazione, una specchiatura derivante dall’uso della parola, dai contenuti dei testi?

L’incontro più autentico resta il vis a vis, inizialmente infatti ho tradotto solo le opere di poeti con cui sono stata in contatto, poeti che ho conosciuto ai festival e con i quali ho condiviso cibo, racconti, escursioni, letture. Il confronto de visu è arricchimento sul campo, e l’empatia scaturisce improvvisa tanto da riconoscere poi il contenuto delle opere altrui, specchiandosi in ogni termine letto. Fortunatamente molti di questi poeti sono a loro volta traduttori e da ciascuno di loro ho imparato qualcosa.

 

  1. È corretto pensare che, riguardo al linguaggio, l’esperienza della traduzione «insieme al tempo che scorre, forma degli strati nella nostra lingua madre, e inevitabilmente le parole che usiamo sono sempre nostre», come dichiara la traduttrice Gioia Guerzoni?

Sì, è corretto al novanta per cento, la lingua è decisamente il risultato delle nostre letture, delle nostre esperienze, del contesto in cui abbiamo studiato e vissuto, ma se l’opera che andiamo a tradurre non è a sua volta ben scritta o stimolante, diventa difficile sfoggiare o ampliare il nostro repertorio lessicale, noi prestiamo la nostra voce che nel frattempo cresce e si ramifica, non è mai statica.

 

  1. Quanto è importante la fedeltà al testo? È pensabile, accettabile l’idea di fare la sovrapposizione della lingua finale a quella iniziale? Oppure la lingua, ogni lingua, ha una struttura psichica che non consente il calco e, pertanto, l’invenzione è non solo naturale, ma addirittura auspicabile come atto del pensiero immaginale, soprattutto nei luoghi della poesia?

Solo chi scrive poesia può, traducendo, conciliare le due cose, se privilegia solo il messaggio, spesso si perde la sonorità. Ma se ha la pretesa di riprodurre le stesse strutture metriche, il rischio è un tecnicismo privo di spirito. Auspicabile è scegliere una strategia propria della lingua in cui versi il contenuto, quindi quella in cui ti senti più portato. Solo col tempo ti rendi conto che occorre ri-creare una struttura, ricorrendo a delle analogie, che preservino al tempo stesso le differenze ritmiche.

 

  1. Ne deriva che la traduzione presenta sempre un problema, poiché si va a compiere non solo la versione della psiche di una lingua nella psiche di un’altra lingua, ma anche la versione della psiche dell’autore nella psiche del traduttore, il quale viene a trovarsi nella posizione di decifratore del mondo logico–immaginifico dell’autore senza mai raggiungerne gli abissi, testimoniando invece che sussistono, imprendibili, gli «arcani più segreti del meraviglioso fenomeno della parola» (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione).

A volte chi traduce riesce a dire ciò che l’altro autore tace, ci riesce ricomponendo il puzzle del non detto; infatti ci sono culture altre costrette alla censura ed il traduttore in punta di piedi rincorre segreti e li reinterpreta, ma deve fermarsi in tempo, sulla soglia dell’altro. Mi succede ad esempio quando traduco i versi di Raed Al Jishi, per il quale nutro profondo rispetto e ammirazione. Mi succede con molti autori turchi. Si crea come un’interconnessione d’anime e bisogna però non ostentarla, bensì vale la pena concentrarsi sull’essenza della parola e scegliere quella che ci dà più fiducia per la resa comunicativa.

 

  1. Inoltre: esiste un “talento”, una disposizione innata al linguaggio per cui il traduttore avvicina la parola dell’autore in una sorta di invisibilità in modo da non far percepire la propria abilità linguistica?

Trattasi anche di mantenere un equilibrio tra appropriazione e reciprocità. Il traduttore incorpora la parola dell’autore nel suo bagaglio lessicale, l’autore a sua volta deve fidarsi di questa assimilazione linguistica se crede che i suoi testi possano così raggiungere un pubblico più ampio. Perché un testo poetico colga nel segno, il lettore deve percepire l’assenza del traduttore.

 

  1. In relazione alla tua attività di organizzatrice di scambi culturali è appropriata anche a te l’espressione del traduttore messicano Hiram Barrios: «Costruiamo ponti». Si comprende perciò che tu ti ponga in una relazione etica, da mediatore culturale, per cui la traduzione è non solo rendere al lettore l’ambiente vibrante l’anima del testo, ma anche l’avvicinare culture e saperi differenti, prospettare scambi culturali, incontri di intelletti.

Tradurre è un’adesione a un movimento utopico, tradurre mi consente di mediare un messaggio universale, mi spinge a credere che si possa reintegrare l’Umanità dispersa in  tanti idiomi. Nancy Huston scriveva che la traduzione rappresenta una speranza per l’umanità, a me consente di aprire un dialogo, di ascoltare e apprendere giorno dopo giorno la magia dell’ignoto che a noi si rivela. Con curiosità e rispetto come Alice nel paese delle meraviglie o Swift ne I viaggi di Gulliver, tradurre è quella pozione magica, quella lente d’ingrandimento che mi avvicina ad autori e mondi che altrimenti non avrei mai letto e decifrato.

 

Lionizing

 

I am thinking

about my pain –

no one shares it with me.

 

And about my joy —

I don’t partake of it with passersby,

and it runs away from my fingers every time.

 

I lionize my pain

for no reason, but because

it belongs to me.

 

I cannot smile well,

and the wind encourages me to jump

to where I can’t see.

 

The gnat

knows how to jump,

how to mock the wind

when it takes an aerial step back,

then smuggles a smile under its wings.

And like you, I prefer the refraction

instead of being like a gnat

or anything on its back.

 

Celebrando

 

Sto pensando

al mio dolore –

nessuno lo condivide con me.

 

E riguardo alla mia gioia –

Non ne partecipo con i passanti,

e scappa dalle mie dita ogni volta.

 

Celebro il mio dolore

senza motivo, se non perché

mi appartiene.

 

Non so sorridere bene,

e il vento mi incoraggia a saltare

fino a dove non posso vedere.

 

Il moscerino

sa come saltare,

sa come prendere in giro il vento

quando fa un aereo passo indietro,

poi nasconde un sorriso sotto le sue ali.

E come te, preferisco la rifrazione

invece di essere come un moscerino

o qualsiasi altra cosa sul dorso.

 

A Universal Corridor

 

When I closed my eyes,

the universe passed through me completely

in a second — or a little less.

 

All those invisible particles

chose me as a corridor to the side of theorization,

bragging by their differences,

its different formation, its impressive product,

its tyranny in making an embodiment of goodness

or the capability of inventing evil,

 

unaware that they tried to speak

with a different accent of a language migrated to the crushed past,

tried like virtual tribes lost their tent stakes,

 

unaware that they are a pure orphaned word

named Love —

or something similar to it:

 

Love as a thought of a concept and a seed of assent;

 

Love as a knife of peace and flowers of a torturing spring;

 

Love as a catalyst of smoke and an inhibitor of an odor;

 

Love as a color of a gesture and a shade of a sign.

 

When you realize that

you can’t be devoted to love as a value

nor as an icon of a digital biography

for the potential of hydrogen in an individual behavior,

 

then Evil is not the soppiest of good;

it is the eternal integration

of the system and its clotted surrounding,

when a universe has been created

by fingertips of Love.

…

 

Un corridoio universale

 

Quando chiusi gli occhi,

l’universo mi attraversò

in un secondo — o  forse meno.

 

Tutte quelle particelle invisibili

mi scelsero come corridoio accanto alla teorizzazione,

vantandosi delle loro differenze,

della  diversa formazione, dell’ impressionante prodotto,

della tirannia nell’incarnare la bontà

o la capacità di inventare il male,

 

ignari di aver cercato di parlare

con un diverso accento di una lingua migrata nel passato sepolto,

provarono come le tribù virtuali persero i confini,

 

ignari di essere una pura parola orfana

chiamata Amore —

o qualcosa di simile:

 

L’amore come pensiero di un concetto e seme di assenso;

 

L’amore come coltello di pace e fiori di una primavera tormentata;

 

L’amore come catalizzatore di fumo e inibitore di un odore;

 

L’amore come colore di un gesto e sfumatura di un segno.

 

Quando te ne rendi conto

non puoi essere devoto all’amore come valore

né come icona di una biografia digitale

per il potenziale dell’idrogeno in un comportamento individuale,

 

allora il Male non è  più sdolcinato del bene;

è l’integrazione eterna

del sistema e del suo ambiente,

quando un universo è stato creato

dalla punta delle dita dell’Amore.

 

Claudia Piccinno

Biobibliografia

Claudia Piccinno è docente, traduttrice, autrice di numerosi libri di poesia, di prefazioni e saggi critici; Direttrice per l’Europa del “World Festival Poetry” fino a settembre 2021; medaglia d’oro al “Frate Ilaro 2017”; vincitrice del “Premio Ossi di Seppia 2020”; ambasciatrice per l’Italia del “World Institute for Peace” e di “Istanbul Sanat Art”; benemerita del Comune di Castel Maggiore per meriti culturali. Tra i numerosi premi internazionali ricevuti ricordiamo i recenti “Aco Karamanov”, 2021, Macedonia; “Ajtan Zhiti” 2021, Kosovo; responsabile della rubrica poesia per la Gazzetta di Istanbul; redattore per l’Europa della rivista turca Papirus, edita da Artshop; collabora con vari blog, e-magazine e riviste cartacee, tra cui Menabò, Verbumpress, Italine, CiaoMag e Il Porticciolo. La sua voce è presente nella Poetry Sound Library curata da Giovanna Iorio. Numerose le raccolte di poesia, di cui riportiamo le più recenti: In nomine patris, Il cuscino di stelle, 2018; Rime sparse, co-autore Agron Shele, Amazon edizioni; La nota irriverente, Il cuscino di stelle, 2019; Sfinge di pietra –bilingue, Il cuscino di stelle edizioni, 2020. Dei saggi citiamo: Asimov – Un volto inedito, Il cuscino di stelle edizioni, 2020. Molte le traduzioni da poeti stranieri, di cui le recenti Genesi della memoria, di Raed Aljishi, Il cuscino di stelle edizioni, 2021; Il voto di Penelope, di Milica Lilic, edizione bilingue inglese – italiano, Il cuscino di stelle edizioni, 2021; Una farfalla tatuata di Ali Al Hazmi, Il cuscino di stelle edizioni, 2021. Sulla sua scrittura è stato di recente pubblicato il volume biobibliografico In ordine sparso, a cura di Armando Iadeluca, Il cuscino di stelle edizioni, 2021.

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Silvio Raffo: Dieci poesie inedite

04 venerdì Feb 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Silvio Raffo

immagine di Akira Kusaka

 

I

Hanno colpi di fulmine violenti

le anime – ed i corpi fan fatica

a raggiunger le vette iridescenti

da cui lampeggia quella luce antica:

 

sole di un cosmo primigenio, raggi

di cui sentimmo l’intima ferita

quando dell’aspro cappio della vita

non eravamo ancora ignari ostaggi

 

 

II   ~  TWIN SPARKLING LONELINESS

Tu germoglio dall’anima fiorito

della mia notte oscura ardente stella

mio tesoro nel buio custodito

scaglia di solitudine gemella

 

Delle Scienze Celesti il libro arcano

una Coscienza illumina infinita

Pagine alate scorrono le dita

accarezza una stella la mia mano

 

immagine di Akira Kusaka

 

III

All’aura rarefatta dell’oblio

anelavo negli anni immoti e spenti

già dell’infanzia: solamente mio

sentivo il nulla, io non altrimenti

di quanto lo potesse assaporare

un vecchio sazio d’ansie e di tormenti

 

 

IV

Non è come si dice

Non è ignoto l’ignoto

Come non è l’Altrove inaccessibile

E non è vuoto il Vuoto –

Si esprime l’Indicibile

Si varca quel confine

Con lo scatto felice

Dell’acrobata in volo

Il Vero non ha suolo

Su cui devi atterrare

È vasto etereo mare

Ma a tratti lo possiedi

L’invisibile vedi

 

foto di Noell Oszvald

 

V

No, per la morte non siamo

ancora equipaggiati a sufficienza

Della vita fu scarsa l’esperienza

Troppo tardi, ed improvvidi, scopriamo

 

che nulla abbiamo amato di reale

questo è il nostro peccato capitale

 

 

VI

Qualche volta mi chiedo quante volte

sono già morto e poi rinato. Io sempre

sopravvivo a me stesso, alle dissolte

sembianze del mio io nella perenne

vicenda dell’arcana impermanenza

che insiste a permanere, muta assenza

che palpito instancabile divenne

di un cuore della vita innamorato

 

foto Silverwood Lake, California

 

VII

Comunque e dovunque ti chiama

a nuove avventure la vita

rigermina il fiore, ritrovi

la strada che spesso smarrita

credesti. Poiché in sempre nuovi

sembianti ritorna l’antico

amore ad illuderti amico

la stessa inesausta visione

di un’alba di risurrezione

 

 

L’INCONNU

Ignote metamorfosi divine

umane vegetali – transizioni

del mutante immutabile che fine

non conosce, né climi né stagioni

 

Cieche vicissitudini diuturne

che si evolvono – involvono a spirale

E il pensiero, per suo vizio ancestrale,

insiste a decifrarle per ridurne

l’arcana resilienza immemoriale

 

Caspar David Friedrich: The Evening Star 

 

OBLIVION POOL

Al di là della Gioia e del Dolore

s’apre uno spazio vasto, inaspettato

come un livido stagno addormentato

in cui s’annega ogni terrestre ardore

ogni ricordo lieve si discioglie

nell’abisso incantato che l’accoglie

 

 

I SONNAMBULI NOVIZI

Da quando ci accompagna l’infallibile

certezza che la morte ci riguarda,

dall’istante fatale in cui la gelida

carezza ci sfiorò delle sue dita

viviamo il tempo immoto dell’obliqua

stagione declinante al nulla eterno

che il suo volto impietoso ci disvela.

Il nostro passo è quello di un addio

perenne, ma indugiamo a salutare

ogni sguardo ogni nuvola ogni stelo

Stralunati novizi di un calvario

inaspettato, attori di un copione

senza parole sulla vuota scena

ci muoviamo, sonnambuli irretiti

dalla vaga promessa di un risveglio…

L’acqua lenta dilaga sulla piazza

della città deserta. E già fantasmi

ci sentiamo, silenti testimoni

del prodigio dell’Immortalità

 

 

Biobibliografia

 

Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. Ultime opere: il romanzo Gli angeli della casa, Elliot Edizioni, 2021, la silloge poetica Il taccuino del recluso, Interno Poesia, 2021. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019.

 

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Incontro con l’Autore : Giorgia Vecchies

14 venerdì Gen 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Giorgia Vecchies, Indizi di un dove

 

 

Indizi di un dove, Samuele Editore, 2021

Prefazione di Giovanni Fierro

 

 

da Indizi di un dove

C’è un tempo per decidere una partenza.

Un’ora è come un distacco

una foglia planata sulla pelle

non ne senti il bordo affilato.

La venatura di clorofilla

corre rossa e lascia segni

su pagine lasciate alle spalle.

La valigia ha ruote di silenzio.

 

 

Ho fotografato nelle ossa

frutta selvatica, un battito di campana,

il movimento del gatto,

la pioggia, come orli del mare.

Ho perso un amore reciso

nel vano scale. La morte è banale.

Nel contenitore dei giorni

nemmeno le tue mani.

Anche la rassegnazione è banale.

 

 

Un febbraio come tanti

dalla finestra si suppone

l’umido del giorno.

Sotto le coperte un tepore

difficile da abbandonare,

il telefono senza aspettative

di trovare un saluto

come una colazione

preparata a sorpresa.

 

 

da L’uomo in giacca e cravatta

L’uomo in giacca e cravatta

ha mani colme di nebbia

e ritagli di vetro, sulla strada

cammina schivo dall’altro.

L’uomo vestito di cartone

ha mani piene di scarti

e negli occhi una rosa.

Qualche volta

l’uomo in giacca e cravatta

si veste di cartone

ma non è la stessa cosa.

 

L’uomo con la giacca blu

del diplomatico vissuto all’estero

porta sempre la camicia

e relazioni abbandonate.

Vive solo.

Solo per bilanciare le assenze

compra scatole di cibo

per i gatti di passaggio

in cerca di carezze.

 

 

  1. Come hai scoperto la passione per la scrittura, in particolare per la poesia? Come hai coltivato quest’ultima?

La poesia abitava dentro di me già forse prima di nascere. Dentro mia madre ho assaporato la musica della ribellione, pacata, quasi silenziosa, eretica con amore. Ho scoperto la passione per la poesia sentendola nei polsi, come seta che li stringe e alla quale potevo affidarmi. Non mi sono accorta del come e del quando, mi ci sono trovata immersa, a scuola leggendo autori proposti dal programma e poi cercando fuori dalle mura, cercando i libri “proibiti” che la scuola lasciava in disparte. Libri sull’esistenzialismo quali La nausea e poi i poeti maledetti, la poesia d’amore, quella erotica, la poesia travolgente o quella profondamente malinconica. Cercavo autori che mi dessero una visione ampia e universale, cercavo il senso della vita. E poi scattava l’impulso di scrivere, di mettere sulla carta le emozioni. Giovanissima, adolescente, iniziavo a cercare me stessa nella scrittura emulando i miei autori preferiti.

  1. Quali sono gli autori italiani o stranieri che hanno avuto un ascendente sulla tua scrittura o che avverti prossimi al tuo modo di vedere la vita, l’arte? C’è un poeta che consideri tuo mentore?

Un mentore? Ungaretti, che uomo! Mi conquistava quel suo dolore sereno, le parole ridotte all’osso, la sua voce che raccontava l’Odissea in televisione. Poi Neruda e Prevert e Sengor entrarono nelle mie vene, nel tempo dell’amore adolescente. Vivevo le mie emozioni dentro quei versi, mi perdevo nella musica dei versi di Leopardi, nella sua tristezza. In seguito ho scoperto Inniò di Pierluigi Cappello: come lui sentivo il mio «in nessun dove», poi mi sono trovata a leggere e rileggere David Maria Turoldo le sue Mie notti, le sette notti dove torturarmi con l’autore nel suo dialogare con Qohelet. Importante la recente riscoperta di P. P. Pasolini: la sua visione profetica del mondo mi ha sconvolta, proprio adesso che il mondo sta franando come lui aveva  già visto. L’arte nelle varie forme, pittura, architettura, antica e modernissima, moda, materiali, tessuti stoffe e passamanerie, cucite, incollate e reinventate e poi le installazioni nella natura, assemblaggi di musica tecnologica e immagini, fotografia, film, rappresentazioni di ritrovamenti in un immaginario post umano: tutto mi sorprende osservando la vastità del modo di esprimersi dell’uomo, sempre.

  1. Quale valore ha per te la poesia, in particolare oggi, che sembra orfana di maestri e, per le numerose voci, informe e frammentata?

Oggi

La poesia che vorrei

scrivere non ha senso

un vocabolario obsoleto

una voce piegata

al silenzio ci si abitua.

C’è un oggi che inizia nel marzo 2020, qualcosa che non voglio nominare, un nome che potrebbe essere riconosciuto dagli algoritmi, è entrato come un cugno metallico a separare il tempo, quello che c’era prima, a.C, e quello del dopo d.C., dove “C” non sta per Cristo. Quello che prima aveva valore adesso non ha senso. Non ha senso la speranza, il progetto, il sogno: dopo di “lui” cosa posso dire? Quando gli uomini non poterono parlare ritornarono ai campi e le donne al focolare. Poesia orfana, concordo: sono pochissimi i poeti, i letterati o gli artisti che, vedendo, se lo vedono, questo momento, che abbiano il coraggio di parlarne. Tanti autori, di tanto o poco valore, che nel loro frammentarsi si ritrovano tutti assieme dentro una nuova corrente di pensiero, l’evitamento di espressione nella finzione che tutto vada bene così com’è, adeguandosi e chinando il capo a proposte di vita disumanizzata. Lo spettacolo continua. Resta il fare, il mio adesso è trovare la poesia nella natura, nei paesaggi, nel silenzio, ritrovarmi in cucina a inventare ricette rispettose del tempo, abbinando i colori dei cereali e delle verdure, nell’armonia dei gusti, sperimentando. Mi danno pace. Vedere è diventato troppo. Adesso cerco di ascoltare, chetare il germe del giudizio. Scrivo poco, adesso, come un mettermi da parte, sono alla ricerca di nuove parole che esprimano il proseguo del mio cammino. Si trovano i segnali della mia trasformazione in alcuni versi nella raccolta Indizi di un dove, Samuele Editore, 2021.

L’uomo col vestito chiaro

della primavera segna la fine

del Calvario…

…Trova un segno, un desiderio ardente,

una nuova attesa, come nell’intaglio

asfaltato semi di clorofilla.

  1. Come nasce la tua ispirazione? Ci sono momenti del giorno privilegiati? Attribuisci importanza alla componente autobiografica e al rapporto con i luoghi dove sei nata o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

L’ispirazione nasce dall’osservazione del vivere, cercando di raccontare le mie emozioni, le situazioni del vivere quotidiano delle persone che vedo attorno, raccontare la vita. I momenti per scrivere non hanno un tempo: a volte è la notte con la sua magia: mi tiene sveglia a scrivere mentre tutto attorno è come un incanto silente. Altre volte l’ispirazione nasce mentre cammino o lavoro e questo mi obbliga a fermarmi ad annotare quel qualcosa. Il titolo Indizi di un dove suggerisce l’idea del luogo, i miei numerosi dove; sono vissuta in tanti paesi, una serie di traslochi che non ho nominato eppure sono presenti. Hanno plasmato il mio modo di essere e di pensare di ritrovarmi straniera in ogni luogo e allo stesso tempo non estranea all’Altro: “l’Altro” è come me, crolla quindi ogni giudizio, il confine tra gli altri e me è poroso, non è un muro. Le radici si sono moltiplicate, non ne ho una sola e questo, se in un certo modo mi ha fatta sentire “in nessun dove” mi ha benevolmente abituata ad allargare la prospettiva della visione della vita.

  1. In quale contesto emotivo è nato Indizi di un dove?

Ad un certo punto doveva nascere, esporsi. Ė nata perché era giunto il momento, con il sostegno fiducioso di persone amiche ho capito che potevo aprire le mie pagine al pubblico.

  1. In che misura gli incontri con altri autori e intellettuali hanno influito nella tua evoluzione poetica?

Ho incontrato autori locali che mi hanno insegnato molto; ho seguito laboratori molto utili, mi hanno fatto comprendere soprattutto l’importanza di ripulire i testi, di rallentare il ritmo nella lettura per meglio assaporarne il significato. Nella prefazione di Giovanni Fierro e nella presentazione della redattrice del libro, Elisabetta Zambon, poi con altri autori con cui mi sono confrontata, ho scoperto che, oltre al contenuto che intendevo esporre se ne  trovavano altri: è l’inconscio che parla a mia insaputa. Con stupore mi riscopro attraverso la lettura degli altri.

  1. Sappiamo quanto la copertina e il titolo rappresentino, in certo senso, la soglia del libro: come sono nati per il tuo libro quegli elementi così carichi di suggestione?

Ho pensato questo titolo perché suggerisce una ricerca, il mistero del luogo, come voler stuzzicare la curiosità nella ricerca del significato. L’immagine è una mia bozza, un esperimento di pittura, colori intensi rosso e argento, la passione indomita e il femminile della luna argentea, rappresenta il cancello dietro il quale sono in attesa: un cancello, la soglia come spazio di apertura, uno sconfinamento anziché una chiusura.

  1. A quale pubblico pensi sia rivolto Indizi di un dove?

Credo sia rivolto a chi ha già percorso un bel tratto di strada nella vita, ad un pubblico maturo, a chi si riconosce nella nostalgia o a chi desidera una spinta al cambiamento, a migliorare la propria vita a non abbandonarsi all’abitudine che spegne i sogni e l’anima.

  1. In che modo stai facendo conoscere il tuo libro?

Presentandomi al pubblico di persona, raccontandomi. Avrei voluto proporlo alle biblioteche dei luoghi dove ho abitato per confrontarmi con gli autori locali. Poi tutto si è fermato, il famoso d.C. Non ho voluto accettare o fare discriminazioni. Verranno tempi migliori, forse.

  1. Qual è il passo della tua silloge che ritieni più riuscito o a cui sei più legata e perché?

“Fammi un sorriso di circostanza

è meglio non andare a fondo

sul dolore accumulato

si cammina sopra

le situazioni andate a male

da conservare sotto vetro

che non si senta l’odore

del mare che ci porta via

da questa laguna spenta.”

  1. Che cosa ti attendi da Indizi di un dove?

Cosa ci si può attendere adesso, in un adesso che si prolunga oltre l’inverosimile? Di riappacificarmi con le persone care, di imparare a non attendere, di un risveglio dell’umanità? O forse solo di lasciar andare…

  1. Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Stai già lavorando a una nuova opera e di che tratta? Puoi rivelarci qualcosa?

Sto mettendo da parte contenuti nuovi che tento di scrivere in una nuova forma. Ancora prematura ogni rivelazione. Sono in fermentazione, occorre il tempo giusto per la maturazione delle parole.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Giorgia Vecchies nasce a San Giorgio della Richinvelda il 22 aprile 1954. Negli anni partecipa a diversi laboratori di lettura e scrittura e a vari incontri letterari. Tra cui con il Gruppo Majakovskij, Claudio Moras, Dario Marini, Martina Boldarin, e quelli proposti da Samuele Editore. Nell’agosto del 2014 partecipa al Festival dell’Arte di Grado vincendo il primo premio. La sua opera prima è Indizi di un dove, Samuele Editore, 2021.

 

 

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Fabio Dainotti: “Ultima fermata – Poesie e racconti in versi”, La Vita Felice, 2021. Recensione di Adriana Gloria Marigo.

07 venerdì Gen 2022

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Fabio Dainotti, Ultima fermata

 

Fabio Dainotti: Ultima fermata – Poesie e racconti in versi

La Vita Felice, 2021

Nota di Luigi Fontanella

 

Tracce circostanzialiste e parmenidee nello spazio e nel tempo di Ultima fermata – Poesie e racconti in versi

 

«Quando siamo ancora fortemente proiettati verso il futuro, il nostro passato con i suoi peculiari piaceri non ha alcuna presa su di noi. Giungerà a suo tempo l’ora delle “Memorie”, il volgere la testa all’indietro. In quel momento l’uomo compensa la sterilità del suo avvenire con un insperato rinverdirsi di tutti i paesaggi inariditi.»: sono le parole di José Ortega y Gasset contenute nel Prologo per gli spagnoli di quel pregevole libro che è Il tema del nostro tempo, e bene attengono all’ultima raccolta del poeta e presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana Fabio Dainotti Ultima fermata  – Poesie e racconti in versi, La Vita Felice, 2021. Fin dal titolo, a modo di dichiarazione inevitabile, esplicita, iscrizione di frontone autorevole, esaustiva, il poeta ci pone di fronte a una circostanza il cui carattere è la ‘conclusione’: di un viaggio, o percorso, o piuttosto percorso di un certo viaggio che ha esaurito le proprie urgenze, le fascinazioni, i contributi di apprendimenti che formano, affinano, capitalizzano la vicenda personale durante tratte di vita reale e simbolica, chiude il tempo dei progetti sognati e realizzati, degli ideali e apre il tempo dell’andare à rebours: tempo non avulso da certa nostalgia e revêrie che tracciano versi dai sentori di malinconia sfiorata da amabile ironia. La percezione della fine del viaggio avvia l’osservazione sul passato, sui particolari dell’accadere espressi sia per forme oggettive – le cose quotidiane, gli incontri, le perdite, gli eventi banali o straordinari – sia per atmosfere e ritmi di eventi – la grazia della meraviglia, la mestizia delle sottrazioni, la numinosità dell’ineffabile – secondo una misura cara all’Autore e consistente in una nota dalla melodia delle cose in penombra, sfiorate da luce lieve, propensa ai toni della malinconia dei poeti crepuscolari: si tratta del paradigma di quel carattere attento ai modi di una sottile eleganza intellettuale e formale che trova riscontro nell’uso della parola, della versificazione solo all’apparenza semplice, incline al discorsivo: in realtà il raggiungimento di un fraseggio comprensibile e al contempo carico di suggestioni come quello evidente in Ultima fermata  – Poesie e racconti in versi è il risultato di attenzioni ineludibili per la parola pregna di auree immaginali, mnestiche come ha rimarcato in Nota il poeta e critico Luigi Fontanella. Lo sguardo rivolto all’indietro – questa rassegna perlustrativa dell’avvenuto con le sue dissonanze esistenziali e le sue fragili delicate virtù – consegna poesia in cui la costante presenza umana attraversata da sinfoniette paesaggistiche come in Paesaggio sul Ticino disegna spazialità intramate di tempo il quale, per sua natura essenzialmente astratta simultaneamente presente e assente, non è immobile, ma percorso dal cambiamento. E’ il cambiamento che «permette di discernere uno stato precedente di un corpo dal suo stato successivo, che si è originato solo in seguito allo stato antecedente che, come dice il termine stesso, lo ha preceduto, ossia è occorso prima di esso temporalmente, di modo che, attraverso il mutamento, è possibile approssimarsi alla comprensione dell’avvenire del tempo mediante la distinzione netta di un prima e di un dopo.» (Giovanni Mazzallo, Il tempo in Parmenide e Einstein) consente al poeta di scrivere «Ma il berceau è spoglio, rotta la panchetta, / dove leggevi romanzi d’amore / tutta sola, protetta, / nel sole, da una paglia fiorentina.»: le immagini–fotogrammi che sembrano immobili, cristallizzate nostalgicamente in un tempo lontano, sono percorse da una coloritura che emana onde vibrazionali, suggestioni che raggiungono il presente dove si percepisce che l’immobilità appartiene al passato, mentre la suggestione al presente e che in tale rapporto si situa l’immaginazione che è ponte, vitalismo del tempo. Cose e persone sono connotate e descritte ‘in essere’, in momenti attivi dove la nostalgia resta sospesa, aleggiante, preferendo l’affioramento della circostanza: avviene che i versi in Primi Juke–Box «Si andava “Da Gisella”, nelle sere / d’estate, in Franciacorta, / a sentire il juke–box, / un cerchio di splendore / e intorno l’ombra.» siano a confermare un tratto evidente che percorre il libro e corrisponde, ancora una volta, all’espressione di José Ortega y Gasset «Io sono io e la mia circostanza»: «la trasognante attrattiva di questi versi» (Luigi Fontanella, Nota) emerge da una sapienziale architettura poetante in cui la narrazione lirica mette in atto una serie di esistenze ed eventi in circostanze determinanti, poiché la vita accade non «al di fuori di ogni luogo e di ogni tempo» (José Ortega y Gasset, Prologo per gli spagnoli), ma nel manifestarsi di coordinate spaziali e temporali che Fabio Dainotti tratteggia con versificazione sicura, ferma e sentimento lirico di grande armonia formale rifuggente da ogni artificiosa astuzia rimaria.

Adriana Gloria Marigo

 

 

 

da Autobus a Pavia

ULTIMA FERMATA

La turba ce rimase lì, selvaggia

parea del loco, rimirando intorno

come colui che nove cose

assaggia.

Dante Alighieri

 

In viale Cremona a Pavia,

nella periferia estrema, ingrigita,

penultima fermata: tutti scendono,

qualche saluto frettoloso: è tardi.

Uno, straniero ancora al luogo e alla città,

vedendo ripartire il bus rombante

(fanali che si perdono nel buio, nella nebbia),

domanda agli altri, attonito:

«Ma dove vanno quelli, in capo al mondo?»

 

 

 

da Franciacorta in corriera

IL GIORNO DEI SEPOLCRI

Un’altra Pasqua, è il giorno dei sepolcri

e il cielo è corrucciato, come deve.

Mangiammo la “tagliata” in un grazioso

ristorante, all’aperto (era d’estate),

sotto un ameno pergolato. E lei,

nel letto d’ospedale. Erano posti

già visti nell’infanzia, forse in una

vita anteriore.

 

 

 

da Funicolare di Brunate

PROMESSA

La giornata si schiude, una promessa

attende nell’ombra che scema.

Il bar è nel sole che avanza.

Ridono le stoviglie, l’acqua canta.

Il giornale sportivo è sul tavolo,

promessa di sogni incantati.

Nell’ombra c’è il verde bigliardo.

Fuori un sole maliardo.

 

 

 

da Trenino per Vimercate

ALLA FERMATA DEL TRAM

In tre alla fermata del tram.

Una ragazza, un biondino, uno bruno.

La ragazza e il biondino si salutano

baciandosi sulla banchina. Lui sale sul tram,

che si allontana scampanando e gira,

scompare tra le foglie rosse e gialle.

È la volta del bruno, lei lo bacia,

le guance rosse. Aspetto la mia corsa,

il mio turno del bacio che non viene.

Arriva solo, ma in ritardo, il tram.

 

 

 

da Burchiello sul Brenta

LA MALCONTENTA

Un bacio mi desti, spergiura

Elvira, nel vialetto

ghiaioso della Villa Malcontenta.

Ora è finita; eppure credevamo

(o forse io credevo) il nostro breve

amore imperituro. E così è stato,

da parte mia.

 

 

 

da Taxi per Cava

CAVA DESNUDA

Bellissima, adagiata

sul letto della Valle Metelliana,

i fianchi ti asseconda morbidissimi

la doppia curva della via ferrata

e dell’autostrada per Napoli.

E vai pensando, neghittosa e nuda,

a impossibili amori.

 

 

 

Biobibliografia

 

Fabio Dainotti, presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni presidente e direttore, condirige l’annuario di poesia e teoria «Il pensiero poetante». Ha pubblicato in poesia: L’araldo nello specchio, Avagliano Editore, 1996; Sera, con disegni di Salvatore Carbone, Pulcinoelefante, 1997; La Ringhiera, Book Editore, 1998; Ragazza Carla Cassiera a Milano, Signum, 2001; Un mondo gnomo, Stampa alternativa, 2002; Ora comprendo, Edizioni Scettro del Re, 2004; Selected Poems, Gradiva, 2015; Requiem for Gina’s Death and Other Poems, Gradiva, 2019; Poesie controcorrente, Biblioteca dei Leoni, 2020. Nel 2015 ha conseguito il Primo Premio assoluto “I Murazzi” per la silloge inedita Lamento per Gina e altre poesie, che ha avuto la pubblicazione premiale per i tipi della Genesi Editrice, Torino. Ha collaborato a numerose riviste di settore (tra cui «Capoverso», «Misure critiche» e «Gradiva») ed è presente in molte antologie. Come conferenziere, ha parlato su argomenti di letteratura e di interesse dantesco e commentato canti della Divina Commedia. Ha tenuto reading di poesia: il più recente, alla State University of New York, Stony Brook. Ha curato la pubblicazione presso Bulzoni de Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010). Sul mensile «Poesia» sono apparsi articoli sulla sua produzione. La Rai ha seguito eventi da lui curati.

 

 

 

 

 

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Silvio Raffo: In voce – 64 poesie lette dall’autore editrice petite plaisance, 2021. Sette poesie e un commento breve.

08 venerdì Ott 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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In voce, Silvio Raffo

 

Silvio Raffo: In voce – 64 poesie lette dall’autore

editrice petite plaisance , 2021

Sette poesie e un commento breve

 

È un florilegio, la scelta delicata e impressiva delle sessantaquattro poesie che formano il corpo di In voce: i due attributi che si riferiscono a ‘scelta’ sembrano contrapporsi, in verità costituiscono il forte intreccio di anima e pensiero che risolve nel verso la visione sapienziale di Silvio Raffo: il poeta, in questa raccolta antologica corredata di un cd in cui è incisa la lettura delle liriche estratte dalle raccolte che vanno dal 1967 al 2019, continua a testimoniare l’inimitabile parola che coniuga il tempo odierno secondo una personale misura metrica che accoglie la sonorità della lirica classica e la restituisce aderente a fini questioni esistenziali, ontologiche, attuali, risolte secondo la cifra dell’inattualità: il lessico non ama le seduzioni della parola inafferrabile, al tempo stesso rifugge dalla banalizzazione dei temi attuali lasciandosi cogliere in un’apparente semplicità versificatoria colma di grazia, un’aura di soavità prossima al mondo eterico, angelico che non allontana, anzi rimarca, le questioni umane, in particolare l’insondabile sorte. Nell’eleganza del verso, in quella sua dichiarazione di intenti che sorge dal sentimento profondo e arcano per la Bellezza inscalfibile  – Sto cercando la splendida parola – Silvio Raffo è aderente al tempo, inevitabilmente dentro il tempo, attraversato dal tempo, ma non travolto dal tempo; è immerso nell’accadere impietoso dell’evento, ma non scalfito dalla circostanza, come se una riza ne proteggesse l’intera figura fisica e simbolica, gli conferisse la lamina salvifica dell’ironia, del disincanto che pure rivela l’altra parte, luminosa, fragile e incorruttibile sul filo aurato dell’incanto.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da I GIORNI DELLE COSE MUTE (1967)

 

Le lacrime d’amore

 

Le lacrime d’amore. E ne farò uno stagno

laggiù sul ponte della nostra strada.

E vi berranno i cani di nessuno

e potrà qualche rondine specchiarvi

il suo volo serale.

Così almeno

serviranno a qualcosa

 

 

Da STANCHEZZA DI MNEMOSYNE  (1983)

 

L’angelo eremita

 

Fin quando mi sarà dato d’avere

quest’aria vaga d’angelo eremita?

Confesso d’aver complice una scaltra

quotidiana cosmesi, ma di certo

non si tratta soltanto dell’aspetto:

m’è naturale un fatuo ondeggiamento,

lo svolazzare aereo delle piume…

Anche quando l’uncino del dolore

mi scarnifica lento in ogni fibra

so che non può raggiungere le ali…

So che rivolerò sempre nel vuoto

vuota sostanza viva senza vita

 

 

Da LAMPI DELLA VISIONE  (1988)

 

Per troppa vastità

Per troppa vastità ci opprime il cielo –

sterminata la sua circonferenza

per il nostro geometrico compasso –

finché, deposti gli strumenti umani,

ci accorgiamo che è lui che ci misura

 

 

Da L’EQUILIBRIO TERRESTRE (1991)

 

Il rito

 

  1. (il corpo)

Questo tronco flessibile dell’anima

m’ha sempre attratto solo come forma

La luce di un riflesso al buio tende

se un lievito divino non l’accende

 

 

Da AL FANTASTICO ABISSO (2011)

 

III. Sto cercando la splendida parola

Sto cercando la splendida parola

la parola tremenda, l’assoluta

quella che l’ultimo giorno non muta,

che brilla sulla pagina da sola

 

 

Da CORPO SEGRETO  (2017)

 

La débacle prochaine

Prossima la catastrofe si annuncia.

Sì, devo prepararmi all’infallibile

débacle d’ogni ambizione, alla rinuncia,

a ciò che parve sempre incompatibile

col mio destino. La degradazione

della bellezza, l’annichilimento

d’ogni energia. Maestro di finzione,

quale maschera reggerà al cimento?

 

 

Da LA FERITA CELESTE  (2019)

 

Nel ricamo della mia vita

Nel ricamo della mia vita

ha gli orli dorati il dolore

Il pugnale che incide la ferita

è l’ala di un celeste Tessitore

 

 

Biobibliografia

Silvio Raffo, poeta, narratore, traduttore e saggista, è docente di Traduzione Letteraria all’Università dell’Insubria di Varese. Le sue ultime raccolte di poesia sono Corpo segreto, LietoColle, 2017; La ferita celeste, La Vita Felice, 2018; Il giovane dolore, Punto a Capo, 2021. È il più fecondo traduttore di poeti e poetesse americane (Emily Dickinson, in primis, nel Meridiano Mondadori). Dal suo romanzo La voce della pietra, Saggiatore, 1996 e Elliot, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. La sua antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto ospita anche autori generalmente dimenticati. Dirige a Varese il Centro di Cultura Creativa “La Piccola Fenice”, attivo dal 1986. Collabora con la RAI e con varie riviste letterarie, fra cui “Poesia” di Nicola Crocetti.

 

 

 

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Pietro Edoardo Mallegni:  tre poesie da “Il nulla”, una poesia inedita con un commento breve

11 sabato Set 2021

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Il nulla, Pietro Edoardo Mallegni

 

Pietro Edoardo Mallegni:  tre poesie da Il nulla

Europa Edizioni, 2020

Una poesia inedita

Con un commento breve

 

Le tre poesie dalla raccolta Il nulla e la poesia inedita Gli angoli del cielo costituiscono tutto quanto l’Autore ha voluto sottoporre alla nostra attenzione: poco per illustrare compiutamente la cifra poetica, tuttavia sufficiente per porre in luce la sensibilità di Pietro Edoardo Mallegni per il lessico raffinato, sobriamente ricercato, finemente modulato verso la parola alta così da creare una misura stilistica chiaramente riconoscibile; l’attitudine alla essenziale impressiva connotazione che si avvale di modi sintattici inconsueti atti a rafforzare l’immagine – come si mostra nell’uso enclitico di levasi, chiamasi – vivida, palpitante. Gli elementi naturalistici o paesaggistici (vento ascendente, eleganza del cielo, nuvole grigie), sono motivi particolarmente simbolici e designano, anche con l’uso sapiente di pregevoli ossimori (avara ingordigia), piani sinestesici e spirituali da cui emerge il fattore ontologico, la questione esistenziale, la riflessione morale dove l’alterità, la verità dell’Altro costituisce la tensione dell’incontro e la cognizione della propria solitudine nella percezione del trascendente con il quale è ostico il linguaggio (Balbuzie di Dio, incomprensibile lingua).

 

Adriana Gloria Marigo

 

Umanità

 

Levasi, dalla terra

un vento ascendente

di vigore e lacrima ed è

eleganza del cielo;

nelle nuvole grigie,

disegna il sole,

firmando d’azzurro.

 

Qui, abitano i sogni eterei,

dei trapassati terreni.

 

Senza zelo, pigrizia

e avara ingordigia,

fieri fanno piovere

i nostri incubi.

 

Balbuzie di Dio :

piano, la terra, distruggeranno

così che il cielo non abbia più

nulla su cui piovere.

 

 

Il mondo è  sordo

 

S’appiana, nella voce,

il gemito della  mia lacrima,

che come foglia contro il vento,

si lancia tra le vostre dita.

 

Ora come inveterati Dei,

i vostri pensieri, unici sibilano,

con singolo colpo su altri,

carne dilaniano, in quantità,

ma chiamasi al sopravvivere,

a calma sopravvenuta,

con suo ululo, vomita

un enigma di domande:

che altri non sono,

che i vostri silenzi.

 

Il fallimento

 

Il peso del giorno,

schiaccia in me,

la voglia di vedere il seguente.

 

Forse,

è peggio della morte

saper che la propria vita,

sulla bilancia dell’esistenza,

conta niente.

 

Gli angoli del cielo

 

Non cambiano mai, certi cieli

e come vorrei, ora, le tue stelle,

nel tempo di questo buio,

spargendo nebbia con la bocca.

 

Dietro tutti gli angoli,

il tuo sorriso, ricerco,

su altalene stampato,

mosse dal vento.

 

E parlarci nella tua incomprensibile lingua,

per capire che non serve, il tutto là fuori,

per capire che di tutte le clessidre

che ho rovesciato, è la tua

che, tutta la vita, mi costa.

 

Sono solo,

a gridare nelle burrasche,

fa che ti arrivi il mio pianto,

e come quando io sentivo il tuo,

vienimi a svegliare.

 

Biobibliografia

 

Pietro Edoardo Mallegni è nato a Carrara il 1 luglio 1995. Fin da piccolo nutre due grandi passioni: la cucina e la scrittura, amori che lo porteranno a intraprendere professionalmente la strada del cuoco e, marginalmente, quella dell’appassionato scrittore di poesie. Nel 2013 pubblica con la casa editrice Marco del Bucchia la sua prima raccolta: Il dedalo in me, e  vince il premio “Michele Mazzella” con l’atto unico Geshua e il crollo dell’io; nel 2015 pubblica la raccolta Il Dio Dada e si avvicina al movimento poetico-artistico italiano “dinanimismo” guidato e fondato da Zairo Ferrante. Dopo la maturità viaggia molto per lavoro e nel 2017 diventa padre, così decide di tornare a vivere nella sua città, Massa, con la famiglia. Nel trascorrere di questi anni partecipa a diverse antologie curate da Ivan Pozzoni per la casa editrice Limina Mentis. Tra il 2019 e il 2021 ottiene la “Menzione al merito” al Concorso Internazionale di Poesia “Fëdor Dostoevskij”; è poeta finalista al Concorso Internazionale di Poesia “Il Federiciano”; “Menzione speciale” Premio “Kalos II Edizione”; “Secondo Classificato” Premio “Scrittura in Cibo”; pubblica le raccolte di poesia Neurocidio, Limina Mentis  e Il nulla, Europa Edizioni.

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Silvio Raffo: “Daily Visitor”. Due quartine inedite. Breve nota critica “La maliosa visitatrice quotidiana” di Adriana Gloria Marigo

18 venerdì Giu 2021

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Daily Visitor, Silvio Raffo

The Spring House Hotel: Black Island, Rhode Island, USA

 

 

Silvio Raffo: Daily Visitor

Due quartine inedite

Breve nota critica La maliosa visitatrice quotidiana

 

 

DAILY VISITOR

 

Non sono più il fanciullo che alla Morte

ogni sguardo negava, ogni pensiero

né il giovane poeta cui una sorte

generosa spianava ogni sentiero.

 

Sono l’ospite ostile alle maliose

sue visite alla soglia della mente

ma la sua ombra insiste in insidiose

movenze ad annunciarsi onnipresente.

 

Fotografia anonima

 

In due quartine la visitatrice quotidiana con  «maliose sue visite», «la sua ombra [che] insiste in insidiose movenze» è scaturigine, dal tenebrore di ciò che genera spavento per l’annullamento della vita, della completezza dell’esistenza, dall’insinuarsi di figure fantasmatiche gravate dei segni della soglia estrema – paradossalmente da quello sgomento – della luce di poesia. Accade, in virtù delle immagini “maliose”, “insidiose”, di quel pensiero dominante che attrae e respinge a somiglianza del numinoso perturbante, l’accensione dell’immaginazione attiva il cui esito, nel poeta, è l’invenzione della parola poetica: nasce il verso, nasce la poesia. La poesia, come in ogni nascita, è un ‘venire alla luce’, un accadere della parola nel fine della luce, al fine della luce: si compie, nella radianza della luce che grazia o attribuisce la giusta postura agli elementi animati e inanimati, il riconoscimento della costanza dell’ineluttabile, la compresenza di vita e morte, la cognizione che la rimozione di quest’ultima è una torsione vitalmente dolorosa e, al contempo, si esplicita la metafora di quella dinamica vita – morte – vita che investe la creatività poetica. Sopraggiunge un’età in cui – annullata la negazione della presenza della morte nel duplice piano semantico del verso «Non sono più il fanciullo che alla Morte /ogni sguardo negava» (la negazione dello sguardo è rivolta tanto al soggetto, quanto all’oggetto dello sguardo rivelando in questo che la relazione con la Nera Signora è inevitabile seppure ricacciata, consegnata a intellettualistica impresenza) – si fa presente, salda, dichiarata l’avvertenza della condizione di “ospite ostile”: il solo rango che nel poeta Silvio Raffo può darsi nei confronti del flusso ineludibile, che non manca di mostrarsi sotto spoglie seduttive, onnipresente ombra persecutoria ne «lo gran mar dell’essere». Il sapere derivante è l’esistenza ubiqua dell’insidia, della soglia mentale quale accesso alla dissoluzione dell’essere fisico e spirituale, nonché della necessaria ostilità quale contrafforte dello stato di “ospite”: colui che gode dell’accoglienza per il tempo concesso del beneficio cui segue la separazione, la sospensione dell’idillio e, di nuovo, la mediazione regolata sul lume della circospezione inevitabile, ciclica.

Adriana Gloria Marigo

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Paolo Isotta: “Paolino. L’arte, la bellezza, la vita”, Edizioni Settecolori, 2021. Due estratti e una breve nota introduttiva.

04 venerdì Giu 2021

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Paolo Isotta

 

 

Nota dell’Editore

Paolino. L’arte, la bellezza, la vita raccoglie cinque testi di Paolo Isotta. Il primo, «Musica sacra e Bellezza», inedito, è l’intervento scritto in occasione del convegno «L’Arte e il magistero della Chiesa» organizzato nel 2008 dalla casa editrice Settecolori. Il secondo, «La musica, il tempo, il mito», è l’introduzione al libro Wagner Nietzsche e il mito sovrumanista, di Giorgio Locchi, pubblicato nel 1982 da Akropolis-LEDE. Il terzo e il quarto, usciti nel 1980 sul quindicinale «Linea», si iscrivono nella linea degli «apocrifi d’autore» alla maniera di Paolo Vita-Finzi, diplomatico e scrittore da Isotta molto amato. Nella fattispecie, si tratta del «calco» parodico-stilistico della prosa di Leo Valiani e di Giovanni Testori a confronto con un celebre caso ideologico-mondano-giudiziario dell’epoca: l’uccisione della moglie da parte del filosofo francese Louis Althusser. L’ultimo, «Manuale di decomposizione», fa parte del volume C’eravamo tanto a(r)mati uscito ancora per Settecolori nel 1984 e poi riedito nel 1998. Nel riunirli all’indomani della scomparsa del loro autore, l’intento è quello di un omaggio e di un ricordo per un amico e un maestro.

L’Editore

 

*

In occasione del trigesimo di Paolo Isotta, le Edizioni Settecolori di Milano pubblicano il 12 marzo 2021 in edizione limitata di trecento esemplari cinque testi del grande critico musicale, storico della musica, musicista, letterato incandescente. Sono riuniti nel libro Paolino. L’arte, la bellezza, la vita che a me giunge con inciso il numero di tiratura 137: ricevuto in omaggio per quella gentilezza, quel garbo innato e accudito del modus in rebus che alcune personalità ancora manifestano, il libro attesta nell’Avvertenza che lo studioso di musica dalla luminosa ustione letteraria appassionato di Lucrezio, Virgilio, Livio, Tacito – in particolare – scrive a Napoli, settembre duemilanove, al saggio Musica sacra e Bellezza «che definire che cosa Bellezza sia non sa». È il primo dei cinque testi da capogiro per l’autorevolezza, la raffinata genialità di musicologo in cui convivono e declinano saperi che nel lebes della musica trovano esaltazione combustione brillantezza incidendo il pensiero di Isotta del connotato irreversibile di eccellenza, cultura sterminata e originalissima, sostenuto da una particolare vis poetica e polemica che discende da appassionata, oserei dire, vita simbiotica con la musica classica e lirica, da un non comune amore per la letteratura classica, un’acuta intelligenza olistica che consente, in una prosa straordinaria, inusuale, coltissima, l’elogio ardente, la stroncatura implacabile.

 

Adriana Gloria Marigo

 

Da  Musica sacra e Bellezza

«Nessuna arte nasce sotto il sigillo dell’estetica: vale a dire di quella mescolanza di scienza e intuizione, a lor volta composte di analitica, esegetica, ermeneutica, la quale determina il suo destino. Se codesto destino sia poi un Wesen ovvero un Sein non sarà il modesto estensore della presente noterella a poter indicare. Meno di tutte nasce more aesthetico la musica. Si può affermare che, indistinta dal mero rumore, essa fosse manifestazione, ma ben meglio espressione, dell’Ur-schrei, L’urlo originario. (…) Il tema dell’originaria unità di canto e linguaggio ci aiuta a ben comprendere la comune funzione. Altro che ricreazione per l’uno e comunicazione per l’altro: hanno ambedue o tutt’uno una valenza magica che, in epoca ancor positivista, venne energicamente affermata dal Combarieu, autore de La musica e la magia e poi, nel secondo dopoguerra, negli insuperati scritti di Marius Schneider, etnologo e musicologo di qualità eccelsa. La etimologia di tanti vocaboli indoeuropei mostra subito ciò che qui si afferma: cantus viaggia col suo inquietante incantus (…) Il primo esempio, nel mondo indoeuropeo, che la musica possa essere veicolo di piacere indotto nell’ascoltante, (…) è nell’episodio omerico ove Odisseo si fa legare all’albero della nave pur di poter udire, incolume, il dolcissimo canto delle Sirene. Dolcissimo: ma fatato e portatore di morte a chi, proprio da tale dolcezza avvinto, alle mostruose creature si avvicini. L’episodio non può così esser letto in senso estetico, sibbene, ancora una volta, magico. (…) Ma se veniamo al significato primo di musica sacra, ecco che ci troviamo ancora una volta nell’impossibilità di distinguere la musica dalla magia. Il mondo romano non ne è toccato, giacché il sacerdozio era una carica civile, eccettuata l’eccezione del Collegio delle Vestali. (…) Al sacrificio umano ( che a Roma ancora nel V secolo a. C. in circostanze particolari praticavasi) o animale si sostituiva il sacrificio musicale, cioè il canto. (…)

Ma siamo nella parte più alta e splendente che la civiltà e il mondo classico abbiano toccata; per noi cultori della musica giunge il grande buio. Noi, fuor d’una dottrina musicale raffinatissima atta a concepire il calcolo degl’intervalli e i reciproci rapporti, nulla sappiamo. La poesia era unione di musica e poesia, ma per noi risonerà sempre parola ritmica, più traditrice forse della parola nuda. La poesia tragica era cantata: insieme sacrificio religioso e spettacolo popolare, dove puoi invenire ancora di quell’arcaica catarsi che produceva effetti reali, fisici ed etici, nel Ditirambo ove gli antichi scrittori vedevano l’origine bacchica della manifestazione tragica. (…)

E la musica profana? Nugae baliverniae, secondo i dottori del canto gregoriano: proprio perché rozze danze e canzoni popolari in ritmo ternario o binario con suddivisione ternaria producevano un piacere sensuale rivolto agli ascoltatori e agli esecutori stessi ch’era il contrario del tipo di bellezza che dalla musica si voleva. Eppure l’evoluzione di questi pezzi, il loro esser portatori già ab antiquo di aspetti tipici del linguaggio musicale tonale, proprio della musica moderna, fecero sì che, con un determinato fondersi di linguaggio popolare e tradizione gregoriana, nella polifonia della fine del quattrocento la musica moderna nascesse. (…)»

Da  Basta con le connivenze

«La mano omicida dell’eversione ha colpito ancora, il “filosofo” francese Louis Althusser ha strangolato la propria consorte, Hélène Rhitmann. Ma filosofo non è chi fa propaganda di un’ideologia antiumanitaria e assassina.

L’Althusser usurpa questo nobile appellativo. Sentiamo che nelle lezioni tenute di fronte a un gruppetto di fanatici egli facesse l’apologia della violenza. Egli dichiarava che gli uomini non sono tutti uguali. Egli si richiamava a esperienze che la storia ha definitivamente bollato con infamia. Sappiamo che egli commentava i testi di Federico Nietzsche.

Questo scrittore ha fomentato i più tristi episodi della nostra storia recente e meno recente. A lui fanno riferimento i fascisti e i golpisti italiani che attentano al nostro ordinamento democratico.(…) Althusser non è dunque un filosofo. È un delirante predicatore di violenza. Un Paese, nato, come il nostro, dalla lotta popolare e antifascista, gli consentiva di divulgare tali prediche. Di più, gli concedeva una prestigiosa cattedra e addirittura un appartamento al Collège de France, in cui egli ha potuto mettere in pratica le sue idee delittuose nel modo efferato che sappiamo. (…)

La sventurata consorte di Althusser, rea solo di essersi accostata a un così tristo personaggio, era ebrea. (…) Sin da quando si sposò con la povera Hélène Rhytmann, Althusser la costrinse a cambiare cognome per celare la sua vera identità razziale. Ma evidentemente questo non gli era bastato. Non pago di averla costretta a novella clandestinità, egli ha voluto sopprimere nella persona della consorte un intero popolo verso cui la sua mente delirante porta un odio che ha radici precise e inequivocabili. Al Rabbino di Parigi e a quello di Roma vada la nostra deferente solidarietà.»

Leo Valiani

 

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Paolo Landi: “L’occhio del fulmine”, Prometheus, 2020. Cinque poesie e un commento breve

07 venerdì Mag 2021

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Adriana Gloria Marigo, L'occhio del fulmine, Paolo Landi

 

Paolo Landi: L’occhio del fulmine

Prometheus, 2020

Cinque poesie e un commento breve

Il filosofo Paolo Landi nell’ottobre 2020 pubblica per i tipi di Prometheus L’occhio del fulmine: le nove sezioni Mistero di te, Vago calar della sera, Le onde dei tuoi capelli, L’incendio della parola, Al passo che il piede serra, La statua che il vento erige, Salendo la scala celeste, Le forme nascenti, Le onde portano in epigrafe la dedica all’artista multidisciplinare livornese Furio Allori. La silloge – nella forma poetica che incede per versi ampi, narrativi, sontuosi nei modi di una lingua colta, attraente che ha modanature di termini ricercati, desueti – dimostra l’affiliazione al rigore del pensiero accordato a rime scolpite d’equilibrio metrico; manifesta la complessità sapienziale dell’Autore che ha talento e volizione per la materia del sapere che, in fatto di poesia, media i concetti attraverso paesaggi fisici artistici metafisici di particolare potenza immaginale (come in Le forme nascenti). Si potrebbe avanzare, a proposito della raccolta, l’ipotesi di poesia filosofica (o filosofia poetica) in quanto dalla lettura si evince la particolare fede che l’Autore ripone in un logos pervaso di ideale: in primis nell’ideale della potenza creativa, della genialità nell’arte, nelle forme liriche della bellezza inafferrabile di cui è «… tanto / possente l’inesorabile fiato».

 

Adriana Gloria Marigo

 

*

 

da Mistero di te

 

A PELO DELL’ACQUA

A pelo dell’acqua

apparve il fiore discinto

immobile nel recinto

del suo essere nato:

un meato del cielo

l’aveva voluto

avido dentro quel prato

di acqua matura;

la pura luce

donata dal limbo cristalliforme

del vivido azzurro

teneramente blandiva

un vago sussurro

donato alla nascita inenarrabile;

e l’inudibile

sempiterna ruota

dell’essere alterno

che si squaderna

per entro i millenni

muniva dei suoi portenti

il tripudio di quei fermenti

beati, dipinti dentro la gloria

degli animi sollevati

 

 

da L’incendio della parola

 

PAROLA RINATA

È frale

l’andare per connessure;

lo strepito delle verzure

s’inarca, il pollice duole

le sommesse paure cantando,

ed è notte sulla pagina bianca.

La stanca mano s’addorme,

fatta di pietra e silenzio.

La parca lingua

di un sibilante suono

adesso ridesta

le sue geniture; è l’alba

della parola rinata,

gemella della beata

estasi che perdura

nell’attimo dello spessore

del più sottile capello,

ed è quello che voglio,

se pure è meglio

il fragoroso discorso

che presto s’innalza

splendido di rigoglio,

ma non ritorna

nel luogo dove risplende

l’abito della fiamma

che tutto comprende

 

 

LE PAGINE DEL POEMA

Le pagine del poema

rapprese dentro l’albore

del primitivo nitore

lievitavano nella danza

dell’abbondanza primeva;

la loro sostanza

cresceva nell’onda lungimirante

della fragranza; un più largo orizzonte

visitava le scolte

dell’avita perfezione, dentro le molte

illusioni che germinavano;

le voci sopite venivano scolpite

ognora più vivide

nel marmo deterso

di quell’incanto riverso;

ed un colore disperso

sul mare senza confini

della iridata visione

cangiava in purpuree iridate beltà

il senno vincente

di quella distesa maestà

 

da Salendo la scala celeste

 

SU SCHIENE FURENTI

Su schiene furenti

è tempo di navigare; l’acqua

scioglie i battenti, il mare

s’innalza avido delle scolte

di grigia spuma terrificata;

la notte innalza il pertugio

dopo i diluvi rapiti;

la balza della dimora

avita sulla roccia

ci attende davanti

alla plancia che porta

lo sguardo davanti al cielo.

Avete cresciuto l’anima

dinnanzi alle vostre inferriate,

siete dispersi nei vimini

dei tessuti vitali

intrecciati fra il bene ed il male,

avete girato i cardini

delle pesanti porte

la morte affrontando,

carpendo l’inafferrato mondo,

andando più oltre

 

 

da Le forme nascenti

 

PRIMA CHE FIAMMA ALIMENTI

Prima che fiamma alimenti

l’autentico cuore,

il disamore dovrà alterare

l’azzurro coperchio, e il mare

ruggire dentro la falda

dove ribolle l’odio che serra

la mala pianta; la melma

dovrà risalire

prima che pioggia discenda

su queste rive;

il lavacro

lontano ci porterà;

troverà un Eldorado

privo del baratro e dei suoi lutti,

i flutti ci inonderanno

dei sacri viluppi

e il plettro di nuovi cieli

alzerà la sua lode

al tempo migliore, lucente

nelle sue ore beate,

maturo dei frutti d’estate

 

 

Biobibliografia

 

Paolo Landi (Livorno, 1953) si è laureato in Filosofia e in Lettere presso l’Università di Pisa. Ha pubblicato oltre sessanta saggi e tredici volumi. Tra le sue opere: Dell’insieme totale (“Giornale di Metafisica”, 2001-2004); Per una teoria dell’arte (2007); L’esperienza e l’insieme totale (2009); La coscienza, gli stati di cose e gli eventi (2011); Idee per una semiologia fenomenologica (2014); L’uno e il molteplice (2016) e Teoria della monade (2018).

 

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Marco Vitale: “Diversorium”, Edizioni Il Labirinto, 2016. Sette poesie e un commento breve

19 venerdì Mar 2021

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Adriana Gloria Marigo, Diversorium, Marco Vitale

 

 

Marco Vitale: Diversorium

Edizioni Il Labirinto, 2016

Commento di Giancarlo Pontiggia

 

 

Percorsa da evidente cifra lirica, “la sintassi poetica” di Diversorium ci pone davanti a una raccolta in cui il dettato personale coniuga la rara finezza lessicale all’intenso sentimento della precarietà del tempo e dei luoghi che, espressioni della nostalgia del poeta, irraggiano quella di coloro che attraversano la vita avvertendo la vertigine del rapporto vicinanza-lontananza, la chiamata alla ricerca della risposta, l’intermittenza degli stati felici, mantenendo sul piano stilistico una raffinatezza inusuale nella poesia degli anni più recenti. La padronanza della parola, la cognizione di interiori atmosfere dolenti, la percezione della labilità o fugacità degli accadimenti consentono a Marco Vitale di consegnare al lettore una silloge in cui il paradigma dell’incerto è percorso dalla nota dell’armonia e dalla presenza del “tu” che non si risolve nella pleonastica presenza o assenza dell’ “altro”, ma si estende alle forme del «… libro vasto e offeso della Natura», «compresente il respiro della pietra / dello splendore del retablo».

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

da Nessun farmaco

 

Sarà che col suo passo nel mattino

i bei colori la stagione cede

e incalzano alte nubi

di pianura e ne vanno

e vedo sempre qui, come più indietro

e il caso che racchiude un altro tempo

ancora un po’ ne smuore. Poi

si può dire che vivi nel pensiero

nelle domande che ti faccio e a cui rispondo

senza più crederci, presenza

di nostalgia battito mano

nell’ombra che si posa come nulla

fosse e già lontana

 

 

Di quell’inverno del ‘56

resta una piccola colomba

 

resta un filo di polvere

sul bianco di quel panno

 

le ali aperte non stanno

 

 

da Come da un lungo sonno

 

Così come da un lungo sonno

a cui è dolore il chiaro, il netto

taglio della gelosia che fende

e rigoverna la luce io ti

ravviso e trovo, a lume aperto, e conto

i giorni quasi fossero

nidi che pencolavano e il piovasco

aveva reso più lucidi

 

 

da Lunario calabro

 

Facile

 

Il mare com’è triste la mattina a Paola

e come ambisce

dal vivo del suo blu

per questo lido e attende

sui binari l’incontro

 

E come ogni ritorno

si fa carico

l’ascolto

 

si fa deriva

nel tuo tema di allora

 

 

da Se volge la stagione

 

Umile privilegio è questo bianco

e questo transito

che lega ancora un anno

a un altro anno

un silenzio a un silenzio

 

Solo per te le tracce affondano, si fa

smeriglio anche la luce

meridiana e ridesta

geometrie

linee già eluse

ali nere che addensano

nel libro vasto e offeso della Natura

 

 

da Quaderno romanzo

 

Esercizio amoroso è questa luce

chiara e calma

questa giunzione

questo filo sottile che raccorda

e cerca il sangue. Se vuoi

puoi contare gli snodi sulla punta

delle tue dita

 

compresente il respiro della pietra

dello splendore del retablo

 

A volte una poesia è soltanto un piccolo

commento su una foto

un soffio fatto di niente come dire

guarda, come sorridevate

qui quando la luce

dorava un giorno senza fine, guarda

come eravate giovani, che buffi

gli abiti di allora. Dove siete?

 

Marco Vitale

 

 Biobibliografia

 

Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano. È autore dei seguenti libri di poesia: Monte Cavo, Edizione del Giano 1993, L’invocazione del cammello, Amadeus 1998, Il sonno del maggiore, Il Bulino 2003 (poi in Bona Vox, Jaca Book 2010), Canone semplice, Jaca Book 2007, Come da un lungo sonno, Il Bulino 2009. Un suo racconto, intitolato Port’Alba, è uscito a Mendrisio nel 2011 per i tipi di Josef Weiss. Ha pubblicato la monografia Parigi nell’occhio di Maigret, Unicopli 2000 (nuova edizione 2013) e curato, per la stessa casa editrice, il volume intervista a Evaldo Violo Ah, la vecchia BUR!: storie di libri e di editori, 2011. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011.

 

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Domenico Pisana: “Nella trafitta delle Antinomie”. Edizioni Helicon, 2020. Quattro poesie e una intervista

12 venerdì Mar 2021

Posted by adrianagloriamarigo in Interviste, MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Domenico Pisana, Nella trafitta delle Antinomie

Domenico Pisana: “Nella trafitta delle Antinomie”

Edizioni Helicon, 2020

Prefazione di Dario Stazzone

Quattro poesie e una intervista

 

Dalla prefazione di Dario Stazzone

 

«Come ogni atto poietico e poetico anche Nella trafitta delle antinomie è testimonianza di fede nella parola, sostenuta dalla fede dell’autore. Ma la nostra contemporaneità è segnata da una parola sempre più retorica, cinica e interessata, una parola che perde capacità di significazione e possibilità di raggiungere l’altro. Per questo i versi della prima sezione, Tettonica della contraddizione, ci consegnano una continua e inquieta meditazione, il sogno di una rinnovata onomathesia, la necessità di un rinnovato ascolto della Parola. (…) Ma il caos babelico ha ormai preso il sopravvento, ha determinato la confusione delle favelle, la frattura tra res e verba (…)

La cifra civile della poesia di Pisana è evidente in Passaggio in Italia, dove «silenzio e sdegno di un popolo diviso mi fa eco», in Passaggio in Europa, dov’è incastonato un forte interrogativo: «Ma che vale l’irenismo se ora / cade la memoria, se tutto scivola nell’imbuto / della dissolvenza a materia del golpe, la verità rimane». Questi versi possono essere ricondotti alla tradizione poetica dell’indignatio, vigorosa in seno alla letteratura italiana fin dalle sue origini, da Dante al Petrarca della canzone All’Italia, da Machiavelli che nella conclusione del Principe cita i versi della canzone petrarchesca nell’ambito di una più ampia e veemente adlocutio agli italiani ad una pletora di secentisti, dal Leopardi delle canzoni del 1818 al tentativo foscoliano di fondazione di una laica religio.

La raccolta di versi di Pisana riserva una sorpresa, un’Appendix che raccoglie una successione di ritratti in versi di poeti ed artisti, un’isola in cui si respira un’aria pura che sembra concepita in contrappunto all’aspra realtà rappresentata. Ma una citazione tratta da Ovidio, esergo a questa più breve sezione, ci ammonisce contro la perdita di memoria e le umane ingenerosità: «Finché sarai illeso, potrai contare numerosi amici, ma se il tempo si abbuia, allora sarai solo».

Intersecando la sua voce con quella di altri poeti, evocando le immagini di un grande pittore, Pisana ci riconduce a ciò che è realmente umano, all’irrinunciabile valore tetico della parola e dell’immagine, contro l’odierno universo di barbarie.»

 

Le lingue incespicano

 

Quanta umanità smarrita hai già narrato,

anima mia, voce solitaria nel deserto:

dalla notte rifluisci all’aurora,

dall’aurora torni ad abbracciare la notte,

per via ti tracima la lucerna.

Senza amore, senza forza

di speranza – ma vedi come il sogno

lentamente si dilegua nel tramonto –

a volte ti innalzi illuminata

dalla fede, a volti ripiombi nell’abisso.

Parli la Lingua dell’Eden che ti fu data;

esisti, come sia lo chiedo ancora

al cielo, a questo tempo in cui

le lingue incespicano

su simboli sbagliati

aumentando l’infelicità del mondo,

a questa ora in cui più forte

ogni popolo – forse – dà nomi errati alle cose

implorando la sera della tirannia

che le stelle fuggono e rischiarano.

 

 

Pensando di cambiare

 

Se non cambia il cambiabile

l’incambiabile è il nostro futuro,

disegno di parole versate sul letto del fiume,

raccolte da canoe in cerca di successo.

Viviamo di pensieri che non sono Parola,

si contano sillabe, suoni e insulti

si plagiano bellezze, costruiscono gabbie

si appicca il fuoco, si colorano le nuvole,

diventano amore, odio, inferno e paradiso.

Bruciamo parole per reggere tesi, costruire

castelli con muri di cinta, frugare

nell’anima di uomini soli, si erigono sepolcri

e accendono fiaccole, sono lame e carezze,

miele e fiele, rose e spine.

Mi turbano opere di cuori perversi, sagome

di follia in valigie di morte, virus

d’invidia custoditi nel petto, maschere

di tenebre travestite di angeli, alchimie

d’arcobaleni per assalti di pioggia.

E chi non vede e non sente apre la strada

al silenzio che odora di veleni,

di sangue e di paludi, distrugge la speranza

che l’acqua prevalga sui roghi del male.

Pensando di cambiare, abbiamo

dimenticato di cambiare

noi stessi.

 

 

Nel fossato di parole

 

Leggera piuma ormai sono le pagine,

da tutti osservato

con esse io sto nella mia anima,

mi sento granello di sabbia;

al di là dell’ombra e della nuvola rossa

si nasconde il pensiero

si sbriciolano le certezze

ed il muto dolore

per cui paventasti con assenza d’amore

questo sangue della notte

e la sua tenebra travestita di luce.

Del mio pianto sfavillano gli specchi

ed i frutti di casa mia,

le forbici son per prime

sul crinale madido di lingue,

tutta la trasparenza dell’acqua è nella fogna

tutto l’amore della croce nel ghiaccio

e fanno rime con le forbici.

Di città in città si piangono i feriti

nel fossato di parole

e il sole di giustizia sbiadisce

su un’altra pagina di morte.

 

 

Ad Andrea Zanzotto

(Dietro le quinte)

 

Esili ormai sono le parole,

da molti isolato

con esse io convivo nella mia terra,

mi sento un ramo d’ulivo;

oltre il muro e la collina colorata di luci

si riaccendono i sogni

si sveglia la notte

e la pallida speranza

per cui vale resistere

a pantomime di latente potere

recitate nei palazzi che sanno d’antico.

Del mio canto suonano i pensieri

e le ore attendono l’uomo unto di magie,

le città sono vuote di fiducia

con lo sguardo al cielo madido di veleni,

tutta l’aria cristallina è nel pozzo

tutto il fumo nelle apparenze

e fanno squame sugli occhi.

Di giorno e di notte si battono le mani

nella morbida distruzione

e il rosso del tramonto si curva

su un’altra pagina di luna.

 

 

Intervista

 

  1. Ricordi quando e in che modo è nato il tuo amore per la scrittura?

La domanda apre nella memoria momenti legati alla mia adolescenza. È fra i banchi di scuola dello storico Liceo Classico “T. Campailla” di Modica che ho cominciato a scrivere versi. L’input, in quel periodo (eravamo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70), mi venne dal mio docente di Lettere, morto il 7 gennaio scorso a 90 anni, che era un fine poeta, un saggista e critico letterario.  Le sue lezioni, la lettura dei versi di autori della letteratura italiana e latina, che egli  faceva con grande pathos interiore, suscitavano in me un fascino ed una attrazione forte. È sin dalla mia vita scolastica, insomma, che è nato l’amore per la poesia.                        

2. Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?

Ogni epoca storica ha avuto i suoi poeti. Dai tempi delle mitologie, delle antiche letterature orientali, dalle Teogonie di Esiodo e dai lirici greci ai poemi omerici, per passare a Dante, Petrarca e fino al XX secolo, la poesia ha avuto le sue figure e i suoi personaggi di grande rilievo, che hanno lasciato un segno nella storia della letteratura. Riconosco che questo patrimonio poetico che abbiamo alle spalle continua, in un modo o in un altro, ad avere proiezioni ed influenze sulla  dimensione del mio poetare, ma  con l’obiettivo di ripensarlo rispetto alla condizione esistenziale dell’uomo di oggi. Carducci, Pascoli, Montale, Quasimodo, Ungaretti, Rebora, Zanzotto, Saba sono alcuni dei miei riferimenti letterari italiani, mentre per gli stranieri sono miei riferimenti i poeti francesi Baudelaire, Verlaine, Mallarmé e Rimbaud, ed ancora i poeti Lorca, Neruda, Tagore e Gibran.

Dentro questa geografia di riferimento ritengo che la poesia debba essere ripensata in “senso intuizionista”, cioè nella direzione dell’ “intuire”, cioè dell’ entrare dentro questo nostro tempo per fare venire alla luce il “perché” questa nostra società post moderna sta andando sempre più alla deriva. Dentro alla rilevante fioritura poetica contemporanea, ritengo sia necessario trovare “convergenze di poetica” che siano frutto di una “intuizione della storia”, in grado di trasformarsi in arte e comunicazione poetica. Credo in una poesia con un’idea di poetica. Fare poesia non è certo un mestiere, ma non può essere neanche un gioco; se il poetare diventa il pastiche-passatempo di anime belle, cioè lo sfogo di emozioni che coinvolgono il sentimento, la denuncia o il lamento di cose che non vanno, con versi che in tutto o in parte rielaborano brani tratti da opere preesistenti, per lo più con intento imitativo, credo sia difficile per la poesia contemporanea lasciare un segno negli anni a venire.

3. Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

I luoghi in cui sono nato e vivo entrano molto nella mia opera poetica. Questi, infatti, non sono  per me pure e semplici ambientazioni, sfondi coreografici, contenitori retorici che distolgono l’attenzione del lettore dai contenuti, ma  conglomerati di senso e di significato che la poesia, in particolare, avoca a sé ogni qual volta percorre la strada di una seria riflessione sull’esistente e sul fenomenico. Ecco, dunque, l’importanza dei  luoghi iblei nella mia poesia, tant’è che ho anche pubblicato a riguardo, una silloge bilingue (italiano–inglese) Odi alle dodici terre, Armando Siciliano editore, 2016, dove la mia scelta di cantare in versi i luoghi della terra iblea non si configura come  un mettere in fila sfondi di paesaggi e “contenitori retorici” né rappresenta una opportunità letteraria quant’anche interessante, ma piuttosto un modo di recuperare, descrivere, esaltare e dare significato ad una terra plurale, composita (“signorile e rusticana”, direbbe Bufalino), con città, campagne, mare, coste dalle peculiarità individuali ben definite; i luoghi da me individuati e cantati nelle Odi ricompongono allora, attraverso la mia sensibilità e il mio sentire poetico, i tratti distintivi, fondativi, identitari di una terra, di una civiltà:  ad ogni città iblea dedico odi poetiche, facendone risaltare valori, bellezze, paesaggi, architettura e tradizioni aprendo nel lettore una sorta di dialettica poetica tra storia e memoria.

 

4. Ci parli della tua pubblicazione?

La mia ultima pubblicazione, Nella trafitta delle antinomie, è dell’agosto 2020, ed esiste sia in versione italiana, pubblicata da Helicon di Arezzo,  sia in versione rumena, În străpungerea antinomiilor, pubblicata dalla casa editrice Editura Școala Ardeleană; è stata recentemente insignita dal Centro Lunigianese di Studi Danteschi del “Premio speciale della Critica” nel quadro della XIII Edizione del Premio Internazionale di Poesia per la pace universale “Frate Ilaro del Corvo”. I versi di  questa raccolta – come fa rilevare molto bene anche il prefatore Dario Stazzone dell’Università di Catania nonché Presidente della Dante di Catania – si riconducono alla tradizione poetica dell’indignatio, vigorosa in seno alla letteratura italiana fin dalle sue origini, da Dante al Petrarca della canzone All’Italia, da Machiavelli che nella conclusione del Principe cita i versi della canzone petrarchesca nell’ambito di una più ampia e veemente adlocutio agli italiani ad una pletora di secentisti.

 

5. Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Certamente io non l’ho partorita con una finalità specifica, ma con la consapevolezza  che  scrivere versi è sempre un modo per essere di più legato al mondo; potrà o meno piacere, ma sono convinto che  il poetare non deve staccarsi dalla vita nelle sue articolazioni storiche, politiche, sociali, filosofiche, religiose, di idealità, passioni, difficoltà e speranze; del resto sono convinto che la coltivazione della poesia come valore a sé stante o come insieme di dilettazioni poetiche disancorate dalla vita e dal suo sitz im leben resterebbero solo flatus vocis destinato a dissolversi.

Dunque credo, sulla scia della Tradizione letteraria internazionale, che questa mia ultima opera presenti contenuti, linguaggi e forme che non ignorano i “segni dei tempi”, e che tengono conto del contesto e dell’uomo contemporaneo al quale la mia parola poetica spero possa arrivare.

6. Quando e in che modo è scoccata la scintilla che ti ha spinto a creare l’opera?

Questa mia opera nasce – come bene ha anche fatto rilevare in una sua nota di analisi il critico letterario Federico Guastella – dalla contestazione delle degenerazioni socio-politiche, e col bisogno di fare continuamente i conti col disagio; ragion per cui si sviluppa nell’impegno costruttivo del “dover esserci” come soggetti di continua prassi. Si tratta di poesia civile, dunque, entro l’ampio respiro del “fare anima”, nel senso che vi si trovano delicate, intime suggestioni in un’atmosfera di umana universalità; di una poesia che, dettata dalla necessità di scendere nelle profondità dell’uomo e della società, si radica in vigorosi moduli etico-linguistici, dove la parola è vissuta come innamoramento per farsi dirompente nella ricerca del vero quale misura di vita.

7.Come l’hai scritta? Di getto come Pessoa che nella sua “giornata trionfale” scrisse 30 componimenti di seguito senza interrompersi oppure a poco a poco? E poi con sistematicità, ad orari prestabiliti oppure quando potevi o durante la notte, sacra per l’ispirazione?

Neruda coglieva un aspetto essenziale e fondamentale nella vita di un poeta, e cioè quello dell’ispirazione, della folgorazione – oserei dire-; come San Paolo sulla via di Damasco, il poeta vive un momento in cui cade dal cavallo grigio della quotidianità e intuisce qualcosa dentro che lo porta a scrivere, a ritirarsi, a dare alla parola la sua forza espressiva per interpretare un sentimento che è suo, ma che diventa collettivo, di tutti e che si fa epifania di una essenza metafisica universale.

Personalmente ho scritto questa raccolta progressivamente e quando mi sono sentito ispirato; io credo molto nell’ispirazione e sento la poesia come una dilatazione dell’anima che partorisce una parola che si fa linguaggio; il verbo dilatare è allusivo: potremmo cogliere una analogia tra la dilatazione dell’utero della madre proprio nel momento in cui dà alla luce un figlio e la dilatazione del sé del poeta che partorisce un testo poetico. C’è in entrambi i casi la sofferenza di un parto: fisico quella della madre, metafisico quello del poeta. Ecco, è l’ispirazione poetica, anzitutto, a svolgere nel mio poetare  un ruolo importante; l’ispirazione, certo, non è da intendersi come una speciale rivelazione né come uno scrivere di getto quasi sotto dettatura, ma è l’intervento del pensiero pensante, del sentimento, di uno stato d’animo, che si fanno presenti in modo straordinario al poeta , la cui intelligenza, è resa capace di concepire idee, immagini, figure, simboli e di formulare contenuti, particolarmente rilevanti all’interno di una struttura metrica e di un codice lessicale, per l’identità di una comunità civile. Nell’ispirazione poetica di questa mia raccolta, dunque, hanno interagito contemporaneamente tre ordini di facoltà: la concezione dei contenuti, che in questa opera sono sociali, politici, satirici, esistenziali, di respiro collettivo; la volontà di esprimerli in una data forma stilistica e l’atto concreto dell’espressione di questi contenuti.

8.La copertina e il titolo. Chi, come, quando e perché?

Il titolo dato a un qualsiasi libro ha una funzione di sintesi in cui è racchiuso il senso dell’architettura espositiva. In questa mia ultima raccolta due sono i lessemi che la specificano e guidano: “trafiggere” e “antinomia”.                                                      Il termine “antinomia” da un punto di vista filosofico evidenzia un contrasto fra due concetti opposti che per Kant non è risolvibile con l’uso della ragione: tra tesi e antitesi c’è una contraddittorietà che le pone sullo stesso piano di validità. Da qui l’impossibilità di operare una scelta a favore dell’una o dell’altra. A me è stato più congeniale pensare all’albero edenico della conoscenza, nonché alla condizione dell’uomo che nella concretezza del momento storico vive sulla propria pelle le irrazionalità del sociale.  I miei versi lunghi nascono difatti da questa realtà resa nella prima parte dell’opera: è la lirica d’apertura, Le lingue incespicano, ad evidenziare il motivo tematico fondamentale, quello di un cosmo regolato dalla complementarietà di coppie contrarie (notte/giorno; sogno/tramonto; fede/abisso; vero/falso). Il “trafiggere” esprime invece  la brutalità, la violenza, la crudeltà che di prepotenza entrano nei rapporti tra gli uomini, deformando volti e situazioni.

La copertina della silloge reca il dipinto di René Magritte L’uomo allo specchio, ora al museo Boymans di Rotterdam. In piedi di fronte ad uno specchio, osserviamo un uomo di spalle che è vestito elegantemente. Indossa un abito scuro e ha i capelli accuratamente tagliati. Un ritratto dai dettagli ben definiti: dalla cornice dorata alla mensola in marmo di un caminetto. Eppure il suo volto è invisibile: nell’immagine riflessa, l’uomo è ancora visto di spalle. A vedersi nettamente è invece il libro sulla mensola: Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe, probabilmente amato dal committente. La sua essenza resta nascosta, negandosi allo sguardo. Anonimo dunque il personaggio e inquietante come il volto indistinto del “Potere”, che secondo me ha fatto perdere il linguaggio del mondo sempre più posseduto dal buio, dove tutto appare doppio nella illeggibilità di una realtà abitata dal disordine e dalla asimmetria.

  

9. Come hai trovato un editore?

In realtà non ho cercato un editore,  in quanto  a seguito della mia classificazione al I posto al  Premio Internazionale di Arte Letteraria “Il Canto di Dafne” con un saggio letterario inedito dal titolo Quasimodo, Rebora e Garcia Lorca: Poetas que tienen el fuego entre sus manos: percorsi di umanesimo, spiritualità e poesia sociale, ho vinto, come previsto dal bando, un contratto editoriale per la pubblicazione gratuita di una raccolta di poesie o di una raccolta di racconti o di un romanzo a cura delle Edizioni HELICON di Arezzo, nonché diploma artistico personalizzato e targa. Nella trafitta delle antinomie nasce così. In secondo luogo a proporre la pubblicazione in Romania lo scorso novembre e ad occuparsi della traduzione è stato Stefan Damian, poeta, scrittore, saggista, filologo e direttore della cattedra di lingue e letterature romanze, Facoltà di lettere dell’Università Babeș-Bolyai,  che ha tradotto numerosi libri di narrativa, poesia, saggistica, storia dall’italiano al rumeno e dal rumeno all’italiano.

 

10. A quale pubblico pensi sia rivolta la pubblicazione?

Poggiando il libro su temi di poesia sociale, ed avendo esso una prospettiva cognitiva, filosofica, antropologica, etica ed estetica , credo abbia un ampio spazio di movimento per poter essere letto. Ad ogni buon conto, applico a me stesso le parole che Henry James, scrittore e critico letterario statunitense, noto per i suoi romanzi e i suoi racconti sul tema della coscienza e della moralità, rivolgeva a se stesso: «Meglio essere attaccato che passare inosservato. Perché la peggiore cosa che si possa fare a uno scrittore è non parlare delle sue opere».

 

11. In che modo stai promuovendo il tuo libro?

L’opera si trova ora nel portfolio editoriale della casa editrice rumena Editura Şcoala Ardeleană, che comprende importanti titoli di letteratura transilvana, ma anche saggi, teologia, arti visive, psicoanalisi, spiritualità, storia letteraria, filosofia, studi culturali, teatro, nonché articoli accademici, tesi di dottorato e altri articoli scientifici e universitari e traduzioni di autori della letteratura straniera (inglese, spagnolo, italiano, portoghese, ceco, serbo, ungherese, ebraico, giapponese e russo). In  Italia le Edizioni Helicon hanno patrocinato una campagna di promozione, tant’è che la versione italiana del libro si trova in diverse distribuzioni on line: www.mondadoristore.it, www.ibs.it , www.bookdealer.it , www.libraccio.it

 

12. Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa)

Paradigmatica è per me, in questa pubblicazione, la poesia Suolo e sottosuolo, ove spicca evidente l’antinomia:

 

“Quando mi adagio al suolo appare tanta bellezza:

volti smaglianti, bicchieri trasparenti, filari tessuti

di ricami, intarsi costruiti con marmo di Carrara,

eloqui caldi di parole e di “mi piace”: sembra che sia

dappertutto  sole, luna che ispira parole d’amore, 

stella che ti fa sognare mare che t’apre all’infinito.

Il corno suona giustizia e speranza, il lupo e l’agnello

pascolano insieme nei campi madidi di miele,

l’odio e l’amore s’abbracciano alla bisogna.

Quando mi adagio al suolo, ogni voce annuncia

il  paradiso, ogni viso pratica la giustizia,

si indigna, versa lacrime, dice la verità e ama

d’amore sincero e passionale.

 

Quando scendo nel sottosuolo, rimango strabiliato,

i miei occhi s’impaurano, arrossiscono:

trovo animali feroci, persone cambiate,

in rivolta, infelici e dannati.

Raccolgo gramigna, bicchieri sporchi,

filari intemperanti, urla, sguardi abbuiati, noia,

volti soli, senza vita e senza maschera.

 

Quando scendo nel sottosuolo, sento che il corno

suona per sé, mi vedo agnello in mezzo ai lupi, odoro

fiele  e non più miele, mi sperdo nell’olimpo degli dei

ove ognuno adora se stesso in mezzo al sangue di innocenti.

Trovo il vero suolo: anime assetate d’amore, pianto

e lacrime, persone con le spalle curve, sguardi in cerca

di sorrisi, agnelli in attesa del pastore che dà senso.

 

Quando scendo nel sottosuolo, trovo animali smarriti

in cerca di persone, volti che cercano il cielo, la luna,

le stelle,  sottratti alla maschera del giorno.

 

Vorrei rimanere nel sottosuolo senza cambiare identità,

per dire che l’amore è ciò che più conta,

sognare sogni di libertà, cantare il canto della speranza

con le mani verso il cielo, abbracciare la terra

dal legno della croce, costruire il mondo senza guerra

e senza odio, fare delle mie mani una coppa di neve.

 

Spesso non resta che adagiarsi al suolo

inferno vellutato di paradiso, arma di difesa

per non morire:

uno, nessuno, centomila! 

 

 

13. Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?

Non ho particolari aspettative. Continuo a credere in una poesia dinamica, che si evolve restando radicata in un umanesimo che riesce ad innovare, a sperimentare senza perdere il contatto con la tradizione, con la storia, con la società. Personalmente non mi appassiona il purismo lirico disancorato dal reale, dalla conoscenza e dalla filosofia, né il prosaicismo privo di tensione morale. Rispetto a quest’opera, spero che i miei versi – per dirla con Montale – non rimangano “spoglie morte”, ma che trovino accoglienza tra i pochi lettori di poesia.

14. Una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

Come mai ha scelto come epigrafe del libro la frase di Leonardo Sciascia “Nessuno è al di sopra di ogni sospetto”?

 

15. Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Sì, ho parecchi lavori in corso. Un’altra raccolta dal titolo provvisorio L’esilio della notte. E ancora un testo di critica letterario Donne in poesia: si tratta di una panoramica su alcune significative voci femminili contemporanee della poesia italiana; e infine  un saggio dedicato a poeti contemporanei stranieri.

 

 

Biobibliografia

 

Domenico Pisana è nato a Modica nel 1958. È laureato in Teologia ed ha conseguito il dottorato in Teologia Morale presso l’Accademia Alfonsiana dell’Università Lateranense di Roma. Pisana ha pubblicato con editori di caratura nazionale ed europea, come la San Paolo, la SEI, la Albalibri di Livorno, le Edizioni del Rinnovamento di Roma, la Inumea di Bucarest, la San Pablo di Bogotà, la casa editrice polacca 4 KP di Varsavia, ma anche con medie e piccole case editrici. Ha pubblicato: 9 volumi di poesie, 8 libri di critica letteraria, 11 testi di carattere teologico ed etico, 3 volumi di carattere storico-politico. In quasi un trentennio di fiorente attività letteraria, si sono occupati di Domenico Pisana la rivista di Letteratura greca Pancosmia Sunergasìa, l’Antologia poetica Romanta in italiano, inglese, francese e tedesco, gli autori Irena Burchacka e Anna Sojka che hanno tradotto in polacco l’opera teologica di Pisana Sulla tua parola getterò le reti, tradotta anche integralmente in versione spagnola da Augusto Aimar; ed ancora si sono occupati di Pisana il poeta e critico letterario rumeno Geo Vasile, che ha tradotto il suo saggio Quel Nobel venuto dal Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria ed oblio  e la poetessa Floriana Ferro che ha tradotto in inglese il suo recente volume Odi alle dodici terre. Il vento, a corde, dagli Iblei.

Di Domenico Pisana si sono anche occupati “Il Giornale Italiano de Espana” di Madrid,  il Giornale on line “L’ItaloEuropeo Independent” di Londra, la rivista francese “La Voce” di Parigi, la rivista letteraria internazionale Galaktika Poetike “ATUNIS”,  il quotidiano on line dell’Arabia Saudita “Sobranews.com”.

Recentemente Pisana è stato anche tradotto in rumeno da Stefan Damian, poeta e scrittore e docente di letteratura italiana presso il Dipartimento di Lingue Romanze dell’Università di Bucarest, sulla rivista romena “TRIBUNA”; è stato tradotto dal poeta e docente universitario albanese Arjan Kallco sulla rivista italo-albanese “ALTERNATIVA”,  ed è stato inserito nel volume ATUNIS GALAXY ANTHOLOGY – 2019, a cura di Agron Schele, autore albanese residente in Belgio,  scrittore di romanzi e co-fondatore della rivista internazionale  ATUNIS.

È stato ospite e recentemente  ha ricevuto riconoscimenti in importanti Festival Internazionali: in Bosnia al Festival “La Piuma d’oro”, a Istanbul in Turchia al FeminIstanbul” e il 24 novembre scorso in provincia di Massa Carrara al Festival Internazionale di Arte Letteraria “Il Canto di Dafne”.

Tra i numerosi  premi e riconoscimenti letterari ricevuti, ne ricordiamo alcuni:

– Medaglia d’oro del “Premio alla Modicanità”, conferitogli nel settembre del 2006 dall’Amministrazione Comunale e dalla Pro Loco di Modica;

– Premio “Capitale Iblea della cultura” per l’impegno profuso nella promozione della cultura e dell’espressione poetica proprie degli Iblei”, conferitogli a Comiso il 15 dicembre 2015;

– “Premio Sicilia Federico II” alla cultura per le sue pubblicazioni e attività culturali, conferitogli a il 27 novembre del 2016;

– “Premio Europeo FARFA” per la cultura e il territorio 2017, dall’Associazione Internazionale dei Critici Letterari il 21 gennaio 2017;

– Premio alla cultura “Magister vitae” conferitogli a San Vito Lo Capo (Trapani) il 2 settembre 2017;

– I° Premio internazionale “Dal Tirreno allo Jonio” conferitogli il 20 dicembre 2010 per la saggistica, nell’ambito delle manifestazioni di chiusura di Matera Capitale Europea della Cultura 2019;

-Premio speciale della critica conferitogli dal Centro Lunigianese di Studi Danteschi alla raccolta poetica Nella Trafitta delle Antinomie.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Sergio Carlacchiani: “Indiscrezioni dal fortilizio”, RP Libri, 2020. Sei poesie e un commento breve

19 venerdì Feb 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Indiscrezioni dal fortilizio, Sergio Carlacchiani

 

Sergio Carlacchiani: Indiscrezioni dal fortilizio

RP Libri, 2020

Nota postfatoria di Filomena Ciavarella

 

 

L’Ego può innalzare fortilizi entro i quali costruire difese attacchi resistenze contro gli agguati del mondo, le maschere di un tu dalle «bocche eternamente aperte» falsario di bene, ma il Sé trova brecce sicure per portare oltre le mura notizie che nella loro immediatezza hanno l’aria dell’indiscrezione di quanto avviene nella strategia del vivere entro l’assedio immediato o dilazionato: il titolo Indiscrezioni dal fortilizio sembra suggerire queste immagini primarie che, invece, lungo le pagine si perfezionano nella declinazione di altre legate dai canapi del sentimento il cui connotato maggiore è l’ardenza di una natura delicata e forte, di una audace leggerezza profonda, di un logos che mostra senza censura la sua «unghia di verità» guerriera e «infelicità senza difesa»: la poesia di Sergio Carlacchiani si presenta come una nube interstellare, una nebulosa, in cui ‘concentrazione’ e ‘diffusione’ sono le dinamiche attraverso le quali egli impianta le sue poesie che nel tumulto dell’esistenza attingono sia alle profondità del tenebrore, sia alla distesa del lucore, fino alla spazialità della luce. C’è nell’Autore la compresenza dell’aedo e del rapsodo: egli ha ricevuto “un dono fortunato delle Muse”, ossia la facoltà di scrivere, pronunciare, porgere la parola cantatrice che evoca, inventa, foggia.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

 

d’IO dio perché mi hai abbandonato?

 

Tra epidemie guerre merci affari

distante dall’asfittica logica dei denari

richiuso raro nella finestra d’un muro

scruto bocche eternamente aperte

non voglio ascoltare inutili cantilene

troppa stanchezza ho del mostrarmi

ritirarmi in un giro di vite smarrito

voglio non essere più contenuto

a un solo grido avvinghiarmi

restare privo di misericordia

abbandonato dalla solitudine

in atri gorghi vicoli di silenzio

naufragante nell’alto nuvoloso

suturato dentro qualsiasi dolore

vortice divino sferza inesorabile

uragano perla unghia di verità

palpito al fine d’oblio non altro

che un’inerte eco riparatore

gesto strozzato esasperato

terreno dolore malinconico

nell’esistente silenzio morale

ansia tormentosa inuguale

nonsenso solido del niente

sprofondare sino in fondo

nell’infelicità senza difesa

sciagura ignota inattesa

mondo spento che mente

recluso nel male evocato

insorgente dall’invisibile

patogeno agente infettivo

sterminatore d’impronte

d’IO

misera storia umanizzata

eternizzata da chissà qual

dio.

 

 

 

Oltrepassando

 

Attingerò nella profonda sorgente di vita

attraverserò anche oggi chilometri di luce

confiderò in questa mia capacità d’apertura

pronto nuovamente a farmi squarciare il petto

non un gesto non una parola come morto

tra i morti disperso camminerò sulla superficie

con il coraggio di chi confida in un cuore indomito.

 

 

 

Sbavatura di silenzio

 

Mi godo quest’ultima

sbavatura di silenzio

che s’infila sulla dorata

luce dell’aurora

la sola voce ramata

d’ascoltare ora che

lo scompigliato mare

degli sgarbati rumori

in sé la fa annegare

sono cenere polvere

che il vento spazza via.

 

 

 

Spetalo l’anima morente

 

Spetalo l’anima morente

canta la pioggia sottovoce

lacrimevole melodia

in martirizzato stato

la carne attonita

ridotta a orma

il cuore lapidato

dall’ignavia eletta

a ferrea norma.

 

 

 

 

Brucio come si deve…

 

Nell’attesa in perdita dell’amorosa notte

faccio spesa di speranza in svendita eppure

sterminata la città come se fosse dal silenzio

le ore sembrano aver esaurito tutte le lacrime

un pudore dignitoso di morte si stende educato

quale consolazione è questa bizzarra sofferenza?

Lo spirito si palesa con la sua inquietante autorità

la turbata nobiltà non ha altro nome che grazia

indicibile nudo d’angoscia s’è stracciato le vesti

cado sopra di lui abbracciato nel buio scompare

e io ancora brucio d’ardore come si deve…

 

 

 

Anima mia

 

Entri nel vivo quasi sparando al mondo

anima mia perché infatti indugiare

ancora abdicare all’imbecillità

ora carne e ossa sei dell’insofferenza

mai più ottusi incontri insostenibili

uniformità gratuite senza pena

esci di scena come assoluta

da palcoscenico eterno mai

più rappresentazione terrena

ma favolosa distante dal niente

è troppo tardi non rincorretela

in fuga senza sosta da voi

non la potete più trastullare

anima scevra d’impedimenti

costellazione di vicoli ciechi

io la luce! Gridasti a me

in disparte…

 

 

Sergio Carlacchiani

 

Biobibliografia

 

Nato a Macerata nel 1959, Sergio Carlacchiani (pseudonimi: Karl Esse – Sergio Pitti – sergio e Basta!) è performer, attore, doppiatore, poeta e pittore. Direttore artistico di varie rassegne teatrali tra cui ricordiamo:

“Poeti e Poesie da Decl/Amare ; “Civitanovapoesia”, Festival Internazionale di Live Poetry ; “Poesia in Vita”, Festival di Poesia Declamata e “Vitavita” Rassegna Internazionale di Arte Vivente. Si è occupato di poesia lineare, visiva, concreta, sonora e di mail art. Ha pubblicato nel 1979, “Poesie”, per la Collana Poeti d’Oggi, Gabrielli Editore, Roma; nel 1983, Quadri di Parole, a cura dell’Associazione per le Ricerche sulla Scrittura, Grafiche Cardarelli & Casarola Editore, Monte San Giusto, Macerata; nel 1987, con lo stesso Editore ha pubblicato Quadri di parole 2. Dal 2016, dopo un lungo periodo d’inattività, ha ripreso a scrivere.  Si è formato, come attore, presso la scuola del Minimo Teatro di Macerata. Ha seguito diversi corsi di perfezionamento e specializzazione. Ha conseguito a Roma il diploma d’impostazione e uso della voce e tecnica del doppiaggio cinematografico, sotto la guida del maestro Renato Cortesi.

Da molti anni si occupa di porgere la poesia in maniera multimediale e spettacolare. Tra i tanti recital tenuti, da ricordare in assoluto quelli a Recanati, presso il Colle dell’Infinito, il 29 Giugno 2010, e 2014 in occasione delle Celebrazioni Leopardiane. Visto il grande consenso e favore di pubblico e di critica Casa Leopardi gli ha chiesto d’interpretare, in sala d’incisione, una selezione di Canti leopardiani editati nel 2011 da Giacomo & Giacomo nel cd O graziosa luna, io mi rammento… che si trova in vendita con il film di Martone Il giovane favoloso nel Museum shop di Casa Leopardi .

Sergio Carlacchiani ha un canale su YouTube, una sorta di Biblioteca Sonora che conta più di 15.000 interpretazioni, registrate dal vivo o in studio, che danno voce a poeti, scrittori, filosofi, dall’origine dell’umanità a oggi, di tutti i paesi del mondo. Affatto di secondo piano è la sua attività di pittore: numerose sono le sue mostre personali e collettive di pittura, scultura e poesia, altrettante sono le performances, gli happening e i vernissages realizzati in diverse città italiane ed estere. Le sue opere, recensite da quotidiani e riviste specializzate, sono state esposte in tutto il mondo e sono presenti in alcuni tra i musei, gallerie, biblioteche ed istituti tra più importanti d’Italia e d’Europa.

 

 

 

 

 

 

 

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Il dolore nella poesia: esperienza numinosa per l’alfabeto della creanza

05 venerdì Feb 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo

‘Escape from reality’ by Julie de Waroquier.

«Chi non ha sofferto non sa niente; non conosce né il male, né il bene, non conosce gli uomini, non conosce se stesso.», in Le avventure di Telemaco

François de Salignac de La Mothe-Fénelon

(Sainte-Mondane, 6 agosto 1651 – Cambrai, 7 gennaio 1715)

*

«Molti sventurati furono fatti poeti dall’ingiustizia patita. Impararono soffrendo quanto insegnano cantando.»

Percy Bysshe Shelley

(Field Place, Sussex, 4 agosto 1792 – mare di Viareggio, 8 luglio 1822),

*

«Io ricevetti il dono della sofferenza e divenni poeta.»

Henrik Ibsen

(Skien, 20 marzo 1828 – Oslo, 23 maggio 1906)

*

«Il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo ma il mondo stesso. Quando ci si avvicina a quei punti in cui l’uomo si mostra all’altezza del dolore, o superiore ad esso, si accede alle sorgenti della sua forza e al mistero che si nasconde dietro il suo potere.»

Ernst Jünger, Sul dolore, Foglie e pietre

(Heidelberg, 29 marzo 1895 – Riedlingen, 17 febbraio 1998)

*

«Le sono successe più cose di quante ne accadano a molti. Non ha reagito a tutto ciò con rabbia e neanche con tristezza. Però c’è in lei uno sguardo forte, duro, che sconfina con l’ira. L’oscuro universo di una donna in cui il risentimento per essere stata presa di mira dal destino si mischia con l’orgoglio per essere riuscita a passarci dentro senza annegare.»

Banana Yoshimoto, in Amrita

(Tokio, 24 luglio 1964)

*

Nel cercare un aggettivo da apporre al sostantivo “esperienza” ho ritenuto efficace numinoso, poiché il termine è sia sostantivo sia aggettivo: il lemma tedesco numinos derivato dal latino numen –con il quale si intendeva la presenza del divino e un cenno espressivo del capo – è stato creato nel 1917 dal teologo e storico delle religioni tedesco Rudolf Otto e si riferisce «all’esperienza peculiare, extra-razionale, di una presenza invisibile, maestosa, potente, che ispira terrore ed attira: tale esperienza costituirebbe l’elemento essenziale del “sacro” e la fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità».

Vi è qualcosa nel dolore – sia fisico, sia psichico o nell’associazione di entrambi –, nella percezione di esso, che incute spavento, richiama e concentra l’attenzione, incrina la speranza o l’esalta in un atto di volontà straordinaria a superare il perimetro della sofferenza, ad appropriarsi della guarigione, a creare immagini mentali, inventare abitudini di vita inconsuete, svestendosi delle acquisite per raggiungere lo stato di benessere, ritrovare la salute. Se il dolore del corpo richiede interventi, terapie, riabilitazioni, modifiche di regimi alimentari e comportamentali, i segni del dolore – ciò che esso comunica degli organi –, la diagnosi, sono gli elementi necessari indispensabili per la ricerca della guarigione o di uno stato di equilibrio che affranchi dal dolore: questo è un processo creativo cui sono sottesi sia l’osservazione scientifica, sia il pensiero immaginale, ossia quella scintilla dell’intuizione più alta – l’analogia – che induce a individuare sia la causa, sia la terapia del dolore: questo processo di guarigione avviene nell’appropriazione dell’alfabeto della creanza: ho preferito questa espressione poiché, se il dolore ha in sé gli elementi indicativi per la trasformazione di esso, il termine poetico “creanza” esprime il fluire dell’ingegno e il riguardo che si pone nella cura, più del termine “creatività” che risuona come qualcosa di concluso, recintato, definito.

Il poeta e critico d’arte Gian Ruggero Manzoni, qualche anno fa, scrivendo del dolore, consegnò una frase che nella sua essenzialità individua il senso di quanto cerco di chiarire: «Il dolore fisico ci ricorda che siamo materia, ma quello morale che siamo spirito: energia cosciente, divenuta materia». Dunque, l’Autore vuole significare l’esistenza di una sola energia – energia cosciente – che informa la complessità del vivente e si manifesta sotto la forma che attiene all’organismo interessato: il soma la manifesta come materia fisica attaccabile dalla malattia e dal tempo, la psiche come materia di pensiero che a sua volta  può incontrare, conoscere gli abissi della sofferenza.

Il poeta Evaristo Seghetta pubblicò un interessante libro dal titolo Morfologia del dolore: impiega due termini che sono della lingua comune e, al contempo, uno di essi, della lingua specialistica: “morfologia” è la parola coniata nel 1785 da J. W. Goethe per indicare l’anatomia comparata: ora noi l’usiamo tanto in biologia, quanto in geografia fisica, quanto in linguistica. Non è un caso dunque che sia l’uomo di scienza, sia il poeta, possano impiegare la stessa parola con medesima significazione, pur in ambiti diversissimi: ciò suggerisce l’idea che esista un aspetto essenziale, un elemento primo, una sorta di frattale che accomuna tutte le discipline, le pone in dialogo e dal momento che l’uomo intuisce, analizza e accoglie questa intrinseca natura può dare avvio alla creazione di una realtà che modifica o supera la precedente.

Il dolore quindi mostra questo volto grandioso che guarda sia alla dimensione “sensoriale”, sia alla dimensione “spirituale” e come un ponte congiunge le due rive che sostengono lo scorrere della vita, la struttura umana: il soma e la psiche, e in virtù delle loro funzioni possiamo dire con Claudio Widmann che «Al di là del sensoriale s’estende l’immaginale».

Chi attraversa i territori oscuri, carichi di presagi indecifrabili, sconfortati, sconfortanti del dolore, non di rado parla di tempo straziato in termini di impotenza o di sfida contro un inaccessibile nemico, o sente di essere immerso entro un sovramondo di cui non conosce l’accesso, né l’uscita, sentendo il mondo reale senza possibilità, distante, dissolto da ogni certezza conosciuta, da ogni riferimento e paradigma di sicurezza, perduto l’orientamento abituale e tutto da costruire intorno al nucleo dirompente del dolore. Il poeta e l’artista conoscono bene questa atmosfera, poiché vivono come se la sensibilità neuronale fosse al grado esponenziale e la struttura sentimento – ragione  programmata per raccogliere il discorso analogico che il dolore fisico o psichico o entrambi, tenta di inviare alla comprensione, alla creanza, come se essa fosse la sola e sovrana natura capace di trasferire in parole o immagini i contenuti del dolore. L’arte in genere, la poesia in particolare, poiché si fonda sulla oralità e sulla grafia – le espressioni prime e immediate degli umani – sono i campi prediletti in cui il dolore può emergere in tutta la sua forza comunicativa, poiché trova colui che di esso può dare testimonianza.

Anna Rice non è una poetessa, è una scrittrice statunitense, ma da lei giunge una riflessione chiarificatrice sulla potenza del dolore: «Si tratta di una verità spaventosa: il dolore può renderci più profondi, può conferire un maggiore splendore ai nostri colori e una risonanza più ricca alle nostre parole. Questo avviene se non ci distrugge, se non annienta l’ottimismo e lo spirito, la capacità di avere visioni e il rispetto per le cose semplici e indispensabili.»; «una risonanza più ricca alle nostre parole»: questo è sia il modo in cui il poeta tenta di consegnarci la connotazione tragica del mondo, sia il risultato della creanza che trova la materia indispensabile nelle zone in ombra della psiche, laddove s’accumulano le scorie delle esperienze, ossia i resti dolorosi, ambigui, irrisolti, nodi drammatici o angosciosi della vita che nega sottrae o non riconsegna il dovuto, l’atteso, il bene che ci spetta.

Giuseppe Ungaretti, nella sezione poetica L’Allegria che accoglie i testi scritti in Carso durante la prima guerra mondiale,  include  una poesia che ha titolo Il porto sepolto: in certo modo è la sua dichiarazione di poetica, e indica il luogo in cui  giunge il poeta e risale alla luce «con i suoi canti/ e li disperde». Ora, la metafora bellissima consta di un porto che però è sepolto: il poeta vuole significare un luogo fluido che tuttavia è seppellito e dunque contiene reperti, scheletri d’imbarcazioni e umani, tesori andati perduti in naufragi: è dunque il luogo dove consiste il dolore scaturito dal dramma del naufragio, dove la memoria dell’acqua conserva le vestigia dell’accaduto, gli oggetti che facevano parte della vita delle vittime dell’acqua, le merci del viaggio per mare: Ungaretti, con quell’immagine ci indica che è nelle profondità oscure fluide e tempestose che conservano e forse sono mentori del dolore che nascono i canti con cui risalire alla luce per disperderli, perché il canto della poesia, il suo sapere alchemico, deve diffondersi, andare lontano quasi dimentico di chi  gli ha dato creanza, esistenza. La sezione che accoglie le poesie scritte tra il 1937 e il 1946 ha titolo esplicito Il dolore: nella poesia Tutto ho perduto i versi:

Disperazione che incessante aumenta

La vita non mi è più,

Arrestata in fondo alla gola,

Che una roccia di gridi

non hanno bisogno di commento, poiché il lemma disperazione ingloba e restituisce tutto il significante di un tempo in cui il dolore dello spirito, il dolore morale è parossistico.

Amelia Rosselli, poetessa tra le più alte del nostro Novecento, trasferisce in poesia la «scia di disperazione nata all’indomani dell’uccisione del padre Carlo e dello zio Nello nel 1937, in Francia, non lontano da Parigi, per ordine di Ciano e Mussolini.», «…un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. (  ) un tormento interiore che cerca di trasmettere all’esterno per averne un minimo di considerazione. Essa negò sempre di essere ammalata fisicamente (aveva, fra i molti acciacchi, il morbo di Parkinson) e rifiutò cure. La sua poesia è faticata, ripiegata su se stessa, orgogliosa e disperata. Sta in un labirinto, da cui non vuole uscire. Una poesia viva in sé, chiusa in sé, con lampi verso il cielo quasi involontari. È una poesia da leggere e rileggere per cercare di comprendere una autentica sofferenza.» (Dario Lodi).

La poesia di Amelia Rosselli si presenta come un «corpo poetico distopico, fatto di ridondanze, di lapsus», di parole «legate ad una pratica trilingue che non trova un baricentro.» (Rita Corsa) e specchiano perfettamente il «male irrimediabile» di cui è pervasa, di cui è consapevole e lucida attrice e spettatrice. In Variazioni belliche (1960-1961, p.317) scrive:  «…/ Io pernottavo nel vuoto della mia/ribelle anima» e in La libellula da Serie ospedaliera, 1958:

E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò

stancata e ebete in un largo pozzo di paura,

mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti,

mi spinse alla porta della follia. Mi rovinò

per quell’intera durata e quel giorno intero.

Mi stese dispettosa a terra: incapace di muovere,

stanca all’alba, incapace a sera: e l’agonia

sempre più viva.

prima di compiere il gesto ultimo nel 1996, quando la speranza spiumata «…/ faticosa a mettersi insieme/ non ne vuol più sapere.»

Concludo citando un piccolo libro alla cui composizione partecipai nel 2013 in seguito al rinvenimento tutto casuale a opera del regista veneziano Daniele Frison mentre effettuava riprese sullo stato di degrado in cui  versavano i padiglioni dell’ex Ospedale al Mare del Lido di Venezia di un quaderno contenente poesie manoscritte da pazienti psichiatriche. Il quaderno divenne il libriccino dal titolo L’isola senza età, ispirato dai versi anonimi:

In fondo, più in fondo l’isola senza età m’appare

sembra l’irreale isola che da tempo respiro nei miei desideri

so che sarei felice

fra le lievi ombre che s’alzano nella fonda notte

so che non avrei più età e più bisogno di farmi credere…

Curato da Antonella Barina e Daniele Frison con la collaborazione di alcune poetesse è un bene prezioso, poiché testimonianza della grande voce del dolore che sale dalle stagioni dimenticate a farsi parola, ritrovamento, restituzione. I testi che risalgono agli anni ottanta sono semplici, attraversati da errori grammaticali e ortografici, ma esprimono qualcosa di potente: il numen che presiede alla vita, la forza sacra e dirompente che rende ciascuno creatore della propria identità anche nello stato di esilio, un mondo interiore colmo di paesaggio che affiora mediante la parola, che non è solo manifestazione dolente della propria vicenda umana, ma significazione che tra il dolore e la persona che lo sperimenta esiste un nucleo creativo che urla per venire alla luce.

 

Adriana Gloria Marigo

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Nota critica alla poesia di Geo Vasile, a cura di Adriana Gloria Marigo   

29 venerdì Gen 2021

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Geo Vasile, Madonizând Angelizzando

 

Geo Vasile: Madonizând. Angelizzando

Cartea Româneasca Educaţional, 2020

Adriana Gloria Marigo: Nota critica alla poesia di Geo Vasile

Felix Nicolau: Dulceaţa mortala a scriiturii de prestigiu

 

 

 

Nota critica alla poesia di Geo Vasile   

 

Nelle quattro sezioni  del florilegio bilingue Madonizând. Angelizzando il poeta filologo italianista Geo Vasile accompagna il lettore entro territori d’intense connotazioni visionarie, allegoriche, surrealiste. La scrittura si ordina in connessioni di sostantivi e aggettivazioni potenti il cui risultato è la realizzazione di simboli che rimandano alla percezione di una ontologia profetica, esoterica, talora sferzante e cruda. La struttura, non di rado drammatica, muove l’idea che si possa intravedere il cammino verso la difficile e possibile armonia. Il personaggio femminile ricorrente e protagonista, Inna, che potrebbe essere la contrazione del nome di una antichissima dea mesopotamica dalla forte istintualità cieca e distruttiva, la pulsione di morte della psicoanalisi freudiana, ritorna nella maggior parte delle poesie dai contenuti colti, riconducibili a una moltitudine di tòpoi che marcano i saperi (dall’arte, alla letteratura, alla letteratura religiosa, alla scienza…), elaborati a modo di una architettura di impianto alchemico.

Il contenuto e la struttura formale dei testi si coniugano in significazioni di denuncia e fustigazione dell’ordinaria realtà impressa da ogni sorta di squilibrio, finzione, impostura, fenomenologia del doppio: «L’involucro fisico di Inna non è che un / vestito in più infilato sull’invisibile / alito, sulla vampata spirituale che la nutre,/ e per ciò lo guarda  ripetutamente,/ lo taglia senza tregua, modifica tanto / spesso, i colori, i suoni, i riflessi /i profumi, le pieghe e il modo in cui cadono…» (L’involucro fisico).

Le stratificazioni simboliche della prima sezione che si avvalgono di modalità espressive orfiche o esoteriche, si ripresentano nelle altre tre sezioni, dirigendosi però verso temi circoscritti, più attinenti al personale, e che coinvolgono lo sguardo sulla poesia in quanto vero e proprio modus vivendi dell’autore. Il titolo stesso Madonizând. Angelizzando e il poema omonimo confermano l’adesione metacreativa di George Vasile al mitologema, dunque l’implicazione degli archetipi che, impressi degli elementi propri di una cultura, danno origine ai miti. Tutto, dunque, attesta lo “spavento” del poeta il quale, con questa silloge, pervasa da alcune figure simboliche della più alta tradizione letteraria, si immette nella linea di coloro che – in letteratura come in musica – offrono il paradigma dell’ora panica, l’intermezzo di tempo denso e pullulante di presagi tanto del mistero della notte, del sogno notturno, quanto del mistero dell’anima. Talmente icastica è l’atmosfera creata dai contenuti delle poesie dell’ultima sezione Tra due baratri, da poter osservare che si realizza quello che lo psicanalista J. Hillman definisce anima mundi, ovvero il principio unificante che tutto nel cosmo pervade, già caro a platonici e neoplatonici. Dunque, si può intuire che quella “vis appetitiva e desiderativa” associata all’approssimarsi della morte possa rappresentare l’inquietudine, la scissione creativa sottesa alla produzione poetica. Possiamo rintracciarne il corrispettivo ne Il tormento delle figure in A. Merini, o in L’après midi d’un faune in S. Mallarmé, o – più in generale – il turbamento fortemente morale, problematico dell’esistenza, che obbliga il poeta a elaborare in versi dettagli di vissuto mediante l’impiego di immagini simboliche e iconografiche appartenenti alla letteratura fin da Esopo e che, attraverso Dante, Shakespeare, La Fontaine, Shelley, giungono a Ungaretti e i conterranei Mircea Eliade, studioso di religioni; Mihai Eminescu, poeta; George Enescu, compositore: essi si ispirano all’allodola per certe loro composizioni ben conoscendone l’alta valenza metaforica che G. Bachelard  defininirà come « pura immagine spirituale, che trova la vita soltanto nell’immaginazione aerea come centro di metafore dell’aria e dell’ascensione». Nel testo poetico Pazzia, nel verso iniziale «Allodola era forse un demonio», Geo Vasile evidenzia anche il perturbante dell’animale uranico,  «l’enigma» che contraddistingue tutta la raccolta e che più incisivo, incalzante si fa nella seconda sezione dove A due a due, breve poesia oscura come una sibilla, ci pone di fronte al tema complesso delle tre religioni monoteiste e al corollario  della ‘verità’: tema polisemico di cui ha dato conto G. Boccaccio nella terza novella della prima giornata del Decameron.

È facile intuire che anima mundi riguarda anche i poeti e la poesia e sceglie i suoi profeti, poiché attraverso la poesia ci consegna «quel nulla d’inesauribile segreto», forse una profezia l’enigma che contraddistingue tutta la raccolta.

Adriana Gloria Marigo

 

 

Si propongono qui quattro poesie nella traduzione in italiano effettuata dallo stesso Geo Vasile.

 

 

Da   DESPRE FERICIRE, ADESEA EZIŢI…  SULLA FELICITÀ, SPESSO ESITI…

Il buio che fa nascere negli umani

i testi di un libro, ti affascina come

se fossi proprio morto di mestizia,

risorgi, che sorprendente è la vita,

le labbra ti si attaccano allo scavo

quasi traslucido tra l’orecchio e

i suoi capelli che sanno di vetiver,

uccelli spauriti dalla fulminazione

dell’argento vivo della luna,

decollano, in questo mentre

il suo seno dritto si arrotonda

nel cavo della tua mano, sentivi

il sussulto delle ali che stavan

per spuntare dal di dentro…

 

 

Da   MADONIZAND . ANGELIZZANDO

Piazza Tahrir

Inna ti accoglie al posto d’ogni ansietà

a raffiche di vento avvolto nel sudario

del roseo tramonto, e scrivo con te

una seconda Iliade sul selciato divelto,

sullo stupro della piazza Tahrir, immagini

vecchie e nuove di fanatismo orlate

di sabbia scorrono nella cunetta,

i guerrieri perdono le loro emazie

in pozzanghere, ungono i loro tatuaggi

col fango stronzio e vari inchiostri

 

Inna, di polvere coronata, recita

”La guerre de Troie n’aura pas lieu”

 

 

Da  GRAFFITI . GRAFFITI

L’involucro fisico

Inna non amava se stessa più di quanto

amava Giove e altre regine o dee

gli involucri umani o animaleschi

assimilati per sedurre: Ovidio nelle sue

metamorfosi narra in esametri fiabe con

Leda, Endimione, Dafne, Apollo,

col pastore Aci e la bellissima Galatea…

 

L’involucro fisico di Inna non è che un

vestito in più infilato sul suo invisibile

alito, sulla vampata spirituale che la nutre,

e per ciò lo guarda ripetutamente,

lo taglia senza tregua, modifica tanto

spesso i colori, i suoni, i riflessi

i profumi, le pieghe e il modo in cui cadono…

 

 

Da  ÎNTRE DOUĂ GENUNI . TRA DUE BARATRI

Tuo già polveroso cuore

Nell’enfasi delle parole ti ritrovi che

annientano l’immagine o la celano e

vai a vanvera sull’orlo delle fosse

comuni di recente imbiancate, vai

quasi a voler svanire nel guscio delle

cose, il luogo è a tua immagine,

già pronto alla pena, un tumulo

di rimorsi flagellanti, e se ascolti

i gemiti è per addolorarti, pensando

al teschio che sarai nel buio, dal quale

tuttavia verrà fuori un fiore sempiterno,

più alto del tuo già polveroso cuore…

 

Geo Vasile

 

Biobibliografia

Geo Vasile è nato e vive a Bucarest. Laureato in Filologia italiana, è italianista, traduttore, critico letterario e poeta. Collabora con le principali riviste di letteratura e d’arte della capitale e di altre città del Paese. Dal 1994 è membro dell’Unione degli Scrittori della Romania, sezione critica letteraria. Tra le sue pubblicazioni: Nimfe & Himere. Ninfe & Chimere (2010), Psicho@terra.pia (2012), Cortocircuito (2015), Hotelul argonauţilor. Albergo degli Argonauti (2016), Sistola clipei. Sistole dell’istante (2017), Evagatio mentis (2017), Oniroamniotiche (2018). È autore di 23 edizioni bilingue dell’opera di poeti classici e contemporanei romeni, tra cui: Eminescu, Bacovia, Ion Vinea, Gellu Naum, Gela Enea, Ion Deaconescu, Dumitru Nicodim ecc., nonché di un’ampia antologia bilingue di poesia romena (da Eminescu, Lucian Blaga, fino agli anni ottanta). Nel 2012 ha ricevuto il Premio USR per tutta la sua attività letteraria; nel 2013 gli è stato conferito per decreto del Presidente della Repubblica Italiana il diploma e il distintivo dell’Ordine Stella d’Italia e nel 2014 a Pescara il Premio Internazionale Flaiano all’Italianistica.

 

 

 

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Edoardo Gallo: “La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi” Liberodiscrivere, 2020. Cinque poesie e una intervista

15 venerdì Gen 2021

Posted by adrianagloriamarigo in Interviste, MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Edoardo Gallo, La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi

Edoardo Gallo: “La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi”

Liberodiscrivere, 2020

Prefazione di Sotirios Papadopoulos e di Giuliana Balzano

Postfazione di Sara Zanferrari

 

 

Dalla prefazione di Sotirios Papadopoulos

«Edoardo Gallo con la sua nuova silloge intitolata La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi ci fa fare un tuffo nel sacro concetto di Alitheia (Verità); un viaggio nello sforzo di essere sempre noi stessi ma attraverso la paura del giudizio sociale. Siamo consci che il cervello umano è in grado di svolgere infinite e complesse operazioni in tempi ridotti. Ma esiste soltanto una di queste che non può essere eseguita ed è proprio questa che compromette i rapporti tra tutti gli esseri su questo pianeta. Distinguere il Vero dal Falso, la Verità dalla Menzogna, la Alitheia dal Pseudos. Edoardo ci porta attraverso le sue melodie visive a capire che la Verità non può coesistere con la Menzogna senza essere contaminata, deformata, svilita e annientata. Ma non è forse che la Verità è la concordanza tra Giudizio e Realtà? E che cosa è Reale se non la manifestazione dell’Essere? I poemi di Gallo, come specchio vivente della nostra Anima, dietro a una trama semplice, nascondono uno spirito agonistico pieno di voglia di Bellezza interna e di coraggio guerriero nel mezzo di una società alla deriva, in cima a naufragi di valori e di detriti di anime vendute al Consumismo Materiale.»

 

Dalla prefazione di Giuliana Balzano

«L’ispirazione poetica di Edoardo Gallo nasce da un intenso stato emotivo derivato dalla puntuale osservazione di ciò che lo circonda. Il poeta fa un’attenta analisi interiore dei propri sentimenti dando vita a liriche dinamiche e nel contempo dolcissime. Nelle sue poesie si “leggono” chiaramente due elementi: la forza interiore che caratterizza il suo pensiero; il bisogno costante di cogliere quelle verità difficili da negare. Il suo stato d’animo va a distendersi sui versi e la poesia diventa un mezzo indispensabile per lui, per poter camminare nei meandri più bui dell’esistenza umana. Gallo sente il bisogno di amare, cerca la pace nella magia del silenzio, ambisce a trovare la verità. Amore, silenzio e verità diventano un modo per lui di affrontare la frenesia di questo nostro tempo sofferto e avverso. Gallo crede nella forza delle parole, ha fiducia nelle parole, gioca con le parole creando liriche riflessive, cariche di schiettezza.»

 

A portata di mano

 

Il mio mondo

lo tengo a portata di mano

tutto dentro a una tasca.

Chiavi per aprire porte

Un fazzoletto per le lacrime

Una conchiglia per aver con me le onde

Alcune monete per un gelato

E quella poesia che scriverò domani

 

 

 

Da qualche parte

 

Alla fine vince chi non ha paura del buio.

Alla fine.

Là al bivio tra la strada che sale e quella che scende.

Da qualche parte starà pur la fine.

Del lasciarti andare,

dell’un po’ morire.

Dell’unica volta che abbiamo saputo cos’è l’amore

 

 

 

Il nido del desiderio

 

Vivo nel desiderio di tutto quel che ho già scritto.

Non c’è nuovo che mi appassioni più

di quelle labbra che furono il mio sorriso.

Ancor oggi ripensando al ramo

ci porterei la paglia per costruire il nido

per tutte le volte che torno e non ti trovo

 

 

 

Infinito e confine

 

Infinito e confine

i tuoi occhi,

acqua e fuoco

la tua bocca;

tra l’infinito e la bocca

i tuoi occhi.

E sono con te oltre quel confine,

oltre le terre conosciute,

al di là di tutti i mari,

sopra le stelle

con te

 

 

 

Soldati

 

Come i milioni di soldati abbattuti un secolo fa

Siamo stati sterminati.

La montagna è diventata ancora la nostra tomba

la nostra anima è stata sradicata e siamo caduti a terra.

Tutto esattamente come cento anni fa.

Qualcuno potrebbe pensare che noi non abbiamo sofferto.

Noi custodi di queste cime,

Noi soldati di queste vette.

Abeti, Larici, Faggi, Frassini, Tigli

siamo nuovamente morti.

Non il nostro spirito che vivrà per sempre

Tra i sassi che abbiamo vegliato

i sentieri che abbiamo adombrato

i ricordi che abbiamo protetto.

E in tutti voi che ci avete amato

 

29 ottobre 2018 tempesta Vaia: dedicata agli alberi dell’altopiano di Asiago

 

 

 

Intervista

 

  1. Ricordi quando e in che modo è nato il tuo amore per la scrittura?

Risale ai tempi del liceo con lo studio dei classici della letteratura, ma questo innamoramento ha avuto la sua folgorazione dopo aver visto il film l’Attimo Fuggente; film che ho riassaporato recentemente assieme ai miei figli. Ricordo che io adolescente lo approfondii in modo viscerale andando a cercare e poi leggere o rileggere tutti gli autori citati: da Whitman a Thoreau, da Byron a Frost, fino ad Orazio per citarne alcuni.

 

  1. Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?

Faccio veramente fatica a dare solo alcuni nomi. Leggo molta poesia e cerco di spaziare quanto più possibile per “succhiare” il nettare delle parole di questi immensi poeti. Decisamente sono molto legato a Leopardi e Whitman. Mi piacciono Montale, Caproni, Gozzano, Pavese fino a Zanzotto, molto le poesie di Szymborska, di Dickinson, di Cvetaeva. Mi affascinano Pozzi e Plath. Amo viaggiare con Prevert ed Hesse, innamorarmi con Lorca e Neruda. Ho un debole per l’intrigante e diretto Bukowski, per i più meditativi e spirituali Hikmet, Gibran, per la filosofia di Pessoa e Rilke. Direttamente o indirettamente cerco di farmi coinvolgere da tutti, credo comunque di avere un mio stile che mi dicono sia riconoscibile e distintivo.

 

  1. Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

 Tutto nasce dal mio innato istinto di osservare. Vedo, guardo, ascolto, sento e porto a scrittura ogni emozione. Ogni sentire. Per me infatti «la poesia è un ponte che unisce ogni intimo sentire». Un ponte che collega il fuori al dentro di noi per poi ritornare fuori, in un moto quasi perpetuo e sconvolgente. Tutto ciò che scrivo fa parte di un vissuto, a volte intimo, a volte spaziale; a volte è inconscio che vive nel sogno e che poi diventa attimo vissuto. Non potrei mai scrivere qualcosa per la quale non ho provato nulla. Ho bisogno di respirare e tramutare in parola ogni emozione, qualcosa che mi ha colpito, che mi ha ferito o fatto gioire o solo ho vissuto per un istante. In alcune poesie ci sono i posti a me cari, spesso i colli Berici dove ho una casa e dove ho vissuto da bambino. I ricordi d’infanzia dati da un albero, l’erba appena tagliata, la raccolta dell’uva, la neve, un pettirosso. Da mio padre che siede sotto al portico e guarda la vallata al di là del muro. Insomma ogni cosa che osservo e che ricordo può essere motivo per fare e dire poesia.

 

  1. Ci parli della tua pubblicazione?

Dopo aver pubblicato le prime due sillogi a me molto care Giorno Zero e È Solo Poesia nel marzo scorso ho deciso di mandare in stampa la terza raccolta che ho voluto intitolare La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi e che ha visto la sua prima presentazione solo nel giugno 2020. Ho vissuto un periodo dove la verità era diventata profondamente urgente e necessaria. Ma non tanto la verità in sé ma l’ “essere vero”. Legata quindi alla sincerità e alla lealtà come forme di gentilezza, di passione, di credibilità. Ero stanco di vedere il continuo depauperamento dei valori veri a vantaggio di forme egocentriche, narcisiste e arroganti, veloci da raggiungere, effimere e superficiali. La poesia è per me sinonimo di verità, perché canta il vero, e lo descrive raccontato dentro le sue fatiche, le sue malinconie tuttavia restando verità di speranza, con slanci di illusione e di utopia per compiere ogni giorno un passo avanti.

 

  1. Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Non lo so se sia utile, e tantomeno necessaria. Lo è per me, sicuramente. La poesia è per me un’urgenza necessaria; in tal senso credo possa essere utile anche a qualcun altro. Quello che mi dicono i lettori, e lo riporto fedelmente, è che nel leggermi trovano serenità e, in alcuni concetti espressi con metafore e paradossi, leggono una filosofia buona a sostegno del possibile, impavida nella sua completa fragilità. Come ha scritto in una prefazione il prof. Sotirios Papadopoulos, «Edoardo Gallo con la sua nuova silloge ci fa fare un tuffo nel sacro concetto di Alitheia (Verità); questa dolce e amara sensazione rende la sua opera Fragile come l’acciaio e Robusta come le ali di libellula».

 

  1. Quando e in che modo è scoccata la scintilla che ti ha spinto a creare l’opera?

Non c’è un preciso momento. È nata con il vivere quotidiano, giorno dopo giorno. Segue il corso delle mie giornate e degli eventi.

  1. Come l’hai scritta? Di getto come Pessoa che nella sua “giornata trionfale” scrisse 30 componimenti di seguito senza interrompersi, oppure a poco a poco? E poi con sistematicità, ad orari prestabiliti oppure quando potevi o durante la notte, sacra per l’ispirazione?

Quasi ogni componimento lo scrivo di getto e solo in alcuni casi, o nelle poesie più lunghe, metto mano ad alcuni versi anche a distanza di tempo. In altri non trovo subito la parola giusta, e così torno sopra la poesia per sentire se riflette appieno l’emozione che ho provato e che voglio trasmettere. A volte per lavoro sono in viaggio e lì l’ispirazione può giungere improvvisa, anche se è la notte il tempo migliore per il mio scrivere. Quello che è certo è che scrivo perché ne ho bisogno e quando lo sento forte mi fermo ovunque io sia e scrivo. Mi distoglie dalla vita stressante che il lavoro mi obbliga a fare seppur con piacere, e mi catapulta in un mondo parallelo dal quale torno rigenerato e rinnovato.

  1. La copertina e il titolo. Chi, come, quando e perché?

Ho l’abitudine, suggerita dal mio editore Antonello Cassan di Liberodiscrivere, di scegliere per le copertine un’opera pittorica. Dopo aver collaborato con Andrea Marchesini, ho sentito la forte necessità di chiedere a Bruna Lanza una sua opera. Il colore segue il filo conduttore del contenuto del libro. In questo caso è stata scelta un’opera che emotivamente mi ha molto colpito, di prevalente colore arancio perché questo colore, caldo e attraente, per me simboleggia la poesia e quindi la verità. Il titolo del libro è preso dal titolo di una poesia in esso contenuta che declina in tutti i modi possibili la verità. La migliore sua descrizione risiede nel verso La verità è un bambino dagli occhi grandi.

  1. Come hai trovato un editore?

È una storia che serbo gelosamente ed è quasi romantica. Nel giugno 2016 ero a Genova per lavoro e da poco avevo tra gli amici di facebook la poetessa e filosofa Grazia Apisa che lì vive. Le ho scritto un messaggio chiedendole di poterla incontrare e, non senza mio stupore, lei ha accettato. Abbiamo trascorso diverse ore parlando di poesia, leggendone, bevendo un tè. È stato uno dei momenti più preziosi e intensi della mia vita. È stata lei a suggerirmi, durante quell’incontro, la mia attuale casa editrice Liberodiscrivere.

 

  1. A quale pubblico pensi sia rivolta la pubblicazione?

Credo che possa essere molto interessante per tutte le persone che si pongono domande, pertanto non solo agli amanti della poesia ma a un pubblico di lettori più vasto. Avviso che non so se nel leggerle troveranno le risposte che cercano, ma forse sarà più probabile che si porranno ulteriori domande. Credo inoltre che questa pubblicazione possa comprendere un’ampia fascia di età, anzi lo spero. Ho avuto il piacere di portare le mie poesie anche in alcune scuole primarie e secondarie; sono stati momenti di grande stupore, vedere come menti così giovani riuscissero a captare e andare oltre il significato stesso della poesia. Ricorderò per sempre la risposta di una bambina di nove anni alla mia domanda “cos’è per voi la poesia”, rispose: «Per me la poesia è follia». Cosa potevo sentirmi dire più di questo?

 

  1. In che modo stai promuovendo il tuo libro?

Per lavoro mi occupo di vendite e indirettamente di marketing. Sono pertanto abituato ad utilizzare le diverse forme di comunicazione. I canali distributivi sono i più disparati: direttamente dalla mia casa editrice, attraverso Amazon o IBS libri, oppure si possono prenotare in quasi tutte le librerie anche se in questo caso, purtroppo, la consegna è sempre piuttosto lenta. Mi piace promuovere personalmente la distribuzione; spedisco le copie direttamente a casa dei lettori, naturalmente con dedica, oppure li distribuisco durante gli incontri di presentazione. Quest’anno inoltre alcune aziende hanno trovato interessante omaggiarlo ai loro clienti come regalo di Natale. Utilizzo poi i social più significativi: ho un mio blog edoardogallopoesia su facebook che sta ricevendo una buona attenzione e, con lo stesso nickname, sono presente anche su youtube, dove presento il progetto PoeMusìa in collaborazione con il compositore e pianista Giuseppe Laudanna.

 

  1. Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa)

 

« Pensare di aver perso una cosa.

Ritrovarla

ed essere felice.

Piccoli attimi

nei quali riconosci

il senso della vita.

Perché la vita

è nelle cose

ritrovate.

Anche quando

sono perdute »

 

Una delle poesie che preferisco perché mi dà un senso di pace e di accettazione.

 

  1. Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?

Spero riuscirà ad avvicinare un maggior numero di lettori alla poesia. La poesia infatti è per me curativa, una medicina buona e chi la legge non può altro che trarre giovamento. La poesia è sempre stata un po’ troppo tenuta in disparte rispetto le altre forme di scrittura, non so se per rispetto o più per paura. Essa, anzi Ella, è fondamentale, illumina la vita come un lampo. È distillato, un’estrema sintesi di qualcosa di molto più grande. In poche parole riesce a contenere un mondo di emozioni e di significati. Non si possono infatti leggere decine di poesie tutte d’un fiato. Un libro va letto adagio, facendo sedimentare le parole, rileggendole se possibile così da scoprire i molti e diversi “messaggi” contenuti. A volte la poesia è un codice segreto e come tale ci vuole la giusta pazienza per decodificarlo e apprezzarlo totalmente.

 

  1. Una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

Cosa contiene il QR Code stampato in quarta di copertina?

 

  1. Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Sto continuando a scrivere ma è ancora presto per pensare al prossimo libro. Vorrei solo riuscire a tornare a presentarlo pubblicamente, vedere tutto il viso delle persone, guardare dentro i loro occhi, respirare la loro stessa aria. Potere stringere nuovamente le mani e abbracciare, forte, a lungo restando ad ascoltare il prezioso silenzio che si scatena in quel momento.

Edoardo Gallo

 

Biobibliografia

Edoardo Gallo è poeta vicentino. Ha pubblicato tre libri in forma collettiva esprimendo poi la sua cifra poetica originale e polimorfa nelle tre raccolte personali Giorno Zero, È Solo Poesia , La Verità è un Bambino dagli Occhi Grandi.

Ha partecipato a Poetry Vicenza, FlussiDiVersi di Caorle, Parole Spalancate Festival Internazionale di Genova e al BeArt Festival dell’Arte di Vicenza. Con la poesia Io sono mio padre è vincitore assoluto del Premio Letterario Nazionale “Giorgio Gaiero”. Nel 2020, quale rappresentante della poesia italiana, è invitato a partecipare alla mostra virtuale “Mediterranean Anatomy” patrocinata dall’Ambasciata Italiana in Grecia. Le poesie A chi importa e Il nido del desiderio sono diventate canzoni d’autore.                L’inedito Soldati viene utilizzato quale voce poetica del video realizzato da Adifly in collaborazione con l’associazione culturale Liberi Pensatori, in ricordo degli alberi abbattuti dalla tempesta Vaia. Il progetto viene patrocinato dall’Assessorato alla Cultura e Turismo della Regione del Veneto. A luglio 2020 è finalista alla XIV edizione del Premio Letterario “Città di Livorno” con la poesia Le cose difficili. Prestigiose sono le collaborazioni con numerosi artisti e musicisti, tra i quali il pianista e compositore Giuseppe Laudanna con il quale crea il progetto artistico PoeMusìa.

 

 

 

 

 

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Quattro poeti per il Natale: Thomas Stearns Eliot, Samuil Jakovlevič Maršak, José Saramago, Carol Ann Duffy

25 venerdì Dic 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

≈ 1 Commento

Tag

Carol Ann Duffy, José Saramago, Samuil Jakovlevič Maršak, Thomas Stearns Eliot

 

La coltura degli alberi di Natale

 

Vi sono molti atteggiamenti riguardo al Natale,

E alcuni li possiamo trascurare:

Il torpido, il sociale, quello sfacciatamente commerciale,

Il rumoroso (essendo i bar aperti fino a mezzanotte),

E l’infantile – che non è quello del bimbo

Che crede ogni candela una stella, e l’angelo dorato

Spiegante l’ali alla cima dell’albero

Non solo una decorazione, ma anche un angelo.

Il fanciullo stupisce di fronte all’albero di Natale:

Lasciatelo dunque in spirito di meraviglia

Di fronte alla Festa, a un evento accettato non come pretesto;

Così che il rapimento splendido, e lo stupore

Del primo albero di Natale ricordato, e le sorprese, l’incanto

Dei primi doni ricevuti (ognuno

Con un profumo inconfondibile e eccitante),

E l’attesa dell’oca o del tacchino, l’evento

Atteso e che stupisce al suo apparire,

E reverenza e gioia non debbano

Essere mai dimenticate nella più tarda esperienza,

Nella stanca abitudine, nella fatica, nel tedio,

Nella consapevolezza della morte, nella coscienza del fallimento,

Nella pietà del convertito

Che si potrebbe contaminare di vanagloria

Spiacente a Dio e irrispettosa verso i fanciulli

(E qui ricordo con gratitudine anche

Santa Lucia, con la sua canzoncina e la sua corona di fuoco):

Così che prima della fine, l’ottantesimo Natale

(Significando qui per «ottantesimo» l’ultimo, qualunque esso sia)

Le accumulate memorie dell’emozione annuale

Possano concentrarsi in una grande gioia

Simile sempre a un grande timore, come nell’occasione

In cui il timore giunse ad ogni anima:

Perché l’inizio ci ricorderà la fine

E la prima venuta la seconda venuta.

 

Thomas Stearns Eliot

da Poesie a cura di Roberto Sanesi, Arnoldo Mondadori Editore, 1972

 

 

Dopo la festa

 

L’abete si rannuvola. Fa buio.

Le fiammelle scoppiettano spegnendosi,

e un altro abete attraverso la brina

guarda nella finestra il giardino nevoso.

 

Io vedo che la luna accende

i suoi aghi vestiti di neve

e, tutto infiammandosi, annuisce

al mio abete che si sta spegnendo.

Mi spiace che sugli aghi del mio abete,

la bufera non abbia sparso polvere,

che il vento non culli i suoi rami

distesi come ali nere.

 

Samuil Jakovlevič Maršak

da Poesia russa del Novecento, traduzione di Angelo Maria Ripellino, Feltrinelli

 

 

Natale

 

Né qui, né ora. Inutile promessa

d’altro calore e di nuova scoperta

sotto l’ora che annotta viene meno.

Brillan le luci in cielo? Brillan da sempre.

Questa vecchia illusione

abbandoniamo.

Oggi è Natale. E proprio niente avviene.

 

José Saramago

da Poesie, a cura e traduzione di Fernanda Toriello, Einaudi, Torino 2002

 

 

 

La neve mulinava alla finestra

 

La neve mulinava alla finestra;

e fonda, fresca, uniforme,

copriva i prati

dove una coppia di volpi s’acciambellava nella tana

mentre la Luna s’incupiva

al cipiglio fiero, d’oro e altero di un Gufo.  Pure là,

dove il ruscello gelato

inchiodato alla terra,

c’era una preghiera

che aleggiava come alito umano,

come lo spettro delle parole,

in un bosco scuro,

ansiosa di essere qualcosa di inteso.

Ma il Cielo non era che vecchia luce

e la brina era crudele

dove un uomo povero e curvo

andava a raccogliere legna.

 

Carol Ann Duffy

da Un Natale inglese. Poesie scelte, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, illustrazioni di Simone Pagliai, Le Lettere, Firenze 2018

 

 

 

 

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