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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi autore: maria allo

Le case dai tetti rossi di Alessandro Moscè Fandango Libri, aprile 2022. Una nota di lettura di Maria Allo

28 martedì Giu 2022

Posted by maria allo in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Alessandro Moscè, Le case dai tetti rossi, Maria Allo, recensione

“Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato con il figlio del giardiniere, il mio amico Luca, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti appoggiati al cancello, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito da solo per comprare i fumetti incellofanati, a poco prezzo.”
In questo libro scrupolosamente documentato Alessandro Moscè traccia un percorso avvincente, tra memoria e ricerca come un vero e proprio viaggio a ritroso sul filo conduttore del disagio mentale e nell’avventura della soglia si incrocia con le vite dei degenti, ormai scomparsi, dell’ospedale neuropsichiatrico di Ancona ( La Legge 180 del 1978 portò nel 1981, alla chiusura e conseguente trasformazione della struttura in un centro residenziale di assistenza sociosanitaria e, successivamente, in un centro riabilitativo e sanitario). “Me lo ricordo bene il manicomio a pochi passi dalla casa della famiglia di mia madre, ero un bambino che trascorreva l’estate da nonna Altera”. Nel prologo della storia, come un moderno Ulisse, l’autore prova un vero e proprio desiderio di esplorare gli abissi per raccontare e testimoniare la verità della sua esperienza. Ed è così che “Si apre un teatro dove gli attori si spostano con scioltezza guardando dritti o a testa bassa: luci, movimenti, entrate e uscite seguite con un occhio di bue che li avvolge. Prendo confidenza con lo spazio scenico e da un alone giallastro emerge sempre più nitidamente un mondo inabissato”. La singolare tecnica compositiva dell’opera affine a quella del puzzle, di cui l’autore stesso specifica in anticipo obiettivi e nuclei tematici, presenta punti in comune con quella di Georges Perec e si configura come un assemblaggio di microstorie diverse, tenute insieme soltanto da un’immagine unitaria e significativa di un luogo, la struttura manicomiale di Ancona: “Il manicomio di Ancona era una piccola città con centinaia di ospiti. I tetti rossi, del colore del sangue, accoglievano i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco […] (p. 13). L’espediente tecnico di una sorta di racconto nel racconto, costruito attraverso le memorie dei degenti, evidenzia l’abilità dell’autore di costruire trame complesse, riducendole però a pagine dense ed elaborate con precisione analitica delle descrizioni: dettagli visivi che vengono inquadrati e ordinati in una prosa senza compiacimenti stilistici ma con un lessico preciso, a volte addirittura specifico, quello dei medici, innestato di dialettismi anconetani. ”Negli anni Sessanta ai piani di sopra del manicomio risiedevano i violenti, gli incontrollabili, gli psicotici. Ancona aveva paura dei suoi matti e chi transitava da quelle parti allungava il passo, non si girava, faceva gli scongiuri, chiudeva gli occhi. Ai bambini si proibiva di guardare i padiglioni e i pazienti che sbirciavano da una sbarra all’altra tra le fessure del cancello d’entrata” così racconta Arduino, il giardiniere che ha svolto un ruolo di ascolto, di accoglienza e di accettazione(come il basagliano professor Lazzari, il primario e Suor Germana) nei confronti dei pazienti internati, corpi che invocano amore per trovare i loro confini, la loro storia. Il viaggio è lungo, pieno di intoppi e di insidie, ma è un viaggio verso l’amore “il tempo dell’apprendere è sempre un tempo lungo, di clausura, e così amare è, per lungo spazio, ampio fin nel cuore della vita, solitudine, più intensa e appassionata, solitamente, per colui che ama, come dice R. M. Rilke e come sembra voler suggerire Alessandro Moscè. Ed è così che lo sguardo dell’autore, oltre il limen, diviene il testimone interiore che vede e con cuore visionario fa risuonare quella corda autentica che occorre all’anima per incontrare gli altri e mettere in moto il motore della storia che coinvolge ed emoziona. Storie di persone sofferenti, (curate con la devastante terapia dell’elettrochoc), spesso finite in manicomio per la loro diversità tanto da non avere più patria o perché abbandonati da bambini come il caso di Adele. “…la follia può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato”. (Da Lei se ne va, storie del disagio mentale, a cura di Gloria Gaetano e Manlio Talamo con prefazione di Don Luigi Ciotti). Fortunatamente l’opera riformatrice che si attua nella legge 180 rende possibile la chiusura dei manicomi e la nascita di una nuova teoria che riconosce la follia come parte della propria realtà, legata a chiare definizioni di scienza, di società civili, di persona. “Le persone non sono la loro malattia, ma con tutta la malattia esse sono il mondo dove stanno. E di questo mondo hanno bisogno per curarsi ed essere curate. È il mondo, la cura.” Alessandro Moscè ha spinto lo sguardo così oltre il limen nelle storie esplorate da far emergere, in un mondo segnato da una mutazione antropologica quale mai si era verificata in passato, nuove aperture verso le marginalità dell’esistenza a partire dall’accettazione e dall’accoglimento.

© Maria Allo

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2004), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno, 2019). I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, 2012), L’età bianca (Avagliano, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022). Si occupa di critica letteraria su vari giornali. Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è http://www.alessandromosce.com.

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Umberto Piersanti, I luoghi persi e altre poesie inedite, Crocetti Editore 2022 – Nota di Maria Allo

31 martedì Mag 2022

Posted by maria allo in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Crocetti Editore, I luoghi persi e altre poesie inedite, Maria Allo, Recensioni, Umberto Piersanti

«la nostra storia è l’ultima vicenda / prima che torni l’autunno, venga l’inverno / era quel giorno l’ultimo che resta / di un’età favolosa quando vagavo / sempre tra i colli con nuove compagne / trasale il sangue nomade che teme / la tiepida dimora che l’attende / che resterà negli anni fissa e immota / e non la muta il tempo e le vicende».
(Dentro le alte nebbie, pp. 21-22)

Umberto Piersanti

Nel libro I Luoghi persi, riedito quest’anno da Crocetti editore, si leva alta la voce autorevole dello scrittore e poeta urbinate Umberto Piersanti, che disegna una linea di ricerca esistenziale ed etica con densità e concentrazione del linguaggio lirico, fondate sulla volontà di restituire all’espressione poetica la sua forza originaria. I luoghi persi diventano dunque l’ambito in cui il poeta vive la sua vita interiore, un tratto di realtà tangibile con immagini e suoni delle sue Cesane, una zona dove può dispiegarsi tutto quello che non trova posto nell’aridità della vita quotidiana, uno spazio per un’esistenza superiore. “Oggi m’inquieta il tempo che m’attende/ le sue opere e i giorni che non vissi/ che non conosco e trovo per la strada/ di questa età di mezzo già sgomenta/ che senza consultarmi mutò il corso/ questa vicenda lunga come la vita/ forse cambia chi viene e non conosco/ io nell’attesa sono come sempre/ in giro sui miei colli nella cerchia/ e poi vado lontano e qui ritorno (p.26). Per Piersanti,” il più importante poeta di natura in circolazione” come scrive con molta cognizione Alessandro Moscè”, pellegrino nell’immensità dell’immaginazione, la parola costituisce l’unica certezza, grazie alla quale è possibile procedere nel percorso di conciliazione con l’universo e dà la misura inequivocabile della perizia dell’avventura poetica che ora si fa emblema di una sofferta realtà interiore, ora parola onesta che nomina le cose e i sentimenti senza timore e vibra di passione, in particolare di quella del poeta per la sua terra, dove ci sono i colli, gli olivi, dove il cielo è azzurro. Così la poesia canta non tanto perché è la forma originaria in cui si esprime il poeta quanto perché nell’armonia della parola lirica consiste il polo medianico dove si concentra e afferma un potere che s’identifica con il ritmo della natura universale. Scrive nella sua accurata e illuminante introduzione Roberto Galaverni: “È attraverso un processo di disincantamento, di messa in prospettiva dell’età favolosa che i luoghi perduti di questo poeta acquistano la loro piena umanità e così il vero incanto”. E infatti nell’accostarci a I luoghi persi non può sfuggire l’intreccio complesso di forme e motivi dissimulato dietro l’accessibilità e la semplicità: il vero significato della poesia di Luoghi persi è altro. Il rapporto privilegiato del poeta con Le Cesane riassume in sé la combinazione di stimoli familiari, punti fissi di riferimento che non sono ovviamente solo geografici ma soprattutto esistenziali e culturali. Non si tratta solo di un tòpos letterario, ma finisce con il rappresentare lo scenario, lo schermo su cui il poeta proietta le proprie angosce, le inquietudini, i fantasmi, i ricordi. Così dalle profondità della memoria riemergono nel poeta sensazioni legate alla sua infanzia con la consapevolezza dell’ impossibilità di ritornare alla condizione originaria e a nonna Fenisa, colta nella sua fierezza, “potente e archetipica figura campeggiante sull’opera come sulla adiacente prova narrativa del nostro, L’uomo delle Cesane (1994) come chiarisce Manuel Cohen : “ tirava il vento gelido che spesso/ attraversasti nonna a primavera/ lunga fu l’orazione con le soste/ come quand’eri in vita che scandiva/ la tua giornata estrema ai Cappuccini/ restano ancora querce alle Cesane/ e crescono le rape di questi giorni/ solo la casa nostra in fondo al fosso/ ho visto ancora più rotta e desolata/ sopra la macchia cresce come sempre/ lì nell’infanzia spesso mi guidavi/ mi resta una tua foto dove sei/ con Jacopo che a un anno era stupito/ per i volti diversi e così i luoghi/ cresce in un altro spazio dove il mare/ si gonfia velenoso di schiuma e olio…”( p.33). Il ritorno alle origini come recupero del tempo passato sotto forma di elemento visivo assume il valore di epifania, in cui si alterna e si fonde la multiforme e sfaccettata poliedricità dell’esperienza umana e l’allargamento di questa tematica a una dimensione universale. Le Cesane preservano il tempo contro l’oblio, attraversano la vita guardando alla terra del poeta e “in terra straniera” come memoria, luogo del genere umano che ristora dal bruciore della esperienza terrena, da incontrare seppure nella grande solitudine, dove luce e cielo sono di conforto e hanno il fulgore della materia in cui sono iscritte: “io non avevo mai capito/ da dove l’anima viene tra gli spini/ ma l’anima è piccola, fatta d’aria, /passa tra gli spini e non si graffia” (p.59).

© Maria Allo

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“Inciampare nella gioia” di Sotirios Pastakas. Introduzione e traduzioni di Maria Allo

24 martedì Mag 2022

Posted by maria allo in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Inciampare nella gioia, Maria Allo, Soterios Pastakas

Sotirios Pastakas

Da “Παραπάτημα στη χαρά” – “Inciampare nella gioia” (libro secondo) di Sotirios Pastakas

Introduzione e traduzione a cura di Maria Allo.

Il testo proposto, Indaco, tratto da “Canti di misconosciuta gloria”, in preparazione presso la Multimedia Edizioni, è inserito in una sezione di sette componimenti sui sette colori dell’arcobaleno, dal titolo “Inciampare nella gioia”, esempio paradigmatico della cifra espressiva più autentica, ricca di humour di Pastakas. Uno dei sette testi , Rosso, è già noto ai lettori italiani, perché pubblicato nell’ampia antologia del poeta greco dal titolo “ Corpo a corpo”(Multimedia , Salerno 2016) e Blu nella prestigiosa Rivista di poesia Steve di Modena, diretta da Carlo Alberto Sitta ( N. 57 2021) con l’ introduzione di Giancarlo Cavalli, a cui si deve la premessa: “ Vorrei premettere per coloro che non conoscono Soterios Pastakas, che dovranno rapidamente abbandonare gli stereotipi legati all’idea della poesia greca nutrita di miti e archeologia, nel solco della tradizione classica, con sprazzi di paesaggio mediterraneo; se qualcosa di tutto questo, una sorta di grecità, permane in Pastakas, ciò avviene nell’unico modo possibile per un poeta contemporaneo dal respiro internazionale, ossia sovvertendola e demistificandola con le armi corrosive dell’ironia e del disincanto”. In Indaco, colore tra l’azzurro e il viola, associato alla spiritualità e alle facoltà intuitive della psiche, il poeta non denuncia una causa precisa ma dichiara il sentimento dominante della nostalgia di futuro per l’instabilità di tutte le cose: “Non hanno nome le ginocchia. / Sono andate e se ne sono andate/ e non tornano, / come non vanno all’indietro/ il fulmine, l’onda/ gli acini nel mazzo di uva, / Zeus ed Europa sulla spiaggia, / del loro primo amore/. Lo sguardo ironico del poeta sulla realtà, attraverso il gioco della ripetizione, proietta nel futuro un sentimento destinato al passato, quindi assimila il futuro al passato, cioè gli anni ancora da vivere, ignoti e imprevisti, a quelli già vissuti, noti e scontati. Si avverte il desiderio di qualcosa che sottragga all’ ignavia e all’apatia di un personaggio, quasi un doppio del poeta, che contemporaneamente narra la sua vita e vi ragiona sopra: “Dall’indaco il colore diventa cenere,/mare anche lui e non conosce/ il suo nome”. Lo spirito di Pastakas, apparentemente piano e semplice, erotico, mordace e immerso nei “colori” cangianti, scava nel buio dell’inconscio e della memoria. Il potere della sua poesia, con continua alternanza tra realismo e visionarietà al contempo allusiva, non è quello di determinare logicamente la realtà ma di dare forma a una realtà altra che non genera conoscenza ma una nuova coscienza. La poesia crea la vita di Pastakas che non si lascia “confinare nei termini asfittici di una poetica” (G. Cavallo). Certamente il proverbiale incontro con il poeta americano Jack Hirschman si palesa in qualche misura, sia nelle scelte stilistiche che nella formula di poesia “in re” che si faccia corpo, che si faccia vedere e toccare, come dice L. Anceschi. Anche l’interesse del poeta per la letteratura internazionale come per la traduzione di poeti italiani, riesce a far convivere, con assoluta originalità, l’essenza della classicità con le istanze della modernità. Nella chiusa del testo proposto il poeta prende le distanze con la lucida coscienza con la quale fronteggia il negativo e quel fulmen in clausola, battuta amara e autoironica, frequente nella poesia di Pastakas, giustifica la linea programmatica e il dinamismo di un Maestro riconosciuto per le generazioni più giovani.

“l’unica immortalità
che ho incontrato,
quella del corpo
l’unica gioia che mi è stata data
cantare
all’inizio della vecchiaia:
l’irriducibilità del pene”.

L’effetto complessivo è di forte amara ironia.

INDACO

Il Mar Libico
come tutti i mari,
non sa che si chiama Libico,
non conosce il suo nome:
un mare è anche quello,
insieme a tutti gli altri.
Come tutti i mari
cambia colore
di volta in volta,
una volta è pulito
e talvolta pieno di impurità.
Dall’indaco
il colore diventa cenere,
mare anche lui e non conosce
il suo nome.
Come la nave di stanotte
scafo arrugginito “Alekos”
con vernice dipinta di fresco
sulla vecchia lamiera:
«Pacifico», «Monte Carlo»,
nomi che sbiadiscono
sotto la vernice,
non appena le navi
raggiungono il porto, virano
per il prossimo,
cambiano nome,
cambiano carico
e l’equipaggio.
Un mare li accoglie
un mare dice addio,
il Libico non lo sa
il suo nome, come
non conoscono le navi
il loro nome, come non
conosci il corpo
se il tuo nome è Demetra,
Aleka o Calliope.
Il Mar Libico
non conosce il suo nome.
Indaco dall’anima corruttibile
spende nomi
muore ogni giorno.
Molte volte
nello stesso giorno.
La nostra piccola anima lo sa
quanto indaco dreni
ogni ora, ogni momento:
nella necroscopia di oggi
nomi vecchi preferiti
Gavdos, Chrissi, Elafonissos,
Palaiochóra. I mari
stanno cambiando anche i nomi.
Il Libico diventa il mare
di Citera, il mar Ionio,
anche lui è colpito da sciami di venti
del nord e forti venti meridionali.
Il vento cambia nome,
le onde diventano raffiche di onde,
le montagne in fondo
grotte ogni giorno
uccidono la nostra anima,
precedentemente Minosse,
Radamanthis, Sarpidon:
tu mi guardi, io ti guardo
non assomiglio a nessuno,
come la gioia mi condivido
su mille sentieri:
cuori, ferite e interiora fioriti.
Onde nerissime
dalle curve al ciglio della strada,
ho le vene aperte
e la gioia come una gomma forata,
si lascia velocemente
tutto indietro
prima di schiantarsi,
non si cura di noi.
Non hanno nome le ginocchia.
Sono andate e se ne sono andate
e non tornano,
come non vanno all’indietro
il fulmine, l’onda,
gli acini nel mazzo di uva,
Zeus ed Europa
sulla spiaggia,
del loro primo amore,
“Giove” da una lavanderia a secco
è diventato un negozio di kebab,
l “Europa” da salone di bellezza
un’agenzia di viaggi,
i negozi cambiano di mano,
rinnovano le vetrine
ogni giorno, sfitti
rimangono per giorni,
“Philion” viene battezzato
“Dolce”, Via Venizelos
prima di diventare Venizelos,
si chiamava Machis Analatou,
Elias Iliou, il corpo
che si contorce stasera
nelle mie mani ha così tanti
e tanti nomi,
prima e dopo di me,
posso battezzarlo,
la sensazione cambia sempre
gusta quando mordi
la prugna la prima volta
per quest’anno. Il nuovo anno
cambia i numeri.
I corpi dei cuori,
dal sessantasette
in Sud Africa
e fino ad oggi,
reni, fegati.
Cambiano mano i soldi,
nominando i beneficiari
nei libretti di risparmio,
cambiamo portachiavi
marca di sigarette
le nostre abitudini mattutine,
cambiamo playlist.
Stiamo cambiando treni, metropolitane,
autobus, a volte cavalieri
su due ruote, cerchi, pneumatici
nel motore l’olio.
Stiamo cambiando lo shampoo,
il formaggio quotidiano
sulla nostra tavola,
stoviglie, salotti, tende.
Stiamo cambiando colore dei capelli,
smalto alle unghie, opinioni politiche,
hobby, lavori, mogli, amanti,
anime camici da serpente,
prescrizioni mediche
piano in condominio,
taverne, bar, ristoranti,
amici e quartiere, auto, banca
soggiorno, tende.
Stiamo cambiando la lampada,
quattro psichiatri insieme,
sedici poetastri.
Si cambiano le gonne
le ragazze come indossano
la loro nuova anima,
sandali, scarpe, club e canzoni.
Ho cantato con passione
meno le trasformazioni
dell’anima mortale
con più coraggio
l’unica immortalità
che ho incontrato,
quella del corpo
l’unica gioia che mi è stata data
cantare
all’inizio della vecchiaia:
l’irriducibilità del pene.

ΛΟΥΛΑΚΙ

Το Λιβυκό πέλαγος
σαν όλες τις θάλασσες,
δεν ξέρει πως το λένε Λιβυκό,
δεν ξέρει τ’ όνομά του:
μια θάλασσα είναι κι αυτό,
μαζί με όλες τις άλλες.
Σα τις θάλασσες
αλλάζει χρώμα
από στιγμή σε στιγμή,
άλλοτε καθαρή
κι άλλοτε γεμάτη ακαθαρσίες,
περιττώματα, από λουλακί
το χρώμα της να γίνεται σταχτί,
σαν θάλασσα κι αυτή
δεν ξέρει το όνομά της.
Σαν το αποψινό καράβι,
σκουριασμένο σκαρί το «Alekos»
με τη φρεσκοβαμμένη μπογιά
πάνω στην παλιά λαμαρίνα:
«Pacific», «Monte Carlo»,
ονόματα που αχνοφαίνονται
κάτω από το βερνίκι,
καράβια που μόλις
πιάσουν λιμάνι, τραβάνε
για το επόμενο,
αλλάζουν όνομα,
αλλάζουν φορτίο
και πλήρωμα,
μια θάλασσα τα υποδέχεται
μια θάλασσα τ’ αποχαιρετά,
το Λιβυκό δεν γνωρίζει
τ’ όνομά του, όπως
δεν γνωρίζουν τα καράβια
τ’ όνομά τους, όπως δεν
γνωρίζει το σώμα
αν σε λένε Δήμητρα,
Αλέκα, Καλλιόπη.
Το Λιβυκό πέλαγος
δεν ξέρει τ’ όνομά του.
Λουλακί φθαρτής ψυχής
ξοδεύει ονόματα
πεθαίνει κάθε μέρα.
Πολλές φορές
μέσα στην ίδια μέρα.
Η ψυχούλα μας το ξέρει
πόσο λουλακί στραγγίζει
κάθε ώρα, κάθε στιγμή:
στη νεκροφάνεια του σήμερα
ονόματα παλιά αγαπημένα
Γαύδος, Χρυσή, Ελαφόνησος,
Παλαιοχώρα. Οι θάλασσες
αλλάζουν κι αυτές ονόματα.
Το Λιβυκό γίνεται θάλασσα
των Κυθήρων, Ιόνιο,
σαν θάλασσα κι αυτό
το χτυπάν βόρειοι ριπαίοι
άνεμοι, σφοδροί νότιοι άνεμοι.
Αλλάζει ονόματα ο άνεμος,
τα κύματα γίνονται
ριπές κατά κύματα,
τα βουνά στο βυθό
σπηλιάδες κάθε μέρα
σκοτώνουν τη ψυχούλα μας,
άλλοτε Μίνως,
Ραδάμανθυς, Σαρπηδών:
με κοιτάτε, σας κοιτώ
δεν μοιάζω με κανέναν,
σαν τη χαρά μοιράζομαι
σε χίλια μονοπάτια:
καρδιές, πληγές
κι ανθισμένα σπλάχνα.
Κατάμαυρα τα κύματα
απ’ τις στροφές στο οδόστρωμα,
έχω τις φλέβες ανοικτές
και τρύπιο λάστιχο η χαρά,
τ’ αφήνει γρήγορα
όλα πίσω της
προτού να ντεραπάρει,
δεν νοιάζεται για κανέναν.
Δεν έχουν όνομα τα γόνατα.
Φεύγουν και χάνονται
και πίσω δεν γυρνάνε,
όπως πίσω δεν γυρνούν
η αστραπή, το κύμα,
οι ρόγες στο τσαμπί τους,
ο Δίας κι η Ευρώπη
στην αμμουδιά,
του πρώτου έρωτά τους,
ο «Δίας» από καθαριστήριο
έγινε σουβλατζίδικο,
η «Ευρώπη» κομμωτήριο
από γραφείο ταξιδίων,
αλλάζουν χέρια τα μαγαζιά,
ξηλώνουν βιτρίνες
κάθε μέρα, ανοίκιαστα
παραμένουν για μέρες,
σε «Φίλιον» βαφτίζεται
το «Dolce», η Βενιζέλου
πριν γίνει Βενιζέλου,
είναι Μάχης Αναλάτου,
Ηλία Ηλιού, το κορμάκι
που σπαρταράει απόψε
στα χέρια μου έχει τόσα
όσα ονόματα,
πριν και μετά από μένα,
μπορώ να του δώσω,
το συναίσθημα αλλάζει
πάντα γεύση όταν δαγκώνει
δαμάσκηνο πρώτη φορά
για φέτος. Το νέο έτος
αλλάζει νούμερα.
Τα σώματα καρδιές,
απ’ το εξήντα εφτά
στη Νότιο Αφρική
και μέχρι σήμερα,
νεφρά, συκώτια.
Αλλάζουν χέρι τα λεφτά,
όνομα οι δικαιούχοι
στα βιβλιάρια καταθέσεων,
αλλάζουμε μπρελόκ
μάρκα τσιγάρων
τις πρωινές μας συνήθειες,
αλλάζουμε play list.
Αλλάζουμε τρένα, μετρό,
Λεωφορεία, ενίοτε αναβάτες
σε δίκυκλα, ζάντες , ελαστικά
στη μηχανή το λάδι.
Αλλάζουμε το σαμπουάν,
το καθημερινό τυρί
στο τραπέζι μας,
σερβίτσια, καθιστικά, κουρτίνες.
Αλλάζουμε χρώμα μαλλιών,
βαφή νυχιών, πολιτικές απόψεις,
χόμπι, δουλειές,
γυναίκες, γκόμενες,
ψυχές πουκάμισα φιδιού,
φαρμακευτική αγωγή,
όροφο σε πολυκατοικίες,
ταβέρνες, μπαρ, εστιατόρια,
φίλους και συνοικίες,
αυτοκίνητα, τράπεζα
καθιστικό, κουρτίνες.
Τη λάμπα αλλάζουμε,
τέσσερις Ψυχίατροι μαζί,
δεκάξι ποιητάρηδες.
Αλλάζουν φουστάνια
τα κορίτσια σαν να φορούν
ψυχούλα τους καινούργια,
πέδιλα, παπούτσια,
κλαμπ και τραγούδια.
Τραγούδησα με πάθος
λιγότερο τις μεταμορφώσεις
της θνητής ψυχής
και θάρρος περισσό
την μόνη αθανασία
που γνώρισα,
εκείνη του σώματος
τη μόνη χαρά που μου δόθηκε
να τραγουδήσω
μες στο αρχόμενο γήρας:
την αφθαρσία του πέους.

© Maria Allo

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“Il Generale inverno” di Gabriella Grasso, Convivio Editore 2021

03 martedì Mag 2022

Posted by maria allo in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Gabriella Grasso, Il Generale inverno, Maria Allo, Recensioni

La nuova raccolta di poesie di Gabriella Grasso, Il Generale inverno, da poco uscita per Il Convivio, ha il passo poetico di un percorso diaristico, lontano da ogni astrazione simbolica e tentazione intellettualistica, nella verità. Il nucleo fondamentale attorno al quale ruota l’opera, (il cui titolo rinvia esplicitamente, come spiega la Grasso in un’intervista, alla figura-personificazione del Generale Inverno, che disorientò e costrinse alla ritirata gli eserciti francese e poi tedesco), si fonda sul tentativo di stabilire radici abbastanza solide della propria identità in una stagione caratterizzata da una condizione di desolazione storica e spirituale che deve essere accettata nella sua cruda interezza perché possa produrre frutti, una condizione di povertà e annullamento, ma anche di attesa di un incontro e di una risposta. <<Ci costrinse, lui, a guardarlo in faccia/non mostrava sembianze di uomo/ ma affrontandolo/ come in uno specchio/ noi trovammo un’immagine nuova di noi/ stupefatta straniata/ interdetta/ benedetta dalla scoperta/ della nostra vulnerabilità>> (Il Generale inverno p.26). La scelta di seguire la scansione in sei sezioni tematiche è frutto della volontà dell’autrice di presentare l’opera come una sorta appunto di diario, registrato con l’ intensa urgenza di porsi in armonia con il tutto, per ritrovare quella sintonia che l’uomo sembra aver perduto in questa età particolarmente fragile. L’autrice ci offre il suo viaggio interiore immergendosi nel flusso dell’esistenza accogliendo tutto ciò che esso propone in modo aperto e pieno e non pretende di raggiungere verità assolute solo indica la tensione ad una chiarezza che la poesia non può raggiungere perché non dispone di strumenti in grado di compensare il dolore. Tuttavia le è concesso il privilegio del canto, incontro con l’altro, che diviene sollievo alla pena. <<Ai tuoi occhi, a te che mi parli/ vorrei chiedere/ hai toccato anche tu / quella faglia dischiusa/ nel cuore della terra/ diventata ferita/ a cielo aperto/ strappo / straripante di lava/ con i bordi di sciara/ taglienti? / E a che punto sei del cammino / hai compiuto dei passi/ oltre a quelli che conosco anche io/ ti sei spinto oltre?>> (Incontro p.13). È innegabile che l’intera raccolta sia segnata dalla frattura e dalla precarietà del vivere quotidiano causata non solo dalla pandemia ma anche dall’amaro rimpianto per gesti, parole, sguardi perduti per sempre come magma confuso di sentimenti e di certezze e ricerca delle ragioni ultime per le quali continuare a vivere e a sperare. <<Tra un istante arriverà/ una sorpresa consueta / per chi come noi/ ogni giorno scivola lungo/ l’asfalto impietoso/ di un tortuoso percorso/ di vita/ Ci assalirà/ un afflato di sogno nascosto / in giardini riemersi / il profumo sensuale e giocondo/ di zagara e incenso / folata di attimo intenso/ da lasciare sospeso/ tra la gola ed il petto/ pensandolo eterno >>(p.15). In questo mondo fragile e insidiato costantemente dal nulla la Grasso si sente incapace di trovare il proprio posto nel mondo e di dare un senso alla propria esistenza, che finisce per assumere i caratteri di un viaggio inesauribile alla ricerca di un’originaria perduta innocenza, celata in fondo all’anima << …qui nessuno mi chiede/ che cosa mi manca/ nello stream/ tutti danno riempiono sanno/ cosa offrire ad un cuore/ che naviga a vista/ conoscendo soltanto/ il vuoto codice ed il moto apparente/ del suo guscio di scafo>> (p.49), e che solo la memoria può recuperare e richiamare alla vita <<Ci entro quando voglio/ stai tranquilla, non temere/ per me/ Ci entro e mi soffermo quanto basta/ per ritornare al centro/ a ogni principio/ e non smarrire/ quella mia smania lirica e sottile/ di immaginare voli/ e trattenere con me quei respiri / quel calore>> (p.19). Gabriella Grasso dunque con le strategie del viaggio, del vagabondaggio fantastico e dello scavo nelle viscere della propria coscienza rintraccia e riscopre il desiderio di pace, l’unica possibile speranza tenuta desta dal soffio dell’esistenza, e a essa presta la propria fede con la capacità di guardare alla natura con ingenuità ed emozione, stupendosi per ogni particolare che esprime la potenza generatrice del processo di creazione poetica, in grado di portare alla luce un inaspettato frammento di senso. . <<È maggio, di nuovo/ incensiere di fumo/ e profumi/ luce bianca che cola / carezza / a suo modo consola / e la sera che arriva alle spalle/ senza pena/ a ricordare che la dolcezza / esiste ancora>> (p.58). Dario Talarico, nell’illuminante prefazione, individua nel percorso di Gabriella Grasso una poesia che non tradisce mai quella Sicilia lirica e piana, epica, «barocca sempre». Il Generale inverno è un libro da leggere, ricco di risonanze interiori. Ad ogni lettura tocca corde profonde dell’animo, cui si accompagna un sapiente lavoro di cesello che interessa tutti i livelli del testo, fonico-ritmico, lessicale e sintattico. E un buon libro di poesia, deve essere anche questo.

©Maria Allo

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“Orfeo dall’aurea lira”, il ricordo che non ricorda in Rilke

21 giovedì Apr 2022

Posted by maria allo in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Mito, SCIENZA E CULTURA

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Maria Allo, Orfeo, Rainer Maria Rilke

Orfeo olio su legno, Gustave Moreau,1865

Nel corso dei secoli, i miti hanno raccolto e tramandato la memoria collettiva di una cultura, di una civiltà e continuano a parlarci ancora, a distanza di tanti secoli, mantenendo intatta la loro forza. La consacrazione di Orfeo nell’immagine archetipica dell’artista risponde alla risonanza profonda che il suo mito suscitò nell’immaginario di tutte le epoche. Omero e Esiodo lo ignorano e occorre attendere il VI secolo a.C., perché un lapidario quanto fortuito riferimento a noi pervenuto sulla figura mitica di Orfeo (riportato da un tardo grammatico), nel frammento 17 del lirico greco, Ibico (gr. ῎Ιβυκος, lat. Iby̆cus), poeta greco di Reggio vissuto nel VI sec., di famiglia aristocratica, vissuto alla corte di Policrate a Samo, ci restituisca il mitico precursore dell’arte poetica, il dio che canta questo nostro mondo: il mutare delle cose e degli uomini che abitano presso di esse. Il mito dunque è l’elemento preesistente, comune e universale, ma insieme oscuro e misterioso; compito della poesia è quello di portarlo a chiarezza, di dargli una forma e un ordine. Alcune tradizioni vogliono Orfeo nato da Calliope e Apollo, che gli fu vicino durante l’infanzia, insieme alle muse alle quali aveva ordinato di prendersene cura.
Non molto tempo dopo Ibico, un altro frammento lirico evoca la prodigiosa malia del canto di Orfeo: è Simonide a immaginare il quadro fantastico che anticipa il senso di una sintonia fra l’uomo divino e la natura, un tratto tipico della sensibilità francescana che accoglie positivamente tutti i vari aspetti della creazione in quanto espressione e manifestazione della grandezza e benevolenza divine. Nell’Agamennone di Eschilo, un verso radioso esprime l’estasi con cui l’universo tutto si abbandona all’incantesimo del canto primigenio: “Ogni cosa egli conduceva con la sua voce, in felicità”. Ma Onomàkluton Orphén, “Orfeo dal nome famoso “la quintessenza della civiltà greca, la figura più leggendaria dei tempi eroici è tra le più complicate tanto che esiste un’altra tradizione sul lato oscuro della storia di Orfeo, ispirata alla consapevolezza tragica della fragilità umana di fronte al decreto inesorabile del fato o della realtà che lo stesso Eschilo accoglie nella perduta tragedia Bassaridi. La sua morte non era divina come il suo canto: lo avevano dilaniato le seguaci di Dioniso per istigazione del loro dio, furente perché, dopo aver visto l’oltretomba, Orfeo rifiutava di onorarlo. A questa tradizione si riallaccia il poeta ellenistico Fanocle, nei suoi Ἒρωτες. Del resto l’esistenza di varie correnti alle quali vanno assegnati i vari cantori sacri dice da sola che il mito, per il fatto di essere orale, poteva venire modificato con grande libertà, a seconda delle circostanze. Come la sua origine, così è ignota la sua patria. Orfeo, che già gli stessi antichi Greci consideravano l’incarnazione dell’antica cultura teogonica e teologica, contemporaneo di Giasone e di Eracle che accompagnò nel favoloso regno dei Colchi alla conquista del vello d’oro, nonché il creatore di quei riti orfici che egli solo, come figlio di Eagro o di Apollo e di Calliope, poteva conoscere, è comunemente riferito alla corrente tracia. Gli fu anche attribuita l’istituzione di cerimonie religiose a cui potevano prendere parte solo gli iniziati e che da lui presero il nome di misteri orfici. Molte sono le opere che recano il suo nome ma forse solo perché riferite alla sua ispirazione e al suo insegnamento. Comunque la rappresentazione che di Orfeo fa Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche come di un poeta dolcissimo al cui canto ubbidivano gli animali e le piante, e si commuovevano gli stessi dei, è rimasta nei secoli, incarnazione fra il mitico e l’umano di un’arte religiosa che sfiora i confini della magia e del miracolo.
La favola di Orfeo viene da Virgilio inserita, secondo la tecnica alessandrino-neoterica, in quella di Aristeo nel IV libro delle Georgiche, il libro dedicato alle api. Il pastore Aristeo si dispera per la morte delle sue api causata da una pestilenza. La madre, la ninfa Cirene, sente il suo pianto e il suo accorato appello e lo invita a recarsi da Proteo, un indovino perché gli riveli la causa della sua sventura. Questi lo informa che i suoi sciami sono stati distrutti da Orfeo adirato con lui per aver provocato la morte della moglie Euridice, “Non te nullius exercent numinis irae”. Questi versi collegano il mito di Orfeo con quello di Aristeo. Già erano presenti nella tradizione i motivi che caratterizzano la favola di Orfeo: la discesa di Orfeo negli Inferi per recuperare la moglie, il potere incantatore del suo canto, a cui si uniscono, brevemente, quello della sua morte, dovuto allo scempio vendicatore che ne fanno le donne dei Traci, e della sorte della sua testa. Virgilio li fonde, escludendo altri elementi della tradizione, in una visione di Orfeo che appare non come il fondatore dei misteri orfici, ma il simbolo della poesia stessa: grazie alla sua musa incantatrice ottiene di scendere nel tetro regno dell’Ade per riavere l’amata sposa, ma a causa di un suo errore, la perde nuovamente senza alcuna possibilità di recuperarla: rimane solo il canto a consolarlo. La sorte dei due protagonisti è opposta, in quanto opposto è il loro comportamento: Aristeo, grazie alla sua docilità agli insegnamenti ricevuti (deve eseguire il rituale della bugonia), riesce ad ottenere la rinascita delle sue api; ad Orfeo, indocile al divieto, è negata la “resurrezione” di Euridice. Risulta evidente che Ovidio nel X libro delle Metamorfosi e Poliziano nelle Sylvae sono entrambi debitori a Virgilio.
Anche Cesare Pavese ha ripreso il mito nei suoi Dialoghi con Leucò, un’opera che rilegge il mito antico stravolgendolo: egli ha scelto di voltarsi indietro e perdere per sempre la sua sposa. Euridice è una stagione della vita, un passato che Orfeo cerca, ed Orfeo ha una sua dimensione, non in cerca di Euridice, ma di se stesso. È questa una dimensione esistenziale che sola può essere dell’uomo del ‘900. “Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono/ sempre il mondo sotterraneo e promisero a più/ d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio Orfeo, / cantore, viandante nell’Ade e vittima/lacerata come lo stesso Dioniso, valse di più”.

Fra le tante rivisitazioni che il mito di Orfeo ha avuto nella letteratura contemporanea anche quella di Rainer Maria Rilke, scrittore e drammaturgo austriaco di origine boema che, pare abbia preso spunto dalla copia romana di un bassorilievo attico (conservato a Napoli), in cui il dio Hermes tiene per mano (quasi trattenendola) Euridice, nei versi di Rilke invece Orfeo ed Euridice appaiono meno uniti che nella scultura e tra i due si avverte inevitabile un incolmabile abisso. Nei Sonetti a Orfeo dedicati a Wera Knoop, (Rilke ricevette dalla madre di Wera una lunga relazione sulla malattia e la morte della figlia all’inizio del 1922, poche settimane prima che cominciasse i Sonetti) morta a diciannove anni di leucemia alla fine del 1919, fa riferimento al mito di Orfeo e con la sua straordinaria capacità di poesia, la storia di Orfeo è una delle più significative creazioni del mito del XX secolo. Wera era figura elettivamente orfica. Portava con sé l’infanzia, la danza e la musica, e la morte già dentro la vita, che rinvia ad un altro frammento orfico scoperto da Colli in Euripide.

Il male era prossimo. Già domato dalle ombre
Urgeva il sangue intenebrato, ma come per fugace
Presagio rifioriva nella sua naturale primavera.
Di nuovo ancora, interrotto di buio e di cadute,
terrestre rifulgeva. Finché dopo un terribile bussare
varcò irredimibile la porta spalancata.

(I,25, Sonetti a Orfeo, vv.9-14 trad.di Franco Rella)

Nel terzo sonetto della parte prima, il poeta riflette sul potere del canto.

Ein Gott vermags. Wie aber, sag mir, soll
ein Mann ihm folgen durch die schmale Leier?
Sein Sinn ist Zwiespalt. An der Kreuzung zweier
Herzwege steht kein Tempel für Apoll.
Gesang, wie du ihn lehrst, ist nicht Begehr,
nicht Werbung um ein endlich noch Erreichtes;
Gesang ist Dasein. Für den Gott ein Leichtes.
Wann aber sind wir? Und wann wendet er
an unser Sein die Erde und die Sterne?
Dies ists nicht, Jüngling, Daß du liebst, wenn auch
die Stimme dann den Mund dir aufstößt, – lerne
vergessen, daß du aufsangst. Das verrinnt.
In Wahrheit singen, ist ein andrer Hauch.
Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind.

Rilke stesso disse che la traduzione è un’arte affine a quella degli attori, «è alchimia, conversione in oro di elementi altrui». Di fronte alla lingua dei Sonetti dalla visionarietà rapace, resa con una certa crudezza, come dice Pintor, autentico miracolo di perfezione, renderne quanto più possibile la musicalità non è impresa facile. Propongo qualche variante di traduzioni di questo “inaudito centro” di Rilke, grazie al generoso contributo di Anna Maria Curci, esperta traduttrice di lingua tedesca.

Un dio lo può. Ma potrà mai adeguarsi
su snella lira un uomo, dì, al suo esempio?
L’uomo è discorde. Apollo non ha un tempio
dove in cuore due vie vanno a incrociarsi.
Non è brama, quel canto che tu insegni,
non cosa ambita e finalmente presa.
Canto è esistenza. Al dio facile impresa.
Ma quando siamo, noi? Nei suoi disegni
quando egli terra e stelle a noi prepara?
Non quando ardi d’amore, o giovinetto,
pur se t’urge la voce in bocca. Impara,
scorda ciò che cantasti. Fu un momento.
Il canto vero è un altro, soffio schietto,
che va in nulla. Soffio divino. Vento.
(Traduzione di G. Baroni)
Un dio può. Ma come, dimmi, come può
Un uomo seguirlo con la sua lira inadeguata?
Il suo senso è la scissione. All’incrocio
di due vie del cuore non c’è tempio per Apollo.
Il canto che tu insegni non è brama
O appello per avere potere infine;
canto è esistenza. Facile per un dio.
Ma quando noi siamo? E quando egli volge
al nostro essere la terra, e la terra, e le stelle?
Che tu ami, o giovane, questo non è, anche
Se la voce t’urta nella bocca, -impara
A dimenticare che hai cantato. Trascorre.
Cantare in verità è certo altro respiro.
Spirare a nulla. Un soffio nel dio. Un vento.

(Traduzione in rima di Claudio Angiolini)

È un tema tipico della poesia simbolista la riflessione sull’idea della poesia come libera creazione di una nuova realtà. Rilke riflettendo sulla propria opera ne riconosce i limiti e lo stesso mito qui si pone come forma della sapienza poetica che riscatta la caducità degli esseri e delle cose: la loro fragilità si rivela infatti un valore in quanto li rende abitatori del doppio regno della vita e della morte. Poetare è agevole per un dio immortale, ma difficile per l’uomo, scisso tra la vita e la morte.
La poesia deve dare voce alla materia informe del mito che s’intreccia all’io lirico individuale e l’universalizza in solidarietà di pena con tutti gli uomini per giungere alla creazione poetica. Rilke riconosce la limitatezza dell’uomo, ecco perché, contrapponendo il poeta Orfeo al dio Apollo, si riconosce in Orfeo di cui sottolinea non tanto la abilità poetica ma la sconfitta finale (vv.3-4) e l’intima lacerazione, espressa con soluzioni formali e scelte estreme e che preannunciano aspetti dell’ermetismo italiano. Iosif Brodskij, il poeta russo, ritiene la poesia di Rilke un sogno inquietante nel quale si conquista qualcosa di molto prezioso solo per perderlo dopo un momento “il ricordo che non ricorda” come lo definirono Dino Campana e poi Luzi.
È l’amore la prima realtà. Per questo nel magnifico Orfeo del sommo Rilke, sulla soglia del silenzio laddove tutto si fa ascolto è un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento.

Un dio lo può. Ma un uomo, dimmi, come
potrà seguirlo sulla lira impari?
Discorde è il senso. Apollo non ha altari
all’incrociarsi di due vie del cuore.
Il canto che tu insegni non è brama,
non è speranza che conduci a segno.
Cantare è per te esistere. Un impegno
facile al dio. Ma noi, noi quando siamo?
Quando astri e terra il nostro essere tocca?
O giovane, non basta, se la bocca
anche ti trema di parole, ardire
nell’impeto d’amore. Ecco, si è spento.
In verità cantare è un altro respiro.
È un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento.

(Da Sonetti a Orfeo, traduzione di Guaime Pintor)

NOTE BIBLIOGRAFICHE
Albin Lesky ,storia della letteratura greca vol. I, il saggiatore, Milano 1962 p.177
Rainer Maria Rilke, i sonetti a Orfeo, Feltrinelli, Milano 2008, traduzione e cura di Franco Rella, pp.23
Rainer Maria Rilke, Poesie, Einaudi, Torino, 1955, traduzione di Giaime Pintor p. 51.
https://www.larecherche.it/testo_poesia_settimanale.asp?id=138&tabella=poesia_settimanale
https://nugae11.wordpress.com/recensioni/i-sonetti-a-orfeo-di-rainer-maria-rilke/
https://youtube/0buam0er-dw

 

 

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Ossessione e presente immobile in “LA GELOSIA” – Alain Robbe Grillet

12 mercoledì Gen 2022

Posted by maria allo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Alain Robbe Grillet, La gelosia, Maria Allo

alain R

Alain Robbe Grillet: Brest, 18 agosto 1922 – Caen, 18 febbraio 2008

L’attività letteraria è stata negli anni Cinquanta e Sessanta caratterizzata da alcuni movimenti d’avanguardia animati da un’elevata carica di contestazione sociale e morale al sistema borghese: un elemento, questo, nuovo rispetto alle avanguardie storiche di primo Novecento e che in qualche modo prelude al Sessantotto. Se l’avanguardia storica infatti, d’inizio secolo (Dadaismo, Futurismo, Surrealismo) sognava di creare un linguaggio nuovo, la Neoavanguardia si propone, di demistificare il linguaggio ordinario, distruggendo all’interno i modi del conoscere e del comunicare. La Francia è il paese in cui più intenso è stato il dibattito teorico, stimolato dalla vivacità delle ricerche culturali (Esistenzialismo, Neomarxismo) e dalle nuove scienze umane (soprattutto lo Strutturalismo e l’Antropologia), fiorite appunto nel clima culturale di quegli anni segnato dall’Esistenzialismo e dalla guerra fredda. A questo sfondo culturale si possono ricondurre le opere di autori diversi, quali Jean-Paul Sartre, Arthur Adamov, Eugène Ionesco, Samuel Beckett, Jean Genet, Ferdinand Arrabal. Le loro opere tendono a non trasmettere alcuna informazione diretta né valore esplicito e il palcoscenico, in cui questi autori mettono in scena il dramma dell’uomo contemporaneo e la sua ricerca di un significato per l’esistenza, diviene il riflesso di un mondo interiore scisso, disperato. Dopo la stagione del teatro dell’assurdo, (fenomeno sostanzialmente francese e parigino che negli anni Cinquanta ottenne un vivo successo in tutta Europa, anche se si sarebbe esaurito nell’arco di un quindicennio) è venuta quindi la messa in discussione, anche in narrativa, del romanzo tradizionale. Oltre alle esperienze trasgressive di Georges Bataille (1897-1962), scrittore e critico, che affronta temi estremi (erotismo e violenza) in forme eccessive, oltre alle teorizzazioni di Maurice Blanchot che definisce la letteratura uno spazio di “orientamento” e di “morte”, si afferma il Nouveau Roman[1] école du regard, (scuola dello sguardo).Si tratta in realtà del tema dell’alienazione dell’uomo nella società di massa, già al centro del teatro dell’assurdo, riproposto in forma narrativa, densamente sperimentale. Di fronte all’improvvisa fortuna editoriale dell’école du regard, la critica italiana inizia a interessarsi al Nouveau Roman e al soggettivismo radicale della scrittura, come espressione della reificazione indotta dalla società dei consumi. Il caposcuola riconosciuto del Nouveau Roman francese, (termine coniato da Emile Henriot) è Alain Robbe-Grillet che ne ha teorizzato le linee in Una via per il romanzo futuro (1956). Appartengono alla corrente del Nouveau Roman, coerente con la crisi del XX secolo, altri esponenti come Nathalie Sarraute, Michel Butor, Claude Simon e Marguerite Duras solo per citarne alcuni. Nel romanzo come “ricerca” (la definizione è di Butor), l’uso insistito del monologo interiore si affianca alla particolareggiata descrizione realistica per respingere ogni funzione rappresentativa. Il punto d’arrivo è una “creazione scritturale”, una rete di segni (parole, immagini) che producono senso di se stessi. Si tratta di un rovesciamento dell’impostazione tradizionale del romanzo, inteso come impassibile trascrizione di oggetti ed eventi, liberati da qualunque interpretazione che vi sovrapponga un senso preordinato. Negli anni Cinquanta-Sessanta, in Francia il movimento del Nouveau Roman ha fatto ricorso a tecniche narrative di avanguardia per negare la possibilità di dare un senso a una narrazione. Il primo e più celebre scrittore è l’argentino Borges, che in molte variazioni ha riproposto l’immagine del mondo come enigma e labirinto. Intorno a Borges si è raccolto un gruppo di scrittori argentini che condividono con il maestro le ardite sperimentazioni intellettuali. In anni più recenti una scrittrice ungherese di lingua francese, Agata Kristof, unisce originalmente il tema dell’inafferrabilità delle vicende umane a una visione lucidamente crudele e disperata della vita. Il Nouveau Roman si è espresso nel più vasto ambito di un’avanguardia attorno alla rivista Tel Quel, fondata nel 1960 da un gruppo di giovani intellettuali intenti a costruire una “scienza materialista delle pratiche significanti” fino a fare ricorso all’idea che la letteratura deve negarsi a ogni traduzione di senso per divenire uno strumento rivoluzionario. Alain Robbe-Grillet scrittore, saggista, regista e sceneggiatore, membro dell’Académie francaise nel 2004, alla presidenza di Maurice Rheims, nell’ultima fase, da Progetto per una rivoluzione a New York (1970), è passato da un’idea di romanzo come strumento conoscitivo dei meccanismi psichici, a un romanzo gioco, che sfrutta tutti i luoghi comuni più banali della tradizione romanzesca in una ludica combinazione e ha influenzato la letteratura europea tra cui anche gli italiani Edoardo Sanguineti e Ferdinando Camon. Notato e sostenuto in particolare da Maurice M. Blanchot, e Roland Barthes, ha pubblicato Le gomme (1953), La gelosia (1957), Nel labirinto (1959).la gelosia 978880614998GRA geipeg

Questa trilogia, una sorta di manifesto letterario della poetica lo rende celebre, ma se facciamo i conti della sua uscita, il libro La gelosia non è quello che chiamiamo un best-seller, che vende rapidamente, ma è un long-seller, che ha superato di gran lunga i best-seller del mondo (Les editions de Minuit). Il titolo gioca sul duplice significato di gelosia: un tipo di persiana a stecche, che permettono di osservare l’esterno dall’interno senza essere visti, e una passione che spinge a osservare ossessivamente i comportamenti della persona sospettata di tradimento. Il romanzo ha tre personaggi: una voce narrante che non dice mai “io”, la moglie di questo narratore innominato (chiamata “A”) e un comune amico che frequenta la loro casa, Frank. Si svolge ai tropici. La scena è un bungalow signorile situato in un paese coloniale, al centro di una piantagione di banani. In prima pagina si trova la planimetria di un’abitazione, designata a regola d’arte e la descrizione dell’edificio prosegue lungo tutto il libro, alternandosi alla descrizione morbosa delle piantagioni che lo circondano e alle ambigue allusioni di un probabile tradimento della moglie con l’amico della voce narrante che registra minutamente ogni particolare visivo. il vero protagonista, assente, onnipresente e onnisciente, è il narratore silenzioso che dà il titolo al libro “la gelosia” in quanto osservatore ossessivo e sospettoso della relazione fra sua moglie e il vicino di casa. I romanzi di Alain Robbe-Grillet propongono un restringimento del campo visivo per una più autentica ricreazione del reale. Bisogna dunque superare il racconto lineare, cronologico, incentrato sull’eroe protagonista, va abolita, come teorizza Robbe-Grillet, la psicologia tradizionale, per adottarne un’altra, in cui è l’uomo ad abitare le cose e i suoi sentimenti non sono dentro, bensì fuori di lui. Le circostanze esterne non sono dunque mai neutrali, ma si caricano delle segrete nevrosi e angosce dell’individuo. La narrativa di Robbe-Grillet in La gelosia vuole risalire al livello elementare della percezione, in cui gli oggetti del mondo incontrano uno sguardo. È un momento originario, anteriore alle interpretazioni concettuali con cui diamo abitualmente un senso al mondo. Scrive l’autore nel testo programmatico Una via per il romanzo futuro “aprendo gli occhi all’improvviso, abbiamo provato una volta di troppo, lo choc di quella realtà testarda di cui facevamo finta di essere venuti a capo. Attorno a noi, sfidando la muta dei nostri aggettivi animisti o sistematori, le cose sono là. Riporto in parte un passo centrale del romanzo:

V. “Ora la casa è vuota”

Ora la casa è vuota. A. è scesa in città con Franck, per fare alcune spese urgenti. Non ha precisato quali. Sono partiti di buonissima ora, per disporre del tempo necessario alle loro faccende e tornare tuttavia la sera stessa alla piantagione. Avendo lasciato la casa alle sei e mezzo del mattino, contano d’essere di ritorno poco dopo mezzanotte, il che rappresenta diciotto ore d’assenza, di cui otto al minimo di viaggio, se tutto va bene. Ma i ritardi sono sempre da temere, con queste cattive piste…. È facile far scomparire questa macchia, grazie ai difetti dei vetri molto grossolani della finestra: basta portare la superficie annerita, per approssimazioni successive, in un punto cieco della lastra.
L’idea è dunque di rappresentare una materialità dell’esistenza che precede i concetti, le spiegazioni, le storie che ci raccontiamo per dare un senso alle cose. Per questo il protagonista è ridotto a una voce anonima che registra impassibilmente pensieri e percezioni, e la trama è ridotta a una serie di stati di coscienza slegati
La macchia comincia con l’allagarsi. Uno dei suoi lati, gonfiandosi, forma una protuberanza tondeggiante: più grossa, da sola, dell’oggetto iniziale. Ma qualche millimetro più in là, questo ventre si trasforma in una serie di sottili mezzelune concentriche, che s’assottigliano ancora, si riducono a fili, mentre l’orlo opposto della macchia si ritrae, non lasciando dietro di sé che un’appendice peduncolata. Questa s’ ingrossa a sua volta, un istante, poi tutto si cancella di colpo. Dietro il vetro, nell’angolo determinato dall’asse centrale e dalla piccola traversa non c’è più che il colore grigiastro dello strato di polvere che ricopre il suolo sassoso del cortile. Sul muro di fronte il millepiedi è al suo posto, nel bel mezzo della parete.
Il tempo è un presente immobile (ogni capitolo comincia con la parola Ora), e non scorre in una sola direzione: il millepiedi che in questo brano sembra scacciato dal protagonista, in pagine precedenti è già una macchia sul muro, in pagine successive è ancora vivo. Comprendiamo che l’osservatore sta guardando l’esterno da dentro della casa, attraverso i vetri di una finestra, e (forse) attraverso le gelosie. La gelosia è evidente nei pensieri registrati all’inizio del brano, anche se l’atteggiamento resta ambiguo: l’innominato protagonista vuole convincere se stesso? O fa dell’ironia sulle giustificazioni che gli altri due accamperanno? Inoltre la registrazione di ogni minima percezione suggerisce un certo tipo psicologico: un individuo debole, incapace di azione, smarrito in un’ossessiva contemplazione delle cose intorno a sé. Oltre al tempo anche lo spazio è ambiguo e mutevole: l’immagine fotografata si sovrappone e quasi si confonde con la scena reale. In teoria dunque Robbe-Grillet abolisce i cardini della narrazione. Il personaggio e la trama; in realtà, fornisce al lettore tutti i dati per ricostruire una situazione (se non proprio una storia) e una psicologia. E dunque, se per molta narrativa la domanda portante è “chi vede i fatti riportati?”, qui la questione si fa più radicale diventando: “che cosa vede chi sta guardando (e narrando)?”. La sperimentazione stilistica che alla fine degli anni Cinquanta investe il romanzo trova una corrispondenza anche nel cinema, e dal momento che il Nouveau Roman nasce in Francia, è il cinema francese a recepirne per primo le innovazioni. [4] Il regista Alain Resnais più di altri si è trovato in sintonia con le proposte dell’avanguardia, e ha trasportato sullo schermo le tecniche letterarie del “flusso di coscienza” e avvalendosi della collaborazione dei due più importanti scrittori dell’avanguardia letteraria francese: Marguerite Duras e Alain Robbe-Grillet., sceneggiatore de L’anno scorso a Marienbad [5] (Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1961). Anche nel film inaugura una nuova drammaturgia che Gilles Deleuze definisce “una storia di magnetismo, di ipnotismo” Infatti anche qui lo spettatore rimane disorientato e non è in grado di sapere chi dei due protagonisti menta, mentre è trascinato all’interno delle atmosfere oniriche e sul filo di una memoria ingannevole che esplora i recessi oscuri della coscienza. Eletto nel 2004 all’Accademia di Francia, Robbe-Grillet, provocatore e polemista morì all’età di 85 anni dopo aver dato alle stampe un ultimo romanzo che, tra i critici d’oltralpe, scatena roventi anatemi.

© Maria Allo

[1]  3, Novecento-Il nouveau roman francese, B. Mondadori, pag.629

[2]  M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 219-226

[3] Alain Robbe-Grillet La gelosia, Ed. Einaudi (Uscito in Italia nel 1958 nella traduzione di Franco Lucentini)

[4] Un articolo di Andrea CHIURATO, «Un successo senza gloria.Splendori e miserie della ricezione  di Alain Robbe-Grillet in Italia», in Interférences littéraires/Literaire interferenties, 15, «Au risque du métatexte. Formes et enjeux de l’autocommentaire», a Cura di Karin SCHWERDTNER & Geneviève DEVIVEIROS, febbraio 2015, pp. 149-169

[5] Alain Robbe-Grillet, L’anno scorso a Marienbad Einaudi,1961 (https://core.ac.uk/download/pdf/225988932.pdf) Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, pag 139

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“Il sentiero del polline” di Guglielmo Aprile. Kanaga edizioni, 2020. Una nota di lettura di Maria Allo

24 mercoledì Nov 2021

Posted by maria allo in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Guglielmo Aprile, Il sentiero del polline, Maria Allo, poesia contemporanea, recensione

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La cultura della società moderna, fondata sulla produttività e il denaro, non lascia spazio all’individuo, al suo bisogno perennemente inappagato di amore, di autenticità nei rapporti con se stesso, con gli altri e la natura. Ne consegue che da poeta autentico, la condizione di Guglielmo Aprile è a volte quella di un esule, in Esilio delle cicale (“… un dio indicò in questi alberi il suo perenne esilio “(pag.6), quasi a sottolineare un percorso poetico, come fondamentale momento di un cammino.
Così il poeta si contrappone al movimento frenetico della città e scopre in sé una tensione alla ricerca della Terra promessa “Siamo anche noi così, inseguiamo/ quellaterra che odora di miele/ quando il sole la sfiora, anche se/ ignoriamo dov’è che sia,e se” (Terra promessa, (pag. 89). Il titolo della raccolta Il sentiero del polline, sembra mettere a frutto, come Baudelaire, le letture del mistico svedese Emanuel Swedenborg, interprete di una forma di “misticismo cosmico” che vede nella natura un insieme di corrispondenze da decifrare. La struttura della raccolta rivela una precisa volontà costruttiva. Infatti Aprile ha inteso organizzare la sua opera poetica in una raccolta organica, che non nasce dalla semplice stratificazione di singoli testi ma è concepita secondo una struttura rigorosa, frutto di un continuo lavoro di labor limae. Il sentiero del polline è suddiviso in sette sezioni che testimoniano una direzione di ricerca in una riflessione sul rapporto tra realtà e di una tendenza all’evasione fantastica in epoche o contesti passati (Creta del tempo)e già dalla prima sezione (L’inquieto mare) è subito evidente il valore polisemico del mare quale emblema di una natura capace di rigenerazione e di rinascita: “Scava il morso dell’onda nella pelle/ della scogliera, ne erode le falde/aprendo grotte ampie come bocche/ di piovre…” ( pag.9).

Il risultato finale è una struttura all’insegna della varietà ma anche di un’intima coerenza e in Ogni cosa è in cammino (pag.71), il poeta dichiara con un costante controllo sulla forma, fedele a un registro ragionativo: “Sonnambuli procediamo ma è presto/ chiedersi verso dove, lo sapremo/ solo una volta arrivati”. È chiaro che Aprile si riferisce alla condizione dell’uomo moderno smarrito, privo di certezze in una situazione esistenziale di alienazione e di incapacità a comunicare, tuttavia alla ricerca del senso profondo di una realtà sempre più labirintica, in cui il poeta non cessa però di ricercare la presenza di un
principio ordinatore. È subito evidente il valore polisemico del percorso nella sezione A piedi, per i campi e in Arabesco (pag. 14) “Camminando decifro/ gli indizi incerti, che dita di luce/ tra gli alberi disseminano:/piste nascoste, fuggevoli tracce/ verso un paese d’oro e di chimera”. Nella descrizione del paesaggio silenzioso e immobile, il poeta si sente a proprio agio, dove gli indizi, gli alberi, le piste e le tracce sono lo scenario in cui egli compie la propria ricerca e dove all’improvviso, può apparire una presenza rivelatrice, ma l’accesso a una rivelazione, non diventa come un sigillo di separatezza, ma qualcosa di intimamente umano, una consapevolezza che diventa una ragione per ricongiungersi con gli altri.

Dietro questa ricerca di poetica dell’umanità c’è dunque l’assoluto bisogno, privato, personale da parte di Aprile di trovare una via di comunicazione con l’altro ma che viene a coincidere con una sofferenza di tutte le cose e con una situazione universale. Così esprime più esplicitamente il leitmotiv del suo progressivo itinerario spirituale e anelito alla terra promessa “Ognuno ha la sua terra promessa/ da cercare, essa è là dove si incontrano/ le rughe che solcano il cielo/ e appena il vento le scioglie svanisce. L’ obiettivo dunque della ricerca di Aprile, in un itinerario continuamente sospeso tra ieri e oggi, diventa occasione per ritrovare il senso dell’esistenza, rivalutare la dimensione della memoria per tentare di vincere la solitudine e inaugurare una comunione più piena con gli altri uomini, anche se il momentaneo trionfo del cielo appare minacciato dall’incombere del vento che dissolve. In Eterna danza appare evidente la presa di coscienza della fragilità dell’uomo, ma anche della necessità di superarla come unica via per restituire quel poco che può dare consolazione all’ anima del poeta: “Le insegne dei bar già accese alle sei del mattino / custodiscono un segreto/ che resterà inviolato da qui a tremila anni;/ l’uomo non si arrende/ alla Sparta dell’erba che si fa polvere…”.

Maria Allo

Creta del tempo( pag.6)
Scava il morso dell’onda nella pelle
della scogliera, ne erode le falde
aprendo grotte ampie come bocche
di piovre, squarci, faglie che si allargano
in forma di neri fiori di roccia;
fino a che un blocco si stacca e dà origine
a un nuovo scoglio, che somiglia a un pugno

chiuso sull’acqua, di tufo; e il tufo era
vivo un tempo, era magma, e dalle viscere
della terra sgorgava, era il suo sangue
poi rappreso e scolpito in varie fogge:
idoli informi, teste di ciclopi
o schiene di odalische: creta arresa
al bulino delle ere, allo scalpello
di venti ed acque, fabbro millenario

Arabesco ( pag.14)
Fogliame dei platani, lune falcate
inventano sull’erba
un mobile arabesco,
il sole filtrando tra i rami
lo tesse e poi disfa, incessante.
Camminando decifro
gli indizi incerti, che dita di luce
tra gli alberi disseminano:
piste nascoste, fuggevoli tracce
verso un paese d’oro e di chimera

Ogni cosa è in cammino (pag. 76)
Anche nei tempi di siccità,

quando il coro dei sassi smentisce ogni promessa d’acqua
ed è unanime l’ingiallire delle stoppie,
tu avanza e non chiederti dove,
segui solo il lampo, laggiù
sui colli turchini che danza;
come gli elefanti che aspettano prima o poi la pioggia,
fedeli ai loro millenari
greti d’ossa.
Sonnambuli procediamo ma è presto
chiedersi verso dove, lo sapremo
solo una volta arrivati

Grido che si alza ovunque (pag.92)

Se anche fosse appurato
che in fondo al pozzo dell’uomo non c’è
nessun oro promesso,
continueremmo a scavare, a stanare
sotto la pelle tracce che conducano
al petrolio di un dio: ombelichi
che attraverso il sangue tortuoso
sbocchino su un relitto
precipitato secoli fa in mare,
custode dei giacimenti di Andromeda.
Ed anche l’erba insorge
contro l’asfalto dall’ingiusto braccio;
e in ogni onda una bestia ferita

si dibatte, ribelle
a un olocausto che gli scogli officiano
sul loro mai sazio altare rombante

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G.A. è nato a Napoli nel 1978 e attualmente vive a Verona. È stato autore di diverse raccolte di poesia, tra cui “Primavera indomabile danza”, 2014; “Calypso”, 2016; “Il talento dell’equilibrista”, 2018; “Teatro d’ombre”, 2020; “Il sentiero del polline”, 2020,”Falò di carnevale”, 2021; ha inoltre collaborato con alcune riviste accademiche tramite studi critici su autori e testi della tradizione letteraria italiana.

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In “Δαιμόνιοι” (Creature demoniache) “di Anna Griva, la visione di Dante personaggio

16 domenica Mag 2021

Posted by maria allo in Idiomatiche, LETTERATURA E POESIA

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Anna Griva, Dante Alighieri, Maria Allo

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In “Δαιμόνιοι” (Creature demoniache) “di Anna Griva, la visione di Dante personaggio

A cura di Maria Allo

In Se questo è un uomo Primo Levi tra gli orrori e le violenze di ogni giorno ad Auschwitz, racconta di un momento di sollievo durante una breve pausa del lavoro forzato quando traduce per un compagno francese, di nome Jean, soprannominato Pikolo, il XXVI canto dell’Inferno, dedicato all’ultimo viaggio di Ulisse e, mentre si sforza di citargli a memoria i versi di Dante, per un attimo vede <<qualcosa di gigantesco […] forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…>>. Il testo di Dante acquista una duplice funzione: da un lato, è un frammento di cultura e di poesia che Levi ostinatamente vuole salvare dall’oblio per riaffermare nell’inferno del lager le ragioni dell’umanità e contrastare l’abbrutimento in cui gli aguzzini vogliono relegare i prigionieri, dall’altro è, con il suo finale tragico, la proiezione della morte che incombe su Levi e tutti i suoi compagni di prigionia. Tutto il libro è pieno di riferimenti all’Inferno dantesco. Questo episodio può farci capire la profondità dei significati culturali e umani acquisiti nel corso dei secoli dall’opera di Dante. Leggere le sue opere significa esplorare un affascinante paradosso tipico dell’esperienza letteraria: com’è possibile che un uomo del passato, con una visione della morale, della religione e dell’amore lontana dalla nostra, possa dirci cose attuali e vive ancora oggi? Certamente l’evento cruciale della biografia dantesca è l’esilio. I riferimenti ad esso nelle sue opere e in quelle di altri autori anche stranieri sono continui, con sfumature sentimentali e morali che variano nel tempo. Grazie al grande poeta greco, Sotirios Pastakas, ho avuto occasione di leggere un testo di Anna Griva, dedicato a Dante. La giovane promettente poetessa greca, che ha già pubblicato quattro raccolte di poesia e si è dedicata anche alle traduzioni di opere rinascimentali, nel corso del Reeding Greece 2020, durante un’intervista, sottolinea che il filo conduttore della sua poetica è l’amore per i miti antichi che costituiscono una fonte inesauribile del suo pensiero. Quanto al linguaggio, spiega che la poesia ha lo stesso potere della musica, suscita emozioni primordiali non mediate. “La poesia greca moderna è stata influenzata all’ambiente artistico internazionale, sostiene Anna Griva, il che è inevitabile dato che i giovani parlano lingue straniere, viaggiano, migrano. Direi che i poeti stranieri hanno esercitato un’influenza più significativa rispetto alla tradizione poetica greca. La poesia greca dunque fa parte di una realtà multiculturale e lo dimostra il testo selezionato, omaggio di Anna Griva, al grande Fiorentino. Le biografie intellettuali dei grandi poeti possono talvolta guidare per mano anche il lettore accorto, fornire percorsi di orientamento, di ordine nella selva dei segni e dei sensi. Se ci lasciassimo guidare da Dante e dai suoi libri, piuttosto che comunicare il rapporto tra noi e il passato, non è improbabile che riusciremmo a presentare un’immagine più viva, più variegata e più medievale del poeta e del pensatore. Nonostante dunque Dante appartenga all’ epoca medievale, mondo ormai lontano, rimane vivo e vitale, riferimento indispensabile per generazioni e generazioni di scrittori e intellettuali. Naturalmente se il lettore del tempo di Dante era profondamente sensibile alla concezione religiosa della realtà, il lettore moderno dovrà invece confrontarla con la propria sensibilità e con la propria cultura. Rapportarsi con il diverso, nel tempo e nello spazio, è un’esperienza fondamentale, che educa alla tolleranza e consente di comprendere civiltà, culture, idee antiche e lontane. Il testo di Anna Griva che mi accingo a tradurre, è tratto da Creature demoniache, pubblicato da Melani edizioni, Atene 2020, incentrato su vari personaggi storici, nei quali l’autrice vede una natura demoniaca. Nonostante il titolo, La morte di Dante Alighieri in esilio, il testo prende avvio dalla storia personale, dall’esperienza di traversie esistenziali e dal desiderio di Dante, da un lato, di riconquistare un adeguato posto nella vita cittadina senza compromessi e dall’altro, di compiere un percorso di elevazione alla conoscenza della verità, animato da un’ansia di salvezza “presagiva solo muta ansia. In questo contesto assume valore centrale il tema del silenzio e nel fondo, fortemente sfumato, s’intravede la figura del poeta in un atteggiamento di meditazione e, in lontananza Firenze, teatro dell’amore del poeta per Beatrice. Il risultato è una profonda riflessione sul valore della vita, dell’amore e della morte, analoga a quella presente nell’ opera dantesca. Grazie al potere della poesia, il particolare si fa universale, la voce del singolo si unisce al coro dell’umanità tutta e il cammino personale di Dante diventa il percorso della collettività.

https://www.culturebook.gr/kritiki-parousiasi/daimonioi-tis-annas-griva-parousiasi-apo-tin-aggeliki-pechlivani.html

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Ο θάνατος του Dante Alighieri στην εξορία

Δεν άκουγε πια φωνές

ούτε και βήματα

η αγορά έξω απ΄την πόρτα του

σαν να βουβάθηκε

στ’ αυτιά του μόνο έφτανε

το μέγα κύμα

που απλωνόταν και τον κρήμνιζε

στον σκοτεινό βυθό

τότε ήταν που είδε

μια δίνη πολύχρωμη

τη Φλωρεντία με ανοιξιάτικα χρώματα

παπαρούνες και μέλισσες

να συλλέγουν γύρη

κι εκείνος παιδί

ξαπλωμένος στη χλόη

χωρίς υπόνοια της κόλασης

χωρίς οσμή της Βεατρίκης

μονάχα με μια άγραφη

βουβή ανησυχία

για όσα περνούν μέσα απ΄την ύλη

και μένουν πάντα άπιαστα.

Traduzione di Maria Allo

1321

La morte di Dante Alighieri in esilio

Al mercato non si sentivano più voci

o passi

fuori dalla sua porta

come se bisbigliasse

nelle sue orecchie solo

la grande onda

che si espandeva e lo precipitava

nel fondale scuro

Fu allora che vide

un vortice multicolore

a Firenze con i colori della

primavera

Papaveri e api

che pungevano il polline

e quel bambino

sdraiato sull’erba

senza la visione dell’inferno

senza il profumo di Beatrice

presagiva solo muta ansia

non scritta per ciò che attraversa

la materia

ma rimane sempre sfuggente.

© Maria Allo

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Italo Calvino: Un intellettuale “neoilluminista” tra i libri del mondo di Maria Allo

26 domenica Lug 2020

Posted by maria allo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA

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Italo Calvino, Maria Allo

Arduo risulta definire uno scrittore anomalo e proteiforme come Calvino, sempre attento a tutte le idee, i dibattiti, le lotte del nostro tempo, avido di nuove sperimentazioni. Neoilluminista, diffida dei miti novecenteschi, (irrazionalismo, anticonformismo, avanguardismo), concludendo a un suo antimodernismo, sempre geloso di una propria irriducibile identità e diversità, che ne fa forse, come sostiene Berardinelli, precursore del Postmoderno.

“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento”

Del lungo lavoro di Italo Calvino alla Einaudi sono testimonianza interessante le lettere inviate a critici e scrittori, raccolte postume ne I libri degli altri (1991). “Quando mi trovo in un ambiente in cui posso illudermi d’essere invisibile, io mi trovo molto bene”. Una volta gli scrittori veramente popolari nessuno sapeva chi erano, di persona, erano solo un nome sulla copertina, e questo dava loro un fascino straordinario. “Io credo che la condizione ideale dello scrittore sia vicina all’anonimato; è allora che la massima autorità dello scrittore si sviluppa, quando lo scrittore non ha un volto, una presenza, ma il mondo che egli rappresenta, occupa tutto il quadro. Come Shakespeare”. Leggere i suoi libri è come seguire le tracce di qualcuno che cerca di capire il mondo senza mai essere soddisfatto delle risposte che trova e continua instancabilmente ad allargare il proprio orizzonte di osservazione.

“… questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere”.

In “Il visconte dimezzato – Cap. VII -”, di Italo Calvino

Il visconte dimezzato esce nel 1952 nella collana di narrativa “I gettoni”, che Vittorini dirige per l’Einaudi di Torino e il romanzo, anche per la consacrazione ufficiale del critico Emilio Cecchi, incontra un notevole successo. Il romanzo ha inaugurato un modo fiabesco e simbolico di rappresentare la realtà, molto lontano dal modello ufficiale del realismo e rientrerà insieme al Barone Rampante e al Cavaliere inesistente in una trilogia intitolata i nostri antenati. Il libro è accompagnato da una postfazione che illustra il senso e l’importanza che questi tre testi rivestono nel cammino creativo dell’autore. Caduti gli ideali della Resistenza, ormai venuta meno la spinta morale del primo dopoguerra, lo scrittore si trova a fronteggiare una realtà nuova, il più delle volte difficile e ostile: nuovi rapporti tra le classi sociali, nuove prospettive aperte dallo sviluppo urbano e industriale, che il canone neorealista si dimostra inadeguato a rappresentare. Al grigiore fiacco e placidamente rassegnato di questa nuova realtà, Calvino decide di opporre il vigore immaginifico di storie fantastiche, che però non rappresentano una fuga, ma una chiave di lettura del mondo, un metodo per aderire obliquamente alla storia, salvandone quel tanto di vitalità, purezza e idealismo che ancora è rimasto. L’intento di Calvino è dunque quello di allontanarsi dalla realtà per distinguerne meglio le linee essenziali, la direzione profonda. Il genere fiabesco è utilizzato dallo scrittore in chiave etica, poiché il suo fine, pur con la leggerezza di un racconto inventato, è scoprire e proporre nuovi modi di partecipazione al processo storico in atto. I protagonisti dei romanzi sono nostri antenati perché nella commistione tra storia e fantasia, essi hanno a che fare col nostro presente: le loro avventure mostrano allegoricamente la complessità del rapporto tra realtà e ragione, tra i numerosi aspetti del reale e il tentativo della ragione di afferrarli. In loro possiamo riconoscere la stessa ricerca assillante, le stesse domande, gli stessi dubbi che abitano la vita dell’uomo moderno; le loro storie, inverosimili ma così piene di verità, formano come dice Calvino, “un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso”.

Il visconte dimezzato allude a un’allegoria della scissione umana e alla lacerazione dell’uomo moderno,” dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso” secondo le parole di Calvino stesso e alla sua difficile ricerca di un’identità e di una “nuova completezza”. Racconta di Medardo di Terralba che, durante un combattimento, (siamo nel Seicento in una guerra tra russi e turchi) viene diviso da un colpo di cannone in due metà autonome una onesta e virtuosa (il Buono), l’altra assolutamente malvagia (il Gramo) e solo grazie a un’operazione miracolosa riuscirà a ricostituire quell’unità indissolubile di bene e male in cui consiste l’equilibrio dell’uomo.  Il Visconte dimezzato si riallaccia al topos letterario del doppio: dallo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert (1886) Louis Stevenson, al ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde, al Fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello. Tra le varie fonti di ispirazione per questo racconto c’è anche con ogni probabilità il decimo capitolo del capolavoro di Miguel Cervantes (1547-1616), in cui il protagonista illustra al suo fedele scudiero Sancho Panza le proprietà miracolose di un medicamento che intende preparare: “Che ampolla e che balsamo è questo? disse Sancio Pancia. — È un balsamo, replicò don Chisciotte, la cui ricetta ho a memoria; ed è tale che l’uomo non deve più temere che alcuna ferita lo conduce a morire, per grande che sia; perciò quando io n’abbia, e te lo dia, se tu mi vedessi in qualche battagliata tagliato a mezzo, come suole spesso avvenire, altro non hai da fare che prendere quella parte del corpo che fosse caduta per terra, e con molta diligenza, prima che il sangue si rapprenda, congiungerla all’altra rimasta sopra la sella; avvertendo però di commetterle ugualmente e al loro giusto punto: ciò fatto mi vedrai rimesso perfettamente in salute.”

Cifra peculiare di Calvino nel corso di tutta l’opera (se si eccettua l’ultimissima produzione e Palomar in particolare) è l’umorismo. Il ricorso a questo registro del pensiero e del linguaggio è naturale per lo scrittore, se è vero che, come sosteneva Pirandello, per umorismo s’intende il “sentimento del contrario”, ovvero l’immedesimazione amara e divertita nell’assurdo di una situazione o di un carattere. Questo assurdo che, istintivamente, provoca il riso, ma poi riflettendoci rivela il suo lato malinconico, nasce dalla scomposizione del reale, ovvero dall’accentuazione deformata del dettaglio. Per la sua natura strutturalistico-semiotica, l’opera di Calvino tende a fare proprio questo: scomporre il reale e ricomporlo secondo un gioco combinatorio che finisce per essere, inevitabilmente, umoristico. Lo stile e il tono de I nostri antenati si ispirano al modello del conte philosophique settecentesco del prediletto Voltaire e rivisita la tradizione epico-cavalleresca (sulle orme dell’amato Ariosto) per costruire una limpida, affascinante vicenda di avventure e di peripezie, una brillante fiaba in sé avvincente, compiuta e di grande forza comica dove alla narrazione piacevolmente avvincente e spesso ironica, si accompagna un evidente intento morale. In particolare, affiorano problematici temi attuali della parzialità e dell’ambiguità di ogni scelta e delle antitesi di bene e di male, reale e ideale, resi incandescenti dai contrasti tra Est e Ovest nel clima di guerra fredda. Se nella convivenza di modelli, di moventi e di intuizioni molteplici è la singolarità dello scrittore, nella consapevolezza critica della “sospensione di senso” sempre proiettata in avanti sta l’attualità fecondissima della sua ricerca.

 “Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra”: così Calvino scriveva nel 1964 a una studiosa che gli chiedeva informazioni sulla sua vita. Perciò i documenti più adatti a far luce sui tratti fondamentali della sua personalità sono le prese di posizione sul significato della letteratura e sul mestiere dello scrittore. Un po’ come uno dei tanti personaggi dei suoi racconti, Calvino presenta una fisionomia complessa, sospesa tra passato e futuro, talvolta indecifrabile, tuttavia profondamente affascinante perché imprevedibile e mutevole. Cittadino del mondo da Cuba a Sanremo, da Torino a Roma, da New York a Parigi, interessato a campi del sapere non proprio precipui della letteratura, almeno nella recente tradizione italiana, Calvino può essere definito un intellettuale neoilluminista, almeno per il gusto allo studio dei fenomeni della natura, in questo in sintonia con la personale tradizione scientifica della famiglia e per la sua prosa pulita e secca senza ripiegamenti introspettivi, per la precisione razionale del suo raccontare, anche quando il riferimento è il mondo della fantasia, campo indagato con felice assiduità perché unisce la  leggerezza a un impegno etico mai esibito, se non nella scelta delle parole, delle frasi. A ciò si aggiungano le riflessioni semiologiche sul fare letteratura, stimolate dalle frequentazioni parigine di studiosi e scrittori come Barthes e Queneau. Quando negli anni Settanta comincia a svilupparsi un”esasperato narcisismo” (Ferroni) tra gli intellettuali, Calvino fa valere la sua naturale riservatezza, sia nella vita privata sia nelle opzioni culturali. Noi abbiamo soprattutto amato il Calvino del libero narrare e inventare: ma sappiamo che non può esistere senza l’altro che trasforma la fantasia in curiosità e veste questa di panni intellettuali. Questo connubio costituisce il punto più alto e letterariamente più ambito della sua creazione, la cui tersa e misurata bellezza, sia nel raccontare che nell’indagare, non teme confronti. Come Palomar, ultima opera di Calvino (1983), è lo scrittore che, provate tutte le esperienze di scrittura, tutti i linguaggi possibili, deve tendere l’orecchio“ là dove le parole tacciono”; ma è anche l’uomo moderno che conosce tutti i meccanismi di rapporto con l’universo, e che, siccome “l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi “, egli deve cercare continuamente una strada, trovare una via per essere in pace con se stesso.

Maria Allo

Note

Italo Calvino, Il visconte dimezzato, Cap. VII, pag. 128 Mondadori

Italo Calvino, Palomar: “L’universo come specchio” Einaudi

  1. Ferroni, Italo Calvino, in Storia della letteratura italiana, vol. IV (Il Novecento),

Einaudi, Torino 1991.

La ricerca letteraria-Il tempo storico e le forme, Novecento 5, a cura di Parenti, Vegezzi e Viola

Romanzi e racconti di Italo Calvino nei Meridiani, pagg. 7 – 29, Mondadori, Milano 1991,

a cura di C. Milanini

Monografia

  1. Bonura, “Invito alla lettura di Italo Calvino”, Mursia, Milano 1972 (nuova edizione aggiornata, ivi 1985).

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STEFANO D’ARRIGO: CREATIVITÀ LINGUISTICA IN HORCYNUS ORCA

15 lunedì Gen 2018

Posted by maria allo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Filologia, LETTERATURA E POESIA, PERSONAGGI, SINE LIMINE, Uomini eccellenti

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scrittori siciliani

 

Horcynus-Orca-840x420

Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme in provincia di Messina, è  venuto a mancare nel ’92. La storia personale di Stefano D’Arrigo è strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca, romanzo di quasi 1300 pagine di sperimentalismi linguistici,  una delle pubblicazioni più importanti e, allo stesso tempo, meno lette dell’intero Novecento italiano. Un lavoro che ha impegnato l’autore per quasi vent’anni in continue riscritture e aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, regionalismi segnici mono rematici e polirematici, rimandi all’epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del ‘900. Un impegno costante ,dicevo,  che ha contribuito a trasformare I fatti della fera (questo il titolo originario) in un mitico ed epico poema della metamorfosi. Horcynus Orca è una lettura che manifesta l’immensa ricchezza tematica con cui Stefano D’Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l’Odissea e l’Eneide, l’Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano o a Moby Dick, sono tutti elementi che affascinano e costringono il lettore ad addentrarsi nella grandiosa costruzione su cui D’Arrigo ha trascorso una vita .” Si tratta di un romanzo sfrontato che mira niente di meno che a gettare un ponte tra Storia e Mito (ponte bombardato, come si vedrà), la cui mole, densità e qualità finiscono per intimidire, per tenere un po’ ai margini il lettore comune” dice  Paolo Mantioni. L’espressione “Horcynus Orca” ci riporta però anche al mondo latino, in cui il termine “orca”, fra altre cose, indica proprio l’orca assassina, come si può vedere nel celebre passo di Plinio il Vecchio che suona quasi darrighiano ante litteram («…cuius imago nulla repraesentatione exprimi potest alia quam carnis inmensae dentibus truculentae», Nat. Hist., IX, 12), e rimanda naturalmente a “Orcus”, che è il nome del regno dei morti, del suo custode e, in senso figurato, della morte stessa. La pubblicazione del romanzo nel 1975, tuttavia, non ha interrotto il labor limae di D’Arrigo, il quale è tornato sul testo fino alla morte con ulteriori modifiche, seppur lievi, tant’è vero che la riedizione del 2003 reca nell’aletta di copertina la dicitura nuova edizione con le ultime inedite correzioni d’autore.

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Stefano D’Arrigo

Stefano D’Arrigo (Alì Marina, Messina, 1919 – Roma, 1992), laureatosi in Lettere a Messina con una tesi su Hölderlin, svolse servizio come sottotenente a Palermo durante la seconda Guerra Mondiale fino allo sbarco alleato. Dopo un’altra parentesi a Messina, si stabilì a Roma nel 1946, dove si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte, frequentando pittori e mercanti d’arte. Intorno alla metà degli anni ’50, D’Arrigo passa all’attività letteraria scrivendo un libro di versi (Codice siciliano) e cimentandosi con un’opera di narrativa di ampio respiro, La testa del delfino, scritta di getto in quindici mesi tra il 1956 e il 1957. Quest’opera, ancora inedita, è il primo abbozzo di quel romanzo che poi, dopo infinite riscritture e ampliamenti protrattosi per quasi vent’anni, diventerà Horcynus Orca. La prima questione da affrontare riguardo all’Orca e al suo significato nel romanzo concerne la particolare denominazione scelta da Stefano D’Arrigo nel titolo, perché il grande mistero che circonda l’animale comincia proprio da lì. Se è abbastanza noto che il nome zoologico dell’Orca è “Orcinus Orca” (o “Orcynus Orca”), meno noto è il fatto che l’espressione “Horcynus Orca” non ricorre mai nel romanzo (per essere più precisi non ricorrono mai per esteso neppure le espressioni “Orcinus Orca” e “Orcynus Orca”). Per i “pellisquadre” di Cariddi (vale a dire i pescatori, cosiddetti perché hanno la pelle ruvida come quella dello “squadro”, cioè lo squalo, che a sua volta prende il nome da “squadrare”, ovvero lisciare e pareggiare il legno ruvido con la cartavetrata: «pelli, insomma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri», p. 254), l’Orca è il “ferone”, cioè la ‘grossa fera’, perché con la fera essa condivide una caratteristica fisica ben precisa (oltre naturalmente a quella ‘comportamentale’ della ferocia): «la coda piatta invece che di taglio» (p. 618). Quando però il navigato signor Cama, basandosi sul suo inseparabile manuale di cetologia illustrata, spiega loro che l’animale arrivato nello “scill’e cariddi” è un’Orca, dice via via che essa è l’”orcinusa”, l’”orca orcinusa”, l’”orcynus” (quest’ultima espressione ricorre solo una volta, mentre le altre verranno poi ripetute spesso), per far capire che già nel suo nome (omen nomen…) è scritto il suo destino di animale assassino, creato da Dio solo per ammazzare gli altri e impersonare così la stessa Morte (cfr. pp. 657). Per il resto, l’Orca, quando non è detta semplicemente “orcinusa”, è connotata nei modi più svariati nell’inesauribile suppurazione linguistico-morfologica del romanzo, ogni volta per sottolinearne una sfumatura diversa, ma comunque legata alla ferocia, alla morte e alla putrefazione: oltre ai frequentissimi “orcaferone” (da orca + ferone) e “orcagna” (da orca + carogna), troviamo anche, occasionalmente, “porca” (cfr. p. 801), “orcarogna” (da orca + carogna + rogna: cfr. p. 801), “orcassa” (da orca + carcassa: cfr. p. 955), “orcassale” (da orca + carcassa + sale: cfr. 967), “orcarca”. Ma allora, perché quell’H nella denominazione dell’animale che compare nel titolo? Secondo Walter Pedullà (cfr. la sua “Introduzione” a I fatti della fera), uno dei massimi esperti su D’Arrigo, poiché quell’H fa sì che leggendo solo le iniziali (HO) si ha quasi la formula chimica dell’acqua, D’Arrigo ha voluto segnalare un’identificazione dell’Orca col mare sulla base del binomio vita/morte. Questa ipotesi è ampiamente giustificata dal testo, perché D’Arrigo insiste spesso non solo sull’Orca come fonte di vita e di morte (pur essendo per definizione la Morte, essa è anche donatrice di cibo vitale per gli affamati pescatori, sia perché da viva porta loro la “cicirella”, cioè i banchi di anguille appena nate, sollevandola dal fondo del mare, sia perché da morta offre tutta se stessa come cibo e materia prima per la fabbricazione di oggetti d’uso quotidiano, come pettini, posate, scarpe, ecc.), ma anche sul mare come luogo in cui i pescatori svolgono il loro eterno ciclo di vita (la pesca, il lavoro) e di morte (la carestia, la ‘morte per acqua’ come nella Terra desolata di Eliot, ecc.). In un passo-chiave, l’”animalone” è proprio definito «un essere dell’altro mondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due» (p. 668), ed è, questa, una caratterizzazione che si può benissimo adattare al mare, inteso come elemento originario, principio e fine di tutte le cose, sin dall’alba del pensiero occidentale. Per non dire che nella serie di visioni apocalittiche che ha sullo sperone, ‘Ndrja prima vede lo Stretto ridotto a un deserto di sale, dal quale i pescatori tirano a riva l’”orcassale” (cioè la carcassa di sale dell’Orca), e poi vede l’Orca stessa ricostituirsi, riprendere l’antico aspetto, agitarsi furiosamente, rigenerare da sé il mare liquefacendosi dalla coda e infine fondersi in esso, tornando ad essere «una goccia d’acqua nel mare», come se «il mare rivivesse dalla morte di quell’essere orcinuso, rivivesse, cioè a dire, dalla morte della Morte». Altro discorso va fatto per la scelta della forma con la y nella denominazione latina dell’Orca, che, come visto, non solo è attestata nell’uso, ma ricorre una volta anche nel corpo del romanzo. Rispetto alla spiegazione dell’H, quella della y è molto più congetturale, proprio perché non è un’invenzione di D’Arrigo. Pedullà propone una spiegazione molto complessa e affascinante. Intanto la y è il simbolo matematico di un’incognita, e poiché cade al centro della parola “orcynus”, sembra alludere alla piaga dell’animale (la sua sezione trasversale avrebbe proprio quella forma), la cui origine è e resta misteriosa in tutto il romanzo. In biologia essa è anche il simbolo del cromosoma maschile, e ciò rimanda all’origine della vita, intimamente connessa con la malattia e la morte, dei cui segreti l’Orca è depositaria. Infine, la y è una lettera greca (Y) passata al latino, e dallo stesso padre fondatore della cultura greca proviene l’idea mitopoietica, poi ereditata e consolidata dai poeti latini, di popolare di creature di inaudita ferocia la Sicilia e il mare dello Stretto (Scilla e Cariddi, il Ciclope, ecc.).L’Orca, dunque, in quanto ‘Orco’ e ‘Leviatano’ nello stesso tempo (da un pescatore è paragonata a un drago favoloso che chiederà tributi di pesce spada che finiranno per ridurre alla fame la popolazione: cfr. p. 657), si presenta come il luogo d’incontro di due tradizioni generalmente alternative nella cultura europea, ovvero quella classica, omerica, greco-romana, e quella ebraico-cristiana, assumendo così l’aspetto di un ‘segno’ simbolico mostruosamente (è il caso di dirlo) significante. Sui legami di Horcynus Orca con l’Odissea, col suo eroe, con le sue creature femminili e coi suoi mostri, non è il caso di dilungarsi troppo, perché sono di una evidenza palmare e si ha avuto modo di esplicitarli, sebbene in parte (‘Ndrja/Ulisse; Caitanello/Laerte; Cata/Nausicaa; Marosa/Penelope; Ciccina Circè/Circe e Calipso; femminote/sirene; e poi Scilla e Cariddi, al punto che D’Arrigo chiama il mare dello Stretto «lo scill’e cariddi» sin dall’incipit del romanzo, ecc.). Basti qui sottolineare soltanto che la rivisitazione del mito in Horcynus Orca è però fortemente critica e demistificante, e in tal senso, a un livello più profondo, ‘Ndrja è più lontano da Ulisse di quanto non lo sia Leopold Bloom: mentre infatti l’eroe omerico, dopo un’assenza di venti anni, torna dalla guerra da vincitore e persino da maggiore artefice della vittoria (si pensi al Cavallo di Troia), trova la moglie che è stata ad aspettarlo pazientemente e riporta l’ordine nel suo piccolo regno facendo strage delle “fere” che infestano la sua casa, il povero “nocchiero” della Marina Italiana torna dopo soli  due anni da una guerra persa dopo essere stato mandato allo sbando dal suo comandante auto affondatosi, trova la sua promessa “zita” Marosa astiosa e sessualmente affamata come fosse sua moglie da anni (e invece è solo una “muccusa”, appena sbocciata durante la sua assenza) e, nel tentativo di restituire al suo mondo infestato da un “ferone” i valori perduti di dignità e lavoro onesto, muore appena quattro giorni dopo il suo arrivo mentre si sta allenando per una competizione sportiva, colpito in fronte da una pallottola sparata quasi per caso dalla sentinella di una portaerei un po’ troppo nervosa. Ma è Virgilio che, in occasione della discesa agli inferi di Enea (Eneide, VI, 273-281), descrive le fauci dell’Orco in un passo che contiene in nuce, personificate (Luctus, ultrices Curae,  Morbi, tristis Senectus, Metus, malesuada Fames, turpis Egestas, Letum, Labos, Sopor, mala mentis Gaudia, mortiferum Bellum, Discordia demens), praticamente tutte le nefaste conseguenze che comporta per i cariddoti la presenza dell’Orca nel loro mare (terrore, sterilità, fame, inattività soporifera per lo spirito, discordia, sconcia esaltazione per lo sciacallaggio, ecc.). Da questo punto di vista, Horcynus Orca è il romanzo della disperazione, il romanzo di una catastrofe esistenziale, storica, antropologica e cosmica senza rimedio, in cui il mondo è abbandonato da tutte le divinità celesti ed è lasciato in balia solo di quelle ctonie e dei loro emissari più feroci: i dittatori che scatenano le guerre, le fere e, soprattutto, a “riesumo” simbolico di ogni forza del male, l’Orca/Orco. Tutto muore in esso, inghiottito dallo sbadiglio delle fauci dell’Orco: muore la forma di vita secolare dei cariddoti, il quali, se non scelgono il suicidio (come ha fatto Ferdinando Currò, l’eroico salvatore di donne e bambini nel corso del disastroso “terremaremoto” del 1908), possono sopravvivere solo adeguandosi a scendere a patti con i bassifondi del nuovo ordine del “dollaro” e con i suoi metodi cinici e utilitaristici, i cui profeti al livello più basso sono figure equivoche e parassitarie come lo scagnozzo e il Maltese; muore ‘Ndrja, nel tentativo donchisciottesco di arrestare la storia nell’attimo i cui essa stritola con somma indifferenza i più umili; e infine, a suggellare il Trionfo della Morte sulla sua stessa manifestazione fisica più emblematica, muore l’Orca, dopo aver dato l’illusione beffarda di essere una divinità benigna apportatrice di “manna”, quando invece, come ripete Luigi Orioles, la verità bruta è che l’apparizione in superficie della “cicirella” è un effetto casuale degli inabissamenti del mostro marino, e se mai essa è segno di qualcosa, è segno solo dell’inutile tentativo di quest’ultimo di andare a distruggere la vita stessa alla radice (cfr. p. 663 e p. 667). Che il grande romanzo di Melville (molto amato da Stefano D’Arrigo) sia echeggiato in Horcynus Orca è un fatto assolutamente ovvio (si pensi solo al fatto che il signor Cama ha un manuale di cetologia illustrata che sembra proprio quello ipotizzato da Melville nel famoso capitolo 32 di Moby Dick), ma qui ci interessa soprattutto vedere come il contatto con esso conduca l’Orca darrighiana verso il mostro biblico. Le varie credenze sull’Orca come animale unico, onnipresente, immortale e contiguo alla Morte per destino intrinseco, sulle quali D’Arrigo insiste moltissimo, si ritrovano tutte quasi alla lettera nel giro dei celebri capitoli 41 e 42 di Moby Dick, intitolati rispettivamente Moby Dick e La bianchezza della Balena. Nel primo Melville riferisce due “superstizioni” da balenieri che riguardano il carattere soprannaturale della balena, ovvero la sua ubiquità nello spazio e la sua immortalità (che poi è l’”ubiquità nel tempo”). Nel secondo fa esibire Ismaele in una dottissima dissertazione storico-antropologica sul rapporto che nelle varie culture umane sussiste tra il colore bianco, il terrore e la Morte. Abbiamo qui elementi sufficienti per ricondurre l’Orca di D’Arrigo, tramite Melville, entro l’alveo della cultura ebraico-cristiana, perché un animale unico, ubiquo e immortale può essere stato creato solo da Dio e direttamente, e questo il signor Cama non si stanca mai di ripeterlo ai pelli squadre. Ma queste caratteristiche della sua balena, Melville, più esplicitamente ancora di D’Arrigo, le riconduceva direttamente al mitico mostro biblico, come si vede già a partire dal fatto che l’ampio catalogo di citazioni cetologiche posto a vestibolo del romanzo comincia con ben cinque passi biblici: Genesi, I, 21; Giobbe, XLI, 24; Giona, I, 17; Salmi, CIV, 26 e Isaia, XXVII, 1, tre dei quali, cioè il secondo, il quarto e il quinto, menzionano esplicitamente il leviatano. Tutto ciò, com’è evidente, apre la strada a un’interpretazione in chiave messianica, sacrificale ed escatologica dell’intero romanzo, che lo stesso D’Arrigo suggerisce a più riprese anche in contesti che non riguardano direttamente l’identificazione dell’Orca con il leviatano ebraico. Una lettura del genere, comunque, deve passare attraverso un parallelismo tra ‘Ndrja, eroe-messia sacrificale e redentore, e l’Orca, mostro redento e pertanto destinato al pasto totemico con cui la comunità dei ‘giusti’ celebra la ritrovata comunione con Dio. E su questo parallelismo il testo lascia pochi dubbi. Inoltre, nel suo addio alla “zita” Marosa, egli offre alla ragazza, che sta ricamando il suo cuore in nero su uno sfondo bianco, il petto nudo per farselo ricamare sulla pelle sopra quello vero (in una posa «che fatalmente ricordava … la posa dell’Ecce Homo», p. 1023), e quando la stringe al petto le sue lacrime gli scendono sul petto «come gli lacrimasse il costato a lui» (p. 1024). Con questo D’Arrigo crea un rapporto diretto con l’Orca, la quale, quando è trainata verso la riva legata per i denti, mostra agli sbigottiti pellisquadre il suo ultimo mistero: una macchia bianca a forma di cuore sul petto nero, «come un gigantesco neo di desio, una gigantesca insoddisfatta voglia d’orca incinta, stampata sulla pelle del figlio» (p. 1015). Infine, come l’Orca, che, oltre a donare ai pescatori la cicirella, vitale per la loro alimentazione fino a quel momento quasi esclusivamente a base di fave secche (è il cibo per cavalli abbandonato dai fascisti in fuga dalla Sicilia dopo lo sbarco degli alleati), finisce per offrire loro in pasto tutto il suo corpo, ‘Ndrja dà tutto se stesso e poi anche la sua stessa vita per guadagnare quelle mille lire utili all’acquisto della barca, arca di salvezza per l’economia della comunità, dopo essersi prodigato per ottenere, con l’intercessione del Maltese, che gli inglesi arenassero l’animale morto, e il romanzo si chiude con lui morto nella sua barca-bara portata come un’arca dell’alleanza ai cariddoti, che nel frattempo stanno consumando il banchetto dei ‘giusti’ attorno al corpo dell’Orca.

Maria Allo

Fonti

Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, introduzione di Giuseppe Pontiggia, Mondadori, 1982 (1975)

Carmen Micalizzi, “L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea – A.A. 2002-2003

http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma-puntate/mare-nostrum-stretto-di-messina/39232/default.aspx

http://www.gazzettadelsud.it/news/spettacoli—cultura/17492/Quei-mostri-letterari–di-Stefano-D-Arrigo-.html

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Feriti di realtà e realtà cercando ne “I giocatori invisibili”di Irene Giuffrida

05 domenica Mar 2017

Posted by maria allo in I meandri della psiche, Recensioni

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I giocatori invisibili, Irene Giuffrida, Maria Allo, Narrativa

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I giocatori invisibili (edizioni Giovane Holden 2016, 14 euro) è l’opera prima di Irene  Giuffrida, eppure  sorprende sia per la situazione esistenziale espressa attraverso una singolare tecnica narrativa, giallo nel giallo filosofico, sia per la ricchezza di particolari. L’autrice dà conto non solo dei pensieri del protagonista,  ma anche di tutto ciò che entra dall’esterno nella sua prospettiva, impegnata a confrontarsi col tempo: Guido, il protagonista, vive tra passato e futuro, il commissario Saverio Strano risolverà l’enigma indagando sui ” luoghi oscuri “ della coscienza e su Morgana, la follia latente di Guido. Ecco il tempo, il  tempo delle vicende che i personaggi hanno vissuto o stanno vivendo è quello della memoria e della coscienza.  Dal passato di Guido emergono fantasmi mai sopiti  che assillano il presente e il futuro  e  determinano, pennellando di «ordinaria follia»,  i suoi tempi  perché, come dice l’autrice, il suo tempo è spezzato, ne ha almeno tre e dentro ci sono le nostre strade e i nostri viaggi, i nostri pensieri e le nostre intuizioni per non perderci  e magari paesi dove poterci fermare o  continuare a perderci, dovendo essere “altro”  o “altri “ da sé, in quanto  pathein  nasce da un conflitto tra dentro e fuori, tra io e non- io, un fluttuare tra superficie e profondità, perché tutto è interno, ma può  trasformarsi  in un atto creativo e tradursi in opera, in questo spazio fluido  che è L’Arte.  

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DINO CAMPANA, VISIONARIO ALLA RIMBAUD

03 venerdì Feb 2017

Posted by maria allo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, Fotografia, I meandri della psiche, LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Dino Campana

La poesia di Dino Campana costituisce un unicum nel panorama letterario del primo Novecento. Anche se al fondo della psicologia e dell’arte c’è un sentimento lacerante di esclusione e di disarmonia vicino a molti altri poeti della sua generazione, nel disadattamento e nello sradicamento di Campana viene perseguito con insistenza un ideale di reintegrazione dell’io nell’armonia profonda delle cose.

1_dino

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Tre Aporie

20 venerdì Gen 2017

Posted by maria allo in Poesie

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Maria Allo, poesia

n.1 ἀπορία

Inchiodato al cielo lo scirocco geme, vortica alla marina , invade i cortili, recide l’aria, corre nei vicoli socchiuso tra le auto ferme e non c’è fragore di vetri infranti nel silenzio del pomeriggio invernale colmo di respiro là dove nasce e si spegne .Ma il vento nel silenzio penetra gli alberi, ondula sulle abrasioni dei muri ,tra gli intonaci rossi delle case mentre il fragore del treno stride verso il nulla anche se la terra a poco a poco fa vibrare i teneri trifogli. E intanto la pioggia infuria e assale un coro di voci antiche tra gli sterpi nella dura luce del restare acuminato e del nostro umano passare nel ritmo della risacca. Ora le sillabe crollano sull’acqua dei tombini crepitando sopra le verdi cime i cardi, i nidi e i rami spogli. Eppure sui monti di roccia dura fiorisce il mondo.

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Vergine dei sussurri

24 sabato Set 2016

Posted by maria allo in LETTERATURA E POESIA, Poesie, SINE LIMINE

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Maria Allo, poesia, Vergine dei sussurri

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ph. Loredana Semantica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lento nel passo e vuoto nel tuo nome
Solo il silenzio
Sbaraglia la rugiada del mattino
Il vento soffia e contro il vento
La lotta si fa dura ai bordi in verticale
Sopra ogni ostacolo
In questo luogo senza luogo
Ecco
Vergine dei sussurri
Nel silenzio di carne nuda
Resisti al vento
Dovunque in un luogo qualsiasi
Vigile mi sorprendi con un grido
Imploso sulla nuca
E la diffidenza di un’assenza
Prima di andare via

© Maria Allo

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“Sono momenti belli: c’è silenzio” ELIO PAGLIARANI

05 giovedì Mag 2016

Posted by maria allo in Appunti letterari, ARTI VISIVE, Cinema, Consigli e percorsi di lettura, Eventi e segnalazioni, PERSONAGGI, Poesie, SPETTACOLO, Uomini eccellenti

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Cetta Petrollo Pagliarani, Dino Ignani, Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Maria Allo

Elio Pagliarani ( photo di Dino Ignani)

elio_pagliarani2

La ragazza Carla è un poemetto narrativo di Elio Pagliarani che apparve per la prima volta sulla rivista “Il Menabò” nel 1960.
E’ diviso in tre parti, ulteriormente suddivise al loro interno in sottoparti. Definito dall’autore “racconto in versi”, il testo ripercorre in modi prosastici e narrativi la vicenda di Carla Dondi, giovane stenodattilografa che trova impiego in una ditta milanese. Continua a leggere →

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… “chi è solo bello, resta bello all’occhio. Ma chi ha valore sarà bello sempre” …

04 lunedì Apr 2016

Posted by maria allo in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Anna Achmatova, Anna Maria Curci, Catullo, Didone, EMILY DICKINSON, Ingeborg Bachmann, Katia Chausheva, Mimnermo, Platone, Saffo, Silvia Plath, società, Ungaretti, Yava Suberg

Dai primi sguardi al corteggiamento, dallo scoppio della passione al suo soddisfacimento, dai dubbi della gelosia ai tormenti del tradimento o della separazione, l’amore rappresenta sicuramente un’esperienza universale. Ed è naturale che un fenomeno così complesso in cui convivono sentimenti misteriosi e spesso contraddittori e sconvolgenti sia al centro della poesia. Il tema dell’eros e le strane ambivalenze dei moti sentimentali sono ben presenti nella poesia antica: bisogna però cogliere le forti differenze di sensibilità che corrono, nella trattazione di tale motivo, tra gli scrittori moderni e gli antichi.
“E allora – dissi – che cosa sarebbe Amore? Un mortale?” “Per nulla” “Ma che cosa allora?” “Come i casi precedenti – rispose – qualcosa di intermedio tra il mortale e l’immortale” “Che cosa, dunque, Diotima?” “Un gran demone, Socrate, perché tutto ciò che è demonico è intermedio tra dio e mortale”. Continua a leggere →

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