“Per lei” di Giorgio Caproni

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“Per lei”, disegno digitale di Loredana Semantica

Il poeta Giorgio Caproni vuole donare dei versi alla madre Anna Picchi, che siano chiari, spontanei, eleganti, anche se privi di ricercatezze, verdi, elementari e soprattutto destinati a durare nel tempo.

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.

Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

Giorgio Caproni, “Il seme del piangere”, Garzanti, 1957.

Poesia sabbatica: “Seconda lettera a mia figlia”

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Seconda lettera a mia figlia

 

ti chiedo perdono, figlia mia,

per il salto mortale

da un altrove a qui

dove non c’è rete

a frenare la caduta

ma ancora non sapevo

che qui spasimo è la sosta,

 

e se pure t’amo

non mi dico fiero

per quel poco di mare

versato nel secchiello,

per il castello

che avrei voluto roccia

a cingere il tuo passo

e non era sasso

ma solo pastafrolla,

 

ti chiedo perdono, figlia mia,

allora non sapevo

che a te non padre e madre

sarebbe stato il mondo

ma strada insidia e bosco

battuto dai predoni,

girone di più inferni

per essere nata un giorno,

 

se fossi stato dio

avresti avuto sfoglio                                    

di un tempo sterminato

e non il brivido di adesso

ad ogni compleanno,

e non ci sarebbe stata serpe

non ci sarebbe stato frutto

a farmi vacillare

per un perdono in più,

 

in ultimo ti prego

di non guardarmi troppo,                                                        

ignora i miei capelli

e il bianco che mi assale,

la pelle che si appanna

nel conto alla rovescia

e vedimi sulle scale

dove anche oggi io

ho vinto la partita

che gioco con la morte,

 

 

perdonami per sempre, figlia mia,

per il salto mortale

da un altrove a qui

dove non c’è rete

a frenare la caduta,

perdonami per sempre

perché un tempo io

ancora non sapevo

che non appena nasci

è già entrare nel morire.

 

FRANCESCO PALMIERI 

(dalla raccolta “Fra improbabile cielo e terra certa“,Terra d’ulivi edizioni)

La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 1)

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ph. Loredana Semantica (vista dal treno sulla ferrovia litoranea nei pressi di Augusta)

Ilaria era la seconda delle tre sorelle Pastrone. Marta, la prima, s’era sposata appena ventenne, era andata in moglie a un giovane di belle speranze e molta ambizione, un propellente che lo rendeva arroccato a un rigido orgoglio di sé. Pessima dote da portare ai Pastrone, buona per un rigetto come un trapianto malriuscito, e per quanto Marta s’impegnasse a irrorare i rapporti di ciclosporina, cortisone e interferone, i rimedi avevano scarso successo. Agnese, la minore, era predestinata a raccogliere l’eredità dell’impresa familiare. Un negozio di abbigliamento messo su e ben avviato dai genitori, al punto d’essere la boutique più rinomata di Sanfilocco, in provincia di Gìtania. Agnese, dopo tanti anni di lavoro come dipendente, rilevò l’attività commerciale dalla madre, il padre era morto qualche anno prima. Lo fece obtorto collo, perché così era stato deciso, un destino già scritto verso il quale non ebbe volontà e ribellione sufficienti a opporsi, per quanto in cuor suo avrebbe preferito un’altra strada. Aveva frequentato la scuola d’arte e un lavoro creativo forse l’avrebbe attratta maggiormente, ma in certe faccende non pesano tanto i soldi e nemmeno il desiderio o l’entusiasmo, pressa il non vedere sbocchi o alternative migliori, l’essere consapevoli del rischio e dello spreco di demolire quanto già costruito in tanti anni di lavoro familiare: avviamento, credibilità, azienda, clienti, contatti, fornitori e benessere. Tutto ciò che significa impresa. Agnese diventò perciò imprenditrice per investitura familiare, senza particolare vocazione. Ilaria Pastrone, la seconda figlia, stava nel mezzo in ogni senso, non aveva talenti manifesti, piuttosto difetti, sapeva scrivere, ma non guidare, le piaceva mangiare bene, ma non cucinare, aveva un altro concetto di sé, ma difettava di determinazione. Aveva preferito studiare invece di lavorare nel negozio. Avere a che fare con una pluralità mutevole di clienti, percepiti come estranei, non l’attirava. Proprio   per la sua scarsa inclinazione al commercio i genitori l’avevano esclusa dalla gestione dell’attività. Alla fine degli anni settanta l’unico desiderio che Ilaria riuscì a focalizzare con una qualche convinzione, era di allontanarsi da casa, dai genitori che percepiva come opprimenti e da una storia d’amore naufragata. Davide, il suo ragazzo fin dai tempi del liceo, dopo sei anni di fidanzamento, l’aveva tradita e lasciata per la sua migliore amica. Una vicenda talmente banale da essere penosa. Ilaria infatti non ne parlava mai, sentendosi nel raccontarla allo stesso tempo stupida e patetica. La delusione subita la segnò a tal punto che Ilaria non si innamorò più, non si sposò e non ebbe figli. Fu come se l’aspetto sentimentale dell’esistenza fosse definitivamente morto, sepolto da quell’episodio devastante. Del resto innamorarsi veramente è un’alchimia che ha del magico, accade poche volte nella vita per circostanze che si combinano tra loro in modo speciale. L’incontro, il bisogno, l’attenzione concorrono e si intrecciano con le stimmate della fatalità e spesso la sensazione che si avverte è che non poteva essere altrimenti, quasi operasse una forza cosmica potente e misteriosa, non tanto munita di frecce e calzari alati, ma piuttosto serpeggiante di vibrazioni. Può succedere all’opposto che il tempo trascorra e nulla accada, nessun fremito o segnale. Tutto dorme o tace. C’è altro a cui pensare.

Era il 1978 quando Ilaria decise di partire per Milano. C’erano già lì due cari cugini Carlo e Luigi con le loro famiglie impiantati nel hinterland, uno a Cusano Milanino, l’altro a San Donato Milanese. Essi costituirono una buona base d’appoggio per cercare alloggio e per trovare un lavoro. Ilaria trovò entrambi, il primo in via Torre di Guardia, 14 al centro di Milano, in una casa di ringhiera e l’altro presso un’importante azienda di telecomunicazioni. Quest’ultimo divenne il lavoro di tutta una vita fino al suo pensionamento. Di case invece Ilaria ne cambiò diverse, fino a sistemarsi in ultimo in una bella casa nuova e propria appena fuori Milano. Ilaria tornava spesso al Sud, alla casa d’origine specie al principio della sua permanenza in Lombardia. Le mancavano la famiglia, il cielo, il sole, il mare. La famiglia perché a distanza i rapporti conflittuali coi genitori s’erano dissolti, mentre le sorelle, essendosi sposate, l’avevano resa zia e lei adorava i suoi nipoti. Ilaria attraversava tutta la penisola almeno una volta all’anno, in estate, per andarli a trovare e con loro ritrovare quel clima solare e limpido che caratterizzava la Sicilia, la sua isola, del tutto diverso dall’aria nebbiosa e carica di smog della città metropolitana. Quando partiva aveva la valigia piena di regali per i nipoti. Una valigia ben diversa da quella di cartone verde legata con la corda del suo primo viaggio da emigrante. Questa appena comprata era morbida e leggera in similpelle color tabacco di ottima qualità, colma di doni: abiti, giochi, immancabili pigiami e un bel costume arancione comprato per sé alla Rinascente da sfoggiare sulle spiagge della Sicilia orientale. Ilaria affrontava un viaggio lunghissimo che la portava dalla città lombarda a Sanfilocco e al ritorno viceversa. Era un viaggio estenuante, ma interessante che la rapportava alla molta e varia umanità dei compagni di viaggio, anche se la sua natura schiva non ne traeva particolare piacere. Per molti anni Ilaria affrontò il lungo viaggio in treno, ciò fino a quando l’aereo non diventò il mezzo consueto per tratte così lunghe. Il cambiamento avvenne col ribaltamento del rapporto di convenienza tra aereo e treno, ma questo non accadde subito, solo molti anni più tardi, dopo l’ingresso nel nuovo secolo. A quel punto però la spinta a viaggiare di Ilaria s’era attenuata, giunse poi a scomparire del tutto col passare del tempo e l’avanzare dell’età. Ormai a Sanfilocco, sorelle e nipoti avevano dimensionato la propria vita al progetto scelto, ai propri desideri, i genitori erano morti, si formavano nuove famiglie, nascevano i pronipoti. Restavano solo nei ricordi i lunghi viaggi compiuti col treno che negli anni settanta e dintorni erano una specie di atto eroico. I treni erano stipati di emigranti che tornavano alle loro case in vacanza. Chi in Sicilia, chi in Calabria o Campania e alle altre regioni meridionali. La misura dell’affollamento del treno era testimoniata dai viaggiatori che, ultimi arrivati, non avendo trovato posto, sostenevano il viaggio seduti su sedili retrattili a molla distribuiti lungo i corridoi, retrattili perché i sedili scattavano verso l’incavo della parete dove erano alloggiati non appena cessava il peso che li teneva aperti. Chi compiva il viaggio in questa modalità doveva alzarsi in piedi ogni volta che qualcuno intendeva passare nei corridoi per recarsi ai servizi o scendere alla stazione successiva. Il passeggero ciondolava scomodo e sonnacchioso per tutto il resto del tempo. Erano necessarie ventiquattr’ore per percorrere oltre millecinquecento chilometri di ferrovia. Alla fine del viaggio i wc erano impraticabili. I cestini traboccanti di carta igienica sporca e cartacce, bucce di banana e arance. Il pavimento era sudicio e infangato, nauseante l’olezzo dell’urina. (segue)

ph. Loredana Semantica (scorci di ferrovia nella tratta Catania Siracusa)

Videopoesia “Benvenuti nel primo mondo”

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Benvenuti nel primo mondo

Videopoesia

Testo: Gabriele Peritore

Musica: Rough Max Pieri

Video: Luigi Filippo Peritore (che attualmente frequenta la terza elementare) e Gabriele Peritore

Durata: 9 minuti

Testo: Un’analisi critica sul primo mondo, il mondo occidentale che siamo abituati a conoscere, strutturata sui toni del provocatorio, dell’assurdo, dell’ironia amara. Un racconto per immagini, scandite dalla voce, sul rapporto tra l’essenza umana e la realtà moderna in una metropoli, con tutti i suoi aspetti contraddittori, esposti in prima persona, vissuti sulla pelle. Con la potente sensazione di impossibilità nel cambiare le cose che non vanno, ma, al contempo, con la necessità impellente di invertire la rotta imposta. L’invito accorato e disperato a trovare una terza via.

Musica: Un vertiginoso giro di blues che sa perfettamente inserirsi tra le righe ed esaltare il testo, realizzato dal grande musicista Rough Max Pieri.

Video: Per quanto riguarda il filmato, si tratta di un vero e proprio video sperimentale, perché l’intenzione principale era coinvolgere dei bambini ma non volevo fare un video sui bambini, così ho pensato di realizzare il video di un bambino. Ho prestato il braccio adulto alla mente pensante di un bambino di sei anni. Mi sono fatto operatore di camera per veicolare la visione e la visuale, di mio figlio Luigi F., del suo modo di percepire e vivere la metropoli senza filtri e giudizi morali. In linea con la poesia, la protagonista è rimasta la città, vista, però, dall’altezza e con gli occhi di un bambino. Mi sono fatto guidare sui particolari che lo colpivano di più e poi ho cercato di dare un senso logico in sede di montaggio.

Gabriele Peritore

 

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA 

Farmacista, blogger, scrittore e poeta, Gabriele Peritore è nato ad Agrigento. Dopo anni importanti passati a Palermo, Foligno e Montefiascone, attualmente vive a Roma e collabora con la testata giornalistica online Magazzini Inesistenti, di cui è stato Caporedattore centrale dal 2016 al 2019.

È uno dei poeti protagonisti del documentario “Poeti” del regista Toni D’Angelo in concorso alla 66ima edizione del Festival del Cinema di Venezia 2009.

Nel 2010 una poesia tratta dalla silloge “A respiro trafitto” diretta dal video artista Quinto Ficari ha partecipato allo ZebraPoetry FilmFestival di Berlino, il più importante festival di videopoesia in Europa.

Ha curato, inoltre, la pubblicazione delle opere inedite di Luigi Filippo Peritore “Il fascino di un’isola e delle sue contraddizioni”, vincitore del premio “Libro dell’anno 2008, opera antologica” (Ca. Gi. Editore) e la monografia del pittore Giorgio Pirrotta (2009).

Nel 2010, insieme ai poeti amici Cony Ray e Marco Orlandi, ha dato vita al progetto “La Poesia È Reale” in collaborazione con il circuito delle biblioteche di Roma e a sostegno di Emergency.

Presente alla Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati in qualità di poeta per un progetto a favore dell’Aquila: L’orizzonte perduto e il dolore trattenuto.

Partecipa a Festival e Rassegne Letterarie, tra cui Più libri più liberi – Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria – Roma, 2012; Caffeina Festival, Viterbo, 2012 e 2013.

Presente in diverse antologie, ha pubblicato:

“L’isola confine” (romanzo, 2014, Edizione Libreria Croce)

“Vino e Venere” (romanzo, 2012, Edizioni Libreria Croce).

“Luigi Filippo Peritore, intellettuale agrigentino” (saggio monografico, 2008, Ca. Gi.

Editore).

“Io sono la vera vite”, simbologia e fitoterapia delle piante dei Vangeli (saggio, 2007,

Edizioni Libreria Croce).

Poesia sabbatica: -127-

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-127-

ho imparato a fare a meno di te
ho imparato a svegliarmi
a vestirmi e pettinarmi
senza pensare a niente
senza pensare a niente

ho imparato a mangiare zitto
ad arrivare al frutto
a sparecchiare in fretta

ho imparato a camminare
senza guardarmi indietro
a dare un occhio al cielo
e dire pioverà
o magari farà bello

ho imparato a far passare giorni
tutti i mesi e gli anni
le ore ad una ad una

e dentro ogni secondo
il ticchettio del nulla.

FRANCESCO PALMIERI

Monumento al mare: William Ernest Henley

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Monumento al mare

William Ernest Henley (1849-1903), inglese (foto web)

UN AMORE DAL MARE
(Traduzione di Emilio Capaccio)

Sotto la notte che mi copre scevra di stelle,
(O tribolazione del vento che rotola!)
Nera come la nube di qualche tremendo incantesimo,
Il sussurro del sospirante mare
Pare il bisbiglio singhiozzante di due anime
Che tremano in una passione d’addio.

Ai desideri che triplicarono in me la vita,
(O malinconia del vento che rotola!)
Ai sogni che sembrarono predire il futuro,
Alle speranze che montarono in me come il mare,
A tutte le dolci cose inviate sulle anime felici,
Non posso che sciogliere un silente addio.

E alla fanciulla che fu sì tanto per me
(O lamento di questo vento che rotola!)
Poiché non posso costringela a vivere,
Sotto la notte, accanto al mar che risuona,
colmo dell’amor che avrebbe potuto unirci le anime,
Un triste, ultimo, lungo, supremo addio.

*

A LOVE BY THE SEA

Out of the starless night that covers me,
(O tribulation of the wind that rolls!)
Black as the cloud of some tremendous spell,
The susurration of the sighing sea
Sounds like the sobbing whisper of two souls
That tremble in a passion of farewell.

To the desires that trebled life in me,
(O melancholy of the wind that rolls!)
The dreams that seemed the future to foretell,
The hopes that mounted herward like the sea,
To all the sweet things sent on happy souls,
I cannot choose but bid a mute farewell.

And to the girl who was so much to me
(O lamentation of this wind that rolls!)
Since I may not the life of her compel,
Out of the night, beside the sounding sea,
Full of the love that might have blent our souls,
A sad, a last, a long, supreme farewell.

“Les fleurs maladives de Baudelaire”

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Per comprendere Baudelaire (1821-1867) occorre rendersi conto del posto che occupa nella storia della poesia non soltanto francese. Autore decadente dalla genialità sregolata, poeta maledetto, critico, traduttore, è considerato uno dei padri del Simbolismo e del Decadentismo. Continua a leggere

Poesia sabbatica: “Preghiera”

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PREGHIERA

 

chiedo al cosmo

di darmi parole infinite

parole galassie

parole stella

 

chiedo all’aria

il verbo degli angeli

il coro dei santi e dei beati

dei giusti e degli arcangeli

 

chiedo al cielo

il canto delle nubi e del vento

del fulmine e del tuono

dell’acqua e della pioggia

 

chiedo al mare

il grido degli oceani

e l’impeto dell’onda

la schiuma immacolata

la furia dei marosi

 

chiedo alla terra

lo stormire delle foglie

il profondo di radici

scavate negli abissi

il duro della pietra

e le vene del granito

l’oro che brilla al sole

e il puro dell’acquamarina

 

e non più le parole d’uomo

recluso in una cella,

non l’urlo a sprofondare

di un angelo caduto,

non l’afonia di lingua

di chi parlava alto

quando in ogni dove

c’era ancora Dio.

 

FRANCESCO PALMIERI

Bella Ciao

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«Una mattina mi son svegliato
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
una mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
o partigiano portami via
che mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e se io muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e seppellire lassù in montagna
sotto l’ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e le genti che passeranno
mi diranno “Che bel fior!”

E questo è il fiore del partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e questo è il fiore del partigiano
morto per la libertà.»

 

 

Giulio Giadrossi, “Dati sensibili”, Terra d’ulivi Edizioni, 2024.

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*

Hanno già cantato tutto

i fiori non colti

i motel dai materassi pruriginosi

i capoversi sghembi

le rime slabbrate

i laghi negli occhi

i mari svuotati

le amarene sul gelato

ma noi rimaniamo ancorati

nei batuffoli ineffabili della parola

 

*

C’è un processo di indagine del reale

non indifferente

nei tuoi passi a tentoni

nel soffiare le bolle di sapone

nel separare la buccia dalla polpa

nella teoria dei tuoi respiri

in cui l’apnea e il rilascio

sono i capoversi

di un soppesare il mondo

ogni giorno

con rinnovata meraviglia

farsi misura di tutte le cose

anche quelle più misteriose

del fuorigioco non fischiato

dello spandimento sul soffitto

dell’equilibrio di un soffritto

della serie di Fibonacci

nei broccoli in frigo

 

*

Combattiamo guerre di posizione

su letti a una piazza

su piastrelle

scelte da madri

in case non nostre

su fazzoletti di cielo

che vediamo oltre il vetro

in tramonti albicocca

in base agli straordinari

 

*

Mia nonna è un soggetto rivoluzionario

le seppie al sugo

il rosso della casa

le lettere di protesta

all’amministratore condominiale

la marcia che non entra

le ferite di una guerra

combattuta nel silenzio

nel residuo di un tempo

che si affolla

sul ricamo

di giorni

che dell’eterno

hanno solo il peso

sollevato nei ritagli

di un pomeriggio

osservato

da un terrazzino

di begonie in fiore

 

*

Non sono troppo convinto

dei baci non dati

dei parcheggi in salita

delle diete a zona

dei paradisi fiscali

delle chiamate senza risposta

trovo un senso soltanto

nelle briciole di parole

nei bachi da seta

che intessono indefessi

trame di possibile

 

*

Ciò che mi manca

è una nuvola di ciambelle

un invito a cena

una scatola in cui dormire

una barba di zucchero filato

una sciarpa di glicini

un gatto che dispensa consigli

un leone che divora gli sbagli

 

*

La mia colf ha un viso costellato di rughe

una cartografia di pianti e notti insonni

per 8 euro all’ora senza contratto

sa stirare ed ascoltare

l’esile incanto di coincidenze aggiustate

come lavatrice che singhiozza il bucato

il più ostinato rimpianto è come lo sporco

si scioglie a fatica col tempo

 

Poesie tratte da: Giulio Giadrossi – Dati sensibili Terra d’ulivi editore, 2024

 

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Giulio Giadrossi (1988) ha pubblicato la silloge poetica Di stanza a Trieste (Ensemble editore, 2020). Alcuni suoi scritti sono apparsi su Charta Sporca, sul Multiperso di Carlo Sperduti e la rubrica Passaggi di Argo.

Poesia sabbatica: “Presa d’atto”

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PRESA D’ATTO

 

ci si deve far bastare

il luccichio dal cascame,

dal cumulo di foglie

cadute da un altrove

 

(e non dico il cielo

o altro spazio aggiunto

ma un attimo feriale

che speri volga al meglio)

 

ci si deve abituare

a recitare addii,

a sentire i saluti

dei passi morituri

 

(e non guardare indietro

scrostare ogni ricordo

il peso che zavorra

ancora qualche rosa)

 

si deve infine stare

su questo rasoterra,

viaggiare su binari

in piano orizzontale,

lasciare ogni cielo

all’alzo di ali vere

 

(eppure io lo so

che a volte è inevitabile

l’insorgere di violini

in scoppio in fondo al mare)

 

FRANCESCO PALMIERI

(dalla raccolta “Il male nascosto” Edizioni Terra d’ulivi)

Monumento al mare: William Ellery Channing

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Monumento al mare

William Ellery Channing (1818–1901), americano (foto web)

CANZONE DEL MARE
(Traduzione di Emilio Capaccio)

Va la nostra barca libera alle onde,
sulla curva della marea, ove si frange il flutto ricciuto,
come traccia di vento su bianchi fiocchi di neve:
via, via! È un sentiero sul mare.

Possono infuriare le raffiche — far tendere la vela,
perché i nostri spiriti sanno strappare al vento la forza,
e le nubi plumbee cedono alla mente solare,
non temiamo il turbine della burrasca.

Onde sulla spiaggia e schiuma marina selvaggia,
con un balzo, uno scatto e un urrà improvviso,
dove l’alga si lega alla sua dimora,
e gli uccelli marini si bagnano sulle creste spumose,
onda dopo onda, s’arricciano,
mentre bianca la sabbia dalla riva acceca.

*

SEA SONG

Our boat to the waves go free,
By the bending tide, where the curled wave breaks,
Like the track of the wind on the white snowflakes:
Away, away! ’Tis a path o’er the sea.

Blasts may rave,— spread the sail,
For our spirits can wrest the power from the wind,
And the gray clouds yield to the sunny mind,
Fear not we the whirl of the gale.

Waves on the beach, and the wild sea-foam,
With a leap, and a dash, and a sudden cheer,
Where the seaweed makes its bending home,
And the sea-birds swim on the crests so clear,
Wave after wave, they are curling o’er,
While the white sand dazzles along the shore.

“Altre Stagioni di morte e di amore” di Ester Guglielmino

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Dalla Nota dell’autrice alla raccolta Altre Stagioni di morte e di amore, PlaceBook Publishing, 2024

“Arriveranno altre stagioni, e noi staremo ad aspettarle. Col naso in aria, affacciati alla finestra e con quella voglia continua di cambiare il ritmo di ogni giorno. Torneremo a desiderare la primavera col suo profumo fresco e il taglio sbarazzino, l’opulenza dell’estate con i suoi fianchi larghi e colmi di splendore, ci innamoreremo dell’autunno col suo cappello a cono e il bastone d’ulivo ritorto che batte foglie morte, anche l’inverno infine tornerà a cullarci col suo vento freddo e a baciarci con le sue labbra secche, bruciate dalla neve. Seguiremo il tempo e il suo eterno movimento, perché è così che si stempera l’inganno della vita, perché è così che si compie da sempre il nostro viaggio.”

La raccolta si articola in 4 sezioni intitolate a ciascuna stagione dell’anno, di seguito quattro poesie scelte dalle sezioni “Primavera” e “Autunno”.

Primavera, I e II

Non cantai la mela
ma il morso inciso
nel bianco della polpa,
non la luna piena
ma lo spicchio sottile
nel cielo nero nero,
non cantai il frutto
ma il destino scritto
del fiore appena colto,
non la gioia del saluto
ma ogni partenza
e il suo dolore muto,
e se non cantai mai
la pienezza
è perché la poesia
carezza
il vuoto asciutto
che sta
nella mancanza.
*
Ti porto la parola storta
cresciuta sopra i rami,
il caffè versato caldo
sul bianco del ricamo,
ti porto i piedi nudi
sul ciglio della strada,
l’inciampo irriverente
sul dorso del mio nome,
ti porto nel mio mondo
ch’è poco più di niente,
aperto come un tronco
ch’aspetta un nuovo fiore.

Autunno, IV e IX

Siamo della madre
che non ci ha voluto
del padre distratto
dell’amore sbagliato,
siamo dell’altro.
Di ogni giudice
che ha condannato
il nostro torto,
di ogni prete che
ci ha ascoltato, e poi
non ci ha assolto.
Siamo del maestro
che ci ha ammaestrato,
del figlio sbagliato,
siamo – volto contro volto –
di ogni passante
che ci ha incrociato

-per strada –
ma non ci ha mai
guardato.

*
Ho palpebre spesse, più del sorriso
dell’ultima volta che t’ho visto;
il passo svelto, non cadenzato
sulla lunghezza dello sguardo
e neve sul collo che gela i nervi
e serra gli occhi agli angoli d’intorno.
Mi affaccio ancora alla finestra –
la domenica mattina – e guardo fuori:
c’è un sentiero di parole che fiorisce
sul ramo muto della tua voce.

Versi trasversali: Riccardo Mazzamuto

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Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

 

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

RICCARDO MAZZAMUTO

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Poesia sabbatica: “Se il cielo resta muto”

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SE IL CIELO RESTA MUTO

 

non ho più preghiere

da offrire in olocausto

 

non ho più preghiere

 

e allora sia interminata

ogni bufera, vento,

tempesta che ci squassa

 

ed io uno dei tanti

lasciati alla tormenta

 

eppure l’ho chiamato, dio,

fermandomi nel banco

a messa già finita

 

e il segno l’ho aspettato

 

magari solo il nome

o la risposta breve

di un  dietro alle spalle

 

ma se non c’è soccorso

a stragi da macello,

come può darsi in cielo

un tramestio di passi

a me che busso piano

 

anzi, non busso più.

 

FRANCESCO PALMIERI 

(dalla raccolta “Il male nascosto” – Edizioni Terra d’ulivi)