C’ero già andato l’anno scorso. Un nuovo editore aveva appena pubblicato il mio secondo romanzo e mi aveva invitato a Torino. Il mio volumetto faceva bella mostra di sé sul suo banchetto.
Nonostante non fossi più un giovincello (e oggi sono ancora più vecchio), mi feci prendere dall’entusiasmo “dell’autore presentato al Salone del libro”.
«Che cosa devo fare?» chiesi.
«Niente di speciale, ti metti qui davanti, con il tuo libro in mano, e se qualcuno si ferma tu gliene parli e cerchi di venderglielo».
È così per tutti, per tutti gli editori e per tutti gli autori, anche per i più famosi, cambia solo la “lochescion”: i più sfigati in piedi davanti agli stand a fare i piazzisti di pentole di carta, i più commerciabili in una saletta con tanto di microfono e compiacente relatore che li imbocca.Sarà che non sono mai stato portato per il marketing, ma mi sentivo uno scemo. Tra i “do solo un’occhiata” e i “grazie, ma ho già mangiato” (risposta veridica, lo giuro), mi chiedevo che cosa stessi facendo lì.
Quest’anno ci sono andato con minore entusiasmo. Non posso parlare male del mio editore, anzi, dei miei. Sono brave e oneste persone che fanno del bricolage più o meno avanzato, cioè fanno ciò che possono con quello che hanno. Entrambi mi hanno fatto un’intervista pubblicata sui social, il luogo virtuale che rende sempre meno socievoli i lettori e i frequentatori del salone (non sempre coincidono).
È un posto enorme, ben organizzato e altrettanto dispersivo. Entropico è forse l’aggettivo che meglio lo definisce. Tradotto in volgare: un casino innominabile. Coorti di ectoplasmi vagano senza meta tra i padiglioni, lo sguardo vuoto e la borsa piena di libri comprati seguendo le molteplici pubblicità stile “what else?” o grazie alla capacità di persuasione della sirena di turno, leggi l’abilità del “collaboratore” della casa editrice pagato poche centinaia di euro al mese, o con partita IVA incentivato dalla percentuale sulle vendite effettuate.
Un bailamme senza senso, un parossistico bazar dove trovi anche un catafalco del Ministero della Difesa (mi chiedo se difendano la “cultura” e soprattutto da chi), un altro della Rai da dove pontificano giornalai con il titolo di giornalisti, chioschi di rappresentanza delle Regioni, che con la scusa di un opuscolo pubblicitario promuovono attività commerciali e turismo (cioè lo spostamento di persone che starebbero meglio a casa loro in posti che sarebbero migliori senza di loro), un’esposizione di aspirapolvere Fo**etto (visto con i miei occhi) forse per spolverare i vecchi volumi, venditori di street food dagli olezzi pestilenziali e dai prezzi da oreficeria, insomma, un mercato mediorientale dove il principale movente dei “clienti” (attribuire loro l’appellativo di lettori è una scommessa) è quello di dire “io c’ero”.
Durante una pausa, all’esterno dei casermoni adibiti a esposizione faccio due parole con un omone dall’aspetto dimesso. Scopro che è un editore, o meglio uno che stampa manoscritti esenti da diritti d’autore, e che ha uno stand enorme proprio di fronte a quello del mio editore. “Nella giornata della memoria, con il Diario di Anna Frank tiro su 20-30.000 Euro”, mi dice orgoglioso.
Mi chiede in che veste partecipi al salone. Quando gli dico che sono un autore e che ho venduto più di un centinaio di copie si esalta e mi copre di complimenti. Secondo lui (prendo con le pinze le sue affermazioni) ciascuno dei circa 80.000 nuovi manoscritti pubblicati ogni anno vende più o meno 100 copie. Il resto va al macero. La maggior parte degli editori (lui non si definisce tale) sopravvive grazie alla rete di contatti di ogni autore, il quale, se vende una cinquantina di esemplari grazie alle sue presentazioni e firma-copie, gli garantisce la copertura delle spese. Poi ci sono i contributi all’editoria: statali, regionali, europei e via discorrendo. I distributori, soprattutto il più grande, sono delle associazioni a delinquere (ipse dixit).
Alla fine della conversazione, ne esco con la conferma di ciò che sospettavo: i toni trionfalistici, che ogni anno seguono la chiusura della kermesse torinese, lodando il successo di pubblico, il rinnovato interesse per la cultura, la sensibilità delle amministrazioni pubbliche, l’abnegazione degli organizzatori, l’entusiasmo degli editori e via discorrendo, lasceranno il posto non molto tempo dopo ai soliti piagnistei sul fatto che in Italia non si legge, sulla crisi dell’editoria, sull’analfabetismo di ritorno (da dove?) e sulla necessità di nuovi e più cospicui aiuti pubblici a un settore cardine della cultura nazionale.
Ritorno al banchetto del mio editore dove i miei omologhi autori si sfidano in una tenzone di selfie da postare sulle loro pagine social. Sono molto diverso da loro? Ognuno crede d’avere qualcosa d’imprescindibile da dire al mondo, un messaggio in bottiglia.Sono sommerso da un vociare incontenibile, una folla di miei simili che riversa parole in questo capannone annegato in un oceano di parole scritte. Milioni, miliardi di parole, Utili? Inutili?
La cifra essenziale di questo “Salone” è quella commerciale. Significa avere performance misurabili in termini di successo. Nudi, freddi numeri capaci di certificare che il “cliente” (lettore e/o autore) è divenuto performante, perfetto ingranaggio di una oliata macchina dove la divergenza, il senso critico sono considerati con fastidio un inceppo da aggiustare. Perché la vita è una darwiniana competizione in cui solo il più “competente” vince. E gli altri devono percepire il peso dello smacco, del fallimento, divenendo “scarti”. Conta solo vincere a qualunque costo, anche con la slealtà.
I miei libri sono una camola in un silos di milioni di metri cubi di farina.
«Allora perché ci vai al salone?»
Perché come tutti gli umani non sono esente dal demone della vanità. Perché anche a me piacerebbe vendere centinaia di migliaia di copie come i VIP che denigrano Dante, Manzoni, Dostoevskij o Verga e che, en passant, invitano i “clienti” a comprare i loro manoscritti.
Però, io non lo farei, se non altro per buona educazione, un vezzo riservato ai “boomers”.
Vado al salone perché, come diceva Dominique Angel, «Je passe mon temps à me libérer de ce que la nécessité m’oblige à mettre en place pour survivre».
Poi, secondo la legge dei grandi numeri, ti capita qualcuno davanti, uno sconosciuto che ha comprato su Ama*on il tuo libro, che l’ha letto, e te lo conferma citando questo o quel passaggio che gli è piaciuto, che gli ha lasciato qualcosa. E ti chiede la dedica, la medaglietta che lui pensa d’aver meritato attraverso la sua lettura.
E tu, non gliela fai la dedica? Sì, il Salone è proprio una fiera: delle vanità.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.