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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi autore: frantoli

“10 Quarantene” di Francesco Tontoli

05 lunedì Ott 2020

Posted by frantoli in LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Francesco Tontoli

 

Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909, Museum of Modern Art di New York.

1
 
Sera
 
se mi affaccio
 
dal mio primo piano di quarantena
 
riesco a vedere tra le case
 
la superluna di marzo
 
il suo occhio incredulo su di noi
 
la strada silenziosa del coprifuoco
 
i riders soli che consegnano pasti caldi
 
e sfrecciano ignari del suo sguardo.
 
Nelle case ci sono le bocche e le tossi
 
le febbri marzoline e la fame di pizza
 
le rabbie e l’abbaiare dei cani
 
che richiedono di essere pisciati
 
bambini col naso sui vetri
 
e vecchi incollati alle tv.
 
Altri umani non pervenuti
 
non spengono mai la luce azzurrina
 
che li guida nei loro altrove di salvezza
 
dove arriveranno con il ritardo di un minuto
 
senza trovarvi nulla
 
nemmeno il conforto di uno sguardo.
 
 
2
 
sai che non scrivo
 
se non a pagamento
 
ho pagato salato
 
e prima o poi mi caverò
 
le monete dagli occhi
 
per pagarmi il trasporto
 
prenotare il traghetto
 
mi è ancora impossibile
 
malattie indicibili
 
e falsi sintomi
 
si contendono il mio corpo
 
di solito guarisco
 
e rinasco ma non nuovo
 
non nasco, rinnovo il salario
 
il contratto, il rogito il sunto
 
mi muovo in un verso preciso
 
nel verso del detto per inciso.
 
 
3
 
Per i vecchi bisognerebbe
 
ritornare pesci
 
dopo essere stati
 
genitori e nonni degli uomini
 
rifare il cammino
 
riprovare a risalire
 
dopo essere discesi
 
e aver dischiuso le branchie
 
tentato di manomettere
 
i polmoni d’acciaio
 
essersi sacrificati nel silenzio
 
delle loro profondità
 
scavando dopo aver raggiunto il fondo
 
e aver trovato la pepita
 
della loro vita.
 
 
4
 
Così vedo queste sedie vuote
 
pulisco la casa e le conto
 
mia madre segna i posti di ognuno
 
di quelli che mancano.
 
Qui si mette sempre lui,
 
e lì la piccolina con la mamma,
 
sgrana i grani di un rosario di visi.
 
Mi dice che vorrebbe ci fossero tutti
 
sono vivi, me lo ripete molte volte
 
non sono dall’altra parte del mondo
 
oltre oceano o a fare una guerra.
 
I nostri sono così vicini
 
che affacciandoti potresti udirne le risate nelle case
 
a pochi isolati da qui una vita due vite
 
una bambina che arriccia i baffi ai suoi gatti
 
un pianoforte che viene suonato fino a sfinirlo
 
alcune idee di pittura su tela che segnano il passo.
 
E io che non volevo scrivere nessuna poesia
 
su tutto il silenzio che si è impadronito delle strade
 
(nessun dottore me lo avrebbe richiesto)
 
sul nulla, sul vuoto, so che non esiste terapia
 
il presente consiste nel trattenere il respiro
 
il tempo è inconsistente, quasi assente
 
come una mascherina, tessuto non tessuto.
 
 
5
 
Per l’ultima settimana di quarantena
 
vorrei scrivere una poesia al giorno
 
o almeno solo quella che ho in vena
 
purché mi tolga il medico di torno
 
Per l’ultima settimana di quarantena
 
ho in mente uno spettacolo dalla finestra
 
una classica allegra o tetra messa in scena
 
io che mi affaccio e indico a destra
 
e a sinistra una qualche via di fuga
 
un modo per risolvere il dilemma
 
di Achille e la dannata tartaruga
 
prestito di tempo, con una certa flemma.
 
 
6
 
Di tutte le stagioni che ho percorso
 
quella che è appena morta
 
è stata la più bella primavera
 
che non è mai passata
 
che non ha avuto tempo di esser vista
 
di esser visitata in cambio di un fiore o di una foglia
 
di aver trasformato me e gli altri un’altra volta
 
da cosa a cosa in una trasmutazione semplice
 
in desiderio di un futuro complice.
 
L’abbiamo sentita di sfuggita
 
rapida e leggera sfiorarci nelle case
 
stringerci in un abbraccio sconosciuto
 
di quelli che temi essere preludio a un lutto
 
rimanere nel nostro fiato come una nemica
 
alchemica, allegorica, svegliarci e addormentarsi
 
sulle nostre spalle e lasciare un segno
 
un regalo, un simbolo che non è stato familiare.
 
Un frutto avvelenato creato dal laboratorio dell’inverno
 
dove la pioggia che verrà di nuovo a maggio
 
di chissà quale anno del Signore
 
alla fine di una peste che ci ha tutti posseduti nel suo pugno,
 
si distilla in alambicco goccia a goccia.
 
 
7
 
Attirato al balcone dalla luna piena,
 
ieri sera ho visto una gatta bianca
 
gravida e lenta attraversare la strada
 
e il suo compagno sui tetti miagolare al cielo.
 
Mi è sembrata una scena compiuta, pulita
 
piena di un significato che sottintende
 
la vita sul pianeta, e del significante
 
che la osserva procedere inciampare
 
soffrire, rinascere per poi tornare
 
a disilludersi nel ripetere a memoria
 
il giro nel cerchio, la ruota della storia.
 
 
8
 
Colmare le distanze
 
col mare di cazzate
 
che circolano liberamente
 
aprire le danze
 
riempire il cucchiaino
 
per svuotare il mare
 
cercando il vaccino
 
terapia della mente
 
andare per il mare della vita
 
vincere o almeno pareggiare
 
lottando per disfare la matassa
 
naufragando dolce in questa partita
 
 
9
 
Penso a quanti fiori sono nati
 
sui marciapiedi in questi mesi
 
e prima di essere calpestati
 
falciati dalle lame degli addetti
 
al ripristino dei passi di viandanti
 
mascherati, gettano i loro colori
 
sulle vite degli uomini ridiventate
 
di nuovo frettolose.
 
Hanno avuto il tempo
 
di crescere negli angoli
 
tra muri e macchine
 
tra porte e finestre
 
immaginandole nell’attimo necessario
 
considerarle e ricoprirle,
 
come splendide rovine.
 
 
10
 
Il Monitore Afono è il prototipo
 
di ogni futuro e passato profeta inascoltato.
 
Ululatore professionale a lune rosso sangue
 
che si ergono da dietro il monte
 
a predire l’avvenire da sempre inciso
 
nelle scritture di crateri oscuri
 
si sgola a dissuadere gli uomini
 
che dicono di voler vivere la vita cercando
 
la dolcezza della morte nel contatto.
 
Si impunta nell’illudersi che ci sia del bene
 
in fondo ad un respiro non ancora contaminato
 
che l’idea di bello e incorruttibile
 
abbia ancora charme nel brulicare dei germi
 
che si moltiplicano sul nostro passo.
 
Si nutre ancora di pane e di rose
 
col lievito dei sogni e i bocci di speranza
 
trovando solo spine e fatica nella strada.
 
Cosa ci aspettavamo dalla scuola
 
di questo stupido cammino?
 
L’insegnamento di pause, soste, conforti, frescure
 
paradisi irradiati dal pensiero di australopitechi
 
svezzati con le clave e con massacri?
 
Che perda pure del tutto la sua voce quel signore!
 
Che taccia , forse il silenzio che sarà seguito
 
nelle strade deserte delle quarantene
 
avrà più senso nel cadere sulle teste
 
di chi sparuto vive ancora nelle case!
 
 
 
Francesco Tontoli

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“Griot in the city”, un racconto di Francesco Tontoli

11 lunedì Mag 2020

Posted by frantoli in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Francesco Tontoli, Griot in the city

 

Nella sua voce vi sono così tanti armonici che anche quando parla, anche quando non canta, gli si può ascoltare il fruscìo sotterraneo di un mondo di muchi e catarri, un lavorìo di bronchi affaticati, un motore non immobile di ottoni e di archi come un’orchestra asmatica che si accordi con difficoltà.
-Canta, canta!…- gli dicono centrando il cappellaccio in terra con una moneta. E lui con lo sguardo acquoso fa cenno di stringersi il pugno al petto gorgheggiando con un suono simile alla carta vetrata un:
-Grazie!- sonante e soddisfatto, imitando il “parlato” d’operetta.
–Dedicherò questa birretta a te, amore mio sconosciuto!…-
La velocità della massa di uomini e donne che si sposta da un punto all’altro della città come in una clessidra, ogni giorno su quel marciapiede, viene alterata dal suono ruvido e dal tono beffardo che fuoriesce dal suo cavo orale.
Un monito, il richiamo di un sirenetto rauco alla vacuità della fretta. Uomini legati a doppio filo alla schiavitù dell’ora esatta, e del minuto secondo da centrare ad ogni passo, vengono intontiti per un tempo indefinibile da una fonte sonora oscura e cavernosa che li blandisce, rapendoli dalla strada.
La cecità non gli è d’ostacolo. Sa esattamente del rumore dei passi di chi esita e di quanti sono quelli che non resistono al duro impatto della sua voce.
Sa quanti corpi barcollano allo scontro con le onde seghettate delle sue blue-notes. E i piccoli cerchi concentrici umani che gli si formano intorno sono simili a quelli che si allargano nell’acqua quando vi affonda un sasso.
Ode chiaramente le corrispondenze lievi degli sguardi che si incrociano e annuiscono. Le labbra che piano si allargano in un sorriso scavando nella pietra dura. E’ tutta gente uscita a sgomitare per lo spazio vitale dei pochi centimetri quadrati concessi graziosamente ogni giorno dall’Entità Sconosciuta chiamata benevolmente Padreterno, che manifesta tutta la sua gentile ferocia nell’abbrutire e nell’annichilire in un luogo denominato “città” , tutta la vita che gli uomini immaginano abbia creato.
Certo che anche gli uomini stessi, qualcuno sospetterebbe soprattutto loro, partecipano allo scempio con una discreta attitudine emulativa che la dice lunga sulla competizione che stabiliscono con Dio per dividersi le spoglie del pianeta che abitano. L’uno nel Sito Immaginario, l’altro in quello Reale.
Chi sono ad esempio quei due che si tengono per mano mentre ascoltano il Griot metropolitano cieco, fare i gargarismi con l’acido muriatico, tutti compresi nello sforzo di carpirgli il segreto della musica e della sua fascinazione?
E quell’altro tipo un po’ in disparte in grisaglia d’ordinanza che sembra fulminato sulla via di Damasco, con la borsa di pelle nera in una mano ingombra del sangue delle sue vittime finanziarie? Come mai si è fermato anche lui in posa mistica, sguardo perso e bocca aperta?
Forse perché il barbone sfatto di cattiva birra ha toccato i loro tasti dolenti, i loro bottoncini segreti, esposto i loro nervi alla radiazione della sua voce facendo emergere un’umanità dimenticata? E’ come scavare in un sito archeologico affondando strumenti in un terreno cedevole, avendo a disposizione il più potente dei mezzi di scavo: la frenesia dovuta al ricordo di qualcosa di irrimediabilmente perduto.
Ognuno di questi uomini in cerchio insomma, anche se ora si ricompone e ritorna a correre, anzi a rincorrere l’oggetto scuro del suo desiderio, ha subìto l’effetto devastante dell’evocazione di un fantasma prigioniero nella propria mente.
I due amanti questa sera si lasceranno senza una ragione così come aveva cantato il Griot. E l’uomo con la borsa nera, dopo aver visto scorrere e cadere i suoi titoli in borsa, verrà attratto dal cassetto della scrivania dove ha riposto la pistola che ha comprato un giorno, più per esibirla che per usarla. Ma questo il Griot non lo canterà sui marciapiedi di New York o Londra, dove si svolge presumibilmente questa storia di possibilità.
Lui vocalizza solo canzoni d’amore.

Francesco Tontoli

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“Sprechen doich?”Un racconto di Francesco Tontoli

17 giovedì Ott 2019

Posted by frantoli in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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racconto

Hans ripiega la lettera. Me l’ha tradotta puntigliosamente tutta dal tedesco, facendo delle pause lunghissime per sottolinearne i momenti più cupi.
Ha gli occhi lucidi, lo sguardo lontano, le mani con un leggero fremito.
Il piccolo Johannes gioca tra le sue lunghe gambe parlando il suo curioso linguaggio infantile, con quei punti interrogativi che si sentono cantilenare e che non richiedono risposte.
Siamo solo noi tre , gli altri sono in cucina a chiacchierare con Aurelia. Ci hanno lasciato soli col bambino, prevedendo che tra di noi ci sarebbe stata la solita lunga confessione. Ma sono 10 anni che non ci vediamo, e abbiamo diritto a un nostro momento privato.
Il papà gambalunga si scuote da quell’attimo di nostalgia e porge al figlio il nuovo gioco che ha appena tolto dalla confezione provocando tutto quel rumore di carta strappata. Entrambi emettono suoni che esprimono sorpresa e stupore di fronte al regalo.
Johannes sale sul cavalluccio di legno, e faticosamente cerca di spingerlo con l’aiuto dei piedini. Hans sorride e si asciuga gli occhi, non so bene se per la felicità di vedere suo figlio provarci, oppure per il dolore che si è appena procurato ravvivandolo leggendomi la lettera, come quando si tocca il dorso di una vecchia ferita cicatrizzata che non fa più male , ma di cui se ne rammenta il percorso doloroso.

La lettera è sul divano, stropicciata e unta dalle ditate. Penso siano impronte lasciate da mani umide. Letta e riletta chissà quante volte, mandata a memoria e dimenticata, e rimandata a memoria. La voce fuori campo degli incubi, la litania dei giorni tristi col cielo grigio del lungo inverno passati da solo tra i pazienti montanari. Chiuso, murato tra i boschi e le valli.
Johannes si dondola sul cavalluccio di legno, e guarda il padre asciugarsi la lacrima sfuggita ma subito asciugata col dorso della mano. Hans ritorna a sorridere illuminato dal figlio che lo guarda stupito. Il bambino ha puntato il dito all’angolo dell’occhio da dove è spuntata quella goccia, e ha guardato il padre con l’ennesima frase interrogativa…
Fuori dalla finestra vedo i filari ordinati dei meli ancora in fiore, ma già con accenni di verde, perdersi per la collina. In alto, se alzo un po’ lo sguardo, l’abbazia di Sabiona tutta circondata da file ordinate di viti, incombe minacciando l’abitato con la sua ombra merlata. E’ un pomeriggio sereno, ci sentiamo tutti fortunati a goderci un tempo così. Il sole fende la stretta valle con raggi già obliqui e dorati, e tra poco tramonterà dietro la neve delle cime più alte mandando bagliori che rimbalzeranno sul bianco. Juergen mi indica quel paese lassù che si gode la luce più a lungo di qui. Noi siamo appena arrivati dal sud e abbiamo portato il bello mi dice Hans, perché fino alla scorsa settimana è nevicato più volte…
Ora festeggiamo stappando il prosecco conservato per questa occasione:

-E’ da tanto che questa bottiglia vi aspetta, ci dice versandocelo.

Il brindisi è un po’ frettoloso anche se Hans lo vorrebbe solenne. Sta lì pensoso a rimirarsi l’etichetta della bottiglia, il bimbo attorcigliato alle gambe che lo implora di prenderlo su alla sua altezza sconfinata, e quando viene sollevato in braccio non manca di commentare la vertigine dell’ascensione con gridolini di piacere, che ci fanno inebriare tutti. Hans non ha avuto nemmeno il tempo di avvicinare le labbra al flûte. Non ha bevuto un goccio, ma è completamente ubriaco di suo figlio…..
La lettera intanto è stata intercettata da Aurelia che la ripone in una busta quasi distrutta tanto è usurata, e la porta via come se fosse una reliquia, depositandola presumibilmente in uno di quegli angoli oscuri che ci sono in ogni casa, cassetti segreti, oppure tra le copertine dei libri più cari, un tabernacolo occulto, un sancta sanctorum domestico.
Decidiamo di uscire, con il piccolo Johannes che guida il corteo in passeggino, andiamo incontro al paese passando davanti alla vecchia stazione dove c’e’ in bella mostra una vecchia locomotiva a vapore tirata a lucido.
Passiamo in rassegna le case linde e silenziose , fino a un piccolo ponte pedonale sul fiume Isarco. Tutti guardiamo l’acqua che attraversa la città veloce dopo il disgelo. Costeggiamo il lungofiume guardando le papere che stazionano a riposare nelle piccole anse.
Hans mi dice che quegli uccelli qui sono chiamati “le anatre di Koester” dal nome del pittore che le osservava e le dipingeva dal giardino che proprio ora stiamo attraversando, e a cui è stata dedicata quella statua di bronzo che si vede tra gli alberi con lo sguardo rivolto al fiume e con un piccolo pennello in una mano che sembra contare le anatre più che dipingerle.
Tutto sembra pervaso di una perfezione primaverile che ci mostra il movimento della natura nella sua rotazione.
Ci stiamo trasformando, e chi ode le voci nella direzione del nostro crocchio non può far a meno di voltarsi, sorridere, incuriosirsi dall’arrivo degli ospiti tanto attesi dai due dottori.
Aurelia ci porta direttamente nel suo studio, che è al primo piano del vecchio edificio della dogana, subito dopo l’antica porta. Saliamo tutti. Nella sala d’attesa del medico c’è un pianoforte! E degli affreschi antichi recuperati con perizia. E nello studio, proprio dietro la scrivania della dottoressa c’e’ la postazione di lavoro del piccolo Johannes, un box pieno di giocattoli, da cui osserva la mamma visitare i pazienti commentando le patologie riscontrate con grugniti e parole incomprensibili che sembrano simili a sentenze scientifiche su eventuali malattie, come ci riferisce la madre.
Poi tra la sorpresa generale, compresa quella di Hans , Aurelia si siede al piano e ci dà un saggio eccellente della sua bravura, addirittura anche come cantante .
Stiamo lì seduti in sala d’attesa come cinque pazienti incantati a sentire suonare il piano. Händel? Bach? Schubert? Chissà…ma esplode l’applauso liberatorio. Pura musicoterapia!

Hans mi parla di questa città mentre siamo di nuovo in strada. Alla fine dell’800 qui si riunivano molti artisti, pittori, poeti e musicisti che sciamavano nella strada principale riempiendo le osterie e gli alberghi. La ragione per cui arrivavano fin qui era dovuta al fatto che si era diffusa la voce che da queste parti era nato il maggior poeta medievale di lingua tedesca Walther von der Vogelweide, minnesanger, poeta d’amore, mi dice Hans sorridendo e strizzandomi l’occhio. Tra fine ‘800 e inizi ‘900 accorsero qui gli artisti e si moltiplicarono gli alberghi e le taverne. La vita sorrideva allora, l’impero del buon Cecco Beppe era l’esempio del paternalismo asburgico più bonario. Le ostesse servivano birra sorridendo e commuovendosi per le canzoni più belle. Questo dunque è uno dei luoghi sacri del nazionalismo tedesco, e si trova in Italia!
Hans è alto e sottile come un giunco. Enza mi dice che ha un aria di un giullare medievale, e io me lo sono immaginato spesso in questa veste armato di cetra, mentre declama versi d’amore davanti alla piccola corte del castello. Allampanato e con la nuvoletta intorno al collo.
Hans ci ha sempre stupiti per questa sua ingenuità che è così platealmente esibita da sembrare falsa e stucchevole. In realtà non c’e’ nulla di affettato in lui. Dentro credo sia una roccia di granito, non potrebbe sopravvivere altrimenti tra questi monti duri.
Diventa così quando racconta. Perché tutto quello che fa diventa nella sua fantasia un racconto, una parte di una storia. Una storia che narra a sé stesso senza aver bisogno necessariamente di interlocutori. Quando parliamo di lui tra amici non possiamo che riconoscerci in questa immagine: un medico in esilio che non ha scelto l’Africa, ma i monti dell’Alto Adige.
Hans ha voglia di parlare , e come quegli eremiti loquaci che tentano di tradurre anni di silenzio in poche battute, ci presenta la natura che si dispiega ai nostri occhi enumerando i miracoli e i dolori della convivenza qui, terra di confine, oltre le ragioni e i torti, oltre i conflitti.
L’albergo che ci ha prenotato guarda la piazza più bella del paese. E’ la prima serata tiepida di primavera. Lui non ha lasciato niente al caso. Nell’eventualità che volessimo usare la sauna basta dirlo al portiere. Per le escursioni basta chiedere che qualcuno organizza. No, non sfrutteremo niente di questo tipo di ospitalità. Ci guardiamo negli occhi tutti. Naturalmente l’albergo è già stato pagato per quattro, e noi ne siamo stupiti, ma in fondo dovevamo aspettarcelo. Solo Hans può farlo, e la moglie acconsente. Ci guarda curiosando tra i gesti delle nostre reazioni stupite.
Hans.
Poi vanno via salutandoci abbracciati. Li guardiamo avviarsi e spingere il passeggino di Johannes sul selciato. Fino a non vederli più.

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Vediamo cosa inventerà oggi il vento

14 giovedì Mar 2019

Posted by frantoli in LETTERATURA E POESIA, Poesie

≈ 1 Commento

Vediamo cosa inventerà oggi il vento
vediamo quanta nebbia farà filare via
noi che stiamo a cavallo di marzo
noi che abbiamo già in mente aprile
noi che contiamo su ciò che succede agli alberi.
Vediamo quante manine verdi spuntano
che gettano le loro dita al cielo
stiamo aspettando che la clorofilla dica
cantata tutta intera la sua messa
che si sacrifichi qualcuno per questo dio.
Speriamo che questa religione si riveli
e accada che la sostanza che sta sotto
emerga in qualche modo con i gomiti
e abbia le braccia forti e in braccio il cuore .
Vediamo se a tendere l’orecchio
si possa udire almeno per un poco
il legno che si fa strada dentro al legno.

Francesco Tontoli

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LA SCQUOLA NON E’ ACCUA

22 domenica Apr 2018

Posted by frantoli in COSTUME E SOCIETA', Cronache della vita, SINE LIMINE

≈ Commenti disabilitati su LA SCQUOLA NON E’ ACCUA

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Francesco Tontoli

(foto di Francesco Tontoli)

Sono 40 anni che sono nel mondo della scuola, e faccio parte del Personale Educativo, ho la Funzione Docente, e tutto il “pacchetto di privilegi” (sic!) e di pene di chi bazzica da quelle parti (mi perdonerà Michele Serra di questo linguaggio terra terra?). Per me è un periodo di magra qui su Facebook, non mi sento coinvolto quasi in nulla. Leggo post, faccio cose… (pochissime cose), utilizzo il Mezzo ormai senza l’entusiasmo di una volta nelle discussioni, che sbircio con sempre più sgomento. Sono smarrito, sopraffatto dagli eventi che si affollano e nutrono i profili social che ho di fronte quando siedo davanti a questo schermo. La nausea è forte, gli argomenti spesso durano il tempo di una giornata o due, su episodi che attraversano la cronaca o la politica con la velocità di un meteorite. L’indifferenza si sta impadronendo anche della mia curiosità di comprendere. Il fatalismo del “così è sempre stato” e dell’ “ormai non c’è più nulla da fare” è nell’ordine delle cose della mia giornata.
Eppure l’episodio di Lucca ai danni del prof di Italiano mi ha invogliato a reagire sia pure con i riflessi rallentati e con dubbi, se davvero ne valga la pena di aggiungere il mio mattoncino di opinioni da buttare nel mucchio informe del mondo virtuale.
La scuola italiana è di solito un universo di simulazioni male assortite della vita cosiddetta “vera”. Ci si sta per delle ragioni che i ragazzi fanno fatica a comprendere, e i docenti fanno altrettanta fatica a comunicare. Dall’una e dall’altra parte di questi due schieramenti simulati e strutturati qualche volta i ruoli saltano. E i motivi possono essere diversissimi. Ho in mente decine di colleghi docenti che ho conosciuto nel passato che hanno attraversato momenti terribili, prima di tutto con sé stessi, chiedendosi se erano ancora capaci di potere sostenere l’impatto della gestione di un gruppo di adolescenti attraversati da tempeste ormonali. Spesso il senso di inadeguatezza si impadronisce delle persone , il burn out è malattia diffusa non riconosciuta. Di gente sottoposta a mobbing massiccio è pieno il mondo del lavoro, ma nella scuola le conseguenze possono assumere effetti catastrofici.
La velocità di diffusione di video registrati denuda e scarnifica di significato qualsiasi tentativo di spiegazione o di “giustificazione”. In un video non si può far altro che vedere un povero cristo sgomento e rassegnato, sottoposto ad angherie e a soprusi. Non esiste la possibilità di astrarre dal contesto. L’immagine diventa il documento di una verità crudele e certificata. Un adulto con un ruolo specifico di guida deriso è il segno del fallimento dei modelli di trasmissione dei saperi. Anni fa si contestavano i metodi di questo passaggio di testimone tra generazioni. Stavolta a saltare è il banco tutto. Messo alla berlina è il singolo anello debole, che rappresenta un sistema ritenuto inutile. A scuola, sembrano dire questi ragazzi che filmano loro stessi, le proprie eroiche gesta, ci si va per far casino e poco altro.
Non credo per tutti sia così, ma stavolta c’è di mezzo la prova, non le chiacchiere pedagogiche o le lamentele di categoria. Stavolta il mezzo ha soppiantato qualsiasi analisi e decontestualizzazione mobilitando lo sdegno, che credo durerà qualche settimana in più del solito. Il mezzo sappiamo quale è, ce l’abbiamo tra le mani molte ore al giorno. La responsabilità è di tutti avendone fatto un feticcio da esibire nelle sue possibilità di mostrare spezzoni di vita squallida e di realtà sovradimensionata. Sappiamo da tempo che chiunque di noi forte o debole che sia può essere sottoposto a un crudele giudizio collettivo con sentenza immediata dei suoi presunti pregi e difetti messi all’asta. Non discuto i torti criminali di questi ragazzi che meritano tutto il mio biasimo e la mia condanna, ma la possibilità diabolica di ricatto che ha qualsiasi documento sul nostro mondo privato e sul nostro universo pubblico. L’espressione rassegnata del collega vittima dell’aggressione dice tutto (sembrava dicesse “Cosa ci faccio io ancora qui alla mia età?”) su un passato di tentativi di ribellione al lasciar fare, lasciar passare probabilmente da parte della Direzione. Insomma una pena indicibile.

Francesco Tontoli

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NOTTURNI

21 giovedì Dic 2017

Posted by frantoli in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Francesco Tontoli, Notturni

NOTTURNO I

io, di notte

conto sempre i quarti d’ora

e in molti ovili il contatore mi salta a tal numero

e tastando le pecore nel sonno sento che hanno

quel pelo che immagini sotto ci sia chissà cosa e

allora io, di notte

oltre alle cose che mi passano accanto

mi tengo lontano dal sonno dei lupi

in una veglia interiore che molte volte

attende un albeggiare pallido

come fossi immerso con le mani nel nulla

a dipanare i fili che

 

invece io, di notte

sto lì a tendere

e ogni filo, di notte, diventa il mio tessuto

che si fa e si disfa in una trama sempre nuova

come se raccontasse quella storia o quell’altra

e a volte con la navetta e il pettine

di un telaio musicale

 

purtroppo io, di notte

a furia di cantare curvo sulle corde tese

mi consumo come se consumassi la notte stessa

e quando anche ne aspettassi un’altra

la notte

le altre volte tesse sé stessa senza che

 

insomma io, di notte

possa cantarne i suoi oscuri motivi notturni

sicché la notte

mi vince con la forza della sua musica

e i suoi disegni pare si cancellano non appena

 

per caso io, di notte

cesso di far fluire le mezzore nelle clessidre

e dimentico di svuotare nel cielo della notte

la sabbia delle stelle

il tempo consumato nelle veglie

 

 

NOTTURNO  II

 

Tu, stanotte

hai di che dormire

stringo la tua mano

tengo nella mia mano il tuo sonno

veglio i fremiti della tua elettricità

che ti attraversano i palmi su binari che si biforcano

e la pulsazione delle tue vene

mi fa pensare che di notte vivi di altro ulteriore

e mi aiuti con il sonno a stare in questa notte

tu, stanotte

col treno fai arrivare alle stazioni

gli esseri alati che volano nel tuo sogno

delle cui storie mi racconterai domani

e lì accadono cose che ti fanno muovere labbra

e aggrottare sopracciglia, distendere gli arti

accennare a un dolore e fare di conto

e attraverso sottrazioni dell’essere

arrivi a sospirarmi qualcosa che non capisco

nella lingua che precede la poesia

 

 

NOTTURNO III

 

la notte per loro è una tana

si nascondono chiusi dentro quel bozzolo

e l’odio che secernono a ogni sogno

li fortifica convincendoli che sono nel sogno giusto

e che il mondo è conforme a quello

che c’è da aspettarsi da un mondo

il loro sonno ronza progettato giustamente

come è progettato il piano inclinato sul quale rotolare

al risveglio la notte li avrà ricaricati

avranno molte tacche ai loro archi

molte sfide di finanza li attendono

come assalire e predare, uccidere variando i tassi finanziari

considerano la speranza una sconfitta

la notte non li trascura, e stando lì a oliare gli indici

metteranno in ginocchio le loro madri prima che faccia giorno

 

NOTTURNO  IV

 

Buttato in un aeroporto

la notte non mi fa paura

saporiti dormiamo tra le valigie

sogniamo fusi orari come quelli

dei quadri di Dalì in terre desolate.

Si è fermato alle tre di questa notte

il tempo ha bivaccato cantando

la canzone di chi chiede asilo.

Ognuno al cellulare fotografa la scena

dove i bambini restano di stucco

ridendo sui cartoni illuminati.

 

Chi dorme sogna i suoi vent’anni

li avrà chi non li ha mai avuti da vivo

la notte stanotte non mi ha divorato.

 

 

NOTTURNO  V

 

tenta la notte ancora di annottare

scende, tratta col vento la sua tregua

ma i patti erano patti e dilaga

lungo questo asse non ancora invernale

attendiamo uno strano Godot dall’Artico

si avvicendano i nuovi giorni al calendario

senza che si veda nulla all’orizzonte

dalla nostra fortezza il tenente ispeziona l’oscurità

nel deserto di cose che abbiamo davanti

c’ è l’idea di un nuovo crollo del fronte

spediremo lettere a casa con “amore mio”

come solo ed eterno richiamo che filtri calore

e il ricordo di un pianto dentro un foglio inzuppato.

 

 

NOTTURNO VI

 

Notte di una notte senza fine

notte il cui confine non arrivo a percepire

notte che passo dentro ad altre notti

in bilico a sedere su una sponda di letto

di un orizzonte opaco e imperfetto

Notte che il giorno me lo racconto e me lo canto

me lo tengo stretto accanto sul cuscino

lo vivo come sogno di luce, di cammino

E immagino un rumore di passi che percorrono la notte

con l’aria che si ingoia di notte ad un aprir di finestra

e in quell’affaccio ti vedo attraversare il filo delle ore

che contate e ricontate non sono più notte

su ore non ancora calde che non fanno il giorno

Notte che annotti sulla città

afferrando e scuotendo lampioni

con un vento che vorrebbe parlarmi

senza aver proprio nulla da dire.

Sarebbe molto meglio dormire

quasi (almeno) come un piccolo morire.

 

Francesco Tontoli

 

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Prisma lirico 4: Francesco Tontoli – René Magritte – Loredana Semantica

31 mercoledì Mag 2017

Posted by frantoli in ARTI VISIVE, Fotografia, Il colore e le forme, LETTERATURA E POESIA, Poesie, Prisma lirico

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Tag

Francesco Tontoli, Loredana Semantica, René Magritte

Nell’ambito della rubrica Prisma lirico, oggi presentiamo una poesia di Francesco Tontoli, con fotografia di Loredana Semantica e opera di Renè Magritte

ph. Loredana Semantica

VERBO

Credo sia arrivato il momento di dirlo
il sole non è rotondo come non lo è l’arancia
e nemmeno la Terra è blu
azzurro il cielo e i monti e i laghi
non sono morti i morti e i vivi
E’ tutta una fantasia
tenuta gelosamente nascosta
a cui abbiamo creduto perché faceva comodo crederci
Tu per esempio , non sei quella che sembri
così per dire, e io non sono quello che sono.
Ed è davvero strano che nonostante
questo non essere questo o quello
non essere interamente bianco su bianco
non essere il corpo che getta ombra
non essere completamente in accordo
e combaciare perfettamente l’uno dentro l’altro
noi, e dico noi per dire chiunque altro
noi cerchiamo ancora la curva che abbellisce la forma
la ruga del viso dove va a sostare una lacrima
trovando l’uno dentro l’altro uno spazio, un luogo
aprendo porte, attraversando corridoi
rimanendo per anni sospesi dentro a una promessa
accontentandoci di essere curvi minatori
crescendo figli come fossero verbi incarnati.
Poi, dopo le traversate nel deserto
quando la vista del sole ci appare schiacciata ai poli
e il colore sbiadito ci fa immaginare
la stupida perfezione della verità delle cose
il pensarlo ci mette davanti allo specchio dell’altro
e magari ci tocca morire proprio sul più bello
lasciando l’altro nel corridoio delle promesse non mantenute
di un verbo non pronunciato nella sua pienezza
come ad esempio il verbo amare.

Francesco Tontoli

René Magritte

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LA POESIA PAPALE PAPALE

12 giovedì Mag 2016

Posted by frantoli in Ispirazioni e divagazioni, SINE LIMINE

≈ Commenti disabilitati su LA POESIA PAPALE PAPALE

Tag

Francesco Tontoli

Francesco Tontoli.

(Excusatio non petita)

Ho scelto deliberatamente di scrivere un articolo invece di rispondere a singole domande attraverso un’intervista riguardante il “cos’è una poesia” con tutte le variabili annesse. Non sono stato mai intervistato in vita mia rimanendo indenne da questa seccatura fino agli attuali 60 anni. Posso cedere alla tentazione solo davanti a una Barbaradurso. Almeno negli incubi. La verità è che naturalmente le interviste mi imbarazzano. Continua a leggere →

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sono ganzo anche da cecato

11 mercoledì Mag 2016

Posted by frantoli in LETTERATURA E POESIA, Poesie, SINE LIMINE

≈ Commenti disabilitati su sono ganzo anche da cecato

Tag

Francesco Tontoli, poesia

Fui ganzo e lo seppi

ma non abbastanza

mai si è ganzi abbastanza

per vedere il cieco in una stanza.

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Quattro legni

13 mercoledì Apr 2016

Posted by frantoli in LETTERATURA E POESIA, Poesie

≈ Commenti disabilitati su Quattro legni

Tag

Francesco Tontoli; Gianni Morandi; poesia

gianni_morandi_5

Non son legno di te
ma son foglia di tè
sono seme di me…
come un’aria di bach
me ne fuggo da te
per riassumermi in me
come un organo che
in ginocchio da te
fa dell’ autodafè
per scaldarsi il popò

*

Non son legno di te
sono solo l’abaco
da cui staccavi
la paroletta invano.

*

Non son Renzo di te
né legno, né ramo del lago
né mago del fico
né bravo, né don Rodrigo
ma abbondo in legnate schivate
in botte ammaccate
sonore bastonate che ricevo soave
e che stivo, lucido e recidivo
corrivo compongo da solo
il più corrosivo dei versi.
Lucia è una innominata nostalgia
sulla riva sinistra del ramo.

*

non son legno di te
più niente di me è l’albero
più niente di te è mia carne
siamo fatti frutto e corteccia
ma conservo ancora memoria
del tuo scheletro nel seme che nascondo
e tu di me l’aspro del sapore
nel succo del bacio che ci legava al ramo
non sono quel fiore tuo colorato
che tanto amavi sventolare
né quel bocciolo indurito dal gelo
e del frutto di cui ognuno è stato
e di ogni seme, in un giorno ventoso
sarà fatta fiamma.

Francesco Tontoli

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