
Smarginature (LietoColle, 2020) non è un libro da leggere: è un libro da accettare. Nel mettere in scena un dissidio – il suo, quello di tutti – Giorgia Esposito trascrive un dilemma che non può essere dipanato, se non con ciò che potremmo chiamare una forma di fede, un patto poetico-pragmatico. Di fatto, al centro della materia del libro c’è l’io lirico con i suoi traumi, i suoi desideri, le sue amicizie, e quello che si predica è la sua esemplarità. Se gli accenni al concreto, per quanto nitidi, non fossero sfumati dalla tenuta sovramondana dell’insieme, potremmo parlare di un’opera di formazione, di una narrazione in versi in cui la poeta, schiudendosi al pubblico, se ne pone a sintesi e modello; ma questo non accade e il dibattersi ondisono di Esposito assume pagina dopo pagina il bruciore della mistica.
Perché quando nella poesia di apertura viene detto che «qualcuno sta cercando i suoi,/ il non ritorno, il bacio sulla fronte/ del padre» e due pagine dopo «l’acqua non purifica,/ non ripara, non è più ritorno vitale», si sta mettendo a paradigma sottotraccia una cosa sola: l’impossibilità. Quante volte in Smarginature i desideri vengono frustrati, come quando il desiderio di immensità di Marta viene ridotto a «una forma di schizofrenia,/ una distorsione della mente». Insomma, viene posto un netto confine alle velleità del soggetto, una linea che ricalca la massima delfica del μηδὲν ἄγαν, ‘nulla di troppo’, ed è ciò che anche Augusto Pivanti rileva nella sua breve nota al volume. Questi parla di una coabitazione tra la «riduzione dei margini» e «l’espandersi oltre i margini», ma non può essere ignorato che, quando i margini si serrano, l’io è infelice. Già nella prima lirica si parla di infelicità, e ancora questo accade in tutti quei momenti soggetti alle incursioni della memoria. Che si tratti di «foto di figli,/qualche santino» o di un ineluttabile «spettro di ereditarietà/ mal smaltito», la sostanza non cambia: il ricordo traccia margini, genera sofferenza, tanto che «il pensiero divora le teste/ e le risputa matte». È questo il primo termine del paradosso di Smarginature: lo statuto di astrattezza per eccellenza, il pensiero, si sostanzia in situazioni tanto reali da non poter esser evase. E qui si gioca tutto il rovesciamento del libro: la possibilità di smarginare, di esorbitare in una serenità totale viene raggiunta solo se ci si affida al concreto, ai «residui sensoriali» e in primis al corpo. Infatti, «la voce non copre la mano che trema» e poco più avanti smaccatamente si dice che «i corpi ci chiamano per resistere/ all’orrore», perché rispetto al pensiero, la carne non pone filtri o forme di mediazione, non può ingannare e ricorrendo a lei i problemi vengono affrontati di petto, non ruminati. Ma c’è di più: il corpo è un sistema chiuso, limitato, conoscibile e i suoi confini sono delineati con chiarezza, non così quelli della mente Perciò il rapporto tra i due appare veramente quello tra il cielo e «la feritoia da cui scocca la luce», come a ribadire ancora una volta la direzione perseguita dal libro: per non smarrirsi occorre procedere dal micro al macro, smarginare a partire dal comprovato caposaldo di quella fisicità che appare spesso come ben più di una pura manifestazione del proprio mondo interiore. Insomma, Esposito propone una disamina analitica del rapporto mente- corpo e delle sue conseguenze sulla tensione alla felicità, tanto che l’orizzonte dell’operazione, che ad un tempo schiude e riserra questo binomio inscindibile, pare essere quello di una filosofia morale. La difficoltà del processo viene superata sul piano formale attraverso il sistematico ricorso a sentenze e casi esemplari, in un sistema gnomico che parrebbe essere nelle intenzioni dell’autrice l’unica soluzione ad una «testa indecifrata». Eppure, la lucidità complessiva del libro costituisce il migliore antidoto, esorcizza la paura di restare irrisolta e ci consegna una possibilità di azione senza mezzi termini. Smarginature ci parla di questo, di una felicità immensa e sbrigliata, della quale si ammette una sola possibilità di movimento: la crescita. In antitesi – ma forse bisognerebbe dire in commistione – con la gioia, in ogni lirica vengono inserite tessere disforiche a costante monito del fatto che «restare al centro» è complicato e possibile solo desiderando «l’intero nella crepa» nella piena accettazione: del corpo, dei margini, della sofferenza. Prima di ribellarsi.
**
Christian Negri vive in provincia di Lecco e studia Lettere Antiche alla Statale di Milano.
Sue poesie e contributi critici si trovano sul web.