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L’affittacamere (The Landlady) è un racconto breve di Roald Dahl, uno dei grandi maestri della short story, autore di opere di narrativa e di libri per ragazzi di grande successo internazionale. È tratto dalla raccolta “Kiss Kiss” e pubblicato nel 1960 da Alfred A.Knopf. La maggior parte delle storie erano già state pubblicate in precedenza in vari giornali e quindi raccolte nel libro. Il racconto, enigmatico e ricco di particolari significativi e colpi di scena, è ispirato da una situazione apparentemente normale poi attraversato da una vena di humour macabro. Parlando dei racconti di Dahl, Corrado Augias ha osservato che «sono perfette macchine narrative: la situazione di partenza sembra comune, addirittura banale, ma nel corso della vicenda subentra un piccolo incidente che rovescia in modo sinistro o grottesco i fatti… Dahl ha l’abilità di far diventare la cattiveria una qualità rivelatrice della natura umana.» Come accade nel genere giallo, il racconto inizia con la descrizione dell’ambientazione per assumere successivamente le caratteristiche dell’horror. La vicenda si svolge in un bed & breakfast in cui non ci sono altri ospiti all’infuori di Billy Weaver. L’esito è imprevedibile e inaspettato come spesso avviene in Dahl, il finale è lasciato volutamente in sospeso, ma lascia presagire quale sia la fine del giovane protagonista.

 

Billy Weaver era arrivato da Londra col lentissimo treno del pomeriggio, dopo aver cambiato a Swindon, e quando era sceso lì a Bath erano ormai già quasi le nove di sera, di una sera limpida, con un cielo stellato sopra le case di fronte alla stazione. Il freddo però era pressoché mortale e soffiava un vento che gli tagliava le guance come una lama di ghiaccio. «Mi scusi», disse. «Sa se c’è un albergo abbastanza modesto non lontano da qui?» «Provi al Bell and Dragon», rispose il facchino, indicando in fondo alla strada. «Avranno forse una camera. Sempre dritto, a un quarto di miglio, sull’altro lato della strada.» Billy ringraziò, raccolse la valigia e s’accinse a percorrere il quarto di miglio fino al Bell and Dragon. Non era mai stato a Bath prima; non vi conosceva nessuno, ma Mr Greenslade, della Direzione Centrale lì a Londra, gli aveva detto che era una magnifica città. «Si trovi un alloggio», aveva detto, «quindi si presenti al direttore della filiale. Questo non appena si sarà sistemato.» Billy aveva diciassette anni. Indossava un cappotto blu marina nuovo, al quale s’accompagnavano un cappello di feltro marrone, nuovo, e un completo altrettanto marrone e nuovo, e questo lo faceva sentire in gran forma. S’avviò a passo svelto. In quegli ultimi tempi cercava di essere svelto in tutto. La sveltezza, aveva deciso, era la caratteristica comune a tutti gli uomini di successo. I pezzi grossi della Direzione Centrale erano sempre assolutamente, fantasticamente svelti. Erano straordinari. In quella strada abbastanza ampia non c’erano negozi, solo una fila di case alte sui due lati, tutte identiche. Avevano, tutte, portico con colonne e quattro o cinque gradini che conducevano alla porta d’ingresso. Era chiaro che un tempo dovevano essere state dimore piuttosto pretenziose; ora invece, persino con quel buio, si vedeva la vernice scrostata degli infissi delle porte e delle finestre, e le crepe e le macchie dell’abbandono sulle belle facciate bianche. D’un tratto, a una finestra al pianterreno illuminata in pieno dal lampione, a neppure sei passi di distanza, Billy scorse un cartello appoggiato al vetro dall’interno, a uno dei pannelli superiori. Diceva: BED AND BREAKFAST.

Proprio sotto al cartello, alto e bello, in un vaso, c’era un salice caprea. Si fermò. S’avvicinò. Ai lati della finestra pendevano tende verdi (d’una stoffa tipo velluto). Accanto a loro il salice risultava stupendo. S’avvicinò di più, spiò attraverso il vetro nella stanza e la prima cosa che vide fu un gran bel fuoco acceso nel camino. Sul tappeto davanti al fuoco dormiva acciambellato un grazioso bassotto, col muso cacciato sotto il ventre. Quanto alla stanza, per quel che poteva vedere nella penombra del portico, era arredata con bei mobili graziosi. C’era un piano a coda piccola e un gran divano, più varie comode poltrone; in un angolo intravide la grossa gabbia d’un pappagallo. In posti come quello gli animali sono sempre un buon segno, si disse Billy; insomma, quella gli sembrava una casa più che accogliente. Certamente doveva essere molto più comoda del Bell and Dragon. D’altro canto, un pub era certamente più avvincente d’una pensione. Poteva offrirti birra, freccette, abbastanza gente con cui chiacchierare e passare la serata, e magari sarebbe stato anche più economico. Lui aveva già passato una volta un paio di notti in un albergo con pub e non gli era affatto dispiaciuto. In una pensione invece non era mai stato e, a voler essere sinceri, gli mettevano un pochino soggezione. Il solo nome evocava immagini di annacquate zuppe di cavolo, affittacamere rapaci e un forte odore di aringhe affumicate in soggiorno. Dopo aver titubato per altri due o tre minuti al freddo, decise di tirare oltre e di andare a dare un’occhiata al Bell and Dragon prima di decidere. Fece per girarsi e andare. A quel punto gli successe una cosa strana. Stava per voltarsi e allontanarsi dalla finestra quando, a un tratto, il suo sguardo fu attratto da una certa stranezza del cartello dietro i vetri. BED AND BREAKFAST, diceva. BED AND BREAKFAST, BED AND BREAKFAST, BED AND BREAKFAST. Ogni parola era come un grosso occhio nero che lo fissava da dietro il vetro, lo tratteneva, lo inchiodava lì impedendogli di allontanarsi dalla casa; e un attimo dopo si rese conto che stava allontanandosi dalla finestra, sì, ma per dirigersi verso la porta d’ingresso, su per i gradini, e che stava allungando la mano verso il campanello. Schiacciò il pulsante. Lontano, in fondo alla casa, udì lo squillo e immediatamente – proprio così, immediatamente, perché non aveva staccato neppure il dito dal pulsante del campanello – la porta si spalancò e sulla soglia comparve una donna. Di solito quando suoni un campanello devi aspettare almeno un mezzo minuto prima che la porta si apra. Quella signora invece saltò fuori come da una scatola a sorpresa. Aveva suonato e, toh, quella era scattata. Gli fece fare un salto. Aveva un quarantacinque-cinquant’anni e quando lo vide gli fece un gran sorriso di benvenuto. «Prego, entri», disse in tono simpatico. Si fece da parte, tenendo la porta spalancata, e Billy si trovò ad avanzare automaticamente sulla soglia. La spinta, o meglio ancora il desiderio di seguirla entro quella casa, fu quanto mai irresistibile. «Ho visto il cartello alla finestra», disse, controllandosi. «Sì, lo so.» «Mi chiedevo se c’è una stanza.» «È già tutto pronto per lei.» La signora aveva una faccia tonda e rosea, con dolcissimi occhi cilestrini. «Ero diretto al Bell and Dragon, quando l’occhio m’è caduto sul cartello alla sua finestra.» «Mio caro ragazzo, perché non si toglie dal freddo? Entri.» «Quanto chiede?» «Cinque scellini e sei penny la notte, prima colazione compresa. » Pochissimo, meno della metà di quanto lui era disposto a pagare. «Se è troppo», aggiunse la signora, «magari le faccio una piccola riduzione. Desidera le uova a colazione? Le uova oggigiorno sono care. Facciamo sei penny di meno, senza le uova.» «Cinque scellini e sei penny vanno benissimo. Mi piace proprio fermarmi qui.» «Lo sapevo che le sarebbe piaciuto. Prego, entri.» Era estremamente garbata e aveva l’aspetto spiccicato della madre del tuo migliore compagno di scuola che ti accoglie in casa per ospitarti per le vacanze natalizie. Billy si tolse il cappello e varcò la soglia. «Lo appenda lì. E lasci che l’aiuti col cappotto.» Non c’erano altri cappelli e cappotti nell’ingresso. Non c’erano neppure ombrelli, e niente bastoni… niente di niente. «L’abbiamo tutto per noi», stava dicendo la signora, voltandosi e sorridendogli mentre lo precedeva su per le scale. «Sa, non mi capita tanto spesso di avere ospiti nel mio piccolo nido.» La giovanotta sarà un tantino picchiata, si disse Billy. Ma a cinque scellini e sei penny, chi se ne frega? «Avrei detto che fosse quanto meno sommersa dalle richieste», disse, per gentilezza. «Oh, certo, lo sono, mio caro. Ma il guaio è che tendo a essere un tantinello esigente nelle mie scelte… Non so se mi spiego.» «Oh, sì.» «Però sono sempre pronta. Tutto è sempre pronto, giorno e notte, in questa casa, proprio nel caso che si presenti un giovanotto decente. E, mio caro, è un tale piacere, un tale grande piacere quando a volte mi capita di aprire la porta e di vedere là sulla soglia proprio la persona giusta.» Era a metà rampa e si fermò un attimo con la mano sul corrimano, girò il capo e gli sorrise, con quelle sue pallide labbra. «Una persona come lei», aggiunse poi, e gli occhi cilestrini lo scrutarono tutto quanto, da capo a piedi e viceversa. Arrivati sul pianerottolo del primo piano gli disse: «Questo piano è mio». Salirono una seconda rampa. «E questo è tutto suo», disse ancora. «Ecco la sua stanza. Spero che le piaccia.» Lo introdusse in una camera da letto piccola ma accogliente, sul davanti della casa, e accese la luce nell’entrare. «La mattina il sole entra dritto da quella finestra, Mr Perkins. Si chiama Perkins, vero?» «No, Weaver.» «Mr Weaver. Benissimo. Ho messo una bottiglia d’acqua calda tra le lenzuola, Mr Weaver. È un tale conforto, in un letto estraneo, trovare una bottiglia d’acqua calda e lenzuola pulite, non trova? E può accendere la stufa a gas se ha freddo.» «Grazie», rispose Billy. «Grazie davvero.» Notò che il copriletto era stato tolto e le coperte erano state ripiegate, pronte ad accogliere qualcuno. «Sono così contenta che sia arrivato.» Lo guardò dritto negli occhi. «Cominciavo a preoccuparmi.» «Stia tranquilla», rispose Billy con una certa animazione. «Non deve preoccuparsi per me.» Poggiò la valigia sulla sedia e s’accinse ad aprirla. «E per cena, mio caro? Ha mangiato qualcosa prima di arrivare qui?» «Grazie, non ho un briciolo d’appetito. Credo che andrò a letto al più presto possibile perché domani mattina dovrò alzarmi presto e correre a presentarmi in ufficio.» «Benissimo, allora la lascio, così può disfare la valigia. Prima d’andare a letto, però, vuole avere la cortesia di fare un salto giù in soggiorno, al pianterreno, a firmare il libro? Bisogna farlo, perché così vuole la legge, e non è che al punto in cui siamo vogliamo infrangere la legge, vero?» Lo salutò con un cenno della mano e uscì dalla stanza chiudendo la porta. Ebbene, il fatto che la padrona di quella casa fosse un tantino picchiata in testa non preoccupò minimamente Billy. Dopotutto, non solo era innocua – su questo non c’erano dubbi – ma era anche, si capiva, una persona gentile e generosa. Immaginò che probabilmente doveva aver perso un figlio in guerra, qualcosa del genere, e non s’era mai più ripresa. E così, pochi minuti dopo, disfatta la valigia e lavatosi le mani, scese al pianterreno e fece il suo ingresso nel soggiorno. La signora non c’era, ma nel camino il fuoco era acceso e il bassotto era ancora lì che dormiva. La stanza era gradevolmente calda e accogliente. Sono proprio fortunato, si disse, stropicciandosi le mani. Un bel colpo. Trovò il libro delle presenze aperto sul pianoforte, così tirò fuori la penna e scrisse il proprio nome e indirizzo. C’erano solo altre due presenze in quella pagina e, come spesso succede, lui lesse i nomi e gli indirizzi: un certo Christopher Mulholland, di Cardiff, e Gregory W. Temple, di Bristol. Strano, pensò a quel punto. Christopher Mulholland. Non mi suona nuovo. Dove diavolo l’aveva sentito quel nome non certo molto comune? Un compagno di scuola? No. Uno dei tanti giovanotti di sua sorella, forse? O un amico di suo padre? No, no, niente di tutto questo. Diede un’altra occhiata al libro. Christopher Mulholland, 231 Cathedral Road, Cardiff. Gregory W. Temple, 27 Sycamore Drive, Bristol. Per la verità, a ben pensarci, non era affatto sicuro che anche il secondo nome non gli suonasse anch’esso familiare. «Gregory Temple», ripeté ad alta voce, sforzandosi di ricordare. «Christopher Mulholland.» «Due simpaticissimi giovanotti», disse qualcuno dietro di lui, come in risposta. Si voltò e vide la padrona di casa che avanzava nella stanza con un gran vassoio d’argento in mano. Lo reggeva ben alto davanti a sé, come se invece del tè si trattasse delle redini d’un galoppante cavallo. «Mi sembrano piuttosto familiari», disse lui. «Davvero? Interessante.» «Sono più che sicuro di averli sentiti da qualche parte. Non è strano? Magari li ho letti su un giornale. Non è che per caso fossero famosi, vero? Voglio dire, famosi giocatori di cricket o di pallone, qualcosa del genere. No?» «Famosi?» ripeté lei, poggiando il vassoio su un tavolino davanti al divano. «Oh, no. Non credo che fossero famosi. Erano però eccezionalmente belli, tutt’e due, questo gliel’assicuro. Erano alti e giovani, belli, mio caro, proprio come lei.» Billy lanciò un’altra occhiata al libro. «Guardi», esclamò, notando le date. «L’ultimo ha firmato più di due anni fa.» «Davvero?» «Sì, certo. E Christopher Mulholland risale a quasi un anno prima… cioè a più di tre anni fa.» «Santo cielo», esclamò la donna, scuotendo il capo e mandando un piccolo capolavoro di sospiro. «Non l’avrei mai detto. Come vola il tempo, vero, Mr Wilkins?» «Weaver», corresse lui. «W-e-a-v-e-r.» «Certo, certo!» esclamò lei, prendendo posto sul divano. «Che sciocca. Voglia scusarmi. M’entra da un orecchio e m’esce dall’altro, sempre così, Mr Weaver.» «Sa una cosa? Una cosa che trovo davvero straordinaria in tutto questo?» «No, mio caro, mi dica.» «Be’, vede… Quei due nomi, Mulholland e Temple, ho l’impressione di ricordarli separatamente, per così dire, e tuttavia, chissà come, in un modo o nell’altro mi risultano anche collegati tra loro. Come se fossero ambedue famosi per la stessa cosa, per lo stesso motivo. Non so se mi spiego… come… be’… come Dempsey e Tunney, per esempio, o Churchill e Roosevelt.» «Che strano. Ora però, mio caro, venga a sedere qui accanto a me, sul divano, e le offrirò una bella tazza di tè con un biscottino allo zenzero. E dopo andrà a letto.» «Davvero non deve prendersi tanto disturbo. Avrei preferito che non si scomodasse tanto.» Billy stava accanto al piano e la guardava mentre armeggiava con le tazze e i piattini. Notò le mani: piccole, bianche, inquiete, con le unghie dipinte di rosso. «Già, sono quasi sicuro di averli letti su qualche giornale», disse. «Ora che ci ripenso, sono sicuro di sì.» Non c’è niente di più provocante d’un ricordo che fa a malapena capolino sull’orizzonte della memoria. Odiava arrendersi. «Un momento», esclamò. «Un momento. Mulholland… Christopher Mulholland… Non è il nome di quello studente di Eton che stava facendo un giro del West Country e tutt’a un tratto…» «Latte? Zucchero?» «Sì, grazie. Tutt’a un tratto…» «Studente di Eton?» chiese la donna. «Oh, no, mio caro, proprio non è possibile, perché il mio Mr Mulholland non era certo uno studente di Eton quando si presentò da me. Era un laureando di Cambridge. Ora venga a sedersi qui accanto a me e a riscaldarsi davanti a questo bel fuoco. Venga, su. La sua tazza è pronta.» Batté con la mano sul posto vuoto accanto a lei sul divano e, sorridendogli, aspettò che andasse da lei. Lui attraversò la stanza a passo lento e prese posto in punta al divano. Lei poggiò la tazza di tè sul tavolino davanti a lui. «Ecco qua», disse poi. «Com’è bello e accogliente tutto questo, non trova?» Billy prese a sorseggiare il suo tè. Lei fece altrettanto. Per qualcosa come un mezzo minuto nessuno dei due aprì bocca. Billy però sapeva che la donna stava guardandolo. Era girata a metà verso di lui, e lui si sentiva addosso gli occhi cilestrini, che lo guardavano da sopra il bordo della tazza. Ogni tanto avvertiva un odore particolare che sembrava provenire da lei. Non era affatto spiacevole e gli ricordava… be’, non avrebbe saputo dire che cosa gli ricordava. Sottaceti? Pelle appena conciata? O il corridoio di un ospedale? «Mr Mulholland era impareggiabile in fatto di tè», disse la donna alla fine. «In vita mia non ho mai visto nessuno bere tanto tè quanto il caro, dolce Mr Mulholland.» «Immagino che non sarà andato via da molto», disse lui. Stava ancora spremendosi il cervello con quei due nomi. Oramai era sicuro di averli letti su un giornale… nei titoli di un giornale. «Andato via?» esclamò la donna inarcando le sopracciglia. «Ma, mio caro ragazzo, non è mai andato via. È ancora qui. Anche Mr Temple è ancora qui. Sono al terzo piano, tutt’e due.» Lentamente, Billy poggiò la tazza sul tavolino e la guardò dritto negli occhi cilestrini. Lei gli sorrise, poi allungò una manina bianca e gli batté sul ginocchio, rassicurante. «Quanti anni ha lei, mio caro?» chiese. «Diciassette.» «Diciassette!» esclamò lei. «Oh, l’età perfetta! Anche Mr Mulholland aveva diciassette anni. Credo però che fosse un tantino più basso di lei, anzi ne sono sicura, e non aveva denti bianchissimi. Lei ha denti meravigliosi, Mr Weaver, lo sapeva?» «Sono meno buoni di quel che sembrano», osservò lui. «Quelli in fondo sono pieni di otturazioni.» «Naturalmente Mr Temple era un po’ più grande», continuò lei, ignorando la sua osservazione. «In realtà, aveva ventotto anni. Ma se non me l’avesse detto non lo avrei mai indovinato, mai, assolutamente. Il suo corpo non aveva una pecca.» «Una che?» fece lui. «Aveva la pelle di un neonato.» Poi ci fu silenzio. Billy raccolse la sua tazza e bevve un altro sorso, quindi la posò di nuovo sul piattino, con dolcezza. Aspettò che lei dicesse qualcosa ma, a quanto pareva, era diventata muta. Lui guardava dritto davanti a sé, nell’angolo della stanza, e si mordeva il labbro inferiore. «Il pappagallo», disse alla fine. «Sa una cosa? Mi ha completamente ingannato quando l’ho visto la prima volta attraverso la finestra. Avrei giurato che fosse vivo.» «Ahimè, non più.» «Hanno fatto un magnifico lavoro. Non sembra per niente morto. Chi l’ha fatto?» «Io.» «Lei?» «Certo, io. E ha anche visto il mio Basil?» Col capo indicò il bassotto acciambellato comodamente davanti al camino. Billy guardò da quella parte e, di colpo, si rese conto che per tutto quel tempo la bestia era rimasta immobile e silenziosa come il pappagallo. Allungò una mano e gli sfiorò il dorso. Era freddo e duro e quando, con le dita, scostò il pelo vide che la pelle di sotto era grigio-bruno e secca, perfettamente conservata. «Cielo santissimo», esclamò. «Ma è assolutamente affascinante.» Allontanò lo sguardo dal cane e lo fissò, con profonda ammirazione, sulla donna, piccolina, seduta accanto a lui sul divano. «Deve essere un lavoro difficilissimo.» «Per niente», rispose lei. «Imbalsamo tutte le mie care creature quando trapassano. Vuole un’altra tazza di tè?» «No, grazie.» Quel tè aveva un vago sapore di mandorle amare, e proprio non lo faceva impazzire. «Ha firmato il libro, vero?» «Oh, sì.» «Bene. Perché più in là, se per caso dimentico il suo nome, posso sempre guardare nel libro. Lo faccio sempre, quasi ogni giorno, con Mr Mulholland e Mr… Mr…» «Temple», completò Billy. «Gregory Temple. Mi perdoni la domanda, ma non ha avuto altri ospiti all’infuori di quei due in questi ultimi tre anni?» Reggendo la tazza con una mano, piegando leggermente il capo sulla sinistra, la donna lo guardò con l’angolo degli occhi cilestrini e gli sorrise ancora una volta, dolce. «No, mio caro», rispose poi. «Solo lei.»

Da Road Dahl, Storie impreviste, trad. di Attilio Veraldi, Longanesi & Co, 1989