
Premessa
Orfeo non era fra i miei miti più frequentati fino a che non ho letto un saggio di Brodskj, dedicato a una poesia di Rilke, un altro autore rispetto al quale mi ero sempre tenuto un po’ a distanza finché non l’ho incontrato in quella straordinaria avventura epistolare a tre – Settimo sogno – su cui ho già scritto nel mio blog un saggio a cui rimando.1 La diffidenza rispetto a Rilke come a Orfeo riguardava più che altro la riproposizione dell’orfismo nel pieno della modernità. Era stato Apollinaire ad annunciare la nascita del cubismo orfico nel 1912. Dell’impresa facevano parte Delauny, il gruppo di pittori del Blaue Reiter, Duchamp e addirittura i futuristi italiani e Léger! Secondo Apollinaire il carattere orfico del gruppo sarebbe consistito nel fare riferimento alla parte irrazionale dello spirito, con sconfinamenti nel magico. I testi in auge durante quegli anni erano, in poesia, Coup de dés di Mallarmé e per quanto riguarda la teoria o la filosofia, un libro scritto a sei mani da Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sebastien Voirol La poesia dell’oralità, dove si parla fra le altre cose del simultaneismo orfico. Con tutto ciò, a dire il vero, Rilke non ha nulla a che fare, anche se il nome di Orfeo è presente dall’inizio alla fine della sua opera. Peraltro, a un secolo di distanza, è pure arduo capire cosa potessero avere in comune Leger e i futuristi italiani (e anche quelli russi), se non una generica e comune attenzione alla civiltà industriale. Tuttavia, mentre Leger e i russi esaltavano l’operaio e lo mettevano al centro della fabbrica, i futuristi italiani vedevano solo nel macchinismo, nella velocità e nella tecnologia il cuore del processo. Allo stesso modo, l’associazione fra orfismo e poesia sonora stabilita dal simultaneismo è assai risibile: scambiare il ta ta ta ta ta futurista per una formula magico rituale orfica indica soltanto una grande confusione e superficialità, trattandosi semplicemente dell’imitazione del suono di una sequenza di spari. Tornando a Rilke, il suo orfismo andava cercato altrove e cioè negli aspetti esoterici della sua ricerca e il suo legame con i miti, come avevano messo in luce tutti gli studiosi che si erano occupati di lui, sia nella prima parte del ‘900 sia nella seconda: Furio Jesi fu lo studioso che più se ne occupò in Italia proprio in quegli anni. Tuttavia, Rilke rimane anche oggi una presenza sfuggente e infatti il suo curioso destino è sempre stato quello di essere molto osannato e al tempo stesso preso con le molle, tenuto un po’ a distanza, considerato oscuro; oppure oggetto di aneddoti che costituivano un alone di mistero intorno a lui. Questo saggio per la sua lunghezza sarà diviso in due parti. Nella prima mi occuperò prima di tutto del saggio di Brodskj, nella seconda del mito di Orfeo.
Parte prima: Il saggio di Brodskj
Il titolo del saggio di Brodskj, Novant’anni dopo, è tanto impegnativo da diventare rivelatore dell’importanza che il suo autore attribuisce al poemetto di Rilke, la cui stranezza si evidenzia a partire dal titolo: Orfeo, Euridice. Ermes. La virgola separa i due primi nomi, poi il segno di interpunzione: nulla dopo il terzo nome.1 L’interpretazione che Brodskj ne dà è semplice e convincente: Orfeo ed Euridice, in quanto appartenenti al mondo degli umani, sono esseri finiti, mentre Ermete essendo un dio è aperto all’infinità. Con questo titolo, tuttavia, Rilke sembra volerci dire anche qualcosa d’altro e cioè che non ha alcuna intenzione di attualizzare il mito, ma di tornarvi in senso letterale, senza porsi particolari interrogativi, per cui fin dall’inizio vuole farci intendere che non dobbiamo attenderci alcuna sorpresa: lui, come noi, sa già come andrà a finire. Questo poemetto è del 1904 ed è stato scritto quando Rilke non era ancora diventato tale. Spesso ci dimentichiamo che un poeta o uno scrittore non sono gli stessi prima e dopo certe opere: vale per Dante con la Commedia, per Leopardi con L’infinito; vale in misura minore anche per Rilke. In quell’anno egli è un giovane poeta come tanti altri, ramingo per l’Europa: un flaneur un po’ fuori tempo massimo che prende per la coda uno dei vezzi più comuni agli artisti e intellettuali centro e nordeuropei del ‘700 e dell’800: il Grand Tour. Il motivo ispiratore occasionale del testo sembra essere stato un bassorilievo visto in un museo di Napoli, in cui sono scolpite tre figure ripiegate su se stesse: Orfeo, Euridice ed Ermete. Non è chiaro in quale occasione o passaggio delle lettere o altro, Rilke abbia accennato a tale bassorilievo. Forse Brodskj ne parla come di un proprio ricordo, perché pure lui non indica la fonte e a leggere il testo pare persino che abbia dato credito a qualcosa che gli è stato raccontato. Tutto questo, a ben vedere, è molto rilkiano perché il poeta boemo era noto per cancellare o lasciare nel vago le fonti delle sue ispirazioni e persino le sue letture. Le lettere spedite a Lou Salomé dall’Italia proprio in quel periodo non aiutano, così come non aiutano in altri casi. Peraltro, Brodskj nega che esista un rapporto di qualche importanza fra il bassorilievo e la poesia e inizia la sua analisi con una lunga premessa con la quale vuole escludere qualsiasi riferimento personale alla base di questo testo. Tuttavia nel parlare di una fuga dalla biografia, egli usa un’espressione assai ambigua e in molte altre parti della sua acutissima analisi del testo rilkiano, gli accenni a possibili elementi biografici non mancheranno; il che fa supporre, se mai, una ritrosia a parlarne, ma anche l’impossibilità di negarli. Del resto, se sono così labili le tracce di questo bassorilievo, perché mai dedicarvi tanto spazio per poi negarne l’importanza? Bisogna considerare che Brodskj, anche in altri saggi, insiste sulla necessità di non ricercare elementi biografici o altro in un testo poetico, dichiarando più volte (cito a memoria) che quando la metafora è riuscita non occorre altro. Vero, ma fino a un certo punto: la sua insistenza eccessiva sembra fatta apposta per suggerire il contrario e l’espressione fuga dalla biografia può essere letta come il segno evidente di un motivo ispiratore molto forte e assai personale, tanto personale che si potrebbe addirittura pensare alla faccenda del bassorilievo come a una voluta opera di depistaggio messa in atto da Rilke medesimo. Il poemetto quando Orfeo, già disceso nell’Ade, sta risalendo insieme a Euridice e a Ermes che li accompagna:
Era la prodigiosa miniera delle anime./Come vene d’argento silenziose/scorrevano il suo buio. Tra radici/ sgorgava il sangue che affluisce agli uomini/e greve come porfido appariva nel buio./Di rosso altro non c’era.//Rupi c’erano, selve incorporee e ponti sul vuoto/e quell’enorme, grigio, cieco stagno,/sospeso sopra il suo lontano fondo/come cielo piovoso su un paesaggio./E in mezzo a prati miti di pazienza,/pallida striscia, un unico sentiero era visibile/come una lunga tela distesa ad imbiancare.//E per quest’unico sentiero essi venivano.2
Siamo dunque in medias res, ma il mito non inizia da quel momento, se non altro per la banale considerazione che Euridice prima di essere morta è stata viva e nell’Ade non c’è andata di sua volontà. L’affermarsi di un’interpretazione, oppure il riferirsi solo a parti di un mito ha certamente le sue ragioni; ciononostante, non va dimenticato che si tratta pur sempre di visioni parziali che, se non vengono più sottoposte da lungo tempo a un vaglio critico, rischiano di diventare altrettanti stereotipi. Inoltre, il mito è stato più e più volte rivisitato, riattualizzato, setacciato, interpretato da altri scrittori, musicisti, pittori. Per rimanere solo al ‘900 italiano basterà ricordare Pavese nei Dialoghi con Leucò. La ricchezza e la complessità di questo mito, mettono chiunque ne voglia parlare e scrivere di fronte a un compito assai arduo. Inoltre, sebbene il momento in cui Orfeo si volta sia uno dei passaggi chiave, rimane pur vero che ce ne sono altri, per esempio l’inizio della storia e ciò che provoca la morte di Euridice; ma ancor più stupisce che Rilke, a differenza di quasi tutti coloro che nella storia se ne sono occupati, non sembra dare particolare rilevanza neppure a quel momento. Lo abbiamo visto a cominciare dal titolo, ma sarà ancora più evidente in alcuni versi su cui anche Brodskj si sofferma a lungo:
Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,/i due. Se per un attimo/gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare/non fosse la rovina dell’intera sua opera/prima del compimento)/li vedrebbe i silenziosi due che lo seguivano:…
L’accenno alla necessità di non voltarsi è messa fra parentesi, come se fosse scontato per l’uditorio che legge il suo testo; lo è, tutti sappiamo – lo ripeto – come va a finire la storia, ma si mette fra parentesi anche ciò che non è rilevante, come nota anche Brodskj, seppure dando un’interpretazione della mossa compiuta da Rilke diversa. Invece, credo che chiunque abbia udito questa narrazione la prima volta (nel mio caso fu in un’aula scolastica), arrivato alla fine si sia chiesto perché mai Orfeo si fosse voltato, visto che era la sola cosa che non doveva fare! Tuttavia, sembra che a Rilke tale domanda non interessi e in fondo anche il bassorilievo di Napoli non se ne cura: esso infatti riproduce le tre figure nel momento in cui si avviano per il sentiero di risalita. Di questo bassorilievo, peraltro, esistono diverse copie e anche altri miti vengono raffigurati in queste tavolette che sono anche l’imitazione di pezzi antichi e autentici ritrovati a Pompei: uno famosissimo è quello che riproduce l’immagine di una fanciulla che diventerà la Gradiva, un altro personaggio che all’inizio del ‘900 ha occupato le fantasie di Jensen e specialmente di Freud. L’immagine di Euridice ricorda assai quella della Gradiva e tutto questo rimanda a un immaginario popolare e al tempo stesso ingenuamente classicista. Brodskj vede nel segno grafico della parentesi entro la quale il poeta boemo accenna al divieto di voltarsi imposto a Orfeo dagli dei, un segno di attenzione nei confronti del lettore e forse di ironia: un ricordargli la storia, in sostanza. Anch’egli afferma subito dopo che ciò che si mette fra parentesi è anche qualcosa cui non si dà importanza ma nell’economia della sua critica Brodskj privilegia la versione di un avvertimento fornito al lettore. Credo invece che la ragione forte sia la prima: Rilke mette fra parentesi l’accenno al divieto perché per lui non è quello il motivo che lo ha spinto a scrivere il suo testo. Inoltre: è davvero realistico pensare che un lettore di Rilke nel 1904 e negli anni successivi, avesse bisogno di ricordare il divieto? La parentesi serve a Rilke per ribadire che non è quello per lui il momento topico del mito. Per giungere al passaggio che gli sta a cuore, il poeta ha ancora bisogno di tempo, deve girare un po’ al largo, caratterizzare tutti i personaggi, ma specialmente deve ritardare il momento in cui il testo lo porterà ad attraversare un passaggio particolarmente difficile; i versi che precedono servono anche a tenere quel momento, finché si può, lontano da sé. La parte centrale del poemetto ha questo scopo e Brodskj l’analizza puntualmente mettendo in evidenza la bellezza e le immagini davvero uniche di questa poesia, specialmente quando descrive Euridice, come si muove, le sue espressioni, il suo corpo. Il momento topico arriva con questi versi che seguono e che introducono un elemento di differenziazione che è proprio l’apporto che Rilke dà alla rilettura del mito. Insieme a essi riporto anche quelli immediatamente precedenti, che completano la descrizione di Euridice:
…/Era già sciolta come lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra/e divisa come un retaggio in cento/E quando all’improvviso/il dio la fermò e con dolore/pronunciò le parole Si è voltato! – lei non comprese e disse piano: Chi?/
Il monosillabo sussurrato da Euridice a Ermete risuona a lungo nelle orecchie di un lettore, anche di quello silenzioso; sebbene sussurrato sembra aprirsi in chi legge in un urlo senza fine. Anche Brodskj sottolinea l’importanza di questo passaggio che fa balzare sulla sedia, ma l’interpretazione che ne dà non mi convince e suona come un indoramento della pillola. Riconosce che in esso emerge qualcosa di personale e profondo che Rilke tradurrebbe nell’esperienza dell’estraniamento romantico, di cui, il chi sussurrato da Euridice sarebbe la metafora riuscita. Per spiegarlo meglio Brodskj ricorre a un aneddoto: immagina che un uomo (e uso il termine in senso parziale perché a mio avviso Brodskj aveva in mente un soggetto maschile forse perché penso che una donna non si comporterebbe così), passando per caso davanti alla casa di una ex che sia stata importante nella sua vita, venga preso dalla tentazione di suonare il citofono e di presentarsi con il proprio nome e di udire dall’altra parte la persona che fu la nostra compagna risponderci – dopo un momento di smarrimento – con un laconico: Chi? Brodskj afferma che se ci capitasse un’esperienza del genere capiremmo di essere stati sostituiti. Non concordo. Rilke in questo passaggio mette in scena ben altro e non ha in mente un accadimento in fondo così minore, anche se non abbiamo indizi ma solo supposizioni su quale sia il retroterra personale sullo sfondo del poemetto. Se ci capitasse un’esperienza come quella descritta da Brodskj, se mai, verremmo colpiti nel nostro narcisismo secondario e basta; ma se quel chi fosse l’eco di qualcosa di più profondo e fosse risuonato nelle orecchie di Rilke perché legato a un’ossessione che lo ha costantemente accompagnato per tutta vita – la ricerca spasmodica delle sue origini – quel chi avrebbe un altro significato: non capiremmo semplicemente di essere stati sostituiti, ma di essere morti per l’altro o l’altra che abbiamo interpellato, di non esserci più, addirittura di non esserci – forse – mai stati. Rilke mette veramente in scena qualcosa di nuovo e di diverso, che afferra allo stomaco e al cuore, nonostante che la scelta, felicissima sul piano poetico, abbia tuttavia anche degli aspetti paradossali, se ci fermassimo al teatrino. Perché Rilke sa che Euridice è già morta, lo ha descritto con accenti di straordinario struggimento e bellezza in versi precedenti questi e sui quali Brodskj ha scritto pagine mirabili cui nulla vi è da aggiungere. Perché allora fare parlare una defunta che per di più si rivolge a un dio, cosa che è vietata dal pantheon classico? La spiegazione che Rilke può farlo perché è un moderno e addirittura forse già un post moderno non convince per nulla. Non vi è in questo testo niente di postmoderno, la sua grandezza è dovuta in buona parte proprio a tale assenza. Rilke può farlo perché non rilegge il mito secondo il canone letterale e tradizionale delle sue interpretazioni correnti, ma vi introduce un elemento del tutto nuovo: il dolore che mette in scena non è quello di chi ha subito una perdita, o è stato sostituito, ma quello inspiegabile e definitivo di chi è stato perduto o non riconosciuto e nemmeno accolto nel mondo. La poesia però non finisce qui e non poneva finire qui: sarebbe stato concluderla con un colpo di teatro, con una battuta geniale ma – questa sì – postmoderna; ma ciò presupporrebbe un’intenzionalità diversa, parodiare il mito, che non era l’intento di Rilke. Perciò la poesia necessita di uno scioglimento che avviene con questi versi:
/Ma lassù scuro all’uscita chiara,/stava qualcuno, irriconoscibile./Stava e guardava un tratto del sentiero/in mezzo ai prati dove il dio del messaggio/si voltava in silenzio, mesto in viso,/e si avviava a seguire la figura/che già ripercorreva quel sentiero,/con il passo frenato dalle bende,/incerta mite e senza impazienza./
Il tono è dolente, il tutto finisce in una lunga scia che si attenua e ricorda certi struggenti finali wagneriani. Appare però un nuovo personaggio, che Rilke nei suoi versi decide di non nominare direttamente, ma solo tramite l’aggettivo irriconoscibile. In realtà è riconoscibilissimo e lo sa anche il poeta. Brodskj si chiede se avesse potuto nominarlo direttamente: in teoria sì, ma c’erano almeno tre buone ragioni per non farlo. Prima di tutto una citazione diretta sarebbe suonata troppo didascalica; in secondo luogo perché il lettore può capire da solo di chi si tratta. Per la terza ragione bisogna passare attraverso una domanda che la precede e cioè chiedersi se Rilke non avrebbe fatto meglio a non nominarlo del tutto. La risposta sta nel primo verso della parte finale, Ma lassù all’uscita .chiara. Rilke si è già congedato dalla scena e considera il finale come il compiersi oggettivo e impassibile del fato, da un lato; dall’altro, egli vede le cose dal punto di vista di Orfeo, ma non nel senso di un’immedesimazione diretta, diciamo psicologica nel personaggio, ma semplicemente oggettiva e realistica. Tornando alla luce dall’Ade Orfeo ne è abbagliato e non può vedere il qualcuno scuro che sta in alto – Crono – il dio che sintonizza gli orologi che scandiscono un tempo diverso per i vivi e i morti. Orfeo ed Euridice andavano fin dall’inizio in due direzioni opposte, era solo un’illusione di Orfeo che tutti e due stessero davvero andando verso la luce e la vita e quando Crono ha fatto scattare il meccanismo del tempo, si sono trovati l’uno di fronte all’altra; oppure – come ipotizza Brodskj, Crono li ha fatti voltare tutti due contemporaneamente. A conclusione di questa parte ricordo di nuovo l’inizio del saggio di Brodskj e il suo titolo impegnativo: Novant’anni dopo. La spiegazione di tale scelta è il poeta russo medesimo a darcela e a leggerla essa suona un’ovvia conseguenza del titolo stesso:
“Era il 1904 quando Rainer Maria Rilke scrisse Orfeo. Euridice. Ermes, e qualcuno può domandarsi se la più grande opera di questo secolo non fu creata novant’anni fa.” (ndr: il saggio di Brodskj fu scritto nel 1994)
L’iperbole usata da Brodskj è accettabile, anche perché il poeta non ignora di certo quanto sia difficile stabilire delle graduatorie in questo campo, ma essa può essere accolta senz’altro non solo come iperbole ma anche nella sua parziale verità. Tuttavia, nell’affermazione di cui sopra vi è una seconda parte nascosta, che Brodskj non credo avrebbe sottoscritto una volta resa esplicita e la cui responsabilità dunque è tutta mia. Il titolo del saggio, che il poeta russo lo volesse o meno, contiene un po’ di veleno nella coda e avendo a che fare con un mito in cui una parte rilevante ce l’ha anche il morso di una serpe, forse la cosa vale la pena di notarla. Dire che questa è la più grande poesia del ‘900, significa anche affermare che quanto Rilke ha scritto dopo e cioè le Elegie duinesi e I Sonetti a Orfeo, sono opere inferiori rispetto a questa. Faccio mia senza riserve tale ipotesi. Orfeo, Euridice. Ermes chiude a mio giudizio la stagione del Rilke poeta e ne apre un’altra: quella del letterato erudito e grande illusionista. Tuttavia, poiché un poeta può rimanere ed essere decisivo anche per avere scritto una sola poesia, Rilke, grazie a questo testo, merita anche l’iperbole di Brodskj, forse con una leggera aggiunta: è la più grande poesia del ‘900 secondo i canoni di una poetica. Del resto il poeta boemo, in uno dei non frequenti momenti in cui ha lasciato delle vere tracce di sé e non dei depistaggi, ha ammonito il lettore e il critico della sua poesia con queste parole che cito a memoria: Guardate che io sono l’ultimo di una lunga schiera. La schiera cui allude è quella dei poeti orfici, ma nel dirlo Rilke dimostra anche di avere avuto quanto meno la consapevolezza che essere l’ultimo potrebbe anche voler dire, oltre che esserlo in ordine di tempo, che la miniera è stata scavata a lungo, che l’oro rimasto è poco, che non si può pensare che l’orfismo possa rinascere nella sua pienezza, che le poetiche sono necessarie come punto di partenza, ma che in definitiva un poeta è tale se poi è capace o meno di apportarvi del nuovo; altrimenti si cade nella ripetizione. È quanto avviene dopo, specialmente nei Sonetti a Orfeo, che sono, rispetto al poemetto del 1904, pura letteratura erudita, o addirittura come scrisse Giovanni Papini in un articolo del Corriere della Sera del 1954: “trappolerie più pretenziose che preziose.”
Orfeo: Parte seconda.
Premessa
In questa seconda parte, la riflessione sarà focalizzata del mito di Orfeo in quanto tale, ma senza dimenticare il testo rilkiano e il saggio di Brodskj cui è dedicata la prima parte del saggio. Il mito è assai complesso perché – più di altri – è in realtà un intreccio fra miti diversi e la stessa definizione mito di Orfeo si presta a molti fraintendimenti, prima di tutto perché il suo nome è sempre associato a quello di Euridice; ma al tempo stesso, come vedremo, proprio quest’ultima, più ci si addentra nel labirinto e più sfuma in una nebbia che la nasconde sempre di più. Del mito nella sua interezza esistono peraltro versioni diverse. La mia scelta va a quella di Robert Graves, che ritengo l’autorità più affidabile del ‘900 in campo mitografico, il cui pregio più grande è proprio quello di raccogliere nella sua opera proprio le diverse e a volte contrastanti versioni dei miti, citando le fonti antiche e dando conto delle diverse interpretazioni di alcuni passaggi della vicenda. In nota ho riprodotto il suo testo preso dal capitolo eponimo, con poche modifiche irrilevanti in passaggi che erano ripetitivi e non aggiungevano nulla a quanto detto in precedenza.1 Accanto a Graves, però mi sono avvalso anche del racconto di Virgilio, che nella parte finale delle Georgiche, inserisce la favola dal titolo Aristeo e le api, per poi stabilire una relazione assai originale e suggestiva fra la favola e il mito di Orfeo.
Un labirinto di miti
La mia rilettura parte da un libro di Alessandro Carrera. Egli vede in Orfeo ed Euridice due figure simboliche di cui la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, dal canto suo, per creare qualcosa deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che pretende di tenere presso di sé sia l’opera sia l’ispirazione. Fin qui Carrera.2 Nel momento in cui Orfeo permette all’opera di esistere, perde Euridice.3 Nel mito classico, dunque, i due sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Naturalmente il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché il femminile è in rapporto diretto con la divinità (e la poesia è ispirata dagli dei secondo gli antichi), mentre il maschile – pur limitato – è il solo produttore di cultura.4 I momenti topici del mito sono l’iniziazione alla sua arte da parte di Orfeo – che ha diverse tappe – e la morte di Euridice. Nella prima fase della narrazione la relazione del poeta con quest’ultima appare del tutto separata dalle vicende della sua vita. Dal testo, si capisce che a Orfeo guardavano in molte e anche in molti, ma che lui aveva occhi e orecchi solo per Euridice. Di lei, tuttavia, non sappiamo molto, a parte il fatto di essere sposa di Orfeo, ma qualche fonte suggerisce che fossero solo fidanzati per dirla in termini a noi consueti. Quanto a Orfeo, egli è decritto secondo i canoni del mondo classico: il viaggio con gli Argonauti sulla nave Argo alla ricerca del Vello d’Oro fu un’impresa eroica, anche se nel caso specifico è strano che egli non ci abbia raccontato nulla di quel viaggio e il mito ci dice semplicemente che egli andò con loro e che con la sua cetra, cui aveva apportato delle modifiche, li aiutò a superare molte difficoltà. Vita e arte, impresa eroica e relazione matrimoniale s’incontrano in un momento tragico: un tentativo di stupro, a causa del quale e per cercare di sfuggirvi, Euridice muore morsa da una serpe. Entra così in scena Aristeo che è la causa prima, seppure indiretta, della morte di lei, ma è anche un figura importante per molto altro nel Pantheon greco. Apicoltore e pastore di greggi, a lui dobbiamo, secondo il mito, la lavorazione del miele. La storia di Aristeo s’incrocia solo in quel momento con l’altra narrazione, tanto che in certe versioni il suo stesso nome viene riportato di sfuggita. Andando alle fonti, ci s’imbatte subito in alcune sorprese. Per esempio che di Euridice ne esistono tre e che molte righe vengono dedicate alle altre due prima che gli estensori delle note ricordino che “la più famosa è la ninfa che fu sposa del poeta Orfeo.” Cito la frase fra virgolette perché è un ritornello che si ritrova in più definizioni e specialmente nel libro di Graves. Detto ciò, le note passano a narrare in modo più o meno completo la discesa nell’Ade da parte di lui e tutto quello che già sappiamo. La seconda sorpresa può essere il constatare che fosse una ninfa, cioè una creatura non proprio del tutto umana. Come abbiamo visto Rilke non se ne cura e tanto meno lo rileva Brodskj, ma questo secondo aspetto rende ancor più impalpabile la sua figura. Le ninfe appartengono alle forze ctonie della terra, sono entità che sfuggono alla nostra piena comprensione e anche il ricorso alle definizioni canoniche mette fra noi e loro una distanza difficilmente colmabile. Se andiamo un po’ avanti nel tempo e arriviamo a Virgilio, a noi più vicino come sensibilità, forse troviamo un’altra chiave d’accesso alla complessità di questa narrazione. Il poeta latino, mettendo in parallelo la vicenda di Orfeo con quella di Aristeo e riferendosi a sua volta ad altre fonti, afferma che le due narrazioni vanno poste in contrapposizione per fare risaltare la differenza di comportamento fra i due uomini. A che cosa si riferisce Virgilio? Al fatto che l’apicoltore, ritenuto dagli dei il responsabile indiretto della morte di Euridice, viene punito con la sottrazione delle api, cioè viene privato non solo del suo lavoro ma anche della sua identità. Disperato, egli ammette la sua responsabilità, compie un atto di umiltà e chiede cosa possa fare in riparazione. Gli dei gli impongono un sacrificio e gli restituiscono le api. Orfeo, invece, a fronte della perdita di Euridice, sfida gli dei, viola il confine fra vita e morte, si preclude la strada della riparazione e infatti la parte finale del suo mito ci racconta di un cambiamento radicale di vita, su cui ritorneremo perché è in quella trasformazione che si nasconde molto del fascino che dal romanticismo in poi il mito ha attirato di nuovo su di sé. In sostanza, se si sta al testo di Virgilio Euridice, nella dinamica relazionale fra le due narrazioni, occupa nel suo mito di appartenenza lo stesso spazio che hanno le api in quello di Aristeo! Vuoi vedere che il tutto non è altro che una storia fra uomini in cui lei viene messa in mezzo come puro pretesto? Lasciamo parlare allora l’autorità maggiore in questo campo: cosa dice Graves a proposito della ninfa? Ebbene, sulla nostra Euridice Graves non dice nulla, nel senso che non vi è alcuna voce autonoma nella sua mitografia, che porti il suo nome come invece avviene per Orfeo e per altri! La ninfa esiste solo nella narrazione del mito e in alcune note, due in particolare. La sua presenza è un puro pretesto per significare altro, un simbolo e niente più. Quanto ad Aristeo, egli rappresenta l’agricoltore, colui che compie delle opere le quali, oltre che gratificare chi le compie sono utili alla comunità. Virgilio fra i due eroi sposa senza dubbio il secondo, che si sottopone al giudizio degli dei e ne esce con un gesto riparatore, che non solo gli restituisce la sua identità, ma lo riporta all’interno della comunità da cui era stato bandito. Veniamo ora alle due note che riporto nelle loro parti essenziali e si trovano sempre in Graves. La prima la troviamo nel capitolo dal titolo I Figli del mare, nel quale il mito di Orfeo non è neppure citato:
Pare che l’appellativo della dea-Luna la proclamasse onnipotente nel cielo e nella terra (si riferisce alla ninfa Doride ndr);l’appellativo Euribia … signora del mare; Euridice (ampia giustizia), signora dell’Oltretomba, che essa stringeva nelle spire di serpente. Sacrifici umani maschili erano offerti alla dea come Euridice e le vittime morivano per il morso di una vipera. La morte di Echidna per mano di Argo, si ricollega probabilmente alla soppressione del culto argivo della dea-serpente. Suo fratello Adone è il serpente oracolare che alberga in ogni paradiso, le cui spire sono avvolte nell’albero di mele.
La seconda la troviamo nel capitolo dal titolo Orfeo. Nella prima parte, che riassumo, Graves cita le fonti antiche dove si dice che la morte di Euridice per il morso del serpente si trova soltanto nella versione tarda del mito e come essa sia basata su un certo numero di equivoci. La parte finale, che si riferisce alla citazione riportata in precedenza, si conclude in questo modo:
“Erano le vittime di Euridice e non Euridice stessa che dovevano morire per il morso del serpente.”5
Ce n’è quanto basta per rivedere tutta la faccenda in ben altro modo!
Non mi occuperò delle assonanze con il mito biblico della cacciata dal paradiso terrestre presenti nella prima citazione (il serpente avvolto nei rami dell’albero di mele), che mi sembra un problema decisamente minore rispetto agli altri. Ripartiamo dall’inizio e dagli appellativi con cui si designa la ninfa Doride: sono tre e uno di questi è proprio Euridice che significa Signora dell’oltretomba. La cosa più sorprendente però è che Doride, nel mito orfico, viene indicata come la madre di Euridice. Dunque, si crea un’evidente e paradossale sovrapposizione di funzioni. La sposa di Orfeo sfuma in una sempre più rarefatta indeterminatezza e questo spiega il motivo per cui Graves non le dedica una voce autonoma. Chi è Euridice in sostanza? La sua identità, quanto più ci addentriamo nel dedalo degli intrecci fra miti diversi, tanto più si allontana da noi, fino a diventare un appellativo di sua madre. L’elemento veramente dirompente, tuttavia, è quello che segue immediatamente: Euridice viene descritta come colei che stringe l’Oltretomba nelle spire di un serpente. Per comprendere bene l’importanza di questo passaggio dobbiamo fare una piccola digressione che ci porta in un grande museo e poi a una statuetta. Il museo è il Pergamon di Berlino, giustamente famoso per l’altare della città in dimensioni naturali. In esso, tuttavia, si trova anche un altro gioiello archeologico meno noto: la riproduzione della porta che a Babilonia si apriva sulla via processionaria. Tale reperto viene indicato anche con l’appellativo di Porta di Ishtar, la dea babilonese più importante del Pantheon arcaico. Di lei esistono poche riproduzioni, ma una assai famosa è una statuetta che la ritrae in posizione eretta, le gambe leggermente divaricate così da conferire all’immagine, maggiore potenza e solennità. Le braccia della dea sono leggermente piegate ai gomiti e le mani, all’altezza delle spalle, stringono fortemente due serpenti. Gli animali sono il simbolo della potenza femminile che trova la sue radici nelle forze ctonie della terra, o anche dell’acqua in misura minore: il serpente le rappresenta benissimo entrambe. Se ora passiamo alla seconda nota e precisamente alla sua parte finale citata, ecco che il cerchio si chiude. In tempi antichissimi, i sacrifici umani erano sempre maschili. Una traccia importante di questo si trova, per esempio, nella ricchissima analisi che Frazer (Il ramo d’oro) fa dei miti e delle leggende legate al lago di Nemi e al culto di Diana. Il Re dei boschi era un uomo molto anziano (probabilmente uno schiavo) che durava in carica un anno e che veniva sacrificato ritualmente alla fine del medesimo. Diana, come Ishtar, era dea protettrice della natura nel suo aspetto più selvaggio, con i loro simboli già ricordati. Quando Graves ricorda che non era Euridice (cioè le donne) a essere sacrificata, ma i maschi, ci rimanda a un’epoca precedente. Come mai allora quello che era il simbolo della potenza femminile – il serpente – diventa nel mito di Orfeo la causa efficiente della morte di Euridice? Per trovare una risposta possibile dobbiamo tornare ancora una alla preziosa indicazione che ci ha fornito Virgilio e cioè che il mito di Orfeo va letto in parallelo a quello di Aristeo. Azzardo allora un sintesi. I due miti, se letti insieme, alludono al passaggio da una società precedente a una società patriarcale. Che tali società precedenti si possano definire matriarcali o matrilineari oppure no è questione troppo controversa per affrontarla qui.6 Quello che mi sembra certo, invece, è il significato simbolico che assume la morte di Euridice per il morso di una serpe. Lo potremmo definire in questo modo, secondo un’interpretazione libera della legge del contrappasso: quello che era un tempo il simbolo del potere femminile diviene ora la causa efficiente della sua morte. Se stupro vi è stato, è quello di un’intera cultura, vinta dal nascente patriarcato e infatti la prima delle note lo dice esplicitamente quando parla di una soppressione del culto argivo della donna-serpente.
Un mito romantico
Orfeo ritorna in auge con il romanticismo ed è l’ultima parte della narrazione che può aiutarci a capire perché. Il fallimento della sua impresa provoca un radicale cambiamento nella sua vita. Così lo racconta il mito nella versione di Graves:
Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei.
Alcuni commenti si soffermano sull’implicito richiamo all’omosessualità in questo passaggio, ma non credo si tratti dell’aspetto più importante perché lo è di più il fatto che istruisse i ragazzi all’astinenza delle pratiche sessuali e che rifiutasse le donne, un comportamento radicalmente diverso rispetto alla sua vita precedente. Orfeo si ritira in una sorta di eremo e l’accento va posto proprio su questo e sull’astinenza (che sia etero od omo poco importa). Proprio intorno a tale scelta rinasce il mito di una funzione sacerdotale del poeta, che diventa una figura sciamanica; nella tradizione a noi più prossima, tale narrazione mitica trova le sue traduzioni moderne nel titanismo di Worsdsworth e Coleridge, per esempio, oppure in una concezione della libertà sottratta a qualsiasi vincolo (il poeta come figura che si colloca al di là del bene e del male) e in tempi a noi ancora più prossimi nell’immagine della torre d’avorio tanto cara a Rilke. Quanto sia aderente alla lettera del mito tale interpretazione è assai discutibile: ovviamente, come si è già detto, tutte le interpretazioni sono legittime purché motivate, ma alcune si offrono più di altre alle critiche. Torniamo allora per un’ultima volta al mito e alla sua conclusione. Dopo avere detto del ritiro eremitico di Orfeo ecco cosa accade:
Quando Dioniso invase la Tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani.
Da tale accenno possiamo trarre una conferma di quanto detto in precedenza e cioè che Orfeo rappresenta una figura molto arcaica, legata a una società precedente a quella in cui si afferma e si consolida il patriarcato. Quello che avviene successivamente, tuttavia, ci mostra quanto fosse feroce la lotta fra due (diremmo oggi) visioni del mondo. Dioniso invita:
le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.
Da questo capiamo ancora una volta che Orfeo è una figura chiave di quelle società precedenti il consolidarsi del patriarcato, ma ci fa anche comprendere quanto sia discutibile l’idea che tali società si potessero definire pacifiche. Tuttavia, alla vendetta delle Menadi segue puntualmente la punizione degli dei.
Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti.
Infine la conclusione.
La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.
Quello che si può intravedere nella conclusione è che gli dei impongono che anche Orfeo venga reintegrato nella comunità, nonostante la violazione del divieto divino ed è probabile che questo avvenisse perché resistevano all’interno di una società ormai patriarcale, le culture e i culti precedenti. La sua testa ritrovata pone fine alla contesa, ma l’ingiunzione di tacere, cioè di non profetizzare più e la successiva giubilazione nella costellazione della lira, lo riducono a puro simbolo museale: sono altri ormai i paradigmi su cui si muove la società greca, Orfeo può continuare a piangere in eterno la perdita di Euridice, ma può farlo nell’empireo, non più sulla terra.
Franco Romanò
1 Il saggio s’intitola Rilke – Cvetaeva – Pasternak e si trova nella rubrica Amori letterari del blog.
1 Josip Brodskj. Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1995, pp. 207-67.
2 Il testo in questione si trova nel libro di Brodskj, in coda al suo saggio, ma è reperibile facilmente anche in rete.
1 Robert Graves, I miti greci, traduzione di Elisa Morpurgo, presentazione Umberto Albini, Euroclub, Milano 1995, pp.99-102
Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e così la perdette per sempre. ” Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.
2 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Edizioni Medusa, Milano 2011, capitolo V pp. 159-202. Il libro di Carrera è assai importante per ricostruirne il suo percorso di poeta e critico ed è un lungo excursus su alcuni momenti chiave della poesia europea, da Dante a Leopardi. Di altri capitolo di questo testo mi sono occupato in un lungo saggio dedicato a al mito di Amore e Psiche, anch’esso oggetto dell’analisi di Carrera.
3 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Marcel Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla sua realizzazione.
4 La critica femminista alla filosofia classica greca, al platonismo in particolare e poi alla filosofia classica tedesca ha prodotto numerosissimi libri e studi a partire dalla prime riviste degli anni ’70. Mi rifaccio a questi e ad alcuni testi Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi e il Manifesto di Rivolta femminile. A queste aggiungo le opere di Ida Magli. Sul tema specifico del rapporto fra cultura, maschile e femminile, in particolare, lo ha affrontato in Viaggio intorno all’uomo bianco.
5 Robert Graves I miti greci, Euroclub 1995, Milano pag 114- 1 e pag. 102-4.
6 In una semplice nota non è possibile affrontare una tematica tanto complessa e su cui lo stesso femminismo è diviso. Mi limito perciò ad alcuni suggerimenti di lettura. Chi afferma con decisione l’esistenza dei società matrifocali e matrilineari e matriarcali precedenti il patriarcato si rifà prima di tutto all’opera del teologo protestante Bachofen, che trovò l’entusiastico consenso da parte di Engels. L’opera di Bachofen è stata poi ripresa da esponenti di primo piano del femminismo internazionale come Marjia Gimbutas, Mary Daly, Heide Goettner-Abendroth, la cui opera è stata pubblicata recentemente da Mimesis; Infine Riane Eisler. In Italia sono importanti gli studi di Momolina Marconi, Luciana Percovich, Gabriella Galzio, Luisella Veroli. Una ricostruzione attenta di tutto il dibattito a partire dai miti arcaici delle Amazzoni si trova alla voce Matriarcato, a cura di Eva Cantarella nell’enciclopedia Treccani. Dello scritto di Cantarella riporto le sue conclusioni che personalmente condivido: