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A cura di Maria Allo

Joseph Conrad

Nella prima metà del Novecento, la letteratura ha spesso anticipato i segni premonitori della disumanizzazione dell’uomo, che si sarebbe tragicamente concretizzata ad Auschwitz. Un esempio significativo è il romanzo “Cuore di tenebra” (Heart of Darkness, 1902) di Joseph Conrad (1857-1924), che illustra in modo straordinario l’orrore insito nella civiltà occidentale e il suo desiderio di controllo globale, realizzato attraverso l’uso razionale dello sfruttamento economico delle risorse e del dominio politico. Questo orrore si manifesta tanto nel lento scorrere del Tamigi quanto in quello del Congo, che rappresenta il confine della civiltà occidentale e il palcoscenico dell’impresa eroica e brutale, sacra e maledetta, del misterioso Kurtz. Grazie alla forza critica e ironica della sua scrittura, Conrad riesce a superare gli stereotipi culturali del suo tempo, offrendo una rappresentazione senza pregiudizi della dura realtà del dominio coloniale. Si tratta di una vera e propria disamina. Il paesaggio appare apocalittico e distrutto, caratterizzato da burroni, crateri, rottami metallici di macchinari, vagoni ferroviari, rumori assordanti e mine. Nella visione letteraria di Conrad, questo scenario coloniale si trasforma in un cupo girone d’inferno, dove i dannati sono i neri e i diavoli i bianchi. L’attualità di questo testo è splendidamente rappresentata dalla visionaria trasposizione cinematografica ambientata nel Vietnam americano, realizzata in “Apocalypse Now” (1978) da Francis Ford Coppola.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Nel 1923, il poeta russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam, a pochi anni dall’inizio della rivoluzione, scrive un drammatico confronto con il suo secolo: “Secolo mio, mia belva, chi saprà/ fissare lo sguardo nelle tue pupille, /chi incollerà con il proprio sangue/ le vertebre di due secoli? / Sangue costruttore sgorga/ dalla gola di cose terrene, /Tenera cartilagine di bimbo/ è il secolo infantile della terra:/hanno immolato ancora una volta/ come un agnello il cranio della vita”. Nelle parole di Mandel’štam si percepisce un’immagine chiara e inquietante delle tragedie che di lì a poco avrebbero colpito il continente. Questo sembra confermare l’idea che, nello specchio della letteratura autenticamente creativa, la realtà si rivela nella sua essenza più profonda e nascosta. Come si può dimenticare il presagio della violenza anonima e impersonale della burocrazia nei romanzi di Franz Kafka?

Franz Kafka

Attraverso i suoi inquietanti e surreali personaggi di Praga, Kafka mette in luce, in modo profondo e primordiale, la vulnerabilità della vittima. Allo stesso modo, il disagio e il senso di alienazione dell’uomo del Novecento trovano una piena e originale espressione nell’opera del boemo. Nella Metamorfosi (Die Verwandlung, 1916), il protagonista Gregor Samsa si confronta con un mondo dominato da una legge incomprensibile, che lo schiaccia sotto il peso di una colpa indefinita, vanificando ogni tentativo di comprensione e ogni protesta d’innocenza. Inoltre, i meccanismi di controllo e tortura, rappresentati come una macchina che funziona autonomamente per dodici ore consecutive, nella Colonia penale (In der Strafkolonie, 1919), si manifestano attraverso la scrittura del comandamento violato sui corpi nudi dei condannati, sotto la supervisione di un ufficiale che incarna caratteristiche inquietanti: “soldato, giudice, ingegnere, chimico e disegnatore”.

Ernst Jünger

Analogamente, gran parte dell’opera di Ernst Jünger (1895-1998) offre spunti di riflessione sull’inumanità della vita quotidiana e si focalizza sull’analisi della società di massa. Questo approccio prende avvio dalla sua esperienza durante la prima guerra mondiale, descritta in “Tempeste d’acciaio” (In Stahlgewittern, 1920), e dal cambiamento sociale che ne è scaturito, esplorato in “Operaio” (Der Arbeiter, 1932). Jünger indaga come la mobilitazione sociale generi un’energia capace di trasformare le società contemporanee, ritrattando gli individui come insetti oscuri, privi di princìpi o ideali, mossi esclusivamente dall’organizzazione e dalla struttura tecnica delle loro azioni. Anche la poesia sembra aver anticipato questa trasformazione, non solo della vita, ma soprattutto della morte, evidenziando un cambiamento significativo nel modo in cui viene espressa. Essa evolve il proprio linguaggio e le forme del canto per affrontare la morte e tradurla in parole. Come possono coesistere la bellezza e l’orrore estremo? E come può l’essere umano trovare il proprio posto di fronte a tenebre così profonde? Il semplice atto di nominare l’orrore implica già un confronto con l’umanità, opponendosi all’inesorabile barbarie che si manifesta sia all’esterno che all’interno di noi, come abbiamo potuto osservare attraverso le opere di Conrad. Per Jünger, così come per il filosofo Martin Heidegger (1889-1976), esiste una netta e ferma consapevolezza dell’inadeguatezza dei criteri tradizionali dell’umanesimo nel comprendere e affrontare la realtà attuale. Auschwitz non ha scosso profondamente questa convinzione; al contrario, ha spinto entrambi a esplorare con maggiore urgenza il superamento dell’umanesimo, avvalendosi di strumenti di pensiero che non si fondano esclusivamente sul concetto tradizionale di “uomo”. La poesia sembra aver anticipato la trasformazione non solo della vita, ma soprattutto della morte nella società di massa. Questo cambiamento si riflette in un profondo mutamento nel modo di esprimerla, nel linguaggio e nelle forme del canto, per poterla affrontare e tradurre in parole.

Rainer Maria Rilke

Un esempio evidente di questo cambiamento si trova in Rainer Maria Rilke (1875-1926), il quale, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, pubblicato nel 1910), esprime il suo orrore di fronte alla morte degli uomini nell’Hôtel-Dieu, il più grande e antico ospedale di Parigi. Rilke descrive con profondo dolore la massa di diseredati e mendicanti parigini, il commercio della prostituzione e l’angoscioso morire anonimo di individui abbandonati. L’ultima parte del Libro d’ore, intitolata “Il libro della povertà e della morte”, provoca in Rilke un forte impatto emotivo e assume una forza profetica, come se anticipasse i segni premonitori di una disumanizzazione crescente. La massificazione e la produzione a ritmi industriali, insieme alla spersonalizzazione degli individui, conferiscono alla morte le caratteristiche di un processo meccanico. Tuttavia, di fronte all’orrore e alla mostruosità di questo oscuro meccanismo di morte, tipico delle grandi città “perdute” e “sfatte”, in cui l’uomo è privato della sua “dolce” e “personale” morte, Rilke contrappone la vera povertà del desiderio e del bisogno. L’amore emerge come una forma di consolazione e fiducia, ma soprattutto come la “grande morte”, quella “propria”, che cresce dentro ogni essere vivente fin dalla nascita. Questa morte è consegnata a ciascuno insieme al proprio esistere, simile a un “frutto” che matura con la vita e l’amore. La metafora del frutto evoca l’idea di generazione, collegata all’amore come desiderio e unione sessuale, ma anche come abbandono confidente, il quale a sua volta sviluppa il concetto dell’effimero scorrere del tempo e della transitorietà di ogni cosa.

Dal Libro della povertà e della morte (6,7,8.)

 “O Signore concedi a ciascuno la sua morte:

 frutto di quella vita

in cui trovò amore, senso e pena.

***

Noi siamo la buccia e la foglia.

La grande morte che ognuno ha in sé

è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa.

Per questo frutto crescono le ragazze

levandosi come un albero da un liuto

e ragazzi per averle bramano diventare adulti,

e chi cresce confida alle donne paure

che nessun altro potrebbe placare.

Per questo frutto rimane eterno

quel che ammirammo anche se passato da tempo-

e scultori e architetti si realizzarono

in un mondo che gelò, sgelò

e s’intrecciò con esso illuminandolo.

Vi fluirono dentro il calore del cuore

e il bianco ardore del cervello-:

ma i tuoi angeli vi passano sopra come uccelli:

tutti i frutti erano verdi per loro.

***

Signore, siamo più poveri delle povere bestie

Che muoiono della loro morte, anche se cieche

Perché noi non siamo ancora morti.

Concedici uno che riesca

a intrecciare la vita ad una pergola

su cui a tempo giusto inizi maggio.

Perché ciò che ci rende estraneo e greve il morire

È che la morte non è nostra, ch’essa ci prende

Solo perché non ne abbiamo maturata un’altra.

Ed è una tempesta e ci sfronda tutti.

Cresciamo nel suo giardino per anni,

alberi ai cui rami pende la dolce morte,

ma quando giunge il tempo del raccolto

siamo vecchi, donne che hai picchiato;

chiusi, cattivi e sterili.

O la mia boria è forse ingiusta?

Gli alberi sono migliori? Siamo soltanto

sesso e ventre di donne compiacenti?

 Abbiamo copulato con l’eterno

per partorire al momento delle doglie

i defunti aborti della nostra morte,

il curvo, triste embrione

che (spaventato da cose orribili)

si copre con le mani gli occhi ancora in germe

e reca sulla fronte già formata

la paura dei suoi futuri dolori-

e tutti muoiono come sgualdrine

sul letto dl parto, al taglio cesareo.

R.M. RILKE, Poesie, I, trad. C. Lievi, Einaudi -Gallimard, Torino 1994

L’orrore generato da questo inquietante meccanismo di morte ha un forte impatto sulle ultime opere di Rilke, come abbiamo osservato.

Questa reazione si manifesta e si intensifica anche nella poesia di un altro grande poeta, Paul Celan (1920-1970), il quale ha posto al centro del suo linguaggio l’esperienza della morte dopo Auschwitz.

Paul Celan

LETTO DI NEVE di Paul Celan

Occhi, ciechi al mondo,

dentro le crepe del morire:

vengo, io, con più durezza

in cuore. Vengo.

Specchio lunare ardua

parete. Giù! (Lanterna

macchiata di fiato. Strisce

di sangue. Anima

annuvolante, di nuovo

quasi figura. Ombra delle

dieci dita – avvinghiate.)

Occhi ciechi al mondo,

occhi dentro le crepe del

morire, occhi, occhi:

Il letto di neve sotto noi

due, letto di neve. Cristallo

per cristallo, in griglia

profonda quanto il tempo,

noi cadiamo, e

cadiamo e restiamo e cadiamo.

Noi cadiamo: Noi fummo.

Noi siamo. Siamo una sola

carne con la notte.

Nei cunicoli, cunicoli.

P. Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

In “Grata di parole” (1959), la poesia di Celan trascende il semplice commento su un evento tragico. Essa si propone come un tentativo di preservare la memoria del passato e di redimere i “sommersi” attraverso la potenza della parola poetica. La sua scrittura si impegna in una ricerca intensa e talvolta oscura, ma è caratterizzata da una straordinaria forza lirica e semantica. Auschwitz ha privato i morti della loro voce, ha reso mute le loro bocche, ha pietrificato le loro palpebre e ha trasformato il mondo in un deserto sepolto dal gelo della neve, soffocato da un’aria intrisa dell’orrore di quei corpi ridotti in cenere. Solo la poesia può cercare il barlume luminoso della loro parola (Lanterna macchiata di fiato, v.5) e penetrare le palpebre pietrificate (negli occhi dentro le crepe del morire, v.9, richiamando l’immagine di Levi della “Gorgone”) di quegli sguardi persi nel vuoto della camera a gas. Solo la poesia ha il potere di catturare l’immagine che racchiude l’eco dell’ultimo respiro, affinché essa possa essere custodita. La poesia di “Grata di parole” rappresenta un tentativo di avviare un dialogo e un incontro di sguardi, elementi fondamentali per i vivi, affinché possano continuare a vivere, amare e affrontare la morte come esseri umani. Gli occhi diventano una metonimia, simboleggiando l’atto di vedere, la luce e il giorno (temi presenti in “Specchio”, “Lanterna”, “Ombra”, “Notte”) e creano un legame tra il poeta e il mondo dei defunti, come un contatto tra luce e oscurità, giorno e notte (in “Specchio lunare”, v. 4). Tuttavia, ora solo un letto di neve—gelido e desolato come gli inverni orientali, dove i forni crematori hanno disperso le ceneri di quegli sguardi—accoglie l’unione tra quegli occhi e quelli del poeta. Solo la poesia ha la capacità di raccogliere da essi l’immagine che custodisce l’eco di quell’ultimo respiro. Perché possano a loro volta custodirlo. La poesia di “Grata di parole” rappresenta un tentativo di instaurare un dialogo e un incontro di sguardi, essenziali per i vivi affinché possano continuare a vivere, amare e affrontare la morte da esseri umani. Gli occhi fungono da metonimia, esprimendo l’idea di vedere, di luce e di giorno (temi che ricorrono in “Specchio”, “Lanterna”, “Ombra”, “Notte”) e stabiliscono un legame tra il poeta e il mondo dei defunti, come un contatto tra luce e oscurità, giorno e notte (in “Specchio lunare”, v. 4). Ma ormai solo un letto (in cui si compendia l’immagine nuziale e al contempo funerea) di neve-vale a dire gelido e deserto come quello degli inverni orientali in cui i forni crematori dispersero le ceneri di quegli sguardi- accoglie l’unione tra quegli occhi e quelli del poeta. La “grata di parole” che offre gioia ai vivi e dignità ai morti è stata spezzata: l’ombra del silenzio si allunga su un mondo che persiste dopo lo sterminio. In risposta a questo silenzio, la poesia di Celan intraprenderà un cammino lungo, oscuro e affascinante, che porterà infine alla consapevole decisione di rimanere in silenzio per sempre.

Note

– R.M. RILKE, Poesie, I, trad. C. Lievi, Einaudi -Gallimard, Torino 1994

– P. CELAN, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

-Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1988

-H. Langbein, Uomini ad Aushwitz, Mursia, Milano 1984

-Th.W.Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972

-G.Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, Milano 2001