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Patrizia Destro intervista Giulio Divo sulla sua opera: Vuoto 23, Di Leandro editore.

Ricordi quando e in che modo è nato il tuo amore per la scrittura?

Avevo circa cinque anni e, appena terminata la lettura di una riduzione dell’Iliade per bambini (“Storie della storia del mondo”, di Laura Orvieto), rimasi talmente colpito e intristito dalla morte di Achille che scoppiai a piangere e promisi a me stesso di riscrivere un’Iliade riveduta e corretta, con un finale diverso. Attribuisco a quell’episodio la mia prima dichiarazione consapevole circa la volontà di scrivere. Poi ho fatto tutta la trafila ordinaria, almeno per la mia generazione: poesie adolescenziali, racconti brevi in gruppi carbonari di scrittura creativa… Insomma, tutto quello che poteva fare uno studente medio tra gli anni ’80 e il 2000, perso tra delusioni amorose, noia e disturbi d’ansia.

Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?

Non sono un avido lettore e, dunque, i miei riferimenti letterari sono ristretti perché limitati da una profonda ignoranza, dovuta anche a una mentalità estremamente selettiva. Mi comporto con i libri così come fanno certi bambini con le verdure, ovvero: scarto i testi di cui non mi piace il titolo. Scarto anche quelli di cui tutti parlano, cioè i “casi letterari del momento”. Mi rifiuto poi di leggere i libri che mi vengono consigliati da persone che non mi sono simpatiche. Infine sono schizzinoso verso la letteratura di genere, i gialli specialmente. Non amo il fantasy e nemmeno i romanzi storici. Se parliamo di autori citerei essenzialmente John Fante, Philip Roth, John Steinbeck, Cormac McCarthy. In tempi recenti mi è piaciuta tanto la trilogia di Holt di Kent Haruf. Ciò nonostante, alla fine ho scoperto che la mia scrittura è più europea che statunitense. Mi manca l’immediatezza anglosassone perché sono verboso, come ogni continentale. Ecco allora che Camus, Celìne, Houellebecq mi hanno influenzato probabilmente di più di Hemingway, anche se ho letto più Hemingway rispetto a quanto abbia letto Camus. Aggiungo una considerazione: oggi riconosco l’importanza della saggistica come nutrimento indispensabile per la narrativa. La conoscenza del mondo che si sviluppa attraverso la saggistica offre la possibilità di maturare una visione, una chiave di lettura del reale. Senza visione la narrativa perde forza, qualità e – per certi versi – parte della sua ragione d’essere.

Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

Vivo la scrittura come un’opportunità e uno strumento. Questa duplice funzione mi aiuta a visualizzare prima e descrivere poi paure e fantasmi. Scrivo per dissezionare e poi liberarmi di idee che mi disturbano, cercando le storie giuste per darle in pasto a chi legge. Però non uso la scrittura per raccontare le mie esperienze. Come diceva un mio docente all’università, i propri fantasmi devono essere messi al servizio di una storia, se si vuole creare un’opera letteraria. Senza la storia, si cade nell’autobiografismo, che è la tomba della scrittura creativa perché diventa contemplazione del proprio ombelico. Fatta mia questa regola ne ho in seguito appresa e introiettata una seconda, che mi è stata suggerita da quella straordinaria attrice che risponde al nome di Laura Curino – e che cito quindi per gratitudine e sincera ammirazione. Per scrivere una buona storia, mi disse anni fa, bisogna amarne tutti i personaggi, anche quelli negativi. E il solo modo per amarli tutti consiste nel disseminare parti di sé in ognuno di loro.
La questione dei luoghi e delle ambientazioni è altrettanto importante: io scelgo i non-luoghi e i non-tempi. Riduco le notazioni geografiche e temporali al minimo indispensabile perché così ho la speranza – o forse l’illusione – di poter accedere a un pubblico più vasto. È chiaramente impossibile non attingere al proprio bagaglio di esperienze ma queste, a mio avviso, vanno decontestualizzate e trasformate lasciando che la fantasia se ne impossessi e ne faccia ciò che vuole. La strada per arrivare alla verità di un’opera deve passare attraverso il giogo della finzione. Raccontare la verità pura e semplice è troppo facile.

Ci parli della tua pubblicazione?

“Vuoto 23” è un libro tremendamente imperfetto, che sconta una certa inesperienza nella scrittura ma che ha alcune buone pagine e soprattutto è sincero nelle intenzioni. Ed è di queste che, alla fine, è giusto parlare. Quando ho iniziato a scriverlo stavo attraversando un periodo di profonda frustrazione. Ero entrato in una fase per cui mi sembrava di avere perso i punti di riferimento ideologici e intellettuali per l’interpretazione del mondo e sentivo l’esigenza di imparare a cavarmela da solo, costruendo il mio pensiero attraverso le esperienze dirette o comunque verificabili. A volte ci innamoriamo di personaggi, narrazioni e idee non per ciò che sono, ma per il carisma o il fascino che emanano. Però a volte ci si rende conto che questa è una cambiale in bianco data a gente che ammiri senza conoscerla e rappresenta, quindi, solo un atto di pigrizia intellettuale. Se pensi che altri possano spiegarti i meccanismi del mondo, hai accettato che la fascinazione – e non il pensiero critico – come determinante il tuo punto di vista. Ho sentito il bisogno di raccontare questa frustrazione e il conflitto che generava in me, attraverso una storia. Dopodiché non sono sicuro che un qualsiasi autore debba spiegare il senso di ciò che ha realizzato, poiché il senso stesso di un’opera si genera attraverso la relazione tra questa e chi ne fruisce.

Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Tutto è utile e niente necessario. C’è gente che campa benissimo senza mai avere aperto la Bibbia o avere dato un’occhiata alla Costituzione, figuriamoci se è necessario leggere “Vuoto 23”.

Quando e in che modo è scoccata la scintilla che ti ha spinto a creare l’opera?

La storia è ambientata in un condominio e il protagonista – io narrante – ne è il portinaio. Ebbene c’è stato un periodo della mia vita nel quale, per lavoro, avevo affittato un piccolo spazio al pianterreno del condominio in cui abitavo, per adibirlo a ufficio. Nel tempo quello spazio è diventato un porto franco per i vicini che volevano fare due chiacchiere, ricevevo i pacchi per loro conto, firmavo le raccomandate, accompagnavo i tecnici per le riparazioni delle parti comuni. A un certo punto avevo persino un armadietto provvisto di cotone, disinfettante e cerotti, nel caso i bambini che abitavano nello stabile si fossero sbucciati un ginocchio giocando a calcio o andando in bicicletta. Ora, se qualcuno ha in mente la sinossi di “Vuoto 23” (e il clima da guerra civile descritto) può ben comprendere come il romanzo non abbia nulla di autobiografico se non proprio il punto di vista di chi può osservare le vite degli altri da una posizione privilegiata. Ma la scintilla è tutta lì.

Come l’hai scritta? Di getto come Pessoa che nella sua “giornata trionfale” scrisse 30 componimenti di seguito senza interrompersi oppure a poco a poco? E poi con sistematicità, ad orari prestabiliti oppure quando potevi o durante la notte, sacra per l’ispirazione?

L’intero arco temporale di scrittura del testo va dal 2011 al 2023. Eppure il lavoro è stato completato in pochi mesi. L’approccio, quindi, non è stato metodico, tutt’altro. C’è però un motivo: io non faccio lo scrittore per vivere, dunque ho dovuto per forza di cose adattare gli orari di scrittura ai ritmi del lavoro e della famiglia. Cercando di non sottrarre tempo all’uno e all’altra. Scrivere un libro è veramente un’occupazione del cazzo, se non lo fai per mestiere. Il tempo dedicato alla scrittura appare come un lusso, una stravaganza, un atto di presunzione. Quando non una perdita di tempo. Così ho scelto un basso profilo, adattandomi ai momenti e alle situazioni di vita quotidiana che mi hanno consentito di farlo. Ma anche il tempo rubato può essere di qualità se usato con concentrazione assoluta e totale immersione nel lavoro. Il che mi permette di aggiungere una mia opinione: io non credo nell’ispirazione (se non per l’idea relativa al soggetto), credo invece nella concentrazione.

La copertina, il titolo e le illustrazioni. Chi, come, quando e perché?

Partiamo dal titolo: quando iniziai a scrivere le primissime righe del libro, usavo un Ipad il quale, aprendo un nuovo file di scrittura, lo nominava con il termine “vuoto” e poi un numero progressivo. Quel file specifico era il 17, e quindi il file su cui scrivevo (dato che non avevo in mente un titolo) era memorizzato come “Vuoto 17”. A furia di leggerlo mi sembrò suonasse bene e decisi che poteva diventare il titolo vero e proprio. Peraltro, trovandomi poi nella necessità di giustificare quel titolo, fui costretto a significativi cambi di trama e ciò, alla fine, ebbe anche il merito di rendere il racconto più coerente. Resta però inspiegata la questione del cambio del numero, dall’ iniziale 17 al definitivo 23. Ebbene questo fu reso necessario dopo avere scoperto l’esistenza di un libro di poesie che si intitola “Vuoto 17 – Buio 13” di Stefano Silvestri (non lo conosco, ma casomai leggesse queste righe lo saluto cordialmente. Gli va la mia simpatia per questa strana coincidenza). Iniziai così a chiedermi quale potesse essere un numero che suonasse bene dopo la parola “vuoto”. Ventitré non era male. E poi è l’anno in cui ho finito di scrivere il libro, oltre a essere il numero del giorno di nascita di mio figlio. Rispetto all’illustrazione di copertina, all’inizio l’editore mi aveva fatto alcune proposte di cover, ma non mi convincevano perché mi pareva rimandassero a un immaginario quasi horror che non c’entra con il libro. Così, un giorno, vedendo alcuni disegni di mia figlia studentessa d’arte le chiesi una illustrazione raffigurante un uomo, sul tetto di un palazzo e le montagne di sfondo, con in mano un fucile e una ramazza. Una volta pronta l’illustrazione, la mandai all’editore – senza però dire che l’aveva disegnata mia figlia – spiegando che avrei potuto ottenerla gratuitamente. Venne accettata. Avevo chiuso un altro cerchio.

Come hai fatto a trovare un editore?

A una cena di lavoro. Io faccio il giornalista e, tra gli invitati, c’era anche Monica Di Leandro, la quale divide i suoi impegni professionali tra la produzione di content di argomento salute e la sua passione per la letteratura in qualità di editore (www.dileandro.com). Ci trovammo allo stesso tavolo e scambiammo qualche parola cordiale. A quel punto, avendo saputo di avere di fronte un editore, mi venne a mente di parlarle del mio libro e lei mi ascoltò con interesse sincero. Quell’interesse fu insieme un regalo e una sorpresa. Mi chiese alcuni capitoli di assaggio e glieli mandai. Dopo un po’ di tempo mi risposte che il testo le piaceva, che aveva intenzione di pubblicarlo e mi chiese il saldo dei contenuti. Quella richiesta mi costrinse moralmente a finire il lavoro, che era rimasto in sospeso, anche se avevo in mente come concludere la storia. È stato un colpo di fortuna. Senza quella cena non avrei avuto una proposta di lettura e, poi, di pubblicazione. Ora ci sarebbe ancora un file di lavoro su cloud, in attesa da chissà quanto tempo.

A quale pubblico pensi possa essere rivolta la tua pubblicazione?

A tutte quelle persone che sono sufficientemente disilluse da non prendere più sul serio le letture ideologiche della realtà, ma ancora abbastanza sensibili da preferire la coscienza alla convenienza e la solidarietà alla deregolamentazione selvaggia dell’esistenza. Immagino il mio lettore come una persona che ha un atteggiamento problematico nei confronti di ciò che lo circonda e che non abbia certezze per scelta politica e vocazione. Che coltivi il dubbio come salvezza. E che sia in grado di mettersi in discussione, anche se ciò porta disagio e incertezza. Lo immagino anche sufficientemente arreso da non avere voglia di sfidare un libro formalmente complicato. Credo anzi preferisca una prosa piana, magari con qualche licenza, al servizio di un pensiero che si spera non sia banale. Penso in definitiva che possa essere un libro per tutti coloro che hanno perso una casa ideologica e non sanno bene come rapportarsi a questi tempi difficili, ipocriti, cinici, violenti, cattivi e – in definitiva – stronzi.

In che modo stai promuovendo il tuo libro?

Per promuovere un libro bisognerebbe sapere come farlo. Ci vorrebbe un minimo capitale di rischio, ma che senso ha investire denaro per organizzare firmacopie e andare in perdita perché sai già che venderai brevi manu molte meno copie rispetto a quante ne servirebbero per rientrare delle spese? Di fatto, quindi, non lo sto promuovendo, ma non per mancanza di volontà, quanto per assenza di occasioni e scarsità di luoghi di presentazione e dibattito. A volte mando proposte di presentazione a locali o circoli che ne organizzano, ma a oggi ho collezionato un sacco di non-risposte, un po’ come accade con i curriculum vitae. Devo anche aggiungere che non ho un atteggiamento aggressivo – o almeno deciso – come forse sarebbe utile (se non necessario), anche solo per far sapere al mondo che questo libro esiste. Nella mia ingenuità credevo, o almeno speravo, fosse più semplice. Promuovere è invece ancora più difficile che scrivere. Purtroppo. E già scrivere mi sembra difficilissimo.

Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa)
“Tra tutte le cose che potevano capitarmi, non avrei mai pensato di dover rendere conto ad una madre del fatto che suo figlio si scopa gli alberi. Me ne sono accorto un sabato mattina. C’era il sole, stavo trafficando con i bidoni dell’immondizia che puzzavano di roba andata a male e R, un ragazzino di undici o dodici anni che abita al terzo piano, stava abbracciando un pino austriaco che da almeno un secolo se ne sta lì dove oggi hanno realizzato i posti auto all’aperto. Fanculo, pensavo, devi proprio essere senza amici per abbracciare un albero. Solo dopo ho visto che pompava con il bacino. A dire il vero all’inizio non ci ho fatto caso. O, forse, il mio cervello mi ha detto di non farci caso perché tende a non interpretare le immagini che possono darmi fastidio. Non ho fatto fatica a ignorarlo, almeno all’inizio. Il ragazzino in questione mi è antipatico. O forse no, non mi è davvero antipatico. È qualcosa di diverso. Mi è estraneo perché ha la faccia da alieno. Allungata, con sopracciglia chiare da sembrare inesistenti e una bocca piccola, simile ad una fessura perfettamente orizzontale, senza labbra. I capelli cortissimi, gli occhi fissi e scuri, talmente scuri che non capisci dove finisca l’iride e inizi la pupilla. È alto, R, almeno per la sua età. Ma cammina ingobbito come se volesse essere più bambino di quanto non sia. Insomma, vederlo mi disturba e così, la maggior parte delle volte, lo ignoro e preferisco non stare a spiare che cosa stia facendo, almeno fino a che non spacca qualcosa o si caccia nei guai. Per fortuna non accade spesso: è sgraziato e manca del senso del pericolo, ma sembra protetto da una mano divina, provvidenziale e invisibile, l’air-bag degli inconsapevoli.
Secondo me è un cazzo di alieno che ancora non ha imparato a stare sulla terra. E quindi resta zitto a studiare la consistenza dell’aria, dell’acqua, la durezza dei minerali e dei metalli, prima di tornare al suo pianeta e fare una relazione sulle abitudini di noi esseri umani. Così, anche quella volta me ne sono andato per i fatti miei, che c’erano i sacchi di immondizia marcia da togliere dai bidoni. Quando sono tornato indietro, ed erano passati un paio di minuti, R era ancora lì. E continuava a darci dentro, anche se io non avevo ancora realizzato che cosa stesse facendo.
Abbracci gli alberi ragazzino? Forse con loro riesci a comunicare attraverso onde gravitazionali? Sono antenne di trasmissione per i tuoi messaggi astrali? Poi ho deciso di smettere di pensare a cazzate e ho pensato che gli fosse finito il pallone tra i rami dell’albero. E che stesse cercando di scuoterlo per farlo scendere.
Ci vuole tanto coraggio, molta presunzione e poco cervello per pensare di poter tirare giù un pallone dalle fronde di un piano austriaco di almeno 100 anni, mi dicevo. Hai voglia a scuotere due metri di circonferenza di tronco, razza di idiota.
Così ho guardato tra i rami: cercavo il pallone. Ma non vedevo niente.
«Hai perso qualcosa?», gli ho gridato da una ventina di metri e anche controvoglia.
Lui si è girato di scatto e ho capito. Il suo piccolo cazzetto a mezz’asta, ciondolante.
Mi guardava fisso, come colpito da una luce abbagliante.
Non volevo credere a quello che stavo vedendo ma lo stesso ho iniziato a correre, con la precisa intenzione di prenderlo, staccargli il cazzetto e infilarglielo in un orecchio. Ovviamente anche lui ha iniziato a correre ma, dato che aveva i pantaloni a mezz’asta, l’ho raggiunto in fretta.
«Ma che cazzo stai facendo?», gli ho chiesto, una volta acchiappato per la spalla.
«Niente», fa lui.
«Niente? Col cazzo in mano?».
«La pipì», mi dice.
«Sul pino? Non ce l’hai un cesso a casa?».
«Sul pino», dice lui.
Così l’ho trascinato tenendolo per la collottola verso l’albero. Nella mia testa avevo l’idea di fargliela leccare, la sua pisciatina aliena. Ma già iniziavo a temere che si trattasse di altro. Arrivati al pino, vedo che c’è un buco. E dentro il buco, tre o quattro centimetri scavati con un coltellino, dell’ovatta. E dentro l’ovatta, formiche. Imprigionate in una bava che ha tutta l’aria di essere sperma.
«Oh, cazzo…», dico. E non so se mi sento più scoraggiato o stupito o inorridito.
«Non dirlo a mia madre», piagnucola lui.
«Sì che glielo dico».
«Mi ammazza», ri-piagnucola lui.
«Affari tuoi», dico io. E lo penso davvero. Se lo ammazza mi fa un favore. Si chiama selezione della specie.
Gli scende una lacrima dall’occhio sinistro ma non si lagna e non singhiozza. Ha qualcosa di dignitoso nella sua sofferenza. Per una frazione di secondo mi viene la tentazione di mollarlo e fare finta di niente, perché quel dolore muto e rassegnato mi fa pena. Ma è solo una frazione di secondo: subito dopo arriva sua madre che mi vede mentre tengo il figlio per la maglietta.
«Che succede?», dice lei. Ha un’aria arrabbiata. Con me.
«Lo chieda a lui», rispondo io. Non ho voglia di descrivere la scena.
«No, lo chiedo a lei. Lei sta tenendo mio figlio per la maglietta», e lo tira a sé.
«Senta, lo chieda a lui. Io non ho voglia di dirglielo».
Lei mi guarda con astio. Ma astio vero. Non è odio e nemmeno rabbia. Il viso è di tre quarti. E tace. Si aspetta spiegazioni.
«Ok. Non lo chiede a suo figlio? Davvero non lo vuole sapere da lui? Va bene. Si stava masturbando con l’albero. Anzi sull’albero. No, nemmeno. Per la precisione nell’albero».
Non dice niente. Mi guarda come se avessi detto una cosa senza senso.
«Cristo, venga qui e guardi», e le faccio vedere il buco con l’ovatta e il resto.
Lei guarda il buco e tutto ma ancora sembra non avere capito. O di avere voglia di capire.
«L’ho visto che stava mettendo il suo… coso dentro questo buco e spingeva. Allora l’ho preso per la collottola e mi sono fatto spiegare. E poi lei è arrivata qui. Capito adesso?».
«Non ci credo», fa lei.
«È così», dico io. «Diglielo anche tu», e mi rivolgo a R. Ma R non parla. E abbraccia sua mamma affossando la testa in mezzo al suo seno.
«Diglielo, R!», gli grido quasi. Ma quello, niente. Immerso in sua madre è come in una gabbia di Faraday. Può anche piovergli un fulmine addosso e non se ne accorgerà mai.
«Io non so che cosa sia successo, qui. E non mi interessa.
Ma adesso le dico una cosa e voglio che mi ascolti bene. È l’ultima volta che lei si azzarda a mettere le mani addosso a mio figlio. Sono stata chiara?», la sua aria è minacciosa.
«Lei invece dovrebbe proprio saperlo, che cosa è successo qui. E se suo figlio si scopa gli alberi, forse dovrebbe anche farsi qualche domanda, con tutto il rispetto», dico io.
«Io non so che cosa sia successo qui. E non mi interessa», ripete. Stesse parole ma più lentamente. «Ma lei non si azzardi mai più, e dico mai più, a mettere le mani addosso a mio figlio. Chiamo la polizia. Non scherzo». Si volta e se ne va. Tiene l’alieno a sé.
Non riesco a dire niente. Una vertigine, forse di rabbia.
Non può essere vero che sia andata così. Lei si allontana svelta con il passo di chi non ammette repliche. Lui le sta aggrappato, le cinge la vita con entrambe le braccia. E mentre cammina, ondeggia, storto. Storto e alieno. Ma in salvo.
Io giro per il boschetto del giardino. E guardo gli altri alberi. Lo faccio perché in me cresce una sensazione, che poi diventa presentimento e infine una certezza. Ci sono altri buchi. Altra ovatta rinsecchita. E centinaia di formiche morte”.

Sono legato a questo passaggio del libro perché fa parte di quel blocco primigenio di testo da cui poi è nato tutto il resto. Scrivere questo passaggio mi ha fatto mettere a fuoco il senso stesso del libro, nella sua mescolanza di immagini disturbanti e spaesamento. Una sensazione che mi ha accompagnato durante tutta la scrittura e che alla fine (a quanto mi dicono) è arrivata anche ai lettori. E poi da qui è nata la scelta di non dare un nome ai personaggi, sacrificando il nome completo a vantaggio di una singola lettera iniziale. È stata una scelta che non tutti hanno apprezzato, ma che difendo perché rispetta il mio tentativo di scrivere una storia che fosse quanto più possibile slegata da riferimenti geografici, culturali, identitari. Se quel bambino si fosse chiamato Roberto, ecco che immediatamente il pensiero va a una famiglia che si colloca nell’Italia settentrionale, dato il nome di origine celtica, in una zona mediamente urbanizzata ma comunque fuori da Milano, per dire. Ma io ho cercato in maniera premeditata e ostinata lo straniamento, provando a limitare al massimo ogni riferimento che non fosse assolutamente necessario. Certamente non ho potuto evitare, per questioni di trama, i riferimenti alla seconda guerra mondiale. E tra i personaggi c’è una badante dell’Europa dell’est. Quindi sì, ho dovuto derogare dalle mie stesse regole. Ma avrei rischiato l’incomprensibilità, se fossi stato ancora più generico.

Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?

Prima di pubblicare, quando però il testo era già in via di pubblicazione, speravo che si generasse un circolo virtuoso di vendite attraverso il passaparola, fino a raggiungere una massa critica che potesse poi suscitare l’interesse di un editore più strutturato, in modo da realizzare un piano di lungo periodo mirato a rendere la scrittura creativa una possibilità professionale. In pratica speravo che il libro mi aiutasse a definirmi da un punto di vista sociale, perché noi non possiamo fare altro che specchiarci in ciò che facciamo, per riconoscerci. La speranza rimane, ma con il passare del tempo e le già citate difficoltà di promozione, diventa sempre più flebile. Non nascondo che, stante anche il parere di chi lo ha letto, mi piacerebbe diventasse una sceneggiatura. Secondo me sarebbe la sua collocazione naturale e mi spingo nel dire che Mainetti ne potrebbe fare un ottimo film.

Una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

La domanda è impietosa: “pensi di avere dimostrato, con questo lavoro, di possedere capacità sufficienti per fare lo scrittore?”. La risposta più onesta è: “non lo so”. So di avere finito la stesura di una storia coerente con un inizio, uno svolgimento e una fine. E penso che le tre parti siano equilibrate tra loro. Penso di avere avuto delle buone idee all’interno del testo, e che si veda lo sforzo di un lavoro accurato sui piani narrativi, per cercare coerenza. Penso che ci sia un buon ritmo e una buona caratterizzazione della maggior parte dei personaggi. Però vedo anche dei difetti e credo che questi siano soprattutto dovuti a un mancato confronto con un editor forte, uno che ti rimanda indietro passaggi e capitoli, che ti chiede conto di alcune scelte narrative anche solo per rinforzare le tue stesse convinzioni. Uno con cui litigare, ma che ti fa pensare. Mi sono reso conto che l’opera glorifica l’autore ma è espressione di una sinergia che riguarda tutti i passaggi della filiera. Quindi non so se sono riuscito a dimostrare di avere realmente il talento dello scrittore. Ma so di avere imparato molto dall’opera prima. I miei limiti come autore, senz’altro.

Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Ho in mente due storie. Una – pensata ancora prima di avere ideato “Vuoto 23” – parte dal disfacimento cognitivo di un personaggio all’interno di un contesto familiare. La seconda storia è legata alle false immagini di sé con cui alimentiamo le nostre pagine social. La genericità di queste descrizioni rischia di essere banalizzante, ma non saprei in quale altro modo descrivere il soggetto senza fare anticipazioni.
Però, se devo essere sincero, il vero progetto riguarda ancora “Vuoto 23” per capire come promuoverlo, farlo vivere, dargli visibilità e vedere dove può arrivare sulle sue gambe. Il libro è finito, ma il progetto è incompiuto. Solo dopo avere capito il reale destino di “Vuoto 23” mi rimetterò seriamente, quotidianamente e sistematicamente al lavoro. Per ora mi limito a prendere in mano i file, quando ho tempo, per scrivere capitoli sparsi, idee, spunti che dovranno poi essere cuciti con pazienza all’interno di una trama coerente, a cui penso spesso e specialmente quando vado a fare running. Ma non riesco a pensare davvero al futuro se prima non ho tratto il massimo insegnamento possibile dall’esperienza del passato e dalle considerazioni del presente.

Giulio Divo – Nato a Morbegno (Sondrio) nel 1970, è giornalista professionista e proviene da studi filosofici. In ambito letterario – al di là di alcuni testi di divulgazione medico scientifica editi da Sperling & Kupfer – ha prodotto racconti pubblicati nell’antologia “A che cosa servono gli Angeli”, edito da Ellin Selae, ha scritto e avuto modo di rappresentare due spettacoli teatrali (“Mosche”, con Simone Ricciardi e “Cercando Godot”, con Simone Ricciardi e Mario Migliara). Al suo attivo una lunga attività come bassista in band alt-rock tra gli anni ’90 e gli anni 2000 (“Le Allucirosse” e “CheFare?”).