Di Yuleisy Cruz Lezcano

Immaginiamo un allenatore di nuoto, che deve preparare una squadra italiana a gare importanti. Gli atleti, a confronto con i loro coetanei stranieri, non brillano: le prestazioni non superano un modesto sei. L’allenatore, però, non può acquistare nuotatori da altri paesi ma deve fare con quello che ha. Così si mette al lavoro: rivede i metodi, ascolta, corregge, sostiene, allena senza sosta. Non aspetta il talento puro come un dono del cielo: lo costruisce, lo coltiva, lo inchioda giorno dopo giorno alla disciplina e al coraggio.
Ora immaginate un allenatore di calcio, che ha sottomano una squadra è mediocre, che non vince. La soluzione è semplice e rapida: si acquistano i migliori giocatori stranieri, si vince, si esulta. Le altre squadre seguono l’esempio. Tutto funziona, finché la nazionale non scende in campo ed è lì, con gli azzurri in campo e lo sguardo mondiale puntato addosso, che si svela l’effetto collaterale: dal 2014, l’Italia non riesce più a qualificarsi ai Mondiali. Perché? Perché non si è mai investito sui giovani italiani, perché è mancato l’allenatore disposto a sporcarsi le mani con il poco che c’era, a riconoscere anche in un sei il punto di partenza per un futuro dieci.
Ecco: lo stesso meccanismo sta erodendo l’editoria italiana. In molti premi letterari, soprattutto in ambito giovanile, il vincitore è spesso un autore straniero. Si premiano le eccellenze esterne, le punte già affilate, i testi già levigati da un sistema editoriale forte, internazionale, ben rodato. I giudici e i professionisti del settore si giustificano con un’argomentazione che suona così: “Gli autori italiani non sono abbastanza bravi” e questa è una diagnosi impietosa che, però, salta una domanda fondamentale: chi li ha allenati, questi autori italiani? Chi li ha selezionati, seguiti, spronati, corretti? Chi ha scelto di credere in loro anche quando si fermavano a un sei?
Come scrive Antonio Franchini in Leggere, possedere, vendere, bruciare, “la scrittura è un mercato. Non necessariamente un turpe mercato, ma un onesto, decoroso, sofferto mercato.” Ma la scrittura vera è, anche, e forse prima di tutto, un’urgenza sorda, un gesto privato, “una necessità istintiva, dolorosa, irriflessa”. E se questa necessità non incontra contesti capaci di accoglierla, sostenerla, renderla leggibile, allora si spegne. Allora il mercato, anche quello decoroso, diventa una macchina che scarta, più che selezionare.
Chi lavora nella formazione sa bene cosa significhi vedere un ragazzo o una ragazza arrivare in aula con uno “straccio di talento”, è fragile, impuro, sporco, ma è lì e ha bisogno di tempo, di fiducia, di errori e di confronto con standard raggiungibili, non con modelli perfetti provenienti da altrove.
Premiare costantemente libri stranieri nei premi nazionali significa, di fatto, dire ai giovani scrittori italiani: “non sarete mai abbastanza”. Ma chi educa alla scrittura sa che nessuno nasce già pronto e che il sei pieno, nel contesto italiano, è spesso già un piccolo miracolo.
Il problema, allora, non è che i premi esistano, è come vengono assegnati. Se il livello medio della produzione italiana è davvero un sei, allora i premi dovrebbero andare a chi raggiunge, con merito, quel sei, dovrebbero essere strumenti per elevare, non per escludere. Premiare significa riconoscere un percorso, non inseguire una perfezione assoluta. Se invece continuiamo a confrontare la scrittura italiana con quella proveniente da paesi che investono molto più di noi in formazione, lettura, accesso alla cultura e filiera editoriale, allora la frustrazione diventa sistemica. Nessuno distingue più la differenza tra chi parte da zero e chi ha fatto un buon cammino. Tutti finiscono nello stesso calderone dell’insufficienza e da lì, è quasi impossibile risalire.
A una giuria seria del romanzo norvegese scritto perfettamente, levigato come una statua scandinava, dovrebbe importare relativamente. Dovrebbe interessarsi molto di più del ragazzino siciliano, o veneto, o pugliese, che ha scritto un racconto pieno di buchi, ma con un’intuizione autentica, con una voce ancora da domare, perché lì, forse, c’è il seme di una letteratura futura.
Sempre che qualcuno si prenda la briga di innaffiarlo. Un premio nazionale assegnato a un autore straniero è una contraddizione. Il gesto, per quanto comprensibile in termini di qualità, ha un impatto educativo disastroso. L’autore straniero sorride, riceve la targa, e poi torna a casa. Noi, invece, qui in Italia, restiamo senza squadra, e continuiamo a ripeterci che nessuno dei nostri vale la pena.
La verità è che, come nel calcio, abbiamo preferito fare i procuratori piuttosto che gli allenatori, abbiamo importato talento senza costruirlo, abbiamo dimenticato che, per andare ai Mondiali, o per avere una letteratura nazionale vitale, serve sudore, dedizione, pazienza e che è meglio andare in campo con una squadra giovane, magari ancora acerba ma allenata con cura, che non andarci affatto.
Che si facciano quindi concorsi per soli italiani seguiti da quelli regionali, comunali, rionali, condominiali. Una letteratura, per così dire,domestica . Ancora più addomesticata di quanto lo sia già ?
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