
AA.VV., Anfore dal cielo (prefazione di Mons. Giovanni Giudici, postfazione di Giovanni Rossella) Milano, Àncora Editrice, 2023, pp. 110, € 12.
Anfore dal cielo (titolo estratto da Save the seed, di Anna Vercesi) forma un grazioso volumetto in cui le brevi raccolte delle Autrici si succedono attraverso le poesie-snodo in funzione di dedica, col risultato di collegarle tutte nello stesso sentimento di amorosa partecipazione alla natura (come creazione in senso biblico) in cui “vi è pure il richiamo all’esperienza cristiana” come nota giustamente Mons. Giovanni Giudici nella sua prefazione. Di fatto, i riferimenti delle Autrici alle virtù teologali di fede, speranza e carità costellano le loro esperienze di donne e madri, e lo fanno in modo corale nei “differenti stili” come indica il postfatore Luciano Rossella. L’anfora, sotto il profilo simbolico è un contenitore totale che riguarda l’aspetto contemplativo della natura e di partecipazione alla realtà, del resto ben espressi a vario titolo dalle quattro Autrici, le quali alternano la misura epigrammatica a tenore mistico all’estensione argomentante, a volte sfiorando le durezze dell’invettiva, come in Lorenza Auguadra, per la quale “Pregare/ è la mistica di un verso”.
La parola trova il cuore
da buio a luna piena
la croce lascia un corpo
di luce dalla tenebra.
(Promessa, p. 17)
Un tondo
a rassicurare la notte
cielo resuscitato
misura di pienezza
per occhi rinnovati.
(Luna piena, p. 26)
La presenza della luna, oltre che della croce, ci riporta ai dipinti di Caspar David Friedrich, come simbolo della luce e di Cristo.
Le poesie di Adriana Rinaldi sono una laude del creato inteso come creazione del Padre fonte di amore, senza incertezza, mentre la scienza, laddove si estranea dalla fede procede nella continua rettifica delle sue ricerche su basi deterministiche.
Sono nata nell’Amore
nel legame serrato
che conduce dalla terra
al cielo
sono nata in divenire, perfettibile
[…]
sono nata Creatura
fatta di carne e di spirito
[…]
sono nata figlia
di un Padre che nutre le stelle
[…]
(Eccomi, p. 36)
Il dittico Il figlio alla Madre, la Madre al figlio vuol essere anch’esso una laude della reciprocità (mentre la teoria psicanalitica testimonia l’irreciprocità strutturale dei rapporti) in cui non per nulla troviamo significanti come “riflesso” “specchio” “impronta” “sguardo” nonché l’uso del maiuscolo…
Sei il riflesso
del mio esistere.
Sovrano volto,
specchio del mio mondo.
(ivi, p. 39)
Le braccia vanno allargate
gli occhi aperti
le bocche devono contemplare
le meraviglie assolute
della Gratuita Esistenza!
(Affidarsi, p. 41)
L’Amore è il culmine della gioia
quando all’orizzonte vedi
il corpo dei tuoi pensieri
e il sorriso del sole.
(Amarsi, p. 42)
Poesia dell’apertura, della fede e dell’incessante fervore (“Vivo ogni istante/ come dono di eternità”. Eternità, p. 50) anzi dell’ebrezza…
la vita geme e sospira –
si ubriaca d’Amore
vive e giace.
Riaffiora il Canto
s’ode in lontananza
il lamento.
(S’ode in lontananza, p. 44)
che oltre a Whitman parrebbe ricordarci Baudelaire:
Il faut être toujour ivre.
Tout est là:
c’est l’unique question.
Pour ne pas sentir
l’horrible fardeau du Temps
qui brise vos épaules
et vous penche vers la terre,
il faut vous enivrer sans trêve.
Mais de quoi?
De vin, de poésie, d’amour ou de vertu
à votre guise.
Mais enivrez-vous.
Anche Teresa Scroccarello parla di eternità e mistero, ma le sue poesie sono maggiormente legate alla sfiducia nelle parole…
Impermeabile Eternità
fissa costante, durevole non modificabile.
Tutto assembla Oltre –
neanche più le parole bastano
ma un silenzio duro e forte
mi trascina a Te, Eternità
(Oltre, p. 61)
Il suo Dio è oscuro (una sorta di pascaliano Deus absconditus) e raggiungibile solo per via negativa, non come una meta predefinita…
Dio,
silenzio che chiami
ad una quiete piena
d’inquietudine –
della Tua presenza
sono inquieta
non so mai cosa vuoi
non sono le mie emozioni
e il tuo volere è così oscuro
[…]
(Questo è il dono del silenzio, p. 62)
L’uso dell’ossimoro di “quiete piena/ d’inquietudine” lascia da parte ogni festosa eccitazione: “Qual è la Volontà/ di un Dio pieno di silenzio”. Il suo silenzio fa ammutolire. Qui, benché la Trinità, secondo il dogma, non possa scindere le tre persone, Teresa pare nutrire maggior vicinanza con Gesù, l’uomo che ha vissuto, come si evince dal brano Al volto Santo di Manoppello A.D. 2006 (pp. 63-64) dove, con la personificazione del silenzio, troviamo: “Io non so pregare, il silenzio prega in me”.
In Preghiera (p. 66) parremmo riascoltare la voce di Giobbe:
Triste, svuotato d’animo come di pietra
è il mio cuore, ai piedi di questo Altare,
invoco il Tuo richiamo.
Aiuto, cerco Te per trovare me, Signore.
Neppure le parole osano, mi tradiscono
[…]
A che serve un fuoco che brucia
se non accende l’altro?
Un fuoco solitario?
A che serve condivisione, riconoscimento
[…]
Ho una solitudine, riempimi di Te – Oh Signore!
La fede nel Dio silenzioso (le parole tradiscono) qui pare intrecciarsi con l’aspetto esistenziale, cioè con la mancanza di amore. Come per le mistiche, le quali parlano dello Sposo divino, è nella solitudine che il Signore può far avvertire la propria presenza, sia tramite le sacre figure intermediarie (ma verso l’oltre, ad esempio tramite l’icona descritta da Florenskij) sia direttamente come nei ratti di Maddalena de’ Pazzi, sia nella nebbia, come qui, sia infine nell’oscurità, come in San Giovanni della Croce, con diverse gradazioni…
Nella nebbia appare il dolce Volto
Tu ragione del mio essere
eppure nella mia casa il quotidiano freme
nulla di più importante
mi stringe a queste mura.
(Nazareno, p. 67)
Anna Vercesi, le cui poesie sono ora parenetiche ora volte alla laude come in Rosa pulchrissima, alias Regina Cieli, auspica “l’incontro con l’altro” specie se derelitto, seguendo con ciò le parole di Gesù…
Cosa saremmo senza l’incontro con l’altro?
L’altro
Cane scalzo nell’ombra
L’altro
[…]
Apri il cuore che ce l’hai
Ritrovati, che il Signore della sera
Fa sbocciare ancora i fiori tardivi
Nell’enigma universale dell’amore
Che ama senza disarmanti aspettative.
(Scalzi, p 82)
L’incontro non c’è se non come sogno, mentre pochi metterebbero in dubbio il reale bellum omnium contra omnes, frase ripetuta da Linneo, se anche nei giardini, dove in superficie tutto ci appare armonioso e in pace, domina la cruenta necessità della natura, con i batteri atti a demolire l’humus, gli insetti killer, i bruchi devastatori e via così… Ma appunto per questo sorge l’anelito all’“euneirofrenia” e all’“incontro” come sogno del bello e della pace.
Trovo interessante, il complemento di specificazione “della sera” riferito al Signore nel tempo della kènosis del Cristianesimo. Anna Vercesi chiude così la poesia Shalom, padre, shalom: “Non ho più voce e canto/ Siamo storni nel vento/ Aquiloni, di bianchi e tenui colori” (P.84). Gli storni volgono certi alla meta, mentre nel discorso possono irrompere incertezze, equivoci, atti mancati… A “bianchi e tenui colori” immagino si possa associare un senso di pace in contrasto con “miserie” “chiodi” “lividi e spini” e che col “Signore della sera” potrebbe richiamare il sonetto di Foscolo: “Forse perché della fatal quïete/ tu sei l’immago a me sì cara vieni”.
Ancora ne Shalom, padre, shalom, leggiamo:
Voglio una vita senz’ordigni
Senz’ordini di sparizioni
Senza brigate di eliminazioni
Certo, se non si mettessero di mezzo i contrasti economici, fomiti di guerre e distruzioni, e fossero davvero assolvibili gli imperativi francescani.
Silvio Aman