
Da quando Pavese lo ha definito “scoiattolo della penna “, per sottolineare il dinamismo e lo sperimentalismo tipici della sua scrittura, le definizioni di Calvino si sono moltiplicate a dismisura e ciò è potuto accadere per diversi motivi. Innanzitutto, perché il suo sguardo, sempre aperto alle proposte e alle esperienze più significative del dibattito culturale della seconda metà del Novecento, ha portato un contributo a tutto campo, pur mantenendo una propria autonomia, immune dalle numerose mode espressionistiche che hanno attraversato il Novecento italiano. In secondo luogo, perché Calvino riflette la molteplicità del mondo, la “rete dei possibili”, come Borges, e un’incessante volontà di interrogarsi sui meccanismi della scrittura. Il 1964 è un anno decisivo, quando Calvino si trasferisce a Parigi. Infatti, dopo la pubblicazione de La giornata di uno scrutatore (1963), il cui nucleo tematico, almeno nelle intenzioni del suo autore, avrebbe segnato la reazione dell’intellettuale alla negatività della realtà con il definitivo distacco da ogni sicurezza nel carattere lineare dei processi storici e politici e dei tradizionali schemi ideologici per l’interpretazione del mondo, Calvino sposa Esther Judith Singer, interprete e traduttrice argentina dall’inglese con la quale si trasferisce a Parigi, calandosi nella animatissima vita culturale della capitale fino al 1980, (quando tornerà in Italia per stabilirsi a Roma, intanto continua l’attività di consulente editoriale per Einaudi). Gli anni trascorsi a Parigi ebbero un’influenza decisiva e diedero a Calvino, dunque, l’occasione di conoscere e partecipare alle esperienze che animano il panorama culturale della città, all’epoca uno dei più vivaci e innovativi in Europa. Così infatti scrive nel suo “reportage”[1] del 1983, durante una mostra di Giorgio De Chirico da lui curata al Beaubourg, prendendo spunto da alcune delle opere di Domenico Gnoli (1933-1970), considerato uno degli eredi della pittura metafisica di De Chirico per accompagnarle con testi descrittivi iper-analitici: “[…] La verità è presto detta: da quando sono entrato in questa città, la città è entrata dentro di me; dentro di me non c’è posto per nient’altro. Da allora il mio sguardo scorre su superfici levigate, sgombre che il sole fa dorate, l’ombre nere; ma a dire il vero io non so se il sole ci sia né dove sia, perduto dietro lo spessore d’un cielo verde-bottiglia, o sfoggiando in nuvole leggere e bianche…”[2].

(Fig.1 Melanconia,1912 -1914?)
Calvino dunque legge “il reportage” di un viaggio nella città immaginaria di Giorgio De Chirico, (giunto a Parigi nel 1911 col fratello Andrea, in arte Alberto Savinio, allora aspirante musicista) accompagnando la lettura da numerose diapositive delle opere dell’artista, nato in Grecia, formatasi all’Accademia di Monaco di Baviera sotto la suggestione del Simbolismo nordico di Arnold Böcklin e Klinger, ma anche della filosofia nichilista di Schopenhauer e Nietzsche. De Chirico non rinnega la tradizione, come i cubisti e i futuristi, ma a partire dalla serie degli Enigmi (1909-1913) a un nuovo modo di intendere la pittura la figurazione è solo apparentemente realistica: “Chi potrebbe diffidare del loro invito? Solo un agorafobo. L’agorafobia è un contagio che questa città trasmette a chi vi arriva senza essere premunito; anch’io ne soffro, devo dire, da quando mi trovo qui: gli spazi vuoti mi paiono ardui da attraversare, preferisco strisciare dietro agli spigoli degli edifici, tra i pilastri dei portici, senza avventurarmi allo scoperto; tanto più che non saprei dove dirigermi…”

Così Calvino “legge” L’enigma di un giorno, 1914, olio su tela, New York, The Museum of Modern Art di De Chirico. Lo sfondo è mentale, accostando in un’unica immagine, dal significato volutamente ambiguo, elementi fra loro incongruenti, non coordinabili dalla logica razionale, che provocano in chi osserva sensazioni di lirico spaesamento. Il visionarismo di De Chirico, il simbolo schematico, il manichino, il paesaggio immaginario urbano che associa presente e passato hanno carattere onirico e richiamano la psicanalisi e L’interpretazione dei Sogni (1899) di Freud. Il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste , il manichino resta, noi spariremo.

“Si pensa, dunque esiste una città del pensiero (fig.5.Giorgio De Chirico, il filosofo e il poeta). Il pensiero ha bisogno di luoghi su cui posarsi, ma solo alcuni luoghi sono adatti ad ospitarlo. Non c’è nulla che inviti al pensiero quanto l’immobilità delle statue, non importa se rappresentano dee avvolte in drappeggi o uomini in redingote: basta che siano di marmo, basta una figura su un basamento con intorno una piazza, oppure isolata nel vano di una nicchia; ed ecco la mente si sente subito propensa a sostare, a riflettere.“ Da queste esperienze Calvino trae il gusto e l’idea della scrittura come “gioco combinatorio”, acutamente rilevato da Pietro Citati, il gusto per una comicità estrosa e paradossale, l’interesse per la scienza, quale tema e nutrimento della scrittura narrativa e la passione per ogni forma d’arte che sia classica e sperimentale, musica e arti figurative comprese. Calvino sempre più si affianca all’avanguardia francese, che sente più a sé congeniale per la disincantata saggezza umoristica di un Queneau, e per il controllo vigile che il Nouveau Roman (Butor, Robbe- Gillet, Sarraute) esercita su una lettura della realtà. Sulla felice esperienza di quegli anni a Parigi, Calvino ha scritto[3]: “Quando mi trovo in un ambiente in cui posso illudermi d’essere invisibile, io mi trovo molto bene. […] Una volta gli scrittori veramente popolari nessuno sapeva chi erano, di persona, erano solo un nome sulla copertina, e questo dava loro un fascino straordinario”. (Da un’intervista Italo Calvino 1974 a Parigi). Chissà, forse mantenere la condizione dell’anonimato e la riservatezza, sia nella vita privata sia nelle opzioni culturali, potrebbe spingere i lettori a prendere le distanze dalla biografia dell’autore e a differenziare la finzione come categoria concettuale dalla verità e dalla menzogna allora che la massima autorità dallo scrittore si sviluppa, quando un po’ come tanti personaggi dei suoi racconti, non ha un volto, ma presenta una fisionomia complessa, sospesa tra passato e futuro, talvolta indecifrabile, eppure il mondo che l’autore rappresenta, imprevedibile e mutevole, occupa tutto il quadro.
[1] Nel 1983, a Parigi, durante una mostra al Beaubourg, Italo Calvino lesse il testo del suo “reportage” di un viaggio nella città immaginaria di G. De Chirico, accompagnando a lettura da numerose diapositive (da FMR,n.15, 1983)
[2] (I. Calvino, Le città del pensiero, FMR, 1983)
[3] Da un’intervista Italo Calvino 1974 a Parigi.