
I
PRIMA VOCE: (canzonando)
Se ce lo chiedete non ve lo diciamo.
SECONDA VOCE: (sussurrando, sempre)
Come qualcosa che passa, qualcosa che striscia. Uno scricchiolio.
TERZA VOCE:
Imparerai a parlare con le ombre.
PRIMA VOCE: (ancora canzonando)
Non ve lo diciamo.
TERZA VOCE:
Avevamo allacciato l’arca al loro regno. Al regno nero della trasparenza.
Alla fine del mondo.
PRIMA VOCE:
Non è che non vogliamo.
TERZA VOCE:
Come per chi cerca il giro della serpe. Il segno arrotolato nel nulla.
PRIMA VOCE:
Non ce lo hanno detto. Lo abbiamo chiesto, croce sul cuore.
SECONDA VOCE:
Come bisbigliando in un orecchio gigante. L’entrata sul retro
sigillata parlando.
TERZA VOCE:
Poi siamo salpati. Nessuno ci ha dato il permesso. Nessuno ci ha
detto di no.
II
Per una cuccia nel vuoto, per un morso di pane, ma da dietro, bendati, che nessuno ci veda. Ci chiedono come ci chiamiamo, non sappiamo ripeterlo. Questo Regno sospeso in una ruota che abbaglia, questi corpi rovinati dai raggi, questi corpi che sbattono ai bordi, come i numeri scatenati negli insiemi, nei cerchi, l’intervallo luminoso tra un segno e qualcosa, qualcosa che affiora come un Regno sospeso, nella ruota che abbaglia c’è qualcuno in ginocchio, ci dice che viene, ci avvisa, è un allarme. Sirene, trambusto, uno scoppio, poi nulla, siamo calmi, lo saremo per sempre, giuriamo, ma giuriamo su cosa se le ombre sono inchiodate alle sagome, se c’è il volto di Nostra Madre che trema, che ha perso la faccia e non riesce a parlare, ci dice che bruciano, che bruciano i campi, hanno trovato un passaggio, che bruciano i numeri e c’è un altro sistema, adesso; cosa state scontando per una cuccia nel vuoto, per un morso di pane, per un’arca dorata che chiamiamo Aphinar?
da Se giuri sull’arca
I
Parlano, ma come gli uccelli, un dialetto celeste. Il fuoco è acceso e il villaggio più vicino. C’è il pane caldo, l’anice da scaldare insieme al vino. Saranno ricordati in carovana, come in fila per presentarsi al Giudizio, ma nessuno li vede oppure non esistono occhi; jolly d’ombra che frugano nel fogliame, che strisciano, convulsioni nelle province dell’ombra. Nottenati, Cunicoli, come nomi di popoli smilzi, fantasie di popoli scalzi. Smàcchera zan ca tio perēse, ca sa pèrese rubina i scancia. Parlano, ma come uccelli dai becchi mostruosi, dai becchi d’anice, liquidi, smacche zatàn come grumi, come calcoli, un dialetto di reni celesti se tutta la lingua è un’orma, se qualcuno si allontana dal villaggio, viene, se fischia.
XV
Sciababàb, ci accucciamo di notte, chiudi gli occhi che nessuno ti vede; le unghie appese alla porta, così non entreranno, sale a terra, parliamo, ma parliamo nel buio. Sciababàb, come un nome spellato, un cerchio buio nell’ombra e gli uccelli, qui intorno,
qui intorno è pieno di uccelli.
da Sciababàb
I
Al primo lo incidono sulla schiena ma non ci crede. Lo stesso segno è sul dorso della moneta. L’altro ha baciato la pietra la prima notte dell’anno. Il capo del toro, calato dall’uscio, è stato fracassato e sepolto. Alla festa indosserà la maschera della bestia, quattro volte cornuta. All’ultimo taglieranno l’anulare.
VIII
Siate gli angeli e siate la procedura. Così ha parlato la bocca del sottomondo, come un’abrasione, un comando che si salva scomparendo e segna, tuttavia, incide e infetta consegnando, alle regole o alla storia, qualcosa ancora da salvare, ancora una violenza.
X
Il nome che tramandano è Mattath. Lo usano per i ladri, per i macellai. Gli dicono che sarà il motore, la sintassi. Ovunque sarà nominato sarà costretto a significare. Quando la sintesi sarà compiuta le bestie saranno scolate agli angoli dell’incisione. A quel punto la pelle sarà sciolta e il nome potrà essere tramandato.
(Gli abitanti del villaggio sono riuniti dall’altro lato della voragine. Siedono in cerchio, suonano il tamburo. I robota siedono come loro, vestiti di bianco, alzano le mani, mostrano i palmi. Non c’è nessun segno)
da L’Ermeneuta
Testi di Mattia Tarantino, tratti da “Se giuri sull’arca”, Prefazione di Michelangelo Zizzi, Collana Il Drago Verde, Fallone Editore, 2024.