Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di
FERNANDA FERRARESSO
STUPIDA, STUPIDA!
Sono stupida
ho più di trent’anni
e mi tengo un pugnale
nella testa un dolore di lama piantato dentro il cervello e
non penso ad altro. Niente altro che .
Non ho visto. Non ho visto che il viaggio. Non so altro.
La mia vita?
Rotta. La mia vita si è aperta oltre un campo.
Non ho testa io
ho un secchio bucato
dove butto le parole da sciacquare
le orme dei piedi la testa di chi con la lingua
fa esercizi per massacrare.
Io
sono stupida sì sono stupida mi perdo
sull’attenti per ore e ore in cerca di un nome che non c’è
lascio tutto di me ogni cosa non so più chi sono io
curo la vita le forme dove la vita dentro mi richiude il silenzio.
E perdo i denti io e i capelli e mi rompono le ossa delle braccia
ho perso la voglia di vivere io
la libido la espello come la voce di un fringuello
e ho desiderio io
desiderio di toccare ogni cosa sentirla nel ventre e dentro i polpastrelli
nella gola un fiato di vento e un trifoglio da mangiare.
E il pensiero lo taglio col filo di ferro è solo
una vecchia voce scialba uno sguardo
che non guarda sotto la cenere che ora è dovunque
sparsa la luce a terra che dentro ci salta con tutte le chiavi di ogni porta
e il luogo è quel dove
dove tutto cambia per restare sempre uguale.
E i vinti?
Sono un’isola che non ha futuro
un immobile equinozio
una scena senza soglia un confine
oltre tutte le città che pigramente ospitano una vita scolpita
a suon di parole di muffa nel vuoto delle case
nei gessi dei corpi di gente senza identità.
Ma niente si trova niente ha più una notazione.
E rifiuti su rifiuti è cresciuta una montagna di menzogne
un plastico rifiuto a vivere tutte le stagioni
l’interno del nero noi quel sacco di pattume
orlando immobili il drappello delle tracce randage di quei nomi
perse tra le baracche tra i fantasmi e altri sguinzagliati suoni di sirene e cani
che fiutano tra ombre l’orma di corpi senza più padrone.
Dove non si riconosce ancora il mondo?
Le parole battezzano soltanto i nostri vuoti
e gli occhi scorrono oltre i pensieri.
Dove si cerca ancora il mondo?
Dentro un sacco di plastica
l’altra sera un feto era un’isola
una curva dentro la corrente
una parola certa dentro la nostra morte.
E MI RICORDO
mi ricordo
come te lo gridavo da un posto piccolo
perso in fondo a me stessa fino a dove stavi tu
che non sapevo mai dove stavi
tu eri mia madre ed eri lontana oltre i confini della mia terra
così cantavo mi cantavo tutto quello che solo io potevo vedere
stavo aperta come un libro dentro la mia testa e aveva un sole
a tutte le ore dentro la mia voglia
anche quando dicevano che avevo troppa fantasia
e che non sarei mai stata abbastanza accondiscendente
che non avrei ceduto facilmente anche se volevano
spaccarmi la luce dentro regole che non erano niente
io cantavo
mi cantavo senza pensare che non portasse a niente
che inutilmente avrei girovagato attorno ai confini che sentivo
sempre più labili dentro un corpo che mi abitava e
non era solo le mie gambe le mani o il cervello era
una specie di canzone che mi teneva in vita e ancora
continua a farlo quando ti perdo
e non sento che quel ricordo venirmi incontro.
NEI GIORNI SUCCESSIVI
non fui capace di trovare uno specchio
d’acqua pulita non riuscii a vedere una faccia né il mio
volto di limo che quasi non sentivo più
come se l’aria intorno fosse la precisa mole della sua inconsistenza
e gli occhi fossero due vuoti
annodati al fondo e consumato lo sguardo fosse
casa di abbandono.
Mi fermavo ad ogni parola
che mi suonava nella testa come straniera
ora che non avevo nessuno con cui barattarla
nessuno
tranne me stessa e tacendo le parole
scorrevano nella mente come in un letto vuoto e l’ignoranza
si scopriva come un alito di desiderio scopre il desiderio stesso
maturando i suoi acerbi pensieri da una creta corrotta
ne faceva materia scomposta e impalpabile.
Mi guardavo intorno e vedevo corpi
d’ogni specie erbe e piante
decapitate forme animali recisi dal busto
nullo il mio sguardo
poteva raccoglierne la primitiva forma l’involucro osceno
di tutto quel mondo che dicevamo ci avesse nutrito prima, ora
poteva chiamarsi in qualunque modo ma non
natura, non terra la nostra
furia d’essere creato e creatore in un contatore nucleare
inoppugnabile aveva esploso quella verità e in questa
vitrea vita terrena fatta a pezzi
ora esponeva i ludici cadaveri del suo scempio.
Grande e madre la Terra offriva ancoraggio
a tutti quegli esseri viventi ancora
in qualche modo partecipi di un ciclo di cui ciascuno
piccola infima parte chiudeva il complemento necessario affinché
anche nella morte il ciclo si evolvesse fino in fondo. Ombre e segni
di altri selvaggi mi spingevano a scegliere
il silenzio.
Che scendesse si avviluppasse profondo
tra ciò che restava e si facesse l’essenziale
forma di un’altra espressione consapevole di quel giorno
ancora in piedi su tanta catastrofe umana.
Non ho più parole ora
depongo i miei sassi nel ventre ammutolito del tempo.
Gli uomini non gridano
non guardano, non più
ci sono voci che sfiorano l’orlo.
Di un giorno qualsiasi è l’andare e venire della luce.
Tutto questo silenzio è un tuono nuovo
nell’identico andare
al fondo della notte e in cima al precipizio.
RICORDO IL MIO PRIMO
il mio primo respiro
ha disegnato profondo
tutto il mondo
un piano universo
un cielo aperto
foreste e selve
un mare di ginestre
gialle tempeste le messi festive rondini tardive
noccioli e querceti profumi essenziali
nodi di temperature valloni di echi
indissolubile mi ha legato
tra le sponde della morte e nella vita
mi ha scandita in una lingua tersa
attraverso ogni giornata
testi tratti da “L’inventario” di Fernanda Ferraresso