
John Evans Hodgson, “Il poeta laureato”, 1878
Amo i poeti che si danno le arie
non ci crederete, li considero esseri superiori.
Così amo gli ingegneri, gli architetti
e naturalmente alcuni selezionati musicisti
che pur vivendo di espedienti
producono intorno alla loro persona
una sostanza gassosa leggera e umbratile
una allure, una sorta di olio benedetto
profumatissimo e misterioso,
che ha il potere di guarire dalle scrofole
dai pruriti notturni, dalle cattive propensioni
e infine soprattutto dall’invidia.
Li amo perché liberano senza paura
la loro capacità di sentirsi padroni,
sicuri di sedurre con semplici mosse
un qualsiasi pubblico di lettori-scrittori desiderosi ( chissà perché? ) di poesia, disposto
allo svenimento all’enfasi necessaria e all’estatico superfluo.
Devo dire che questo amore non è corrisposto.
Niente da fare.
Loro, costoro, cotesti prototipi di umanità migliore e senza dubbio felice,
raramente consentono un interloquire con chi non corrisponde pienamente e con stupore infantile
alle proprie scelte stilistiche, semantiche, ritmiche, affabulatorie.
Stanno strettamente riservati nel loro mondo,
cioè, ci stanno o fingono di starci e
si compiacciono di essere considerati stanti,
essenti, necessitanti di cure e di attenzioni dai loro fedeli followers. Esigenti
approvazioni, rassicurazioni riguardo alla loro perfetta adesione al progetto di bellezza
che hanno certamente seguito fin da piccoli, attraverso un duro tirocinio di studi sulla
seduzione, sull’arte di riuscire a farsi considerare simulacro di perfezione e di innescare
nell’altro il sospetto di essere retroguardia, pubblico pagante, zavorra.
È bene dire che da parte loro esiste una forma di disprezzo per chiunque.
Non hanno percezione della prossimità.
E io amo questa vocazione alla mancanza d’amore, al rifiuto di adesione alla carne di
qualcuno. Sono attratto, incuriosito, perturbato dalla loro mancanza di umanità, dal
loro sentenzioso eloquio lento e solenne quando raccontano di sé stessi, della loro
fatica e del sacrificio di vivere, di affrontare e spingere sui monti la loro attrezzatura
retorica e godersi dall’alto la sofferenza dell’infimo, inutile, litigioso, guerrafondaio
genere animale, ostile, ingordo, ignavo, umano, troppo umano.
Essere gregario è godere di ricevere questo tipo di fustigazioni.
Esimi colleghi di romanzieri, teatranti, saltinbanchi, addestratori di pulci e di giaguari
conoscono a fondo le debolezze del loro pubblico.
Ultimamente ho letto che c’è un comico che riempie teatri, e il suo spettacolo consiste
in pratica e in teoria in una serie di insulti ai singoli spettatori paganti, scelti a caso.
Li mortifica, li provoca, li tratta come cani rognosi, e tutti ridono contenti, compresi gli
insultati.
È una tecnica che è cresciuta nel tempo, ma molto antica. Nel circo la usano i clown
quando vogliono coinvolgere il pubblico e pescano a caso uno spettatore che sarà la
loro vittima sacrificale, umiliandolo sottolineando la sua inadeguatezza, il suo non
patire, non comprendere il senso che si nasconde dietro al gioco: la crudeltà, il piacere
di vedere soffrire impacciato e imbarazzato il compagno più debole.
Francesco Tontoli