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Salvador Dalì, “I due ballerini”, 1949

Nell’ambito della danza classica, l’espressione Pas de deux (passo a due), indica la sequenza di un balletto o di una coreografia e fa riferimento al numero degli interpreti, uomini o donne, che eseguono insieme un balletto o una coreografia. Si tratta di una danza isolata dal resto del balletto e destinata ai primi ballerini, quelli virtuosisticamente più dotati. Il pas de deux è costituito da una entrée, da un adagio eseguito insieme, da una variazione solista maschile o femminile e da una coda in cui i due ballerini si ricongiungono per la sequenza finale del balletto. Con l’invenzione della coreografia (dal greco choreia (“danza”) e graphè (“scrittura”), menzionata nel 1700 da Raoul-Auger Feuillet nel trattato Chorégraphie ou l’Art de décrire la dance par caractères, figures et signes démonstratifs (Coreografia, o l’Arte di descrivere la danza per mezzo di caratteri, figure e segni dimostrativi), per la prima volta la composizione di passi e figure fu trascritta, istituendo l’associazione fra il motivo musicale e le figure danzanti. Allo stesso modo, abbiamo pensato di proporre ai nostri lettori una duplice rubrica dedicata alla poesia e alla prosa contemporanea e del passato, in cui accogliere su nostro invito ma anche per iniziativa personale, le proposte di una coppia di autori affini o al contrario discordanti per formazione, stile, lessico, ritmo, musicalità in modo da avere un connubio (come nel caso di Pas de deux) o un contrasto andando a incrementare un’altra rubrica gemella intitolata Paso doble. Potrebbe trattarsi di una coppia vera e propria del presente o del passato, di una coppia artistica, di un’autrice con il suo mentore, di amici o amiche che si stimano tanto da proporsi vicendevolmente per offrire in tal modo una doppia voce, un doppio sguardo, una doppia visione e interpretazione, un doppio passo, che coinvolga in una scrittura che diventi essa stessa apertura nei confronti dell’altro e del suo punto di vista, ritmo, danza.

 

Il Pas de deux di oggi è dedicato alla poesia di

LUCIANA RIOMMI e GIOVANNI BALDACCINI

 

Odore di elicriso

 

Tu non ricordi

le dita fra i capelli

mentre chinavo il capo

ad asciugare

sgoccioli di pensieri appena nati

e dal basso

sciolta nell’aria

l’eco di altri pensieri:

altrui

 

È questo il mondo?

una spianata grigia:

asfalto – non lo sapevo ancora

pronunciare –

e puzza di catrame

 

Mi raccontasti della tua campagna

di api e del frutteto

dei grappoli dell’uva

 

Non ho più riccioli

neanche più colore:

nella memoria

odore di terra asciutta

e di elicriso

 

Tu non ricordi

madre:

la notte

insieme ai grilli

il tuo respiro

 

 

luce ed acqua

quale luce splende, quale lunghezza d’onda
sull’onda lunga dell’imprecisione?
e questa irrilevanza di pensieri
fatti di particelle in movimento
e (spreco) di energia.
bastasse una mimetica intonata nel colore
a confondere le acque
– tanto per diluire l’ineleganza del dolore.

 

 

Al confine d’acqua

al confine d’acqua: anfibia
e prua avventata
al ritmo degli scalmi
su rotte perdute di quartiere
e già mi manca l’aria

extra-comunitaria
io che non porto scarpe
sotto i piedi
provo a scansare
ostacoli alla chiglia

e le falesie
di cemento a picco
popolate da eserciti in congedo
senza commiato
dall’inutilità

 

 

 nell’assolato mormorio del grano

troppo angusto lo spazio di manovra
nella sfinita assenza
di sostare
al tempo degli ulivi
senza che una parola
dia l’unzione
all’ingranaggio della fonazione

          come intonati – a volte – 
a una segreta assuefazione
rumori di preghiera
versi d’amore
e pena d’abbandono
e seduzione  – sempre – 
la passione
a trascinarsi  – stracci alla deriva –
verso gli stessi dèi
che hanno lasciato il campo
increduli all’idea

e tuttavia alla morte
già digrigna i denti
– nell’assolato mormorio del grano

 

 

Con vista

I
con la violenza di una corrente d’aria
quel pensiero fatto all’indomani
dell’apertura – assurdamente larga –
di queste mie prigioni :

senza profondità di campo
è fotogramma piatto

II.
questo silenzio
tra diaframma e sterno

e gli occhi bassi alla profondità

 

Note personali

Luciana Riommi Roma, 7/12/ 1945 – 29/07/2023
Psicologa e psicoterapeuta di formazione junghiana, è membro del «Laboratorio Analitico delle Immagini» che studia l’applicazione clinica del «Gioco della Sabbia» con adulti e bambini. Per diversi anni ha fatto parte del Comitato di Redazione della Rivista di Psicologia Analitica. Dal 1978 traduce dall’inglese e dal francese opere psicoanalitiche per diverse case editrici (Astrolabio, Boringhieri, Bruno Mondadori, Clueb, Liguori). Appassionata da sempre di letteratura, musica e arti visive, in anni recenti ha approfondito il suo interesse per la poesia.

Ha pubblicato:

«Analisi e tempo», in Rivista di Psicologia Analitica, n. 40/1989.
«La tecnica junghiana», con Marcello Pignatelli, in Trattato di Psicologia Analitica, vol. 2, UTET, 1992.
«Joseph Roth e l’anima che muore», con Giovanni Baldaccini, in Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie n. 7/1999.
«Un’ombra» (racconto breve), in AA.VV., Quel giorno in un attimo, Giulio Perrone Editore, 2011.
«Il deserto dei libri», in Rivista Fermenti, n. 238/2012.

Ha pubblicato anche:

3 d’union, aforismi, poesie e racconti”, con Giovanni Baldaccini e Antòn Pasterius, Fermenti Editrice, Roma, 2013.

Incrocio a raso”, raccolta di poesie in: Dentro spazi di rarità, Antologia Nuovi Fermenti n. 9, Fermenti Editrice, Roma, 2015.

Alcune sue poesie sono presenti in rete ne: Il Giardino dei Poeti e in Limina Mundi.

 

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Una sera di vento

 

Alla fine ce ne siamo andati tutti

e abbiamo lasciato che cadesse

quello che doveva cadere (nessuna mano si è sporta).

I cappotti sapevano di caldo (come era necessario)

ma le mani erano fredde (intendo dire che intorno si gelava)

e forse è per questo che non ci siamo salutati abbastanza.

Tuttavia era previsto

che le luci si spegnessero all’improvviso

come se non ci fosse nulla alle spalle

e che si scivolasse

(la mia faccia e la tua, bellissima).

Nulla era aperto e non

c’era più tempo per guardarsi intorno

a meno di ricercare quelle idee

che si ficcano nelle tasche misteriosamente

ma il mio cappello è stretto, a tratti floscio,

e non sapevo leggerti

nel caso tu volessi compagnia

sotto il fuoco incrociato delle stelle.

 

 

Frammenti

 

Siamo arrivati qui, io e la mia anima stratiforme. Che non conosco.

Roma è una città RM, come le sue macchine.

I finestrini sono divisori, per espellere l’aria.

Si parla da lontano.

Mi dicono che siamo arrivati in treno, ma non me lo ricordo.

Un treno è un espediente sospensivo. Quando scendi si complica.

L’albergo è senza stelle: una notte di nuvole.

Di là qualcuno piange, piange sempre. Ho capito che non è neppure una persona.

Mi è sembrata una notte insensata

con questo dolore al petto

stanco, ripetuto, costante

come un ago che cuce il mio disordine

e tuttavia

la sera che discende spezza il tempo

e la mia

stupefacente

innaturalità.

Qui siamo arrivati. Io, insieme a qualcos’altro.

 

 

Il senso della vita

 

E non ti sembra più di sopportare

questa scomparsa

quando la terra s’apre

e cade tutto quel che può cadere

mentre ricerco e stringo

la nostra disperata identità.

 

 

La sosta

 

Non so spiegarti meglio e tuttavia

mi piacerebbe farlo

ma

una specie d’inedia

mi trasforma in un essere svogliato

una censura inflitta da me stesso

senza aver nulla da disinnescare

un proprio nulla, un nulla disinvolto

che non soggiace ad altro e a nulla tende

un tardo pomeriggio, potrei dire,

come una sonnolenza

dove non c’è neppure un sovvenire

né peso sulle ciglia

ma non potrei parlare di pigrizia

come l’estate calda quando il tempo

ti consiglia un’assenza

e ti sorprendi giallo come un campo

e fermo come l’aria su un covone

né tempo

e sosta il mio rumore.

 

 

Ciambelle con il buco

L’ultima volta che ci siamo scritti
pensando alle ciambelle con il buco
che mangiavamo ad Anzio
ogni mattina al porto
e i pescherecci
il lieve dondolio
le cassette di pesce sotto il sole
reti a bordo
di quelle che facevano pensare
lontanissimi intrichi
d’onde e d’amori
scene sovrapposte
come gli anni che stanno in mare aperto
l’ultima volta che ci siamo scritti
tu mi chiedevi dove
siamo finiti
ed io ti rispondevo guarda dove
non hai guardato mai
e dopo averlo fatto chiudi gli occhi
e trattieni l’immagine e il respiro
fallo un’ultima volta, ti dicevo,
e lasceremo andare i soprassalti
i buchi dei lombrichi
le formiche
le margherite a capo reclinato
quando la sera induce
quella vaghezza che chiamiamo stelle
e se ritorni scrivimi
che ruberemo un alito di dio.

 

Note personali

Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, traduttore di testi psicoanalitici per le case editrici Astrolabio e Liguori; è autore di alcuni articoli e saggi pubblicati su Rivista di Psicologia Analitica e Rivista Fermenti; ha pubblicato per la Fermenti Editrice la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, il romanzo L’osservatore e la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Luciana Riommi e Antòn Pasterius. Alcune sue poesie sono pubblicate su Antologia Nuovi Fermenti n. 9 e sono presenti in rete su “Il giardino dei poeti”, “La Recherche”, L’EstroVerso e Limina Mundi.