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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: poesia contemporanea

Riflessioni sulla poesia di Alfredo Panetta – Una vita in scrittura

21 mercoledì Dic 2022

Posted by Antonella Pizzo in Una vita in scrittura

≈ 1 Commento

Tag

Alfredo Panetta, poesia, poesia contemporanea, Poesia dialettale, Una vita in scrittura

panetta

per “una vita in scrittura” ho rivolto l’invito ad  Alfredo Panetta che lo ha interpretato come segue e che ringraziamo per il suo interessante  contributo. Antonella Pizzo

 Una vita in scrittura 

Riflessioni sulla poesia di Alfredo Panetta

Cosa non è poesia? E quanto contano i luoghi per diventare poeti? Parto da questi due cippi per raccontarmi. La seconda domanda è più facile, la prima è a forte rischio retorico. Proverò ad evitare la trappola dell’elenco. Mi sento fortunato, ho vissuto due vite diametralmente opposte. La prima in un paese sperduto delle colline joniche calabresi, la seconda nell’unica metropoli italiana. Dall’innesto tra questi due luoghi si è concretizzata la mia poesia. Oggi non saprei immaginarmi privo di versi. Almeno uno al giorno, un piccolo mattoncino. Ma torniamo ai luoghi, ai contrasti. Per scrivere ho bisogno di concretezza, di materia che scintilli. Mi serve la terra per immaginare il volo. Mi serve l’odore del cemento per innescare la potenza della memoria. Mi servono i tondini arrugginiti, le crepe sui muri, il profumo di elicriso per raccontare la tragedia del ponte Morandi. È come se, per scrivere, abbia bisogno dei miei strumenti acquisiti nei primi anni di vita. Mi sento un artigiano (lo sono per guadagnarmi da vivere) delle parole, le mie parole. E in questo bagaglio ben fornito è necessaria la parlata dialettale. Il dialetto mi fa stare a casa, ovunque sia. È il mio amico intimo, l’energia che mi sostiene, l’amante che non pretende nulla. Dialetto e italiano lavorano a braccetto, nessuna antipatia. Le mie non sono versioni ma riscritture. I testi devono funzionare in entrambe le lingue. Il dialetto mi permette di mantenere uno sguardo vergine sulla realtà, mi costringe a guardare da vicino le cose, a chiamarle col loro nome. La parola e la cosa coincidono. Continua a leggere →

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Versi trasversali: Antonio Sambiase

09 venerdì Dic 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Tag

Antonio Sambiase, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

 

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

ANTONIO SAMBIASE

 

Non arrenderti (p. 11-12)

 

Andare avanti per inerzia,

sentire il calore del sole

che brucia la pelle

ma non provare dolore.

 

Mi sento un pesco,

bloccato sotto il sole d’estate,

inerme, illeso.

 

Ma sento che devo andare:

camminare, correre, arrancare

per cercare il lume nel fondo,

per dar luce a questa misera vita

di bianco e nero vestita.

 

Non vedo sfumature,

ho un arcobaleno dentro

che non riesce ad uscire.

Mi sento freddo,

mi sento morto.

 

Sono un salice piangente,

ho i nervi a pezzi,

si contraggono, fanno male,

trattengo il mio dolore.

 

Sono un fiore di una landa desolata,

appassito, dal colore spento.

 

Steso me ne sto

su un misero letto d’ospedale.

 

Ritrovo me stesso (p.21)

 

In questa notte

tra musiche e parole

rivedo quel piccolo fanciullo.

 

Mi saluta, mi parla

non lo ricordo.

 

Una faccia così familiare.

 

Sospensione (p. 25)

 

Sono sospeso,

abito il mare,

abito la terra,

uccello marino e terrestre.

 

Vivo di ricordi,

vissuti o immaginati?

 

Altro non sono

se non un essere privo di forma.

Inconsistente nell’animo

e nella carne.

 

Fui forma o fumo?

Evaporo, prendo forma,

ho un corpo

tangibile ma inafferrabile.

 

Percorro rotte,

con mete note,

da una bussola guidato.

 

Oh, potessi non averti!

sarei senza meta,

senza strada,

sarei essere libero,

sarei aria, acqua e terra!

 

Di notte (p.45)

 

Di notte me ne stavo

ad osservar il duro incavo

tra il soffitto e la parete,

che mi proteggono,

i pensieri velocemente intenti a scorrere

come un burrascoso torrente,

distogliendo dalla mente

il tempo presente.

 

Un soffio (p.46)

 

La vita, un attimo, un secondo

d’un tratto mi ricordo di quel brio

che provai nel vederti giocondo.

 

Un soffio.

La vita, un testo, una storia

l’hai scritta su quel foglio

che in un attimo prese fuoco sulla via.

 

Un soffio.

La vita, la mia, la tua

è finita nel grande oblio

in alto al ciel mira la tua prua.

 

Navigando nell’ora (p.48-49)

 

Sono perso,

navigo in mare aperto.

 

Ho un corpo,

un peso costante,

un compagno nemico.

 

Ho una mente,

un peso costante,

una guida invisa.

 

Mi trascino

nel faticoso vivere.

Un’onda colpisce

la prua, oscillo

ma mi sorreggo.

 

Non la paura mi assale,

ma un’ansia del dopo.

Un’ansia dell’ora.

 

L’affronto,

non vinco,

ma scansata la ho.

 

Scelta errata o giusta?

Non so.

Ma respiro sereno.

 

Ora convive con me.

 

 

 

Donna guerriera

                                        ad Anna

 

Per la via, si ode un brusio

le campane suonano a lutto

è scomparsa la mamma di tutti.

 

Il suo nome rimbomba per le vie

“Anna, Anna è scomparsa”.

La piccola donna è venuta a mancare.

 

Giorni sinistri per lei sono stati,

lottava: era una donna guerriera.

Vinta sull’ultimo ring.

 

Ora è felice al di là della terra

per poter rincontrare

il suo uomo di vita.

 

Marito e moglie,

anni difficili, passarono insieme.

Una prole da sfamare.

 

Di nuovo insieme son ora,

si abbracciano felici.

Si sono ritrovati per una vita infinita.

 

Viaggio (p. 34)

 

Nell’illuso star bene,

l’animo è perso

e viaggia il pensier.

 

Altro non sono,

che una vela al vento

in questo invernale mare.

 

Testi tratti da Antonio Sambiase, “Momenti”, Controluna, 2022.

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Versi trasversali: Nicola Barbato

28 lunedì Nov 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Nicola Barbato, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

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Versi trasversali: Alessandro Monticelli

17 giovedì Nov 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Alessandro Monticelli, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

ALESSANDRO MONTICELLI

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Versi trasversali: Paolo Pera

28 venerdì Ott 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Paolo Pera, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

PAOLO PERA

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“Assolo per mia madre” di Maria Pina Ciancio

27 giovedì Ott 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Poesie

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Maria Pina Ciancio, poesia contemporanea

Una testimonianza di Mario Fresa

La poesia di Maria Pina Ciancio è un assolo paradossale, che si trasforma in un dialogo forte, silenzioso e quieto: un dialogo che sempre cerca, e sempre chiede, un amoroso contatto con l’assenza, con l’eco del passato (e col riemergere dunque, magico e incomprensibile, di tutto ciò che è stato). Forse è questo, chissà, l’autentico sapere della poesia: riconoscere nella potenza della parola la capacità di dialogare con chi manca, riformulando i principi della vita e della morte, e condensandoli, infine, con l’aiuto di una grazia misteriosa.

La sua è una poesia disperatamente transitiva e desiderosa di ascolto: e in essa non vive, in fondo, un assolo, ma un movimento corale: e vi è uno spirito archetipale che conosce una lingua antichissima e viva, che tutti riunisce e fa parlare: i presenti e i dimenticati, i vivi e i morti.

Qui la parola poetica è tutta dedicata a una madre (e a tutte le madri): ma è una parola che essa stessa si fa madre, cioè matrice di ogni pensiero, di ogni azione, di ogni desiderio.

(Mario Fresa)

Tutto si riduce e si fa immobile

nel perimetro circoscritto di una stanza

D’improvviso

la terra dei sogni e del ricordo

cede e trema sotto i passi

e ci prende tutto

gli occhi, il cuore

i sogni e la bellezza.

*

(del tempo temuto)

E’ arrivata la condanna e la paura

in cui finisco di esserti figlia

e tu di essermi madre

…

In questa latitudine di dolore

non c’è fuga, né abbraccio

per il mio pianto disperato

solamente urgenza di imparare

la grammatica dolorosa

di un nuovo accoglimento

(dicembre 2011)

*

Si fanno interminabili le ore

…

io respiro il tuo respiro

(a tratti non respiro)

e prego per te una manciata

d’ a r i a

come si fa col pane per chi ha fame

(notte)

*

Ti accarezzo le mani

e il corpo fatto tronco

che più non ti appartiene

Solo la tua voce a ricordarmelo

(ancora notte)

*

Rimango dentro questa tua assenza

a frugare nei sogni

nelle pieghe dei pensieri

negli oggetti rimasti tutti qui

e ti parlo a volte

come i matti giù in paese

per sorridere ancora

al mattino o al rientro dalla scuola


per scordarmi i referti, le flebo, le corsie d’ospedale

e tutto ciò che segue

(2012)

(testi tratti da Assolo per mia madre, grafiche di Giuseppe Pedota prefazione di Lucio Zinna con una testimonianza di Mario Fresa, Edizioni l’Arca Felice 2014)

*

Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965 e dopo aver vissuto in Basilicata, si è trasferita da circa tre anni nella zona dei Castelli Romani. Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il gatto e la falena (premio Parola di Donna, 2007), La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008), Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Fara Editore 2009), Assolo per mia madre (Edizioni L’Arca Felice, 2014), Tre fili d’attesa (LucaniArt 2022). Ha ricevuto numerosi premi ed è inserita in antologie e riviste di settore. Dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniaArt.

https://cianciomariapina.wordpress.com/

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Versi trasversali: Doris Bellomusto

17 lunedì Ott 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Doris Bellomusto, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

DORIS BELLOMUSTO

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Canto presente 59: Francesca Tuscano

13 giovedì Ott 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

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Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Francesca Tuscano

Poesie per Agostino

Anche l’amore ha un peso, il
Giusto peso che diventa ombra
Opposta all’assenza di luce. E
Se guardi tra il ramo,
Tutto si fa frammento,
Indispensabile al tutto.
Non si dice la bellezza,
O non è più. Così è per l’amore.

§§§

Ballata della luna nuova

Lei non ricordava più le attese,
il respiro immobile di chi attende la pioggia.

Lui aveva occhi dolci come lo stagno,
le aiuole dei tulipani e la panchina degli errori.

Lei aveva perso lo scialle nero,
e i fiori che nessuno le aveva colto.

Lui fumava per dimenticare
l’ultima sigaretta di una memoria non sua.

Lei guardava il muro rosso
e il soldato con il falcone al braccio.

Lui si innamorava, e ascoltava
musica che nessuno aveva scritto.

La luna li accompagnava
dal lato sbagliato, e il destino ne rideva.

(Sempre ne ride il destino
dei calcoli dell’ombra che si pretende luce)

Ma lei lo vide, quando il tempo
la obbligò a seguire la strada che lui aveva fatto

anche per lei, quando lei non era
che una distrazione legata a un filo di nulla.

La luna li accompagnò dal lato giusto,
e nello stagno il frammento di luce sorrise –

questo è un fatto, e niente è più tenace di un fatto.
Amarsi fu, poi, come sorridere all’ombra che precede la vita.

§§§

Ballatina dell’ombra e del piombo

L’ombra che ci precede è il primo segno,
perché è l’ultimo – gli disse, e gli toccò il volto.

Essere della felicità del piombo,
che non può che cadere diritto

perché attratto dalla perfezione
che costringe a terra, nella forma della radice.

Ti amo – le disse – e la guardò
come chi ha l’ombra in sé e ne sorride.

Lei si piegò, consentì all’ombra
di entrare in lei prima di esprimerla,

e ricordò la forma del piombo
nel bicchiere del tempo.

L’innocenza mi ha portata a te – gli disse
– la tua innocenza, e la tua bocca.

Lui le sorrise come chi non ha mai saputo
e dunque sa. E lei seppe – che non avrebbe mai più

avuto un dio che non avesse le mani di lui.

§§§

La tua bocca sul mio seno tagliato.

(Niente come la luna divisa
sa dei nostri respiri.)

La tua bocca, e la mia,
e i sessi, le mani,
gli occhi. E la grazia
del dolore confuso alla parola
non detta dello stupore
chiamato piacere.

Molte cose hanno un inizio
che ne garantisce l’esistere.

Ma le tue mani tra le mie gambe ruvide
disconoscono il tempo,
che ha in odio
il mio sonno tra le tue braccia.

Il disegno blu del sogno
vive nell’acqua che mi offri.

Nel tuo sesso che è mio
è la ragione della sua esistenza.

(Niente come una stella
conosce il peso della morte,
e di questo vive)

Amore, finalmente sono cosa
senza essere nome.

E le tue mani
mi custodiscono,
come la parola necessaria
e perciò taciuta.

§§§

Ballata a forma di tango, al contrario

La tua mano che mi stringe il polso, senza farmi male,
e io che ti guardo, ancora pezzo di luna mancante,
mentre il mio corpo aspetta il tuo giudizio.

Le mani misurano l’attesa, sui fianchi;
la pelle giustifica il sorriso del ritorno,
e le bocche si attendono al limite, succhiandolo.

Il mio doppio ti offre la schiena come un respiro,
e tu lo prendi piano, per non svegliarmi,
per non dirmi della solitudine dell’ultimo passo
tra le gambe che s’intrecciano nelle pause mute.

Ti avessi amato al tempo del sorriso,
ancora nuova per un corpo non mio,
ancora certa della grazia della mano sul seno.

Mi avessi amata al tempo del ritmo che ora so
e non sapevo, prima di essere uno sguardo
chiuso contro la tua pelle e la mia tristezza.

Ma ora so, e la parola si chiude sul ventre non più sterile,
che attende la tua mano che mi stringe il polso,
mentre io ti guardo nella luna della fuga
per tornare, sempre, e ancora, in una libertà priva di scelta.

§§§

Non c’è altro
che questo sole indecente
su una piana di pale senza mulini
e fili elettrici coperti di storni.

Il giudizio preme sulla storia.
Ne fa cumulo di segni senza codice.

E io penso al tuo sesso
e alla mia bocca.

E il resto, tutto il resto,
è bestemmia.

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Versi trasversali: Gianni Marcantoni

23 venerdì Set 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Gianni Marcantoni, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

GIANNI MARCANTONI

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Canto presente 58: Cristina Simoncini

20 martedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

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Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Cristina Simoncini

quando mi osservo da lontano
cercando tracce di un piano nel mio tempo
non vedo un essere compiuto
gli incastri assennati di una vita
piuttosto i pezzi sparsi, il corso sordo delle cose
non una trama ma un vasto repertorio
di me mai state fino in fondo, una babele
di disperse – ognuna intenta a far mondo,
a recitare da sola la sua parte

*
mia madre non è morta in una volta sola
non l’ha spenta un ultimo fatidico respiro
come succede al resto della gente
se n’è andata con calma cominciando dai piedi
che si son fatti duri e gelidi come nelle statue
interrompendo il transito dei passi
poi è toccato al marmo delle braccia
arreso in una croce sul torace
che a fatica sotto quel peso si sollevava
gli occhi impauriti sono rientrati
nell’abisso insondabile dell’interiore
l'ultimo è stato il naso scolorito
che sventolava a mezz’asta in segno di commiato
quel poco di lei che rimaneva
stava intanato nel muscolo cardiaco
diffondeva nell’aria piccole pulsazioni
un alfabeto Morse con cui esortava
le persone amate, Su, fate presto, salutate!

*
giorni severi, eravamo assediati
da sconfitte, eppure proiettavi un sorriso
che avremmo cercato invano sulla bocca:
si riversava da uno scatto – una frattura,
lasciando una coda di luce nella stanza

*
negli occhi di mia madre a giorni
brillava una luce inviolabile
c’è sempre un segreto negli altri
una maniera di mancare
la vedevo affacciarsi a una finestra
e con un tintinnio innocente di parole
scivolare fuori dal suo vero
allontanare il grido dalla bocca

*

lo spazio intorno a te un colmo
ogni punto pervaso di prodigio
e piedi in fila, uno dopo l’altro
un’invasione – l’attrazione esercitata
dal mutare di colpo degli sguardi
quotidiano animato qui e ora

spiava taciturna in controluce
gli occhi puntati sulla filigrana
soffriva del filamento lucente
latenza del vero che in te affiorava
saldatura dietro la trasparenza
sapeva bene che non era sua

*
se non abitavate nella casa
accadeva qualcosa – ogni stanza
restava solidale col suo volto
in quel vuoto la vitalità si attardava
risaliva piano le pareti
piccoli angeli ammassati sulle
mensole cadendo nella memoria
seminavano colori, il tempo stava
nascosto negli armadi, nell’ottusa
misericordia dei vestiti

non è vero che una vita
è una volta sola, una volta
è l’avvertimento del destino

*
adesso prova a immaginare
la bambina che vola
sulla discesa scardinata
niente appigli
la bici senza freni
apre i piedini come ali
su un turbine di sassi
è leggera dentro la paura,
veloce – non ha tenuta
non c’è memoria di vita
che si oppone, il sole
la segue da dietro
prima di sparire

non saprei come chiamare
l’istante in cui la testa
si rapprende in un’ipotesi
di morte – la periferia
inclina verso il niente
fa buio tra gli alberi
educati nei giardini –
se avrai fortuna
dal muro sbucheranno
braccia rampicanti
sarà uno sconosciuto
a rinnovarti il giorno.

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Canto presente 57: Isacco Turina

12 lunedì Set 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Canto presente 57: Isacco Turina

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Canto presente, Isacco Turina, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

ISACCO TURINA

Tre d’amore

Dimmi il fiore che porti nello stomaco

che porti nella mente.

Fiore scuro di paura

fiore giallo dello sforzo

fiore bianco dell’attesa.

Dimmi l’insetto che ti ronza intorno

la cicala che stride nell’orecchio

la sapienza del ragno che ti abita.

La forma che tu vedi è una follia:

sotto la giusta ombra intimamente

si muovono i giardini inconsapevoli.

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Canto presente 56: Giorgia Deidda

06 martedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Canto presente 56: Giorgia Deidda

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Canto presente, Giorgia Deidda, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Giorgia Deidda

Ti sogno con le labbra rosso sangue,
ti sogno assorto nella pioggia.
Il volto livido, benefattore del cielo;
piango carnalmente il figlio perduto,
mi lascia spazio la voracità della luce;
sembra inghiottirmi in una cernita di gole.
Hai le mani bianco latte, screziate dalle gocce di sale.
Verrei a rompere la stasi che ti socchiude
ma non mi è concesso entrare nel mondo dei morti.
Abbiamo bocche terribili e un fagocito di cellule che respirano;
siamo vita mangiata dai cani e siamo affamati.
Deglutisco un cucchiaio di dolore –
lo combino con dell’acqua per mandarlo giù.
È la medicina, presa puntualmente, che regola i ritmi del cuore.
L’aculeo velenoso si conficca tra la mano e la piaga;
non sento niente.
E rimango sola dietro la finestra,
a guardare il tempo soccombere sulla lettiga di velluto,
lo guardo perire e cementare.
I cuscini si sono strappati,
non c’è più posto per riposare –
mi socchiudo il corpo in un ecometro compatto.
E non c’è ginocchio che tenga;
l’osso si distanzia e si deforma, crepa di venature violacee.
Come puntine nella notte accendo il lumicino
che rischiara la stanza;
è l’ombra che mi fa paura, mi terrorizza a tal punto
da farmi smettere di mordicchiare.
La testa del morto è grigia;
si muove a ritmi lenti e mi guarda dormire.
L’entrata della grotta è cavernosa –
tu mi dicesti: “guarda, sembra che il soffitto venga giù”.
Si squarciava il lembo per soverchiare il mare;
una traccia d’azzurro che pareva dire:
“io esisto”.

L’assenza si fa preghiera lontana.
Rannicchiata nel letto, a guardare le incrostazioni del soffitto,
io rivolgo gli occhi lontano,
li rivolgo alla tua mano,
caduca speranza che si fa rantolo di neonato.
Se per esempio tu dovessi esistere,
io annullerei la mia presenza in un turbinìo di vento,
ché non sarei più una cosa compatta,
ma un animale dilaniato dalle carni, senza occhi.
Le ossa bruciano e si spezzano,
ma le mani congiunte deviano la lontananza
in uno spergiuro di colpa.
Quando la notte dormo,
sento il tuo fiato sul collo, il caldo che mi alita vita,
e non sono più un essere dimenticato.
A volte si fa sangue il ricordo,
cola sui cuscini biancastri,
cola dal comodino dove posano gli orecchini.
E il rossetto copre il balbettìo stentato,
la smorfia che fa la mia bocca quando sorrido.
Non dimentico la tua voce;
una raucedine che si faceva poesia,
la mano attenta a sfogliare i libri danneggiati.
E crollo sotto terra,
dentro i vini dolciastri,
tremo il mio ventre in uno spasmo
che si fa colla
un’attaccatura per le cose che penzolano,
per l’afflitto e il ferito,
per il solo e la solitudine.
E urlo in un grido che il mare
Tossisce e trema.

Cammino con i sassi nella pancia;
l’osso sbuca dalle costole,
il cibo che non ho ingurgitato.
Si frappone la pioggia caduca tra la mia mano
E quella dell’altro –
È il verde rigolo che scende nei tombini fognari.
Si chiede qualche minuto in più per parlare,
ma la giornata è occupata come uno stendardo militare.
Le luminose fisse, dalla mia camera sono tutte cascate a terra –
È il segno che l’infanzia è stata recisa,
come coi tronchi degli alberi verdi.
Casa mia è lontana, si è fatta
Puntino di luce bucherellato da cui si intravede,
fioca, la luce delle candele.
Il cielo del terrazzo è diventato un piombo allargato,
pesante e plumbeo.
I tricicli arrugginiti sono sempre rimasti lì.
Ma casa mia non è più casa,
è un luogo sottile di morte,
di cavilli senza senso appiccicati con la ceralacca al frigorifero;
è l’ingordigia che viene bloccata
e al suo posto un passato di verdure,
per entrare nel vestito rosso.
È l’ansia che mozza il respiro,
il litigio nascosto tra le ragnatele ed i cunicoli,
è il cuscino che cola sulle notti d’ipersonnia,
è l’oggetto lanciato sulla fronte,
è ciò che si può dire male in tutte le sue forme.

Scavare l’osso per distogliere la carne;
lo scheletro muto regge il peso della gravità.
Si ascolta fuori come un fruscìo;
sono i monaci che stridono il campanello.
È notte –
Si condensa l’aria in un tono elegiaco,
fanno da coro gli uccelli notturni;
si intravedono solo occhi gialli.
E tira il vento, stira le foglie,
smuove i rami spezzati,
ulula alla luna bulbosa il suo tormento.
Il letto è nido d’api;
ogni notte mi vengono a pungere il cuore
per stillarne miele.
Le lenzuola non sono bianche,
ma di un leggero colore cremisi;
non le cambio da quando sei andato.
La bottiglia di vetro è sul tavolo;
dentro il liquido rosso sangue che cola
dalla saliva fino alla gola,
irretendo i sensi.
Il giorno mi ha sempre disgustata;
un pullulare a frotte di gente dai visi di sifilide,
stanchi e arrabbiati.
I fiori di campo crescono rigogliosi –
Una volta li strappai tutti e li feci cadere sulla tua tomba.
Miagola il gatto in cerca di cibo;
si acciambella sulle caviglie e guarda dicendo:
“sono qui”.

Aspro è il giorno per chi non ha dormito;
si contano le ore lentamente,
sgocciola il minuto sulla fronte,
una bomba ad orologeria –
un tessuto fine.
Si squarcia il cielo da cui sbucano i raggi timidi;
la morte è sorella e amante,
si fa astro nascente quando le cose smettono di respirare,
buca l’inchiostro la luce, i vescovadi cuciono e sfibrano le fila, si affannano i bambini verso il campo.
Nella luna io cerco la tua ombra;
mi è amaro il sapore che mi hai lasciato sulle labbra –
filano dritti i capelli come aghi d’ebano,
compatti.
La malattia sfebbra come neve al sole,
fioriscono i campi dimenticati,
si celebrano le feste pagane ballando
e bagnandosi la fronte benedetta.
L’amore è la culla dentro cui nasce la rosa,
la pietanza assaggiata con palato dolce,
il sorriso inasprito dai nervi contriti,
le mani che faticano il lavoro.
Coltivo piccole manie come neonati impudenti,
le vedo strillare e contorcersi come aborti,
una non essenza del tempo,
una noesi tra paradiso e inferno.
Fratello che non vedi,
ci sono albe misteriose dietro la tua tenda,
ci sono forbici tagliate sulla pelle,
ci sono occhi amari che contemplano l’assenza.
Sorella che piangi,
non vedi come le vesti silenziose ti calzano addosso,
non vedi come ti sei ridotta all’osso?
La tetra salma risponde dalla terra,
ci indica la via verso l’infinito.
E noi corriamo, ignari, sul prato ormeggiato,
calpestando le impronte di quelli che furono,
e che ci osservano dall’alto.
Mi senti forse? Sei sperduto nella notte,
ignaro del fantasma che regnava nella casa.
Io ti chiamo ogni giorno, sussurro il tuo nome al soffitto, in silenzio.
E giuro d’averti sentito in un sogno –
Parlavi al mio orecchio cose indicibili.
E mi sembra d’averti perso nuovamente,
nel grido onirico che resta muto.
Come curare i pensieri ossessivi

Sganciare ad una ad una
Le macchie di muschio
Abbarbicate sui fili nervosi.
Staccarli con cura come si fa con
Le pulci, un animale da compagnia.
Slegare la loro saliva smacchiata su tutti i cordoni e le cellule,
sventrare il nucleo che le tiene incollate
alla corteccia prefrontale.
Badate, non sarà semplice aprire un cranio;
le ossa si tritureranno e scalceranno come bambini capricciosi,
opponendo resistenza.
Ma voi bucherellate ciò che rimane e filtrate
Capienza e lama da taglio.
Tutte le macchie devono essere lavate via,
con un po’ di candeggina i tessuti non ne risentiranno.
L’importante è sgretolare le zampine che trasmettono le stesse immagini,
ore ed ore al giorno.
Disinnescare l’attimo in cui c’è pausa,
pinzare per bene il malfattore e tirare via.
Potrebbe essere necessario un batuffolo,
per tamponare lo zampillo.
Dopo aver rimosso tutte le macchie di muschio,
aver cura di accarezzare le parti lese
e chiedere scusa.
Dopodiché richiudere il cranio,
e godere di tutti i momenti,
la felicità.

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Rethorica novissima di Gualberto Alvino. Una lettura di Loredana Semantica

05 giovedì Mag 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ 5 commenti

Tag

Gualberto Alvino, Loredana Semantica, poesia contemporanea, recensione, Rethorica novissima

Rethorica_novissima_Gualberto_Alvino - Irelfe - cop.fronte

Ci sono letture più sfidanti di altre. Non solo da intendere come lettura del testo, riga dopo riga, fino alla sua fine, ma anche nel riferirne impressioni da lettore. L’opera Rethorica Novissima di Gualberto Alvino è tra queste. Si tratta di una raccolta di poesie, pubblicata nel 2021 dalla Casa editrice “Il ramo e la foglia”. Uno scritto che non lascia indifferenti. Impegnativo sarebbe aggettivo adatto, ma non sufficiente per chiarirne corpo e complessità. 
In premessa occorre dire che Gualberto Alvino è noto e stimato filologo e critico letterario. Già per solo questo fatto, è presuntuoso pensare di penetrare pienamente il senso poetico del suo degnissimo lavoro,  questo tuttavia sembrerebbe più un libro destinato agli “studiosi di poesia” che agli “amanti della poesia”. Non per niente in fine è riservata una pagina bianca per le note.
L’opera di Alvino già dal titolo presenta un’inclinazione decisamente colta. “Rethorica” con slittamento della muta nel cuore, piuttosto che con l’ortografia “Rhetorica”, è un chiamare in causa la retorica, cioè, insieme a grammatica e dialettica, una delle discipline d’insegnamento cardine delle scuole antiche medievali. Le origini di questa parola, già presente presso i latini, risale alla civiltà greca e alla sua ῥητορική, tecnica della parola, dalla radice del verbo εἴρω, eírō dico. L’aggettivo “novissima” superlativo dell’aggettivo latino novus declinato al femminile singolare concorda con la parola retorica e non può non riportare alla mente “i Novissimi”, Alfredo Giuliani, gli anni sessanta e lo sforzo delle neoavanguardie di rigenerazione del linguaggio poetico. L’opera s’intitola quindi Retorica nuovissima. Il titolo introduce al contenuto non meno della citazione di Proust posta al principio dell’opera riguardo alla necessità dello scrittore di farsi una propria lingua, similmente al violinista col suono.
“Rethorica novissima” è quadripartita ed ogni partizione raccoglie i testi secondo caratteristiche eminentemente formali espressive, raggruppate da un minimo di 4 componimenti – “Epigrammi” – ad un massimo di 12 componimenti  di “Salvo trasgredir norma”.
Quest’ultima, prima e più sostanziosa sezione, probabilmente è il canto a cui giunge il poeta seguendo il filo degli intenti dichiarati. Più oltre invece sembra che egli esponga il necessario attraversamento – deragliamento per giungere alla propria voce. Il titolo della prima sezione è, ritengo, la dichiarazione consapevole di contrapporsi al canone.
Aliena dal lirismo coltivato da secoli nella poesia, la poesia di Alvino si presenta in controtendenza rispetto al “poetichese” dominante, lo squalificato linguaggio poetico del nostro tempo intriso di sentimentalismi, farcito d’ego, con pretese di liricità, ma più spesso sconsolatamene privo di qualunque barlume di grazia poetica, ripetitivo, noioso, artefatto. L’autore nell’esacalogo per aspiranti poeti precisa “cos’è sbagliato in poesia”. Sono indicazioni che esprimono una critica al modo di far poesia oggi e che lette a contrariis verbis indicano gli elementi innovativi da introdurre nel linguaggio. Obiettivi:
• svincolarsi dalle connotazioni spirituali-auliche-vaticinanti
• sconfessare un ruolo sacro del testo
• eliminare parossismi e verticalizzazione del dettato, concedendo spazio ad asprezze sonore
• spogliarsi dall’enfasi autocelebrativa
• disporre accapo ad arte anche spiazzanti.
L’operazione di creare un proprio suono/lingua, può dirsi riuscita, ma non immediatamente percepibile. Le poesie infatti non poggiano volutamente il proprio dettato sull’”accattivante” del linguaggio: musicalità, nenia, refrain, paronomasia, assonanze ecc. e si delineano con le connotazioni dichiarate nei punti sopra riportati, per cui i tempi e suoni all’orecchio giungono asincroni e dissonanti. 
Riporto la seconda parte della poesia il cui titolo è lo stesso dell’intera raccolta.

“è indispensabile una conoscenza dell’evoluzione semantica
i vocaboli diventano specifici quando si applicano
termini generici a oggetti individuali resta il fatto
inoppugnabile che il significato di una parola
è indipendente dal suo etimo inutile dire
ci aiuta a conoscere la sapienza questo sì
e la poesia celata nelle radici nelle desinenze
a cercare nelle lingue i monumenti
degli abiti remoti e delle credenze
il criterio per distinguere i vocaboli affini
le variazioni di suono e senso
son cosa capitale a conoscere
oh se potessimo scordare le origini tutte”

Singolare leggere lo stesso passo disposto sul foglio come prosa. 

“è indispensabile una conoscenza dell’evoluzione semantica i vocaboli diventano specifici quando si applicano termini generici a oggetti individuali resta il fatto inoppugnabile che il significato di una parola è indipendente dal suo etimo inutile dire ci aiuta a conoscere la sapienza questo sì e la poesia celata nelle radici nelle desinenze a cercare nelle lingue i monumenti degli abiti remoti e delle credenze il criterio per distinguere i vocaboli affini le variazioni di suono e senso son cosa capitale a conoscere oh se potessimo scordare le origini tutte”

Si evidenzia maggiormente che gli accapo sono risultato di una scelta stilistica che mira a frangere il testo, costringendo il lettore a riprendere fiato in modo non consueto, non punteggiato, sfumano i disseminati enjambement spiazzanti. Mi tornano alla mente le esperienze di lettura passate dei testi di Eminia Passannanti e Marco Saya, animati da analoghi intendimenti antilirici, la prima per volere di contrasto alla “poesia dell’anima”. Il secondo per l’orecchio allenato alle sonorità del jazz.
La poesia della raccolta mantiene quanto promette: eminentemente antimelodica, non indulge in sentimentalismi, non conduce alcuna indagine psicologica, nessun scadimento confessionale o incursioni nell’intimismo, non è poesia emozionale come la s’intende spesso ed erroneamente da poeti giovani e meno giovani che animano l’attuale scena letteraria, non si specchia narcisisticamente, non si affligge, non si esalta, non piange, semmai osserva, ricorda, riporta, analizza, squarta. Sperimenta e scarta.
Proseguendo la lettura di “Rethorica novissima”, passando per “Epigrammi” – quattro distillati critico satirici – si giunge alla parte intitolata ”Humanitas”. Qui ci si rende conto che, senza un minimo di studi classici, la lettura si complica, la successione delle poesie, per quanto preminentemente descrittive e scientifiche, decisamente mitraglia la comprensione di chi non ha frequentato Catullo o Cicerone nella lingua originale. Il contenuto è talvolta scabroso, vestirlo di latino non maschera la minuzia dei vestiboli. Approfondisce il senso nella carne, non risparmiando genitali di entrambi i sessi. Sarebbe già sufficiente per qualunque stomaco poetico reggere tanta corporea ostentazione “fisica” e culturale, nel senso che qualunque lettore – o meglio il lettore qualunque – che non sia stato già scoraggiato in precedenza dalla scelta di preferire il latino lo sarebbe adesso per il vestito di perbenismo che molti indossano e del quale non riescono a spogliarsi, se non facendosi violenza. Questi testi raccontano gli organi, i corpi, le porzioni, i vasi, gli arti, essi vengono sezionati come avviene sul tavolo di un esaltato anatomopatologo, come fa Leonardo da Vinci per la conoscenza propria e altrui in preda alla furia di scienziato. Stare chini su ossa e legamenti, liquori e liquami e dire quello che avviene, taglio e ritrazione. Effetti dissoluzioni.
I più probabilmente preferiscono provare tali livelli di emozioni nel genere strappalacrime oppure applicati a youporn o ai film horror. E’ in una parola una lettura “sconvolgente”. C’è da ammettere che dalla poesia, ritenuta dai profani deputata a esprimere emozioni, da meno profani a provocare emozioni, dire (in) poesia qualcosa che riesce a provocare questa risposta ir-razionale è un risultato eccellente.
Metaforicamente, anzi per similitudine, “Humanitas” racconta ciò che avviene con i testi, quando si studiano approfonditamente, quando la filologia o la semantica si applicano a tutte le a, e, i, o, u delle parole. Scarnificandole fino al midollo, cercandone l’etimo e la radice, riconoscendone desinenza e origine. Senso, segno, significato, grafema. Misurando tutte le possibili “geografie” del suono. Affettando consonanti, lemmi, la loro polpa, il fegato, estraendo i loro denti.

“Autopsia”, Enrique Simonet, 1987, noto anche col titolo “Aveva un cuore!”

Infine c’è la quarta sezione “Varianti formali”. In questa parte della “Rethorica novissima” il linguaggio, come comunemente inteso, è stravolto. L’operazione di “interpretazione”, è messa continuamente in scacco, ancor più di quanto non avvenga in precedenza, e il lettore si arrende all’evidenza, che la parola espressa non può essere compresa come avviene solitamente nella comunicazione. Incomunicabilità e rescissione, dissoluzione e frammentazione sono coordinate del  “sorvegliatissimo” testo. La lettura deve avvenire accantonando i normali strumenti di decodificazione del linguaggio parlato e scritto. Gli occhi singhiozzano tra le sconnessioni sintattiche, i salti, le obliterazioni, il verso crolla alla sua fine, il senso affonda appresso, è un groviglio caotico. Al contempo questo magma verbale si intuisce essere come il brodo da cui, per sgrammaticature, segni grafici, numeri, caratteri corsivi, richiami tecnologici e rovi si perviene a estrarre il neonato, appena prima che venga gettato insieme all’acqua sporca, vestito d’amnio, quando non sguazzante nel meconio, senza nessuna camicia. Dentro la lingua, fino al suo cuore, come una dannazione pervicace e disperata insieme.

Perché se è vero che “la poesia può comunicare ancora prima di essere compresa” (Thomas Stearn Elliot), allora sembra di leggere qualcosa espressa dalla mente di qualcuno reso folle. Folle d’amore per la parola. 

“non saprei ma sia chiaro fin d’ora
che lo sconfinato amore per la lingua
rivendico il diritto d’affermare
in piena scienza e coscienza
è il primo movimento d’un percorso
florebat olim
a raggiera in mille direzioni
che ne sarà del ciliegio?”

da “Pepe” in “Varianti formali”

Eppure nell’atto dello scrivere – non meno del leggere –  non si può non riconoscere con Giorgio Caproni che” Nessuno è mai riuscito a dire/cos’è, nella sua essenza, una rosa” senza con ciò intendere che si debba desistere dal tentativo, anzi tutt’altro, e ciò finché permangono l’incanto, il bisogno, l’osservazione, le percezioni, lo  stupore, gli interrogativi. L’ esperienza individuale, il personale orizzonte esistenziale proiettano necessariamente nell’espressione poetica la propria “visione” della lingua (che dice) del mondo. “Io vedo il mondo come un caos e nel centro una rosa” (Julio Cortazar). Nonostante il lucido controllo del dettato, emerge dal conato del dire il parossismo che pervade, se non il singolo testo, comunque nell’insieme un’opera, che, in quanto autenticamente poetica, tenta con ogni mezzo verbale l’impossibile. D’altra parte come non pensare a quanto diceva di sé Pablo Picasso “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”.
Deliziosa la dedica iniziale. La piccola pasta di zucchero, con apposizione felice, ne sarà lieta. La benedizione degli affetti, uno spaccato di tenerezza.

 

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Versi trasversali: Nunzio Di Sarno

12 martedì Apr 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Nunzio Di Sarno, poesia contemporanea

 

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

NUNZIO DI SARNO

 

“All’inizio era il nulla, il nulla non aveva nome”

All’origine è la condizione di possibilità di ogni ente. Così in ogni processo c’è un vuoto determinato che accompagna sempre il pieno, definendone la funzione. Ecco che Lao Tzu ripete “trenta raggi convergono in un mozzo: grazie al suo vuoto abbiamo l’utilità del carro”. Come fuori così dentro, pieno e vuoto si dosano, accogliendo l’uomo in corpo parola e mente, che s’adatta alla legge pur senza comprendere. E quando comprenderà non sarà la voce il veicolo di realizzata trasmissione.

WU

La balla di fieno divampa al fuoco sottostante – dell’azione rimane… niente? Le poesie della raccolta si muovono tra questi due stati dell’essere. Le parole sembrano ossa disposte su uno scheletro che assume posizioni diverse, spinto dalle circostanze. Alle ossa-parole si attaccano i muscoli, la carne-connotante dall’interno e dall’esterno, che cambia e si muove a seconda del soffio. Sembrano date solo l’entrata e l’uscita, come quelle del corpo, per nutrirsi o liberarsi. Ognuno a seconda del tempo e dello spazio che si trova ad abitare, può scegliere il passo per inoltrarsi nel sentiero, le pause, la fine ed il ritorno. Il vortice delle immagini spiegate sugli arti disperde e ricompone il senso. Lo smarrimento che attraverso la misura porta al cambiamento. Pure i componimenti che s’ispirano all’haiku si piegano allo scheletro. Il poeta, liberandosi nella quasi totalità dei versi dai richiami all’io, cerca di ritrovarsi uomo tra le macerie della Macchina, della scienza, dell’economia e dell’arte. E scopre attraverso il sangue, le urla e i rantoli qual è il prezzo dell’avanzare. Che sia secondo legge di natura o legge di Stato. Ritornando a sé mondato dalle illusioni di comprensione e redenzione.

 

 

 

 

Testi tratti da “Wu” di Nunzio Di Sarno, Bertoni Editore, 2021.

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Versi trasversali: Alessandro Barbato

14 lunedì Mar 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

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Alessandro Barbato, poesia contemporanea

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

 

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

ALESSANDRO BARBATO

Senza dirlo è più difficile

convincerti che non finisce il vuoto

dove inizia l’orizzonte, non c’è

mica per davvero un altro

modo per colmare la lacuna,

i punti morti del pensiero,

se non darsi al tuo silenzio

e ai miei timori fino in fondo,

senza spingere sul freno

né cercare dilazioni.

Ché impreciso è il nostro viaggio

e siamo a corto anche di fiato,

ma non serve più contare quanti

passi ci rimangono a scaldarci

in ogni notte che divide i nostri

giorni. No, non serve ribellarsi,

scalpitare al vuoto o al pieno:

questo è il gioco a cui giochiamo

e non è colpa di nessuno.

 

Vuoti a rendere

 

2.

Siamo arrivati qui dove si perdono

le mani e il vento è un’ombra che accompagna

a casa sagome di noia.Vendi

o lascia quel che resta senza piangere

né sconti, troverai qualche amatore

disposto forse a ripianare il debito

di ossigeno che prende a certe quote

offrendo in cambio dei rimorsi un altro

errore da cullare. Sarà maggio

anche quest’anno e avremo ancora fiori

teneri nei vasi, e questo identico

presagio di qualcosa che non torna

dentro gli occhi, non resta nella rete,

se provi a tirar somme dalla sete.

 

Per sommi capi (siamo arrivati qui dove si perdono)

 

3.

Ho ancora il tuo orologio stretto al polso:

sussurra giorni duri di mattine

schiuse al vuoto. Se batte la lancetta

dei secondi sopra gli anni tuoi

lasciati come mancia per le estati

che saranno, mi sforzo di incontrare

il tuo passare tra i miraggi

di stagione e a dare un cenno

ai desideri presi a morsi

dai tuoi occhi che si chiudono.

E peso è questa voglia di sospendere

i minuti, di trovarti senza

tempo nei riflessi e nei gorgheggi

della Terra. Un peso che mi tiene

qui ancorato alle parole

della voce tua che tace

e mi sorride da lontano.

 

Sala pesi (Le estati che saranno)

 

4.

 

L’odore d’un camino all’alba spento

ricorda i fuochi fatui delle sere

cominciate tra i tuoi vicoli

di carta ad azzeccare d’ogni sogno

l’aritmetica e il profilo.

Si mischia al gelo lucido sui prati

preparati dall’inverno a scomparire

per rinascere tra nebbie

e canti languidi di nostalgie

insegnate dall’attesa.

E tu che cosa aspetti mentre scappi

coi tuoi occhi più lontano di ogni eco

verso aurore a me proibite?

La voce di quei fuochi ammutoliti,

forse un battito di ciglia.

 

Memorie di una sera, una mattina

 

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Canto presente 55: Francesco Palmieri

21 lunedì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Canto presente 55: Francesco Palmieri

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Canto presente, Francesco Palmieri, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Francesco Palmieri

 

Da “Studi lirici (solo parole d’amore)” edizioni La Vita Felice, ottobre 2012

 

QUANDO TI TROVERO’

 

quando ti troverò amore

tu non volterai lo sguardo

da un’altra parte

 

quando ti troverò

tu non mi lascerai solo

nella strada

né ti nasconderai più

perché io ti rincorra

con troppo fiato nella gola

 

quando ti troverò amore

tu non avrai un segreto

da nascondere,

tu non avrai segreti

 

quando ti troverò

tu non giocherai

al gatto e al topo

e non sarai tu il gatto

non sarò io il topo

 

quando ti troverò amore

sarà una giornata d’estate

e ci saranno i fiori nei giardini,

il vento profumerà di rose

e brillerà il sole

negli occhi tuoi d’estate

e di fiori

 

quando ti troverò amore

tu mi chiamerai per nome

ed io ti chiamerò per nome

 

e per tutto il giorno

noi non ci lasceremo mai

noi non ci lasceremo più.

 

 

[ED ORA]

 

ed ora

che mi hai dannato al gelo,

posso stare qui o altrove

sopra o sottoterra,

al centro della stanza

o lungo cento strade,

 

posso respirare

o tapparmi naso e bocca,

uscire se c’è il sole

o buttare via la chiave,

 

posso apparecchiare

o guardare com’è profondo un piatto,

posso sentirmi carne

o solo un po’ di fumo

 

posso coprirmi ancora

o strapparmi anche la pelle,

sentire tutto il tremito

lo scricchiolio del ghiaccio

 

ed ora

che mi hai dannato al gelo,

ho fatto dell’inverno la mia casa,

 

domani in un giardino

io sarò l’albero

e tu la neve.

 

 

Da “Fra improbabile cielo e terra certa” Edizioni Terra d’ulivi, gennaio 2015

 

PASSAGGIO DI CONSEGNE

 

conserva queste mie parole

per quando verrà il tuo inverno

(lo vedrai sui rami

di alberi a fine autunno,

su un’altalena ferma

nei parchi di novembre,

nel freddo sulle mani

e i passeri sul filo

a prendere la neve,

lo sentirai nel ghiaccio

che incrosta a fior di pelle

e non ci sarà più scialle

a trattenere stelle,

non ci sarà più tempo

per altro giro e danza,

e lo saprai per certo

che è solo andata il viaggio

e non c’è freno ai giorni,

non uno che ritorni,

che l’essere felici è stato breve

per noi che siamo ore

ma abbiamo sottopelle

l’impronta dell’eterno),

conserva queste mie parole

per quando verrà il tuo inverno

e un passo dietro l’altro

tu ti farai da parte

a chi chiederà la strada

per le sue gambe forti

per il vento sulle spalle

l’avanzo dei domani

la creta nelle mani

(e non avrà sospetto

che tu hai ancora fame

che spasimo è il suo seno

che aspetti un altro treno

ed è un obbligo di carne

il decreto che tradisce,

un computo di giorni

a fare il vuoto intorno),

non un respiro in più

da questo inverno mio

e neanche una parola

per la consolazione,

sarà solo sapere

che tutto quanto è stato,

 

che sono andato avanti

nel solco di discesa

che fa più estranei i vivi

e meno lontani i morti.

 

 

IL GIOCO DELLA VERITÀ

 

bruciare fino all’ultima scintilla,

questo tocca,

strappare con i denti dalla pelle

la residua piuma che ti resta

 

recidere lo spago ai palloni nella testa,

pungere le bolle per lo scoppio

e sia l’aria e il nulla

l’inconsistente che li tiene

 

domani

al cenno lieve della luce,

riporrò i vestiti sulla porta

e uscirò nudo

al ghiaccio che c’è fuori

 

in cielo

in terra

e dappertutto.

 

Da “Il male nascosto” Edizioni Terra d’ulivi, maggio 2016

 

LA QUINTA STAGIONE

 

ormai non ci credo più, io,

che camminavo con occhi spalancati e luci,

io, che ogni mattina correvo sul balcone

ad aspettare rondini d’aprile

e fiori freschi e nuovi esplosi dentro ai vasi,

 

che a novembre uscivo all’ora dei lampioni

(e piovesse, speravo, quell’acqua venuta da lontano)

e dalle case un chiudersi di porte

le voci dei bambini a chiedere la cena

 

non ci credo più, io,

che ho conosciuto campi a farsi grano

e le cicale pigre nei pomeriggi lunghi

papaveri, rosso e ulivi

e poi l’ottobre e l’uva,

le giacche più pesanti

riprese dagli armadi

 

erano gli anni del rosario a maggio,

del pane segnato dalla croce,

di Cristo che moriva verso sera

e alla domenica campane e voli a riportarlo in vita

(ed era festa nei vestiti nuovi,

nelle cucine accese di mattina presto)

 

era la primavera e poi l’estate,

era l’autunno e poi l’inverno,

era l’attesa certa di un ritorno

e tornavano a novembre anche i morti

quando s’accendevano lumini sotto ai quadri

e si cuoceva il pane con l’uva passa e il vino

 

ormai non ci credo più

e so per certo che nessuno torna

mai niente che ritorni.

 

 

IL MALE NASCOSTO

 

mai ti mostrerò le mie ferite

 

(e il piatto da lavare nel lavello

la polvere che cresce già nell’angolo

il libri aperti e chiusi ad uno ad uno

perché non c’è parola che mi salvi)

 

vedrai con i tuoi occhi il corpo intatto

il nodo fatto bene alla cravatta

il viso che sorride senza barba

ed io che dico in chiaro: tutto bene

 

(e no, tu non saprai

che sotto alla mia giacca

ho sempre una camicia

con uno squarcio netto in mezzo petto).

 

 

Da “Biografie” Edizioni Terra d’ulivi, maggio 2019

 

COME CI SI ACCORGE

 

come ci si accorge

quando l’anima è perduta

e non più ha scosse il sangue

 

e rimane il camminare

dare fuoco al gas

per qualcosa da mangiare

pulire vetri e panni

lavare il pavimento

 

credevi alla scommessa

che dio c’era anche nei sassi

e comunque e in ogni caso

noi si era un po’ speciali

 

(ma non bastò una candela

a fermare il temporale

-fu mia nonna che l’accese

e la posò sul davanzale,

chiamò angeli e beati

martiri e santi in paradiso-

ma venne grandine dal cielo

che spezzò tutte le spighe)

 

si diceva che c’è un fine

al passaggio di noi qui a terra,

che siamo tutti sottopelle

particelle d’universo,

che in fondo al ciclo naturale

cesserà ogni dolore

e senza carne e né più tempo

non avremo noi paura

 

forse l’anima era quella

pensare buone tutte le cose

avere in corpo mille vite

e tu per sempre bella

vaniglia fra i capelli

 

forse l’anima era quella,

quel guardare dietro ai vetri

come scendeva giù la neve

e sentir tremare dentro

quanto bianco, quanto silenzio,

e nessun freddo, neanche un brivido,

 

nemmeno quando senza guanti

prendemmo il ghiaccio fra le mani.

 

 

(A MIA FIGLIA)

 

ricordami come mano

un passo alle spalle

a guardarti il cammino

 

ricordami all’angolo

come una fotografia

tra la mensola e il muro,

come il gattino, l’orsetto,

ora in fondo alla cesta

 

e se ti verrò in mente

qualche giorno o per anni,

tu fammi leggero

scarta errori e dolori

sfoglia il velo di nero

delle colpe a mio nome

poi di quelle accadute

senza averle volute

 

guarda all’attimo puro

quando io padre e tu figlia

stavo avanti nel buio

per le ombre sui muri

l’improvvisa paura

 

e ricordami un breve

ricordami lieve

 

sarò morto due volte

se sarò sulle spalle

un altro peso di croce.

 

 

[IL PASSERO]

 

il passero

preso nella stretta

sembra più domestico

 

mangia

beve

quando è sera dorme

 

solo certe notti

sbatte un po’ le ali

cinguetta dentro al sonno

 

forse sogna.

 

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Canto presente 54: Adriana Gloria Marigo

11 venerdì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Adriana Gloria Marigo, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Adriana Gloria Marigo

Poesie scelte    

 

da   Un biancore lontano, LietoColle, 2009

 

*

Tu non hai memoria dell’infinito

al mio sorriderti nella sera d’aprile

alta su Treviso, dopo lo stupore del temporale

che sorprese lo sfarfallio del nostro pensiero.

 

Neppure ricordi la luce intrepida sull’erba

vibrante il fresco dell’acqua generosa,

i petali volati lontani dal fiore,

gli umidi balsami nell’aria, di nuovo azzurra.

 

 

*

Trascorsi stagioni in terra di nessuno –

landa vasta, senza orizzonte

al plausibile, al gioco ermeneutico

o al magico conto che serve

il viaggio fenicio.

 

Il tempo trascorse dalla terra

per verticale di linfe

e nel punto di fuga iniziò – alla prospettiva –

l’evento creatore.

 

 

da   L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice, 2012

 

*

Attesi l’estate per l’esultanza

della luce, la benedizione

dell’ombra, quando lo zenit

è acceso e tutta l’aria

è ambizione della sera

l’intesa di un intrico

verde pulsato di bianco.

 

Venne invece la distrazione

del prodigio, l’orbita rovesciata

nella gravità dei corpi, l’urto

scomposto alla letizia.

 

 

*

S’inclusero le tue parole

in una perla d’aria

– memoria tenue d’universi –

mentre io sgranavo giorni

nei miei occhi di ninfa

mi feci vertigine d’ala

intesi l’ammanco originale

la tua nascita sotto un graffio di vento.

 

 

da   Senza il mio nome, Campanotto Editore, 2015

 

Amor coeli

Sovrastati dal suono della luce

non ci trattengono basse correnti

dove motteggia sempre vero

il tonfo della specie

bassura transitiva di minimo

non accettabile all’inquieto

malleolo in danza.

 

E s’avvera l’azzurro teso

Stando in maestà la luna

di notte viene un vento raro

ad avvolgersi selvatico

sugli alberi spersi nella brughiera

a sconfinare stelle fino in terra.

 

E s’avvera l’azzurro teso,

la sua pagina infinita.

 

 

 

da   Astro immemore, Prometheus, 2020

 

*

Basterà l’aria levantina

selvatica e scarna di oggi

sull’iperbole stesa del prato

 

il cielo di nubi zoomorfo

a specchiare l’incerta

profusione vegetale

 

imprimere cesura al frusto

mentre ad agresti lunari

ascendono canti alati.

 

 

*

Obbediente alla congiura dei miti celesti

dalle geometrie sassose oltre il lago

irrompe con lama tagliente

il ventoso sterminatore di foglie

piegate alla confisca dei neutrini di luce,

impone tra la dura trama grigia

spore di cielo, notazioni somiglianti

a suoni su pentagramma.

 

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Canto presente 53: Silvana Pasanisi

09 mercoledì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Canto presente, poesia contemporanea, Silvana Pasanisi

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Silvana Pasanisi

LETTERE DEL DISTURBO

Carissimo amore
figlio di un cane
scendo ora da questo pandemonio
e pensavo di invitarti a leggere qualche rima
quelle storte che non mi mandi più.
Ne ho bisogno
piccolo disturbo solido,
invenzione delle quindici del pomeriggio,
avverto la tua mano esattamente nella sua posa.
Avevi un meccanismo perfetto
conservalo
ne rivedo il ritmo
il ticchettio dell’orologio.
Mio amore d’altre letture
sono la sposa di tutte le tue mani
io
dovresti saperlo,
non ho altro sangue a disposizione
ma qualche immagine si
se vuoi.
Ti ho scritto da dov’ero
ed è qui il punto.
Non c’era arrivo e nessuna partenza,
restavamo attaccati a piccoli fiori botanici
nello stesso posto
confuso
ingrigito da piccoli alveari.
Una lettera non può arrivare cosi.
Ora qui si tratta di partire
da movimento a movimento,
siamo intesi, ci manterremo in piedi con qualche utensile
l’uno con l’altro
un tandem da piccole manifestazioni eroiche.
Ho parlato con gli amici
mi portano alla rotonda
sono cosi perfettamente sincroni.
Tu non hai mai indovinato un accordo
dio quanto eri fuori tono.
La voce però
aveva un’ infinita anima baritonale
diffusa
da Creatore.
Questa è una lettera
si scrive per un motivo,
e io devo riavvolgere un’intera pellicola,
pensa quanto tempo starò muta a riguardare le scene.
Mandami un colore
uno che parta felicemente
senza croci
senza nemmeno la minima alleanza.
Vedrò di farne qualcosa
mi rinvigorisce il pensiero
dare utilità a qualcosa già perfetto
come la somma del viola e del giallo
o il perbene di certe donne
aggraziate
Mi disturba non sentire la tua voce
era nel basso
nella tastiera
nell’orlo del mio vestito
ora è nell’anticamera del mio gelso bianco.
Ora devo andare
scusa la stanchezza
ho usato vigore e pezzi interi di alchimie
devo conservarmi per tutti gli usi
come fai tu.
In calce al foglio trovi tutto
anima
esempio
storia
presupposti
angolazioni.
Ora anche le scarpe mi sembrano appaiate.

IL DISPETTO

Questa va a memoria
per fare dispetto ai morti
va tenuta a mente
va considerata senza discrezione
Se vi pare poi
dimenticatela
o aggiustatela
mentre siete col vostro cane
Vale per tutte quelle trame non scritte
Per tutte le volte che la realtà ha sopraffatto il mezzo
l’unico mezzo che abbiamo
pieno di parole
Per mancanza di inchiostro
Pure
Per arresto cardiaco
Pure
Che strano
Pensavo di poterne salvare almeno una
di donna come me
con gli stessi vermi
con lo stomaco pieno di capoversi
con l’utero assassino
Non è andata così
Con fare recitativo
impiegate tempo ad imparare i nomi
Ma sono morte
e sono insieme
Non chiedo più alle vive
Il mio appello è alle croci
sotto tutta la terra
Rassegnatevi
Li siamo salve
Intere
A memoria
Da tenere a memoria

PIETA’ DI ME

Scusate se insisto
se mi permetto
avreste per me un aspetto di ripiego?
Si
un paio di occhi scuri come la neve
un portamento antico
a spremere fierezza sui fianchi

Come un limone sul balcone di fronte
che non si inchina più alla sua pianta
Scusate
lo so
vi sembreranno richieste fuori luogo
voi siete una platea intera
e io una
ma per sbagliare bene
devo farvi inumidire gli occhi
e ho bisogno di una forma di sostegno
che non mi pianga addosso

Scusate se insisto
tutte le bambine che sono
non fanno una donna sana

Avreste per me
Qualcosa da dire al mio posto?

ELEGIA DEL CONTRARIO

Sei più bella cosi
morta
Appariscente ma giusta
esaltata dai buoni amici
e non da te

Qui c’era un si
deve essere scappato
sulle inconsistenti nebbie dell’accondiscendenza
Ne faremo buona cenere di legna1313
per il primo fuoco

Lo vedevo quel filo che ti legava alla vita
cosi volgare
Eretico

Lascia che arrivi il finale
A chiacchierare poco
A rendere grazia
A eliminare il sospetto
Stai meglio
morta
le mani giunte e il cappello spostato sugli occhi
le lacrime arrivate fino alle ossa
il libro
diviso in piccole parti

Fottili

arrenditi prima
falli pensare

La foto in cui somigli
a quello che vorrebbero dire di te
l’ho messa sulla lapide
ho scritto con la lingua bagnata
Qui non c’è nessuno
potete piangere
nessuno vi vede

APERTURE ORDINARIE

Si apra il ramo
spuntino a modo loro le sostanze impreviste
foglie
argomenti
clave usate sotto dettatura
amori da fame
quello che ancora non è stato detto
Si chiudano i varchi appassionati
non c’è tempo
Ora che ho la tua attenzione
affacciati e segna col dito i tratti
Può funzionare
se tutto è troppo per una valigia
Da qui
in solitaria
passano isole
qualcuna forse la riconosceresti
promontori lontanissimi
non so
mi dicono siano necessari al viaggio.
Che non si dica mai
mai
che lo sguardo non arrivi al pianeta seguente
che non pratichi l’ingordigia
Oseremo chiamare per nome
una ad una
le conchiglie che portano al mare
Gli arcipelaghi no
quelli faranno di noi
esattamente quello che vogliono

LE MIE SORELLE

Le mie sorelle
sono sottili
fogli di pergamena sottili
dalle gambe fragorose di tritolo
che camminano storte
e ti silenziano il sonno
ti operano lo sguardo

Hanno un rumore di fondo
senza ombra
la loro copertura
e’ da ambiente dell’altro mondo
povero poverissimo
come un santuario chiuso
srotolano i capelli
di lunghezza impercorribile
ma loro lo sanno che cadranno
tutti
e sulle loro teste si spaccherà la luce

Sulla copertina della rivista
sembrano spettatrici casuali
iridescenti
Non credere a niente di quello che vedi
hanno rami lunghissimi e contorti
intrecciati
all’interno del libro ispido
troverai cotone da cucire
tra le cosce e le pieghe
e si svuotano le mascelle
di saliva irata

Con un intero mare al tramonto

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Canto presente 52: Anna Maria Bonfiglio

03 giovedì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA E POESIA

≈ 1 Commento

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Anna Maria Bonfiglio

CANTO MINIMO

Ora che la vita stride nelle ossa
ammalorate
la viola incide l’arco minimale
del canto che vorrebbe lievitare.
E l’accompagna un suono
come d’incanto
un incendio che esplode e si fa verso.

Venne sull’ala ubriaca della notte
la voglia di cantare
e fu subito festa
distesa geometria di voli
impennati all’albero più alto
un gioco pazzo
di cui t’accorgi tardi e che tradisce
segreto che ti sguscia dalle mani
prima dell’allegria, prima del sogno.

Abiti la più nuda fra le case
vesti la più impossibile menzogna
e ti fai strada chiusa
anello inciso di desideri e date
età del disincanto
stella che irradia inutili bagliori
profeta di stagioni di declino.

ASSENZA

Forse è naturale consegna
quest’assenza che nessuno reclama
l’ombra solo a me visibile
negli occhi di chi mi parla.

L’azzurro è svolato
verso cieli che ignoro
la notte è segreto
che taglia il respiro.

Ovunque, la pena.

Attendere lune chiare
fra i rami secchi del platano
mentre tu navighi altre barche
e tendi a svalutare
l’oro del mio cuscino.

Svegliarsi e sentire
la vita che torna ―
un grembo profondo
per nascere ancora.

IL TEMPO BREVE
(a Carmelo Pirrera, in memoria)

Dicemmo ci sarebbe stato tempo.
Eppure sapevamo
che alle nostre spalle
tramavano i pirati
che i giardini sarebbero sfioriti
e i campi maturato altro grano.

“Che tempo è, signore?”
“Tempo di solitudine, amico”

La pioggia di febbraio
ha sciolto il miele del tuo canto
e maggio sarà un mese come un altro
solo più lungo forse
e un po’ più solitario
senza colombe e glicini sui muri.

“Che tempo ora sarà, signore?”
“Tempo che fa più breve il nostro, amico”.

GIORNO DEI MORTI

Al mattino era la cerca agli angoli
più oscuri delle stanze ―
forse i Morti ci avrebbero premiati
entrando nella notte a piedi scalzi
o tramutati in misteriosi insetti.
La mosca, per esempio, era zio Gino ―
dieci anni ed una polmonite.

La nonna raccontava della guerra
da cui zio Raffaele tornò dopo
tanti anni dentro una teca lignea

(ombre del nostro immaginario
custoditi dai Lari della casa)

Lo scotto era salire alla collina
e pregare in ginocchio ―
mestizia a sacrificio
e per ringraziamento

Ci accompagnano ora altre assenze
brandelli scomposti della nostra vita
che un giorno ― pare ―
saranno ricomposti

nessuno sa se è vero.

IN ALTRO LUOGO
(a mio padre)

Muti d’abbracci i nostri giorni
si persero nel tempo di un respiro.
Vicini nella resa
ci prendemmo le mani
-fievoli le tue, percorse
da ingrossati rivi pallidi,
le mie rapaci, ancora a reclamare
crediti legittimi e insoluti.

E’ un’altra volta autunno
e nell’umida luce
che taglia il silenzio della stanza
torni anche tu
nella quietezza antica che mi manca.
Potessi avere almeno la certezza
di ritrovarti ad aspettarmi
-quando chiuderò per sempre la mia casa-
e insieme finalmente camminare.

L’APPARENZA

Non guardare di me l’occhio che ride
la voce fresca
o l’ilare bocca che adesca.
Nell’atlante che sfiori con le dita
non cercare le alture ardimentose
o le pianure erbose.
Esplora invece i fiumi azzurri
sotterranei che adornano
le mani, le logorate valli
i merletti dei tarli.
Quello che non appare
è l’ago che segna la scissione
fra il viaggio dell’andata
e l’inversione.

MATTUTINO

Sei tornato nel sonno
dell’ora mattutina
-piccolo dono estorto a mani avare-
e avevi sulla bocca
l’oro del tuo silenzio risolino.
Ti frugavo nel cuore con le mani
per trovare di me qualche frammento
una scaglia rimasta conficcata
nella tua carne d’uomo.

Poi ti oscurò la luce
e fu di nuovo giorno.

 

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Versi trasversali: Andrea Terreni

24 lunedì Gen 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Versi trasversali

≈ Commenti disabilitati su Versi trasversali: Andrea Terreni

Tag

Andrea Terreni, poesia contemporanea

 

Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)

La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …

ANDREA TERRENI

 

L’ODIO

 

Odiare ti brucia da dentro.

 

Chi pensa di potersi salvare dai sensi di colpa, attraverso l’odio, si sbaglia. L’odio è un virus che entra nella pelle e s’irradia attraverso i capillari, le vene, le arterie. Contrae i muscoli e arriva agli organi. L’odio non è una condizione che si sceglie, è un divenire dopo non aver avuto scelta, è una malattia.

 

Odiare diventa una condizione non rinunciabile dell’esistenza, un bisogno fisico simile ad una convulsione; una pulsione irrefrenabile che gonfia lo stomaco e attraverso la gola si scioglie, dopo aver ruggito.

 

La rabbia provoca l’odio.

 

E non c’è cosa più ingiusta che comprendere tutto questo, sentirlo crescere e muoversi dentro al ventre, come un feto che muta. Puoi piangere, e lo fai. Cerchi il buio per nasconderti dagli occhi degli altri, sorridi e disegni per te stesso un vestito di festa e giovialità. Eppure culli quel mostro, portandolo ad osservare tutto quello che nel freddo della tua stanza, trasforma il tuo sorriso in una maschera smostrata.

 

Lo sai, quel brivido elettrico percorre le braccia, rimbalza nel vuoto e torna al cervello, mostrando soluzioni e sofferenza.

 

Ti alzi dal letto, e chiudi il varco all’oblio con la chiave: una pallina che sciogli nel labbro chiedendo dignità.

 

*

 

I bambini sorridono sempre

nel candore dei loro passi

si nutrono del calore spontaneo,

non gli si chiede ricompensa

che non sia sorridere o crescere.

 

I bambini vanno avanti liberi

non misurano falcate o pensieri,

imbrattano con ogni idea il cammino.

Ed ecco mani grandi a sorreggerli,

innaffiare sogni, pulire lacrime.

 

I bambini non ascoltano affranti,

non suppongono,

di altrui capricci sono innocenti,

d’ogni abuso nascosto nei sussurri.

I bambini prosperano,

io imparavo ad odiare.

 

*

 

Pensarmi diviso strappa

il petto,

a morsi feroci

e getta davanti ai miei piedi

forme senzienti invalicabili

 

e il respiro

appena

permette

di rimanere vivo

 

nonostante il sangue che cola

dall’anima aperta.

 

*

 

Maschere,

pigre, accartocciate sulle scale della vita,

 

rincorrere

sguardi e ombre nascoste, negli avamposti rimasti,

 

distruggono,

effimere il rimorso per esser sempre vivi,

 

rinnegano

il dolore, degli anni avviliti dal vento.

 

Esplosioni,

scintille lasciate deflagrare su abili costruzioni mentali

fermentate,

in arti di cenere abilmente sfumata nel fuoco a sparire,

 

piangono

immobili sorrisi, di sguardi fissi e petti di plastica

annegata

nei fiumi di lacrime dei bimbi che non matureranno.

 

*

 

PIANTO SECONDO

 

Pensai

il ritorno del silenzio.

Ammucchiata speme infausta

di risalir dal ventre

alla cavità del parlare.

 

Silenzio.

 

Occhiate tumefatte

di naturalezza orfane,

non danze o canti

ma vuota esposizione.

 

Sostituzione d’essenza

arricchimento dell’io,

ma cavo di polpa

soltanto

immagine esplosa.

 

Non ebbe a sperar d’aver torto

chi chiuse l’antica contesa

del giusto, trovare in altrui

adesso esaltato apparire.

 

*

 

Mai ebbi dubbi

eppure lei non seppe, sempre,

di cristallina immagine,

riconoscere nei miei specchi

una strada,

che potea condurla in salvo;

lungo fu quell’esimio cammino,

di giorni a mostrar passione e giubilo,

fermo, nell’assordante brusio del cuore

non nascosi, solo e sempre a lei,

il fervore del sentimento innocente.

E li dove appoggia i suoi sogni

ho nascosto al mondo i suoi doni.

 

*

 

Ho una carezza per la tua attesa,

non un sorriso

nè una parola

orme sbiadite.

 

Ho chiuso gli occhi mentre vivevo

non so dirti l’errore

se vuoi ho del dolore

se vuoi facciamo pace.

 

*

 

Eppure è di speranza che mi fregio,

non come saperla spendere,

ottenerne, mistificarla ad arte,

non credo si possa insegnare.

 

Ho lei che tengo in un palmo

e annuso a bisogno e sue parole,

non credo si possa insegnare,

ma un giglio che sboccia da niente

mi prende per mano se sdoppio

il mio essere improprio.

 

Non credo si possa insegnare,

ma un giorno ho lasciato un po’ aperto

riscontro mi ha preso alle spalle

e adesso non oso cadere,

c’è lei che dal suo comodino

estrae quella chiave segreta

che mi apre per togliere un poco

di male che porto dai tempi,

i tempi in cui ero bambino

e scelsi di crescere in tempo

per prender la strada del vento

 

 

Testi tratti da “Paroxetina”  di Andrea Terreni – NullaDie Editore, 2021.

 

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