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Il racconto è uno dei più belli e significativi di Calvino ed è tratto da “Ultimo viene il corvo”, raccolta del 1949. La prima edizione, pubblicata il 30 luglio 1949, comprende trenta racconti scritti tra l’estate del 1945 e la primavera del 1949, di cui ventitré pubblicati su riviste e sette inediti. Nel 1958, diciannove dei trenta racconti della prima edizione confluiscono nel volume I Racconti (Einaudi, collana Supercoralli).
“Il giardino incantato” è una narrazione ariosa, impreziosita da sottili trame psicologiche e da suggestive descrizioni paesaggistiche, avvolte quasi da un alone incantato. Giovannino e Serenella sono due bambini che trascorrono il tempo inventando giochi nuovi. Un giorno d’estate, dopo essere stati sulla spiaggia a caccia di granchi, decidono di esplorare la ferrovia fin dentro il tunnel, così percorrono i binari cercando di camminare in equilibrio. Ad un tratto il rumore metallico dello scambio li avvisa che sta arrivando un treno. Giovannino non si perde d’animo ed individua un’apertura ricoperta di piante rampicanti nella rete metallica che costeggia la ferrovia. Si ritrovano così in un parco che circonda una bella villa. La descrizione è fatta da un narratore interno il cui racconto permette al lettore di provare i sentimenti dei due protagonisti: l’ansia, la curiosità, il timore di essere scoperti. Nel giardino della villa ci sono alberi secolari, piante grasse, aiuole fiorite, una piscina ed uno spazio riservato ai giochi all’aria aperta, come il ping-pong. I bambini, per superare l’ansia, inventano un nuovo gioco: trovano una carriola, Serenella ci sale dentro e Giovannino la spinge, allo stesso tempo lei gli indica i fiori più belli affinché lui glieli colga, ne fa un mazzetto, pur con la consapevolezza che, per attraversare la siepe, dovrà liberarsene perchè di ostacolo alla fuga. I due arrivano ad un grande spiazzo con una piscina, ne approfittano per fare un bagno, facendo attenzione a non fare troppo rumore, temono infatti di essere cacciati da un momento all’altro. Dopo essere usciti dalla piscina, si avvicinano al tavolo da ping-pong e Giovannino non esita a dare un colpo di racchetta, ma la pallina va a finire contro un gong sospeso fra i rami di un albero, provocando una lunga vibrazione che aumenta il loro stato d’ansia. In quel momento arrivano due servitori con tutto il necessario per la prima colazione: latte, dolci, tè. I bambini si servono, ma sempre con lo stesso disagio che li accompagna da quando sono entrati nel giardino. I bambini si avvicinano alla villa e, attraverso le persiane socchiuse, sbirciano all’interno. In una grande stanza poco illuminata ma ben arredata, un ragazzo sta sfogliando un libro: sembra avere problemi di salute perché è pallido e porta un pigiama accollato, nonostante sia estate e faccia caldo. Pur essendo il proprietario, non si sente a suo agio in quel ricco ambiente, in cui sembra anche lui capitato per caso. Giovannino e Serenella escono dal giardino e ritornano alla spiaggia dove riprendono a giocare lanciandosi alghe marine: il timore ed il disagio sono scomparsi perché hanno ritrovato il loro ambiente consueto. L’esperienza del giardino incantato gli ha insegnato che la felicità non consiste nel possedere tante cose ma nell’avere un compagno di giochi e un ambiente familiare che consenta di essere liberi e creativi.
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Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c’era un mare tutto squame azzurro cupo azzurro chiaro; su, un cielo appena venato di nuvole bianche. I binari erano lucenti e caldi che scottavano. Sulla strada ferrata si camminava bene e si potevano fare tanti giochi: stare in equilibrio lui su un binario e lei sull’altro e andare avanti tenendosi per mano, oppure saltare da una traversina all’altra senza posare mai il piede sulle pietre. Giovannino e Serenella erano stati a caccia di granchi e adesso avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria. Giocare con Serenella era bello perché non faceva come tutte le altre bambine che hanno sempre paura e si mettono a piangere a ogni dispetto: quando Giovannino diceva: – Andiamo là, – Serenella lo seguiva sempre senza discutere. Deng! Sussultarono e guardarono in alto. Era il disco di uno scambio ch’era scattato in cima a un palo. Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt’a un tratto il becco. Rimasero un po’ a naso in su a guardare: che peccato non aver visto! Ormai non lo faceva più. – Sta per venire un treno, – disse Giovannino. Serenella non si mosse dal binario. – Da dove? – chiese. Giovannino si guardò intorno, con aria d’intendersene. Indicò il buco nero della galleria che appariva ora limpido ora sfocato, attraverso il tremito del vapore invisibile che si levava dalle pietre della strada. – Di lì, – disse. Sembrava già di sentirne lo sbuffo incupito dalla galleria e vederselo tutt’a un tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che mangiavano i binari senza pietà. – Dove andiamo, Giovannino? C’erano grandi agavi grige, verso mare, con raggere di aculei impenetrabili. Verso monte correva una siepe di ipomea, stracarica di foglie e senza fiori. Il treno non si sentiva ancora: forse correva a locomotiva spenta senza rumore e sarebbe balzato su di loro tutt’a un tratto. Ma già Giovannino aveva trovato un pertugio nella siepe. – Di là. La siepe sotto il rampicante era una vecchia rete metallica cadente. In un punto, s’accartocciava su da terra come un angolo di pagina. Giovannino era già sparito per metà e sgusciava dentro. – Dammi una mano, Giovannino! Si ritrovarono in un angolo di giardino, tutt’e due carponi in un’aiola, coi capelli pieni di foglie secche e di terriccio. Tutto era zitto intorno; non muoveva una foglia. – Andiamo, – disse Giovannino e Serenella disse: – Sì. C’erano grandi e antichi eucalipti color carne, e vialetti di ghiaia. Giovannino e Serenella camminavano in punta di piedi pei vialetti, attenti al fruscio della ghiaia sotto i passi. E se adesso arrivassero i padroni? Tutto era così bello: volte strette e altissime di foglie ricurve d’eucalipto e ritagli di cielo; restava solo quell’ansia dentro, del giardino che non era loro e da cui forse dovevano esser cacciati tra un momento. Ma nessun rumore si sentiva. Da un cespo di corbezzolo, a una svolta, s’alzò un volo di passeri, con gridi. Poi ritornò silenzio. Era forse un giardino abbandonato? Ma l’ombra dei grandi alberi a un certo punto finiva e si trovarono sotto il cielo aperto, di fronte ad aiole tutte ben ravviate di petunie e convolvoli, e viali e balaustrate e spalliere di bosso. E sull’alto del giardino, una grande villa coi vetri lampeggianti e tende gialle e arancio. E tutto era deserto. I due bambini venivano su guardinghi calpestando ghiaia: forse le vetrate stavano per spalancarsi tutt’a un tratto e signori e signore severissimi per apparire sui terrazzi e grossi cani per essere sguinzagliati per i viali. Trovarono vicino a una cunetta una carriola. Giovannino la prese per le staffe e la spinse innanzi: aveva un cigolo, a ogni giro di ruota, come un fischio. Serenella ci si sedette sopra e avanzavano zitti, Giovannino spingendo la carriola con lei sopra, fiancheggiando le aiole e i giochi d’acqua. – Quello, – diceva Serenella a bassa voce di tanto in tanto, indicando un fiore. Giovannino poggiava e andava a strapparlo e glielo dava. Ne aveva già dei belli in un mazzetto. Ma scavalcando le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via! Così arrivarono a uno spiazzo e finiva la ghiaia e c’era un fondo di cemento e mattonelle. E in mezzo a questo spiazzo s’apriva un grande rettangolo vuoto: una piscina. Ne raggiunsero i margini: era a piastrelle azzurre, ricolma d’acqua chiara fino all’orlo. – Ci tuffiamo? – chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai pericoloso se lui chiedeva a lei e non diceva soltanto: – Giù! – Ma l’acqua era cosi limpida e azzurra e Serenella non aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il mazzolino. Erano già in costume da bagno: erano stati a cacciar granchi fino allora. Giovannino si tuffò: non dal trampolino perché il tonfo avrebbe fatto troppo rumore, ma dall’orlo. Andò giù giù a occhi aperti e non vedeva che azzurro, e le mani come pesci rosa; non come sotto l’acqua del mare, piena d’ombre informi verdi-nere. Un’ombra rosa sopra di sé: Serenella! Si presero per mano e riaffiorarono all’altro capo, un po’ con apprensione. No, non c’era proprio nessuno ad osservarli. Non era bello come s’immaginavano: rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo non spettava loro e potevano esserne di momento in momento, via, scacciati. Uscirono dall’acqua e proprio lì vicino alla piscina trovarono un tavolino col ping-pong. Giovannino diede subito un colpo di racchetta alla palla: Serenella fu svelta dall’altra parte a rimandargliela. Giocavano cosi, dando bòtte leggere perché da dentro alla villa non sentissero. A un tratto un tiro rimbalzò alto e Giovannino per pararlo fece volare la palla via lontano; batté sopra un gong sospeso tra i sostegni d’una pergola, che vibrò cupo e a lungo. I due bambini si rannicchiarono dietro un’aiola di ranuncoli. Subito arrivarono due servitori in giacca bianca, reggendo grandi vassoi, posarono i vassoi su un tavolo rotondo sotto un ombrellone a righe gialle e arancio e se ne andarono. Giovannino e Serenella s’avvicinarono al tavolo. C’era tè, latte e pan-di-Spagna. Non restava che sedersi e servirsi. Riempirono due tazze e tagliarono due fette. Ma non riuscivano a stare ben seduti, si tenevano sull’orlo delle sedie, muovendo le ginocchia. E non riuscivano a sentire il sapore dei dolci e del tè e latte. Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a gustarsi, con quel disagio dentro e quella paura, che fosse solo per una distrazione del destino, e che presto sarebbero chiamati a darne conto. Quatti quatti, si avvicinarono alla villa. Di tra le stecche d’una persiana a griglia videro, dentro, una bella stanza ombrosa con collezioni di farfalle alle pareti. E in questa stanza c’era un pallido ragazzo. Doveva essere il padrone della villa e del giardino, lui fortunato. Era seduto su una sedia a sdraio e sfogliava un grosso libro con figure. Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato benché fosse estate. Ora, ai due bambini, spiandolo tra le stecche, si spegneva a poco a poco il batticuore. Infatti quel ragazzo ricco sembrava sedesse e sfogliasse quelle pagine e si guardasse intorno con più ansia e disagio di loro. E s’alzasse in punta di piedi come se temesse che qualcuno, di momento in momento, potesse venire a scacciarlo, come se sentisse che quel libro, quella sedia a sdraio, quelle farfalle incorniciate ai muri e il giardino coi giochi e le merende e le piscine e i viali, erano concessi a lui solo per un enorme sbaglio, e lui fosse impossibilitato a goderne, ma solo provasse su di sé l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa. Il ragazzo pallido girava per la sua ombrosa stanza con passi furtivi, accarezzava i margini delle vetrine costellate di farfalle con le bianche dita, e si fermava in ascolto. A Giovannino e Serenella il batticuore spento riprendeva ora più fitto. Era la paura di un incantesimo che gravasse su quella villa e quel giardino, su tutte quelle cose belle e comode, come un’antica ingiustizia commessa. Il sole s’oscurò di nuvole. Zitti zitti Giovannino e Serenella se ne andarono. Rifecero la strada pei vialetti, di passo svelto, ma senza mai correre. E traversarono carponi quella siepe. Tra le agavi trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve e sassosa, con cumuli d’alghe che seguivano la riva del mare. Allora inventarono un gioco bellissimo: battaglia con le alghe. Se ne tirarono manciate in faccia uno con l’altra fino a sera. C’era di buono che Serenella non piangeva mai.
Italo Calvino, I Racconti, Einaudi, Torino, 1958.