
Quando una donna arriva ai livelli apicali dentro un’organizzazione, quello che spesso non si vede è il prezzo psicologico che paga per mantenere la posizione, per dimostrare che è competente tanto quanto un uomo, per non perdere credibilità. Studi come quelli condotti in Svezia su dirigenti donne nei servizi pubblici mettono in luce che le condizioni psicologiche di lavoro sono spesso difficili: richieste contrastanti da più stakeholder, scarsità di risorse, lunghe ore, difficoltà a trovare tempo per sé, per la famiglia, per il riposo. Queste pressioni costanti generano stati di stress protratto che non solo intaccano la salute delle dirigenti, ma finiscono per condizionare il loro umore, il modo di relazionarsi con i collaboratori e anche il modo di esercitare il potere.
Alcuni comportamenti diventano meccanismi difensivi: la donna dirigente che è stata giudicata, sottovalutata o ha dovuto lottare per ogni riconoscimento può sviluppare una forma di durezza, non solo con se stessa, ma verso chi viene dopo, come se ogni errore fosse una minaccia alla propria autorità. I sussurri, la competizione, la paura di sbagliare spingono spesso verso atteggiamenti autoritari, verso il controllo stretto, verso la discrezionalità, verso il poco dialogo. Quando la pressione è alta, poca empatia, poco riconoscimento per le difficoltà altrui: la madre che deve uscire per un evento scolastico, la collega che ha bisogno di flessibilità per un problema di salute, vengono viste non come questioni umane ma come complicazioni da gestire o ostacoli alla produttività. C’è anche evidenza che lo stile di leadership “workaholic” del capo, che esige disponibilità permanente, risultati immediati, assume una pressione che si scarica verso il basso. Uno studio che ha esaminato la relazione tra il workaholism del leader e il distress psicologico dei subordinati ha mostrato che più il dirigente spinge oltre il limite, meno c’è spazio per la giustizia procedurale e relazionale: questo aumenta il rischio che i subordinati sviluppino ansia, esaurimento, insicurezza costante.
Quando una dirigente sottoposta a grandi richieste familiari, organizzative e sociali non trova supporto reale, non solo rischia il burnout personale ma anche di far crescere un clima di tensione e di paura. Le colleghe cominciano a sentirsi timorose nel proporre idee, esitanti nel chiedere aiuti, riluttanti a mostrare fragilità per timore di essere giudicate incompetenti o pigre. Il comportamento di chi sta in alto diventa modello: se la durezza è premiata, se chi sbaglia viene rimproverata o isolata, se il solo mostrarsi stanca o in difficoltà è visto come mancanza, allora la competizione diventa arma, e spesso questa competizione è spietata quando riguarda donne, perché si percepiscono come rivali dirette.
La “Queen Bee Syndrome” (fenomeno della “ape regina”) è una definizione che ricorre talvolta per descrivere donne in posizione di potere che, invece di aiutare o collaborare con altre donne, mantengono un atteggiamento critico, mantengono le distanze, riducono il supporto proporzionale alle energie delle altre, tendono a identificarle come rischi per il proprio status, non come alleate. È una dinamica che ha basi psicologiche profonde: bisogno di autoconservazione, paura di essere viste come deboli, senso di non essere abbastanza riconosciute se mostri troppo supporto, timore che ogni cedimento possa essere interpretato come incapacità. Naturalmente non è una regola universale che le donne al vertice diventino dure o autoritarie, ma c’è sufficiente evidenza per vedere che il potere, la solitudine del comando, le aspettative sociali e il carico invisibile (di dover dimostrare continuamente, di non poter sembrare “debole”, di bilanciare vita privata, famiglia, ruoli tradizionali) possono trasformare il carattere e i comportamenti professionali.
Quello che si osserva in casi concreti, anche se è stato poco studiato, è il passaggio da stress interno a durezza esterna: la dirigente che reputa inefficiente una collega madre come se non avesse impegni, la capo che mostra impazienza, che non tollera ritardi o richieste “extra-lavorative”, che non spiega le proprie decisioni, che comunica con freddezza, addirittura con sgarbo. In contesti dove il beneficio della presenza femminile è riconosciuto (più coesione, migliore soddisfazione dei lavoratori, minore stress quando lo stile è inclusivo), queste azioni opposte, l’autorità imposta, la competizione interna, il mancato riconoscimento, la mancanza di empatia, provocano esattamente l’effetto contrario: aumentano il turnover, la sfiducia, la paura, il senso di isolamento tra colleghe.
Bisogna dire che chi detiene il potere ha la capacità veramente reale di scegliere come esercitarlo: può decidere di essere rigida o comprensiva, di ascoltare o reprimere, di costruire o distruggere. C’è una scelta, e quella scelta si vede nel clima che si crea sotto di lei, perché ogni gesto, ogni richiesta, ogni sguardo pesa e può essere interpretato come sostegno o come controllo, come apertura o come barriera. Il problema è che troppi ambienti premiano la durezza, misurano il rispetto dal timore, valutano la leadership non dalla capacità di far crescere altri ma da quanti errori vengono segnalati, da quanto ordine si impone, da quanto silenzio disciplinato si ottiene.
Alla fine, la poltrona di potere può diventare una corazza che isola. E non è solo la dirigente a pagarne il prezzo, ma l’intero gruppo sotto di lei, in particolare le colleghe donne, quelle che già portano con sé il doppio carico dei ruoli, che già sono abituate a mediare, a curare, a dare supporto. E nel silenzio che accetta la durezza come normale, nel lavoro che non si riconosce, nella motivazione che si smorza, si crea una cultura che logora. Perché la produttività e la competizione fine a se stesse non costruiscono squadre forti; costruiscono persone tese, isolate, stanche, pronte a fuggire o a perdere fiducia. Per cambiare davvero, serve consapevolezza: riconoscere che essere donna dirigente non significa dover duplicare modelli di comando maschili, che la forza non risiede nell’altezza della voce ma nella capacità di generare spazio sicuro, che l’empatia non è debolezza ma leadership che mantiene la salute. È tempo che la responsabilità verta anche su come si guida, non solo su quello che si produce.

