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LIMINA MUNDI

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LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Essere donna

Il prezzo della poltrona: stress che scivola dall’alto

02 martedì Dic 2025

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', Essere donna, La società

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Yuleisy Cruz Lezcano


(Di Yuleisy Cruz Lezcano)

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Quando una donna arriva ai livelli apicali dentro un’organizzazione, quello che spesso non si vede è il prezzo psicologico che paga per mantenere la posizione, per dimostrare che è competente tanto quanto un uomo, per non perdere credibilità. Studi come quelli condotti in Svezia su dirigenti donne nei servizi pubblici mettono in luce che le condizioni psicologiche di lavoro sono spesso difficili: richieste contrastanti da più stakeholder, scarsità di risorse, lunghe ore, difficoltà a trovare tempo per sé, per la famiglia, per il riposo. Queste pressioni costanti generano stati di stress protratto che non solo intaccano la salute delle dirigenti, ma finiscono per condizionare il loro umore, il modo di relazionarsi con i collaboratori e anche il modo di esercitare il potere.
Alcuni comportamenti diventano meccanismi difensivi: la donna dirigente che è stata giudicata, sottovalutata o ha dovuto lottare per ogni riconoscimento può sviluppare una forma di durezza, non solo con se stessa, ma verso chi viene dopo, come se ogni errore fosse una minaccia alla propria autorità. I sussurri, la competizione, la paura di sbagliare spingono spesso verso atteggiamenti autoritari, verso il controllo stretto, verso la discrezionalità, verso il poco dialogo. Quando la pressione è alta, poca empatia, poco riconoscimento per le difficoltà altrui: la madre che deve uscire per un evento scolastico, la collega che ha bisogno di flessibilità per un problema di salute, vengono viste non come questioni umane ma come complicazioni da gestire o ostacoli alla produttività. C’è anche evidenza che lo stile di leadership “workaholic” del capo, che esige disponibilità permanente, risultati immediati, assume una pressione che si scarica verso il basso. Uno studio che ha esaminato la relazione tra il workaholism del leader e il distress psicologico dei subordinati ha mostrato che più il dirigente spinge oltre il limite, meno c’è spazio per la giustizia procedurale e relazionale: questo aumenta il rischio che i subordinati sviluppino ansia, esaurimento, insicurezza costante.
Quando una dirigente sottoposta a grandi richieste familiari, organizzative e sociali non trova supporto reale, non solo rischia il burnout personale ma anche di far crescere un clima di tensione e di paura. Le colleghe cominciano a sentirsi timorose nel proporre idee, esitanti nel chiedere aiuti, riluttanti a mostrare fragilità per timore di essere giudicate incompetenti o pigre. Il comportamento di chi sta in alto diventa modello: se la durezza è premiata, se chi sbaglia viene rimproverata o isolata, se il solo mostrarsi stanca o in difficoltà è visto come mancanza, allora la competizione diventa arma, e spesso questa competizione è spietata quando riguarda donne, perché si percepiscono come rivali dirette.
La “Queen Bee Syndrome” (fenomeno della “ape regina”) è una definizione che ricorre talvolta per descrivere donne in posizione di potere che, invece di aiutare o collaborare con altre donne, mantengono un atteggiamento critico, mantengono le distanze, riducono il supporto proporzionale alle energie delle altre, tendono a identificarle come rischi per il proprio status, non come alleate. È una dinamica che ha basi psicologiche profonde: bisogno di autoconservazione, paura di essere viste come deboli, senso di non essere abbastanza riconosciute se mostri troppo supporto, timore che ogni cedimento possa essere interpretato come incapacità. Naturalmente non è una regola universale che le donne al vertice diventino dure o autoritarie, ma c’è sufficiente evidenza per vedere che il potere, la solitudine del comando, le aspettative sociali e il carico invisibile (di dover dimostrare continuamente, di non poter sembrare “debole”, di bilanciare vita privata, famiglia, ruoli tradizionali) possono trasformare il carattere e i comportamenti professionali.
Quello che si osserva in casi concreti, anche se è stato poco studiato, è il passaggio da stress interno a durezza esterna: la dirigente che reputa inefficiente una collega madre come se non avesse impegni, la capo che mostra impazienza, che non tollera ritardi o richieste “extra-lavorative”, che non spiega le proprie decisioni, che comunica con freddezza, addirittura con sgarbo. In contesti dove il beneficio della presenza femminile è riconosciuto (più coesione, migliore soddisfazione dei lavoratori, minore stress quando lo stile è inclusivo), queste azioni opposte, l’autorità imposta, la competizione interna, il mancato riconoscimento, la mancanza di empatia, provocano esattamente l’effetto contrario: aumentano il turnover, la sfiducia, la paura, il senso di isolamento tra colleghe.
Bisogna dire che chi detiene il potere ha la capacità veramente reale di scegliere come esercitarlo: può decidere di essere rigida o comprensiva, di ascoltare o reprimere, di costruire o distruggere. C’è una scelta, e quella scelta si vede nel clima che si crea sotto di lei, perché ogni gesto, ogni richiesta, ogni sguardo pesa e può essere interpretato come sostegno o come controllo, come apertura o come barriera. Il problema è che troppi ambienti premiano la durezza, misurano il rispetto dal timore, valutano la leadership non dalla capacità di far crescere altri ma da quanti errori vengono segnalati, da quanto ordine si impone, da quanto silenzio disciplinato si ottiene.
Alla fine, la poltrona di potere può diventare una corazza che isola. E non è solo la dirigente a pagarne il prezzo, ma l’intero gruppo sotto di lei, in particolare le colleghe donne, quelle che già portano con sé il doppio carico dei ruoli, che già sono abituate a mediare, a curare, a dare supporto. E nel silenzio che accetta la durezza come normale, nel lavoro che non si riconosce, nella motivazione che si smorza, si crea una cultura che logora. Perché la produttività e la competizione fine a se stesse non costruiscono squadre forti; costruiscono persone tese, isolate, stanche, pronte a fuggire o a perdere fiducia. Per cambiare davvero, serve consapevolezza: riconoscere che essere donna dirigente non significa dover duplicare modelli di comando maschili, che la forza non risiede nell’altezza della voce ma nella capacità di generare spazio sicuro, che l’empatia non è debolezza ma leadership che mantiene la salute. È tempo che la responsabilità verta anche su come si guida, non solo su quello che si produce.

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Dal silenzio alla rinascita: il metodo integrato che restituisce voce alle sopravvissute

20 giovedì Nov 2025

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', Essere donna, La società

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violenza di genere

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(Di Yuleisy Cruz Lezcano)

Nella realtà quotidiana, spesso attraversata da forme sottili e manifeste di violenza di genere, il lavoro di chi accompagna le donne dopo un trauma diventa un atto profondamente politico e umano. La violenza non è mai un episodio isolato: modifica la percezione di sé, incrina la fiducia nel corpo, disarticola la continuità della vita. Le ricerche sociologiche degli ultimi anni, come quelle della studiosa statunitense Paige L. Sweet sulle dinamiche del gaslighting, mostrano come molte sopravvissute assorbano sensi di colpa e dubbi che in realtà appartengono all’abuso subito. Per questo motivo i percorsi di cura devono essere pensati non solo per riparare, ma per restituire significato.
Gli studi sul trauma, compresi quelli dell’Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, spiegano che molte reazioni osservate nelle vittime — immobilità, confusione, assenza emotiva — sono risposte biologiche di difesa, attivate automaticamente dal sistema nervoso per garantire la sopravvivenza. Gli operatori dei centri antiviolenza, consapevoli di queste dinamiche, sanno che offrire rifugio fisico non basta: occorre un intervento capace di leggere le reazioni neurofisiologiche e accompagnare la donna nella ri-regolazione del proprio corpo e delle proprie emozioni. Tra gli strumenti clinici basati su evidenze scientifiche, la desensibilizzazione e rielaborazione del trauma attraverso stimolazioni bilaterali e la terapia psicologica centrata sulla ristrutturazione dei pensieri traumatici si sono rivelate efficaci nel ridurre ricordi intrusivi, paure persistenti e convinzioni autodistruttive. Studi internazionali condotti su donne che hanno subito abusi in età infantile hanno confermato risultati significativi su disturbi post-traumatici e difficoltà emotive.
Ma la guarigione non si gioca soltanto nella stanza dello psicoterapeuta. Il primo passo è quasi sempre la relazione: un ambiente in cui la donna possa parlare o tacere senza sentirsi interrogata, giudicata o spinta a raccontare ciò che non è ancora pronta a condividere. La presenza dell’operatore, fatta di voce calma, ascolto attento e gesti misurati, diventa un primo approdo sicuro. Molte sopravvissute raccontano che il momento in cui qualcuno le ha credute è stato più importante di qualsiasi trattamento successivo, perché ha trasformato una ferita muta in una storia legittimata.
A partire da questa base, il corpo può essere nuovamente coinvolto. La respirazione lenta e diaframmatica è spesso il primo strumento che permette alla donna di tornare a percepire il proprio ritmo interno: espirazioni più lunghe delle inspirazioni producono un effetto calmante, riducono l’attivazione fisiologica del trauma e favoriscono un senso di stabilità. Accanto alla respirazione si inseriscono le tecniche di radicamento, utilissime quando compaiono flashback o sensazioni di distacco dalla realtà. Sentire il contatto dei piedi a terra, accarezzare un oggetto dalla consistenza familiare, nominare gli elementi visibili nella stanza: sono piccoli gesti che riportano il presente al centro dell’esperienza e spezzano l’ondata di ricordi.
Quando il corpo inizia a ritrovare sicurezza, diventa possibile introdurre pratiche di consapevolezza adattate al trauma. Non si tratta di meditazioni profonde, che potrebbero riattivare stati di allarme, ma di brevi momenti a occhi aperti in cui la donna impara a osservare il respiro, il peso del corpo sulla sedia, i suoni attorno a sé. È una consapevolezza gentile, che non forza l’introspezione ma educa alla presenza.
In questo percorso, anche la scrittura diventa un atto terapeutico. Nei centri antiviolenza molte operatrici propongono diari delle piccole conquiste quotidiane, lettere non destinate alla spedizione o testi liberi senza struttura. Una tecnica particolarmente significativa è il caviardage: partendo da una pagina stampata, si anneriscono parole superflue per far emergere una breve frase o un verso nascosto. È un processo creativo che permette di sottrarre il caos e conservare solo ciò che merita di rimanere, una sorta di poesia involontaria che diventa specchio della trasformazione interiore. La scrittura permette di riconoscere emozioni difficili senza esserne travolte.
In parallelo, il corpo trova un linguaggio nuovo attraverso movimenti lenti e controllati. Rotazioni delle spalle, allungamenti del collo, lievi colpetti su braccia e torace sono esercizi che aiutano a percepire il corpo come un luogo abitabile e non come teatro della violenza. In molti centri, questi esercizi vengono integrati con il teatro sociale e lo psicodramma. In questi contesti, la donna non è spettatrice del proprio trauma ma soggetto attivo della propria storia. Camminare nello spazio scenico, scegliere un gesto che rappresenti la rinascita, immaginare una nuova postura: sono azioni che molti progetti internazionali hanno dimostrato capaci di restituire agency e presenza.
Quando la donna si sente sostenuta e stabilizzata, può intraprendere percorsi clinici specialistici in cui il trattamento del trauma diventa più profondo: la rielaborazione dei ricordi attraverso stimolazioni bilaterali e la terapia psicologica centrata sui pensieri disfunzionali. Questi metodi permettono di diminuire l’intensità emotiva legata ai ricordi traumatici e di trasformare convinzioni interiorizzate come «È colpa mia» o «Non merito cura». Gli operatori non clinici svolgono il ruolo di ponte, preparano il terreno, orientano la donna verso professionisti qualificati quando necessario, garantendo continuità e protezione.
Gli studi sociologici di ricercatrici come Elisa Bellotti e Susanne Boethius hanno mostrato che la rete sociale intorno a una sopravvissuta può funzionare come una risorsa o come un ostacolo. Reti coerenti, supportive e non giudicanti favoriscono l’uscita dalla violenza; al contrario, legami ambivalenti possono riprodurre condizionamenti e colpevolizzazioni. Per gli operatori è fondamentale riconoscere queste dinamiche per prevenire la rivittimizzazione secondaria, quella forma di violenza simbolica che si manifesta quando la donna non viene creduta o viene interrogata in modo pressante.
Accanto agli aspetti psicologici e sociali, alcune ricerche italiane hanno evidenziato persino tracce biologiche del trauma attraverso modificazioni epigenetiche legate allo stress cronico. Comprendere la profondità di questi processi non significa medicalizzare l’esperienza, ma riconoscere che il trauma attraversa la persona in ogni sua dimensione, rendendo necessari percorsi multidisciplinari.
Questo metodo integrato non è un insieme di tecniche giustapposte: è un modo armonico di accompagnare una donna nel suo ritorno alla vita. La respirazione prepara il terreno emotivo; il grounding ancora il presente; la scrittura costruisce significato; il teatro restituisce il corpo; la terapia psicologica rielabora il passato; la relazione tiene insieme tutto. È un processo che richiede sensibilità, formazione e la capacità di rispettare i tempi della donna, senza fretta, senza pressioni.
La rinascita non procede in linea retta. È un cammino di andate e ritorni, di silenzi e nuove parole, di piccoli gesti che un giorno, quasi all’improvviso, diventano trasformazione.

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Due Passi e Due Mondi: L’Italia e San Marino di fronte alla sfida famiglia-lavoro

10 mercoledì Set 2025

Posted by LiminaMundi in CULTURA E SOCIETA', Essere donna, La società

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di Yuleisy Cruz Lezcano

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A volte bastano due passi, letteralmente, per entrare in un mondo diverso. Due passi che separano l’Italia da San Marino, due Paesi che parlano la stessa lingua, condividono la cultura e spesso anche i problemi, ma che offrono risposte molto diverse alle famiglie, soprattutto quando si parla di conciliazione tra lavoro e vita familiare.
Per moltissimi genitori italiani, l’estate si trasforma in un vero e proprio incubo organizzativo. Quando le scuole chiudono a giugno, comincia la lunga stagione in cui le famiglie devono trovare soluzioni, spesso improvvisate e costose, per gestire i figli durante l’orario di lavoro. Ad agosto, il problema raggiunge il culmine: trovare una babysitter disponibile è difficile, e se si riesce, i costi sono altissimi, tanto da mangiarsi una bella fetta dello stipendio. Il sostegno dei nonni, su cui molte famiglie si basavano, oggi non è più scontato: tra chi è ancora al lavoro, chi ha problemi di salute o chi vive lontano, il cosiddetto
“welfare familiare” sta venendo meno. E lo Stato? Resta spesso spettatore. I centri estivi pubblici si fermano a fine luglio o al massimo ai primi di agosto, lasciando scoperti proprio i mesi più critici. Le ferie lavorative sono limitate, e non coprono certo tutta la chiusura scolastica.

Basta varcare il confine per scoprire un’organizzazione più attenta e concreta. A San Marino, i centri estivi restano attivi anche ad agosto e settembre, offrendo alle famiglie diverse opzioni tra strutture pubbliche e iniziative private, come agriturismi, associazioni sportive o cooperative sociali. Questo permette ai genitori di continuare a lavorare senza dover affrontare il panico organizzativo o la spesa esorbitante per una baby sitter. Non si tratta solo di organizzazione pratica, ma anche di una visione più ampia: a San Marino, le istituzioni sembrano aver capito davvero quanto sia difficile, soprattutto per le madri, conciliare lavoro e famiglia. Il supporto è visibile e presente, e permette una maggiore serenità quotidiana.
In Italia, invece, la discussione sulla conciliazione resta spesso a livello teorico. I dati continuano a segnalare le difficoltà delle mamme lavoratrici, che troppo spesso si trovano costrette a scegliere: il lavoro o i figli? Una carriera o la gestione quotidiana della famiglia? Il sistema non offre supporti concreti: mancano sufficienti posti nei nidi pubblici, i costi dei privati sono proibitivi, e i congedi parentali sono spesso troppo brevi o mal retribuiti. Chi sogna di crescere professionalmente lamenta l’assenza di un aiuto istituzionale, sia sul piano economico che emotivo. L’Italia è ancora molto lontana dal garantire pari opportunità reali per le madri. Così, molte donne si vedono costrette a ridurre l’orario lavorativo, a chiedere permessi, a rinunciare a promozioni o addirittura a lasciare il lavoro.
La differenza tra l’Italia e San Marino non è questione di miracoli, ma di priorità. Investire in servizi per l’infanzia, in sostegni concreti per le famiglie, in una rete di assistenza che non si fermi a metà estate, significa costruire un Paese più giusto e produttivo, dove le madri possano lavorare senza sentirsi in colpa, e i padri possano condividere davvero le responsabilità familiari, dove crescere un figlio non sia una corsa a ostacoli, ma una scelta sostenibile.
Nel dibattito ormai cronico sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, l’Italia continua a rispondere con soluzioni tampone e bonus una tantum, che pur facendo notizia, non risolvono il problema strutturale. Perché non è solo una questione economica, ma soprattutto organizzativa e culturale. I genitori, in particolare le madri, si trovano incastrati in un sistema che non regge più il peso della realtà.
Negli ultimi anni sono stati introdotti diversi bonus, per asili nido, baby sitter, rette scolastiche, ma si tratta di misure frammentate, spesso vincolate a requisiti complessi e con una burocrazia scoraggiante. In molti casi coprono solo una parte delle spese reali, lasciando le famiglie in difficoltà nel far fronte a un’intera estate di cura senza supporti continuativi. Un bonus non risolve, per esempio, la mancanza di un centro estivo a portata di mano, o l’impossibilità di trovare una babysitter disponibile ad agosto. E soprattutto non interviene su un problema ben più profondo: l’insufficienza del sistema di congedi.
Il congedo parentale, così come è strutturato oggi in Italia, ha maglie troppo strette. Non solo dura poco, ma viene spesso “mangiato” da un sistema di conteggio penalizzante: i giorni festivi o non lavorativi vengono inclusi nel calcolo se si trovano all’interno di periodi di ferie o altri giorni di assenza, riducendo di fatto il tempo disponibile per prendersi cura dei figli.
Inoltre, il congedo è retribuito solo in parte e spesso in modo simbolico: una madre che guadagna uno stipendio medio-basso difficilmente può permettersi di assentarsi a lungo, pena il rischio concreto di non arrivare a fine mese. E quando il congedo finisce, in molti casi non esistono alternative praticabili.
Un altro nodo critico riguarda le aspettative non retribuite. In teoria, sarebbero una possibilità per chi ha esaurito ferie e congedi, ma in pratica molte aziende si rifiutano di concederle. E possono farlo, perché non sono obbligate. Di fronte a una richiesta, il datore di lavoro può semplicemente rispondere di no. Risultato? I genitori sono costretti a scelte estreme: licenziarsi, lasciare i figli a persone non fidate, o cercare soluzioni precarie e rischiose. Chi paga il prezzo più alto sono, ancora una volta, le madri.
Anche se non ufficialmente single, molte madri si ritrovano a gestire da sole la quasi totalità del carico familiare. Che il partner lavori troppo, sia assente o non coinvolto, poco cambia: l’intera organizzazione familiare — compiti, malattie, vacanze scolastiche, attività extrascolastiche — ricade su di loro. E il sistema non le riconosce né le sostiene in modo adeguato. Non si tratta solo di una fatica quotidiana, ma di una vera e propria esclusione sociale e lavorativa: donne che si vedono costrette a dire no a un incarico, a un trasferimento, a una formazione, perché non hanno alternative nella cura dei figli. Il rischio? Uscire dal mercato del lavoro o restare inchiodate a posizioni sottoqualificate, solo perché compatibili con gli orari scolastici. La realtà è chiara: il sistema italiano non regge più. Servono riforme strutturali, non più
piccoli correttivi, servono congedi più lunghi, meglio retribuiti e più flessibili. Serve un vero diritto all’aspettativa (non) retribuita per motivi familiari, servono politiche che riconoscano il lavoro di cura, che redistribuiscano il carico genitoriale e che non penalizzino chi sceglie di avere figli.

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Avete voluto la parità

19 sabato Giu 2021

Posted by Loredana Semantica in Essere donna

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Un breve video tratto da “Processo per stupro” un film documentario del 1979 del quale si può leggere più diffusamente qui

NB. Il video, di appena un paio di minuti, ci mette un po’ a caricare, abbiate pazienza.

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Essere donna: intro

13 domenica Giu 2021

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', Essere donna

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Oggi dedico questo post  all’introduzione di una nuova rubrica, il nome della rubrica, come potete leggere anche nel titolo è Essere donna il contenuto della rubrica è già tutto nel suo nome. La parola “essere” del nome della rubrica è da intendersi nel doppio senso di verbo e sostantivo. Non solo quindi come esistenza vita e presenza nel mondo, che è il significato del verbo “essere”, qui usato nel suo significato proprio e non come ausiliario, ma anche nel senso di sostantivo “essere”, come “creatura” che sta nel mondo, esiste, è viva. Il focus è la donna. La rubrica è inserita nella più ampia categoria del blog “Costume e società”

In questo blog talvolta è stata affrontata esplicitamente la problematica della condizione femminile. Ricordo tra gli altri il mio post su Franca Viola nella rubrica “Grandi donne”, il post di Deborah Mega sulla discriminazione di genere nel linguaggio e, più di recente, credo proprio l’otto marzo scorso, il post di Anna Maria Bonfiglio sulla condizione della donna. I tre i post sono quelli che ricordo a memoria, ma sono certa ve ne siano altri disseminati. La loro presenza chiaramente evidenzia l’interesse al tema da parte della redazione di questo blog, che, non mi sembra secondario rimarcarlo, al momento  è tutta femminile. 

Riprendendo il filo del discorso, mi sono resa conto però che, nonostante l’attenzione al tema della condizione femminile, non avevamo dato abbastanza risalto a questa tipologia di post inserendoli in una rubrica a sé. Ho acquisito questa consapevolezza al termine della visione di un video che circola in rete da maggio dello scorso anno, che ha per titolo “Le spose bambine”. Il video è una produzione del 1965 di Rai storia pubblicato su youtube dal canale Cronacavera. Ve lo propongo.

https://www.raiplay.it/video/2021/04/Come-eravamo—16042021-311f7a53-73d3-47fb-a18c-176daf2e41c7.html

E’ costituito principalmente da interviste a donne del paese di Ispica in provincia di Ragusa. Colpisce il titolo del video anche per il gran parlare che si fa oggi sulle spose bambine di paesi diversi dal nostro un po’ più sud di qui. Dice com’eravamo noi donne in quella terra quasi cinquant’anni fa, dice nel contempo la naturalezza di certe scelte e la forzatura dei tempi, dove si matura al sole di bisogni essenziali. 

Desideravo condividere il video perché è una spaccato indubbiamente interessante e problematico della condizione femminile qualche decennio fa e mi sono accorta che mancava lo spazio giusto dove inserirlo L’ho creato stasera. Uno spazio dove dire della condizione femminile ieri, oggi, domani. Per sapere com’eravamo, capire come siamo e immaginare come vogliamo diventare.

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