
Addendo al rumore,
minuendo al silenzio,
che farcene della fragilità,
tiene le arterie dischiuse
aggrappate al peso delle braccia,
dovremmo dell’antro toccare il fondo,
su questa sterrata sbatterci contro,
scuoterne il senso, strizzarne la goccia
almeno che scenda nel ventre, collosa,
di cuore, così, intrisa. Annaspa l’amaro
in gola, è cruda colatura d’argilla,
muta di segno, come a novembre,
l’ora va breve, discrasia nodosa:
quale laceramento la ricerca,
aporia interrotta dal respiro,
è logora questa latenza,
servirebbe una visione,
un paesaggio inatteso
che lasci alle cose frante
la cura, una rosa.
*
Alla vista già sfinita dei campi,
in ogni posto, ci attende il tracciamento
per il viaggio che riprende.
E, nel corso, ritorna il desiderio.
Con le sue voci lo trascina il giorno
che s’oscura della luce di settembre
al gonfiore crudele del cielo
tanto azzurro da strappare il fiato,
nella speranza che arrivi presto
la pioggia, un temporale, una tempesta
a dissipare l’ansia di questa stagione muta:
acqua rovinosa, cupa, bella,
che s’appigli, furente, agli alberi, alle case,
al tronco nudo dell’anima sospesa.
*
Cleopatra è risorta dal veleno degli aspidi,
si dimena tra le lenzuola il suo corpo livido:
l’altera presenza non è violazione del culmine
ma triste notazione di lune che parlano agli astri
spegnendosi, ad una ad una, nel buio.
Aveva ragione Antonio nel forgiare
le lunghe catene di bronzo,
non doveva lanciare sassi gravidi
nel limo per misere curve dischiuse,
cedere il passo alla piovosa mattina
di luglio spaventato dal fuoco:
lei, ora, gli scaglierà addosso il marchio
dell’aquila e conterà le prede all’avvoltoio.
Pesano i morti nel soffio delle lagune
sui campi d’avena bagnati dal Nilo.
Dicono del naso, che fosse quello il riscontro
della vera bellezza, altro non vedo che il taglio
acuminato degli occhi ripassati d’antimonio:
ecco, il veleno riprende vigore, corre nelle vene,
affranca la voglia di vita, rinasce la regina
tra i mortali, respira come rosa nel deserto.
*
E di nuovo l’autunno: pochi lumi
spiano le case, il vento alita su bocche
assise alle finestre dondolanti d’erba
e lontano muore l’ultimo tramonto,
echi di piogge spingono a bramosi
passi le voglie di una terra marcita.
A folate si destreggiano nel cielo
uccelli neri in preda al volo
nudi come le anime dei viandanti
e corrono i rotori corrono sull’asfalto
scroscianti di cristalli maculati.
S’oscura, offesa, una crisalide di sposa.
Dov’è il sentore, dimmi, mi amor
dove la pallida sorpresa che allude
al calore di questo gioco astrale?
Resta una foglia che, stanca, si riposa
sul ramo e, tremula, vacilla, resiste
ma poi si spezza e cade, arresa.
*
È solo un sospetto, un istante che passa
a ghermire i palpiti distrattamente,
quasi falciati da chissà quale massa
critica che ottenebra la nostra mente.
Noi, che corpo e sangue siamo ancora,
l’odore occluso dalla caligine d’ottobre
al nitido lenir del giorno accesi, ora,
che niente ci rimane, niente ci ricopre.
E ci consuma l’algia dell’attesa
perché, con vino e rose, il sesso è andato
e quel che viene non è più sorpresa
ma l’inutile perpetrarsi del peccato.
Eppure vorremmo chissà cosa e quale
sentire, con quanta voglia e quant’arsura:
fuori c’è pioggia, presto tornerà il sole
a segnare il passo, il ritmo, la misura.
Antonio Tammaro, “Via da questa arsura”, Fallone Editore, 2024.