
foto di Loredana Semantica
stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus
In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male. Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione. Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo all’abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell’anno del Signore 1327 in cui l’imperatore Ludovico scese in Italia per ricostituire la dignità del sacro romano impero, giusta i disegni dell’Altissimo e a confusione dell’infame usurpatore simoniaco ed eresiarca che in Avignone recò vergogna al nome santo dell’apostolo (dico l’anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorarono come Giovanni XXII). Forse, per comprendere meglio gli avvenimenti in cui mi trovai coinvolto, è bene che io ricordi quanto stava avvenendo in quello scorcio di secolo, così come lo compresi allora, vivendolo, e così come lo rammemoro ora, arricchito di altri racconti che ho udito dopo – se pure la mia memoria sarà in grado di riannodare le fila di tanti e confusissimi eventi. Sin dai primi anni di quel secolo il papa Clemente V aveva trasferito la sede apostolica ad Avignone lasciando Roma in preda alle ambizioni dei signori locali: e gradatamente la città santissima della cristianità si era trasformata in un circo, o in un lupanare, dilaniata dalle lotte tra i suoi maggiori; si diceva repubblica, e non lo era, battuta da bande armate, sottoposta a violenze e saccheggi. Ecclesiastici sottrattisi alla giurisdizione secolare comandavano gruppi di facinorosi e rapinavano con la spada in pugno, prevaricavano e organizzavano turpi traffici. Come impedire che il Caput Mundi ridiventasse, e giustamente, la meta di chi volesse indossare la corona del sacro romano impero e restaurare la dignità di quel dominio temporale che già era stato dei cesari? Ecco dunque che nel 1314 cinque principi tedeschi avevano eletto a Francoforte Ludovico di Baviera come supremo reggitore dell’impero. Ma il giorno stesso, sull’opposta riva del Meno, il conte palatino del Reno e l’arcivescovo di Colonia avevano eletto alla stessa dignità Federico d’Austria. Due imperatori per una sola sede e un solo papa per due: situazione che divenne, invero, fomite di grande disordine… Due anni dopo veniva eletto ad Avignone il nuovo papa, Giacomo di Cahors, vecchio di settantadue anni, col nome appunto di Giovanni XXII, e voglia il cielo che mai più alcun pontefice assuma un nome ormai così inviso ai buoni. Francese e devoto al re di Francia (gli uomini di quella terra corrotta sono sempre inclini a favorire gli interessi dei loro, e sono incapaci di guardare al mondo intero come alla loro patria spirituale), egli aveva sostenuto Filippo il Bello contro i cavalieri templari, che il re aveva accusato (credo ingiustamente) di delitti vergognosissimi per impadronirsi dei loro beni, complice quell’ecclesiastico rinnegato. Frattanto si era inserito in tutta quella trama Roberto di Napoli, il quale per mantenere il controllo della penisola italiana aveva convinto il papa a non riconoscere nessuno dei due imperatori tedeschi, e così era rimasto capitano generale dello stato della chiesa. Nel 1322 Ludovico il Bavaro batteva il suo rivale Federico. Ancor più timoroso di un solo imperatore, come lo era stato di due, Giovanni scomunicò il vincitore, e questi di rimando denunciò il papa come eretico. Occorre dire che, proprio in quell’anno, aveva avuto luogo a Perugia il capitolo dei frati francescani, e il loro generale, Michele da Cesena, accogliendo le istanze degli “spirituali” (di cui avrò ancora occasione di parlare) aveva proclamato come verità di fede la povertà di Cristo, che se aveva posseduto qualcosa coi suoi apostoli l’aveva avuto solo come usus facti. Degna risoluzione, intesa a salvaguardare la virtù e la purezza dell’ordine, ma essa spiacque assai al papa, che forse vi intravvedeva un principio che avrebbe messo a repentaglio le stesse pretese che egli, come capo della chiesa, aveva, di contestare all’impero il diritto di eleggere vescovi, accampando di converso per il sacro soglio quello di investire l’imperatore. Fossero queste o altre le ragioni che lo muovevano, Giovanni condannò nel 1323 le proposizioni dei francescani con la decretale Cum inter nonnullos. Fu a quel punto, immagino, che Ludovico vide nei francescani, nemici ormai al papa, dei potenti alleati. Affermando la povertà di Cristo essi in qualche modo rinvigorivano le idee dei teologi imperiali, e cioè di Marsilio da Padova e Giovanni di Gianduno. E infine, non molti mesi prima degli eventi di cui sto narrando, Ludovico, che aveva raggiunto un accordo con lo sconfitto Federico, scendeva in Italia, veniva incoronato a Milano, entrava in conflitto coi Visconti, che pure lo avevano accolto con favore, poneva Pisa sotto assedio, nominava vicario imperiale Castruccio, duca di Lucca e Pistoia (e credo facesse male perché non conobbi mai uomo più crudele, tranne forse Uguccione della Faggiola), e ormai si apprestava a scendere a Roma, chiamato da Sciarra Colonna signore del luogo. Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore fosse stato incoronato in Roma. Ma l’assedio di Pisa lo assorbì nelle cure militari. Io ne trassi vantaggio aggirandomi, un poco per ozio e un poco per desiderio di apprendere, per le città della Toscana, ma questa vita libera e senza regola non si addiceva, pensarono i miei genitori, a un adolescente votato alla vita contemplativa. E per consiglio di Marsilio, che aveva preso a benvolermi, decisero di pormi accanto a un dotto francescano, frate Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione che lo avrebbe portato a toccare città famose e abbazie antichissime. Divenni così suo scrivano e discepolo al tempo stesso, né ebbi a pentirmene, perché fui con lui testimone di avvenimenti degni di essere consegnati, come ora sto facendo, alla memoria di coloro che verranno.
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Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980.
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Il nome della rosa è un romanzo scritto da Umberto Eco ed edito per la prima volta da Bompiani nel 1980. Si può considerare un romanzo storico-filosofico sviluppato come un giallo deduttivo, ha ottenuto un vasto successo di critica e di pubblico, è stato tradotto in tantissime lingue e ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti, come il Premio Strega nel 1981. L’incipit del prologo riprende Giovanni 1,1-2, ma in tutta l’opera c’è la continua ricerca di segni, di citazioni, di libri che parlano di altri libri, come suggerisce lo stesso Eco nelle Postille al Nome della rosa, breve saggio pubblicato, attraverso la rivista Alfabeta, in cui spiega il percorso letterario che lo ha portato alla stesura del romanzo. Continua a leggere