
disegno digitale di Loredana Semantica
La notte del 20/11/2020 Delia, impiegata di Pisa, quarantasettenne, lunghi capelli biondi, occhi azzurri, occhiali spessi e tanti progetti dismessi, aveva fatto un sogno. La data del sogno già di per sé sembrava comunicare un senso, aveva pensato Delia, il concatenamento numerico era evidente, la ripetizione insistente del numero venti lo rendeva numero angelico. Cercando in internet lesse che esso suggerisce di restare concentrati sulla propria vita spirituale, mentre l’undici era numero da riferire a intuizione, saggezza, percezione e capovolgimento della situazione. E poi c’era quel sogno. Era stato talmente reale che le era sembrato di sentire i profumi dei fiori, il soffio del vento leggero sulla pelle, come se nel sonno fosse stata trasportata in un altro luogo, un altro mondo, un’altra dimensione. Ne era rimasta impressionata al punto che sentì il bisogno la mattina dopo di raccontarlo al marito. Luciano l’ascoltò con attenzione, ma non espresse commenti, al termine sorrise paziente, le fece una breve carezza, poi corse al lavoro nel suo studio di architetto che ultimamente lo assorbiva oltremodo.
Delia non paga di aver condiviso con la sua dolce metà il sogno, lo volle raccontare anche a una cara amica. Ludovica appena immessa in ruolo e trasferita a Lucca a insegnare matematica in una scuola media statale. Ludovica aveva da poco passato i trent’anni, fisico sottile, ben strutturato e allenato, occhi verdi, capelli corti, castani, mossi, aveva un fidanzato storico, Andrea che l’aveva seguita a Lucca, sperando di poter trovare un’occupazione da informatico migliore di quella finora svolta e, a suo giudizio, malpagata. Delia chiamò Ludovica al telefono nel pomeriggio. Dopo i convenevoli e il racconto dell’esperienza di Ludovica nella nuova scuola, Delia per la seconda volta nella giornata parlò del suo sogno e, nel raccontarlo, fu ancora più precisa, le tornarono in mente tutti i particolari.
“Sai Ludovica” diceva “è stato un sogno bellissimo. Il paesaggio era sereno, luminoso anche se non si vedeva il sole, l’aria appena tiepida, il cielo azzurro acquamarina era disseminato di piccole nuvole rade e spumose, la terra era un saliscendi di cune e dune erbose e sullo sfondo altre dune d’altre tonalità di verde: mela, bottiglia, militare, smeraldo, petrolio… I declivi a perdita d’occhio nascondevano l’orizzonte. Al centro di un prato c’era un cagnolone nero. Il pelo, lucido lungo, folto, fine e morbido. Stava a pancia all’aria, il dorso aderente al prato, sul verde color pisello muoveva allegramente fianchi e coda, piegando il possente torace a destra e a sinistra e i fianchi dal lato opposto con una dinamica ad esse divertente e animata.” Delia prese un attimo fiato, poi proseguì “un’orecchia ripiegata gli ricadeva sugli occhi, l’altra riversa all’indietro mostrava il rosa del padiglione auricolare. Da sotto l’orecchia piegata spuntava l’occhio che sembrava ridesse. Ludovica, io non lo so se può ridere l’ occhio di un cane, ma ti assicuro che sembrava proprio così”
Ludovica la rassicurò “Ma tranquilla Delia, è di certo come racconti. Alcune cose si sentono più che vedersi, ma il cane però aveva una posa davvero buffa, e poi …” “e poi” Delia proseguì la descrizione “il muso era semiaperto sulle zanne in mezzo alle quali spuntava la lingua sottile e rosata, tenera come una fetta di mortadella. L’altro occhio era ben aperto sul bianco della sclera, al centro tondeggiava il marrone scuro dell’iride, il nero della pupilla. Agitava le zampe protese verso l’alto, piegate all’altezza del gomito, il pelo a bandiera, nero dalle punte rossicce, col movimento sventolava. All’estremità delle zampe il rigonfiamento ruvido e sodo dei cuscinetti che terminava nelle unghie brunite, limate dal correre e saltare”.”Cara Ludovica” proseguì Delia “io so riconoscere un cane felice, lo so riconoscere bene. Addirittura, ci crederesti? M’è parso quasi che mi strizzasse l’occhio come un cenno d’intesa e ho capito pure cosa voleva dire: che era un piacere stare bene, grattarsi la schiena contro l’erba fresca, sentire il corpo sano, forte, vigoroso nello splendore della gioventù”. Ludovica l’aveva ascoltata quasi senza interromperla, solo a questo punto osò dire qualcosa “Delia cara hai fatto davvero un bel sogno, era proprio lui, come se fosse ancora con te”. Ludovica era un’amica affettuosa, empaticamente comprendeva l’amica, ma non aveva mai avuto un animale domestico, solo qualche pesce rosso poco longevo, naufragato nelle fogne cittadine via tazza del water. Dopo un attimo commosso di silenzio Delia riprese a parlare “Ecco Ludovica è così che ho sognato il mio cane ieri notte. Appena una settimana dopo che mi aveva lasciato per sempre. Non so se vi sia un paradiso dei cani. Se il mio desiderio ha guidato il mio sonno. Se da quel paradiso mi ha mandato un messaggio. So che lui era la mia rosa del piccolo principe. Mi aveva conquistata, l’avevo addomesticato. Era un tesoro vivente nelle mie mani”. Poi le due amiche parlarono d’altro, del lavoro, del tempo, di abbigliamento. Si salutarono quando Andrea chiamò Ludovica per uscire a sbrigare commissioni.
Delia non superò facilmente il dolore di questa perdita, le ci volle molto molto tempo. Non ne parlava volentieri perché ogni volta il dolore si riaccendeva nella commozione. Si vergognava di soffrirne in modo così evidente e più intensamente che se fosse il lutto di un parente intimo. L’unica spiegazione che si dava era che si trattava di un dolore strettamente intrecciato al senso di colpa e al senso di responsabilità: di non aver fatto abbastanza per salvarlo, per renderlo felice, di non averlo curato e amato a sufficienza, di non aver capito ch’era la fine e non averlo perciò confortato. Solo dopo circa un mese sentì che il dolore si stava attenuando e una notte riuscì a formulare nel segreto del suo cuore il primo vero addio alla bestiola amata: “Ti sia leggera la terra, mio grande amico. Ora ti sostiene un prato di margherite, ti avvolge l’azzurro di un lenzuolo stellato e l’abbraccio di una coperta d’infanzia”
L’animale era stato calato nella profonda fossa di tumulazione con un lenzuolo celeste disseminato di puntini azzurri, passato sotto la carcassa, sorretto alle estremità, era servito a compiere lentamente l’operazione di deposizione. Il corpo era stato prima avvolto in un lenzuolo stampato a foglie verdi e margherite, poi in una coperta a quadri.
Delia quella notte si addormentò pensando che non aveva mai avuto amico migliore, più buono, più saggio e sincero, e da lì, da quella rassegnazione, dalla consapevolezza ch’era stata una ricchezza averlo avuto per tanti anni con sé, la serenità riprese ad abitarla.