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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Loredana Semantica

Più voci per un poeta: Angelo Maria Ripellino. Video e voce di Loredana Semantica

01 mercoledì Feb 2023

Posted by Loredana Semantica in ARTI VISIVE, LETTERATURA E POESIA, Più voci per un poeta, Video

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Angelo Maria Ripellino, Loredana Semantica, videopoesia

“Sai che significa essere bruciati” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
“Le trombe hanno bisogno di mani” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
“Un lupo nero addenta la luce” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica

Angelo Maria Ripellino, nato a Palermo il 4/12/1923, è stato slavista, poeta, giornalista, docente universitario, traduttore, critico, saggista. Già a soli diciannove anni conosceva russo, polacco, olandese e rumeno, manifestando giovanissimo quell’interesse per l’ambiente e la cultura mitteleuropea che diverrà il filo conduttore della sua vita. Studiò all’Università di Roma e frequentò le esclusive lezione di Ettore Lo Gatto, slavista, scegliendo a sua volta questa professione. Già in quel periodo si manifestarono i primi segni della tubercolosi che condussero il poeta dapprima al sanatorio di Dobřiš, vicino Praga e, successivamente a subire un intervento di pneumectomia. Visse a Praga negli anni tra il 1946 e 1947 per specializzarsi in lingua e letteratura ceca. A Praga conobbe e frequentò artisti, poeti, intellettuali tra i quali Vladimir Holan, diventandone amico. Sempre in quegli anni a Praga conobbe la studentessa Ela Hlochová con la quale torna in Italia e che diverrà sua moglie. Angelo Maria Ripellino ha insegnato come docente all’Università di Bologna e a quella di Roma, dove nel 1961 rileva la cattedra di Ettore Lo Gatto. Ha collaborato con numerose riviste specialistiche e con la casa editrice Einaudi, sia come consulente editoriale che, successivamente, curando con passione una rubrica di critica teatrale fino alla sua morte avvenuta a Roma il 21/4/1978. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie, diversi libri sono postumi “curati da una cerchia ristretta di studiosi che per anni si sono prodigati nel cercare di diffondere l’ opera di Ripellino” https://blog.maremagnum.com/la-magia-dellanima-angelo-maria-ripellino/

  • Non un giorno ma adesso, 1960
  • La fortezza d’Alvernia e altre poesie,1967
  • Notizie dal diluvio Torino, 1969
  • Sinfonietta, 1972
  • Lo splendido violino verde, 1976
  • Autunnale barocco, 1977
  • Scontraffatte chimere, 1987
  • Poesie. Dalle raccolte e dagli inediti, 1990
  • Poesie prime e ultime, 2006
  • Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, 2007

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Più voci per un poeta: Bartolo Cattafi

15 giovedì Dic 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Più voci per un poeta, Podcast

≈ Commenti disabilitati su Più voci per un poeta: Bartolo Cattafi

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Bartolo Cattafi, Deborah Mega, Loredana Semantica, Maria Allo, Maria Grazia Galatà, Più voci per un poeta

Bartolo Cattafi

Leggono le poesie di Bartolo Cattafi nell’ordine: Maria Grazia Galatà, Deborah Mega, Maria Allo, Loredana Semantica.

IL POETA

Bartolo Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) il 6 luglio del 1922, morto a Milano il 13 marzo 1979, è poeta italiano. Ricorre quest’anno il centenario dalla sua nascita. Il poeta, stimato da Giovanni Raboni, del quale era amico, era in contatto con la cerchia dei poeti milanesi: Giovanni Giudici, Luciano Erba, Vittorio Sereni. Bartolo Cattafi, laureato in giurisprudenza, ha lavorato come pubblicista, è autore di svariate raccolte di poesia  – i titoli nell’elenco sottostante – pubblicate principalmente da Mondadori e Scheiwiller, Il poeta “ha patito l’esclusione dalle più autorevoli antologie della poesia italiana del Novecento (Sanguineti e Mengaldo); è finito in una dimenticanza pressoché generale. Sino a che, da qualche anno l’attenzione che merita sembra finalmente rinascere, il suo nome spuntare più di frequente nelle pagine di pubblicazioni di vario genere o sulla bocca dei lettori.” Dal sito “Le parole e le cose”

LE OPERE

  1. Simùn – Trentadue liriche inedite
  2. Nel centro della mano
  3. Partenza da Greenwich 
  4. Le mosche del meriggio
  5. Qualcosa di preciso 
  6. L’osso, l’anima
  7. L’aria secca del fuoco
  8. Il buio 
  9. Lame
  10. Ostuni
  11. La discesa al trono 
  12. Marzo e le sue idi
  13. Nel rettangolo dei teoremi
  14. 18 dediche ’76-’77 
  15. Poesie scelte 1946-1973
  16. Se i cavalli…
  17. L’allodola ottobrina 
  18. Chiromanzia d’inverno,
  19. Segni

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Una vita in scrittura: Antonella Pizzo

07 mercoledì Dic 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Una vita in scrittura

≈ 4 commenti

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Antonella Pizzo, Loredana Semantica, Una vita in scrittura

omaggio a un poeta, Giorgione, 1505

Per  Una vita in scrittura ho rivolto l’invito ad Antonella Pizzo, che l’ha interpretato come segue.

Grazie Antonella

Da ragazza leggevo come una forsennata, sempre libri in prestito presi in biblioteca, solo narrativa, niente poeti, alle superiori mi ero innamorata di Foscolo, amavo i suoi sepolcri, ero gelosa della sua amica caduta da cavallo,  lui non mi amava, non mi aveva mai conosciuta, vivevo nel suo futuro e non avevo un cavallo da cui cadere. Poi la scuola finì e io lo dimenticai. Ora amo Eliot, non so perché, l’amore non ha una ragione, so che se  sto male e leggo Il canto dell’amore di J. Alfred Prufrock mi pacifico, pare che io non sia la sola, mi è stato detto anche da altre persone, la devono studiare questa cosa, sarà una questione di vibrazioni come quando le mucche ascoltano Mozart e fanno più latte. Quando avevo già i miei bei 50 anni ho cominciato casualmente a scrivere versi, mi sono imbattuta in un concorso di poesia, era un concorso di poesia sullo sport, 36 versi, la cosa mi intrigò parecchio per diversi motivi: non avevo mai scritto una poesia, tanto meno sullo sport, non avevo mai partecipato a un concorso, non avevo mai praticavo uno sport, non seguivo lo sport. Ma si potevano scrivere poesie sullo sport? 36 versi poi mi sembrarono una enormità.  Fu una sfida, la scrissi per distrarmi, avevo un grave lutto da elaborare,  così mi cimentai e scrissi una poesia dedicata ai meninos de rua e al pilota brasiliano  Ayrton Senna da Silva, morto nel 1994. La poesia l’ho smarrita e il concorso non l’ho vinto, però da allora ho scritto ininterrottamente per dieci anni, prima su it.arti.poesia, poi sui blog, su spinder con poetienon, su wordpress con viadellebelledonne, poi pit stop, sosta ai box, ora in attesa di ricominciare, spero. Il mio sito personale

http://antonellapizzo.wordpress.com

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LA POESIA PRENDE VOCE: VIVIAN LAMARQUE

06 martedì Dic 2022

Posted by maria allo in La poesia prende voce, Podcast

≈ Commenti disabilitati su LA POESIA PRENDE VOCE: VIVIAN LAMARQUE

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Deborah Mega, Loredana Semantica, Maria Allo, Podcast, Vivian Lamarque

La poesia prende voce

Vivian Lamarque

Legge Loredana Semantica

Poesia malata

Poesia illegittima

Legge Deborah Mega

Legge Maria Allo

Cambiare il mondo

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Una vita in scrittura: Davide Morelli

16 mercoledì Nov 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Una vita in scrittura

≈ Commenti disabilitati su Una vita in scrittura: Davide Morelli

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Davide Morelli, Loredana Semantica, Una vita in scrittura

omaggio a un poeta, Giorgione, 1505

Per  Una vita in scrittura ho rivolto l’invito a Davide Morelli, che l’ha interpretato come segue.

Grazie Davide.

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“Dispositivi” di Stefano Guglielmin. Una lettura di Loredana Semantica

15 mercoledì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

≈ 3 commenti

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Dispositivi, Loredana Semantica, Marco Saya Editore, Recensioni, Stefano Guglielmin

Che possiamo noi realmente sapere
degli altri? chi sono, come sono…
ciò che fanno… perché lo fanno…

Luigi Pirandello

Dal poeta Stefano Guglielmin, stimato insegnante, saggista e critico di poesia, mi perviene il suo ultimo libretto “Dispositivi”, pubblicato da Marco Saya Edizioni. Sobria la copertina color senape nel formato 20 x 15 e accattivante la ruvidezza del cartoncino goffrato millerighe.
Conosco da tempo la scrittura di Stefano. Leggendo “Dispositivi” riconosco il timbro del poeta sin dai primi componimenti. Un poeta si dice tale, non tanto perché compone in versi e non solo per la tensione a produrre poesie, ancora meno per la mole di composizioni poetiche prodotte, ma, maggiormente, quando la sua voce è riconoscibile, cioè ha acquisito sue peculiarità che la distinguono da quella d’altri. D’altra parte, quella del lettore, credo che nel tempo con la lettura frequente di un certo autore avvenga una sorta di “addomesticamento” non dissimile da quello che la volpe racconta al Piccolo Principe di Saint Exupery. Potremmo dirlo familiarità o affezione, ma addomesticamento rende meglio l’idea quando si consideri la sua radice etimologica – dal latino domus, casa – preceduta dalla preposizione latina ad che potremmo tradurre come approssimarsi a, contenendo la particella un senso di movimento verso.
Il titolo della raccolta “Dispositivi” potrebbe far pensare al linguaggio tecnologico, e quindi ai devices da collegare ai propri personal, per chi si occupa di sicurezza, sovvengono alla mente i DPI dispositivi di protezione individuale, tra i quali, di recente, balzate in prima linea, le mascherine che tanto hanno caratterizzato gli anni appena trascorsi. In ambito sanitario DM sono i dispositivi medici, una lunga lista dai medicinali alle protesi, ausili e prodotti di ogni genere in materia di sanità e salute. Chi è operatore del diritto intende il dispositivo come contenuto della norma, nelle aule di tribunale dispositivo è la decisione della sentenza.
Un titolo che intercetta vari ambiti di utilizzazione, evocatore e al contempo semanticamente suggestivo. Etimologicamente dispositivo deriva da disporre, verbo composto dalla radice dis, prefisso di origine greca dai molteplici usi: privativo, negativo, rafforzativo…e dal latino ponere, porre, avente quindi il significato, a seconda dei casi transitivo o intransitivo, di ordinare nello spazio, decidere, statuire, poter contare, potersi servire. Dal che dispositivi, plurale di dispositivo, trae dal verbo questa molteplicità di significati che vanno da decisione a congegno o apparecchiatura.
Non c’è dubbio che nessuno può astenersi, vivendo, dal rapportarsi coi dispositivi, salvo vivere come eremita o selvaggio, e basterebbe persino che quest’ultimo inventasse, ad esempio, un congegno che faccia cadere dall’alto l’acqua per lavarsi in una rudimentale doccia e avrebbe già creato un dispositivo. Se dalla singolarità si sposta l’attenzione alla comunità, qualunque forma organizzativa ha la necessità di strutturarsi in organi attribuire poteri, qualunque organo detentore di potere esprime la volontà decisionale appunto attraverso “dispositivi”. Emerge chiaramente l’imprescindibilità dei “dispositivi” nell’esistenza tanto del singolo che della collettività.
Si tratta dunque di un termine pertinente all’umano, che, in ambito filosofico, è stato coniato da Michel Foucalt intorno al 1975 per riferirlo a un insieme eterogeneo di “discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche” applicati alla manipolazione dei rapporti di forze per svilupparle in una certa direzione inibirle o utilizzarle. I dispositivi hanno a che fare con gli ambienti sociali e con il potere. Sono forme o manifestazioni del potere dirette ad indurre i comportamenti dei soggetti. Agamben estende il concetto di dispositivo a qualunque “cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”, non solo quindi in ambiti sociali dove l’esercizio del potere è evidente: scuole, prigioni o fabbriche ecc. “ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi”
Che il titolo della raccolta poetica abbia a riferimento il pensiero filosofico è chiarito dalle due citazioni che Guglielmin premette alla stessa, di Giorgio Agamben e Amos Bianchi tratte dai rispettivi saggi “Che cos’è un dispositivo”. Entrambi i filosofi insistono sul concetto di relazione intercorrente tra i dispositivi e soggetto, l’uno centrando la questione sul processo di “desoggetivizzazione”, cioè di fagocitazione del soggetto nel dispositivo, l’altro sulla “modellazione” comportamentale del soggetto, entrambi pongono dunque il problema del rapporto tra singolo e dispositivo e in definitiva tra dispositivo e libertà.
Dalle premesse non possono che trarsi le chiavi di lettura dei testi poetici: pensiero poetico/filosofico e relazione individuale/collettiva coi dispositivi.
Non si scrive poesia per esprimere l’io, l’uso del primo pronome personale comporta sempre il rischio di essere tacciati di osservare il proprio ombelico, che non è solo ristrettezza di visione, ma ancor peggio contemplazione del sé nello specchio del fiume sulle cui rive ci si sporge cantando, cioè di innamoramento del sé similmente al Narciso mitologico, incapace per “sortilegio” divino di innamorarsi dell’altro. È inevitabile tuttavia che lo scritto poetico conduca un approfondimento interiore, salvo che non si abbia l’intento di raccontare una “storia” facendo ricorso alla forma del verso. Anzi in poesia questa “indagine” deve essere condotta con determinazione impietosa fino a quelle profondità o, se preferite, a quelle altezze, dove l’io si disperde in particelle rarefatte, invisibili, impercettibili, conato umano in cerca di assoluto. Ciò che si è scritto, così depurato, diventa specchio di tutti, ostia di ognuno. Assoluto – e il corrispondente sostantivo assolutezza – hanno la radice etimologica nella parola latina ab solvere, composta dalla preposizione ab “da” e dal verbo solvere – sciogliere -, quindi assoluto è termine evocatore del senso di libertà da ogni peso, laccio, oppressione, non solo da corporeità fisica e quindi assoluto nel senso di metafisico, ma anche da inibizioni che ostacolino il raggiungimento dell’essenza, cioè della verità. L’atto poetico ha nell’assolutezza e nella verità connotazioni imprescindibili, alle quali non può rinunciare specialmente quando si indaga di “dispositivi” più o meno in-accettabili. Smarcare l’espressione dall’io non la depura dalla necessaria sovrapposizione tra io poetico e io autentico e ancora meno sterilizza il seme poetico innervato nella poesia, cioè l’atto politico inteso come ingrediente che penetra nel sociale, per progressivi cunei: osservazione, descrizione, critica, contestazione, sovversione. “Sovversivo è il foglio su cui la parola crede d’accamparsi; sovversiva è la parola attorno alla quale il foglio dispiega il suo bianco” (Edmond Jabes)
Delicatezza, sobrietà, riflessione, denotano e persistono nelle poesie di Guglielmin. L’espressione poetica sorge da un’attenta osservazione del presente, da un vissuto che, introitato dai sensi, trasuda pensiero enucleato da uno stato profondo di meditazione che si trasferisce nei testi in un linguaggio controllato e rifinito. Sovviene nuovamente Jabes “In un mondo come l’attuale in cui la parola è pronunciata in modo sempre più altisonante, declamatorio, più si parla basso, più si è di disturbo. Sta lì la vera sovversione.”
Il misurato controllo del dettato, deposto ogni cedimento emotivo o individualista, soppressa ogni animosità o velleità, prese le distante da apologia, invettiva o assertività, ingenera alla lettura una sorta di fiduciosa certezza che il bene misteriosamente, cioè in modi in gran parte sconosciuti, si oppone ancora al male, veicolando sottotraccia – quasi messaggio subliminale – che quest’ultimo, cioè il male, sarà sconfitto, il bene trionferà, gli uomini buoni si riconosceranno tra loro nella rivelazione finale dell’autentica essenza comune.
Un’apocalisse, ma garbata, uno scempio senza dolore, senza vincitori o vinti, ma affratellati in una catarsi collettiva, quasi che si possa sperare per e sulla parola in un mondo rigenerato che riconosciutosi traviato e infetto, ricorre alla cura e splende. E’ una visione celestiale iperbolica, sognante, che investe la poesia di una funzione epica o mitica, tanto più travolgente quanto più è convincente la mano che guida il testo. Questa lettura è lontana dagli intenti dell’autore? Poco importa. E altri lettori è auspicabile decodifichino un simile messaggio? Per questa via potremmo restituire alla poesia la funzione di lettura sociale degli eventi e del mondo. L’avremmo cioè riportata al suo ruolo essenziale, assoluto, “costitutivo”? La poesia interroga, dice ancora al riguardo Edmond Jabes: “Allo stesso modo è sovversiva la domanda. Infatti chi interroga non urla mai, … La domanda è sempre al di sotto dell’urlo… La parola del libro è sovversiva: perché è una parola dal silenzio”

Caspar David Friedrich, “Viandante sul mare di nebbia”, 1918,

Di fronte agli occhi solo il testo e il testo è un orizzonte, come guardare oltre le nuvole dalla cima di un monte, nel gelo delle vette, nel distacco della solitudine, lo spirito è in ascolto, scorre il pensiero sul mondo.

La “vibrazione” che la parola trasmette alle antenne poetiche è luce di candela, fioca luce che brilla di speranza, sgusciante tra le righe di crucifige, occhieggia e non trabocca, suggerisce non grida e perciò, nel sicuro controllo della forza, più forte si dimostra dell’avversione manifesta, dell’urlo o protesta, dell’acuto stridente, dell’invettiva. E’ il volo tremendo in picchiata del falco pellegrino sulla preda senza pena. Implacabile come la natura, senza furia. La calma dello zen. Il colpo del karateka che concentra la potenza nel colpo spaccando di netto tre tavole.

niente. E la gente è fascista: volevo dirlo
anche se non serve, la gente
è feroce. Fascista e feroce, infelice.

Nel libro le poesie sono ripartite in Dispositivi del poetico e in Dispositivi della salute. Appurato che il linguaggio poetico è un dispositivo (vedi sopra Agamben) è del tutto coerente dedicare ad esso i componimenti poetici iniziali, consegna al lettore di una matura e accorta poetica.
Nella fuga della lepre, dis-ponendo insolitamente la parola sul foglio, giocando col termine corsa, sfuggendo l’io, nell’apoteosi degli infiniti sotto l’egida del distinguere, dove pensare è scarto mentre parlare rompe gli indugi e mette a repentaglio la vita. Parlare espone al pericolo. Dire come di fatto è: parla il poeta, pensa.
Il poeta deve il necessario controllo del testo nonostante il canto delle sirene (contaminati linguaggi) ha l’obbligo di scansare il trito e ritrito, l’ovvio e il retorico, di non produrre poesia quotidiana a percussione compulsivamente, ma deve dissenso vero o dispersione, indicando la via per cui “la sfida/ è amare quel buio infetto, rifondare”, raccogliere l’imo, farsene carico, indurre la catarsi: la responsabilità del poeta.
La poesia gronda rimandi, a “Ciao cari” ad esempio (precedente toccante raccolta dello stesso autore) o all’ illuminazione dell’inarrivabile Rimbaud: “io è un altro” fondante in poesia tutta la teoretica dell’alterità dell’io. Troviamo citati poeti, tra gli altri, Sereni, Poe, Baudelaire. Le citazioni contenute sono riportate in un foglio di note alla fine del volumetto.
Dispositivi della salute si apre con un omaggio a Caproni in “L’eterno ritorno” la chiusa “tornare dove non si è mai stati” richiama la chiusa di “Biglietto lasciato prima di (non) andare via” di Caproni. Non credo sia un caso che il poeta rifletta sulla transitorietà dell’essere, non solo perché scrivere poesia è inevitabilmente un continuo confronto con la caducità dell’esistere, ma in “Dispositivi” , ritengo, le recenti vicende di crisi della salute collettiva, la contiguità al pericolo, ai rimedi, alle costrizioni di tutela, non siano state ininfluenti sull’atto creativo poetico, tant’è che non manca una sorta di “ode alla mascherina”.
Scuola (vedi la poesia “Griglie di valutazione”), ospedali, cure mediche, terapie sono tutti oggetto d’attenzione del poeta. Dopamina, serotonina ossitocina elementi chimici che producono anch’essi, inoculati nell’organismo o dallo stesso naturalmente sintetizzati, effetti di condizionamento dei nostri sensi, sentimenti, reazioni, risposte biologiche, per cui l’essere umano è soggetto non solo ai dispositivi (oggetti, comandi, forze) già noti e definiti, ma il poeta rimarca che persino la chimica genera mediatori: proteine, aminoacidi, enzimi, medicinali, vaccini, tutte droghe in senso lato, cioè elementi che introdotti nel corpo ne provocano una modificazione a cui l’essere viene assoggettato, condizionando il suo fisico, le risposte del suo corpo. Input chimici quindi: dispositivi anch’essi?
“Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura.” Edmond Jabes
“Incanto”, la terzultima poesia, ha un titolo che è un gioco di parole, e snocciola con perizia una serie di intriganti quartine da marketplace, ma, in verità, corre l’obbligo di dirlo, tutto il linguaggio dei “Dispositivi” è sapiente disposizione sul foglio della parola, uso convincente soprattutto dei punti, a stoppare il respiro, in oculate cadute di ritmo, a rimarcare il senso dei finali. Greppia, infiniti, paronomasie. Magistrale la tenuta del testo. Il finale è ancora un omaggio, stavolta all’insegnamento zen. Breve capolavoro e chiusa d’opera. Come la citazione che segue, ideale prosecuzione della citazione precedente di Jabes.
Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa arriverà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante, spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze (Hannah Arendt)

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Lucy

07 martedì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

≈ Commenti disabilitati su Lucy

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colonia, Gambarie, Loredana Semantica, Lucy, Racconti

Dorotea conobbe Lucy nel 1969 alla colonia estiva montana di Gambarie in Aspromonte. Gemma, la mamma di Gisella e Dorotea preparò i bagagli delle figlie in vista della partenza per la Calabria. Gemma aveva cucito per loro freschi completi da viaggio. Comodi bermuda azzurro cielo e camicette a fiori pastello primavera. Il bagaglio era tutto in una sacca di tessuto, secondo le istruzioni. Sulla sacca erano applicate tessere di tessuto bianche, ciascuna con una lettera ricamata sopra in filo rosso, accostate a comporre i rispettivi nomi. Su ogni capo di intimo, asciugamani e magliette erano cucite simili tessere che componevano il numero di matricola assegnato. I numeri erano assegnati nella raccomandata con la quale l’E.N.P.A.S. comunicava ch’era stata accolta la domanda per l’ammissione alla colonia estiva e servivano ad associare l’indumento alla persona titolare di quel numero per non disperdere i capi al momento in cui venivano lavati insieme a quelli degli altri compagni. La partenza avveniva da Piazza Adda in pullman gran turismo. Un cinguettare festante di bambini riempiva l’aria dalla prima mattina. Nel momento in cui i pullman si avviavano, tutti a salutare con la mano, a mandare baci. Qualcuno si commuoveva.
Cominciava la vacanza vera. Già il viaggio era un divertimento. Canti, senso di avventura e libertà, giochi e risate. A Dorotea piaceva affacciarsi al finestrino e sentire l’aria schiaffeggiarle il viso, spettinarle il capelli. Il fiato mozzato dalla forza del vento.
Arrivavano a Gambarie all’imbrunire. Spesso completamente afone per aver speso tutta la voce possibile. L’edificio che le accoglieva era grande, su  tre piani, aveva muri esterni giallo chiaro, elementi in rilievo col color crema e grandi finestre. Un aspetto architettonico indeciso tra un castello e un albergo. Il corpo dove si apriva l’ingresso, con le sue scale semicircolari e gli infissi in legno e vetro, sporgeva sul grandissimo cortile ricoperto di pietrisco.
A destra e a sinistra, come ali, i restanti corpi dell’edificio. Tutto intorno alla costruzione e al cortile alberi. Ai piani superiori le camerate dove i ragazzi sistemavano le proprie cose: un comodino ciascuno, un armadio in comune a gruppi di due o tre. Maschi a sinistra femmine a destra nelle due ali dell’edificio. Rigorosamente separati. Poi c’erano il grande salone mensa, lunghi corridoi, seminterrati con le docce, infermeria, cappella e cucine. In un edificio più piccolo aggregato c’era la lavanderia. Tutti i ragazzi della colonia venivano forniti di una sorta di divisa: una gonnellina di tessuto tipo jeans leggero per le bimbe, pantaloncini per i ragazzi, per entrambi camicia azzurra, un maglione di lana blu, un cappellino modello marinaretto blu. All’interno del cappello, foderato di garza, occorreva scrivere il nome per evitare di perderlo o confonderlo con quello di altri.
All’inizio dei venti giorni di vacanza i bambini venivano controllati nel caso avessero i pidocchi. Era il momento in cui Dorotea aveva la sensazione d’essere un vitello da ingrassare. Uno per uno, dopo l’attesa in fila ordinata, entravano in infermeria, lì erano pesati e misurati in altezza. Un altro controllo veniva fatto a metà della vacanza e l’ultimo prima di tornare a casa.
Gambarie era immersa nei boschi di faggio, larice, abete bianco e di tutta la vegetazione montana dell’Aspromonte, il centro abitato di poche case disposte attorno alla piazza, dove c’erano pochi negozi, tra i quali uno di souvenir dove acquistare le cartoline da mandare ai genitori e parenti.
Anche in piena estate il clima era fresco, la sera occorreva una coperta leggera. La mattina suonava la sveglia alle 7,30. Nei bagni i lavandini erano bianchi ampi e circolari, vasche rotonde di ceramica con un cilindro centrale dal quale sporgevano i rubinetti. Da questi usciva un’acqua fredda da far rabbrividire. L’acqua calda c’era e non c’era, nel senso che prima che arrivasse ai rubinetti percorrendo i tubi, i più avevano già finito la toilette. I gabinetti alla turca erano quanto di più scomodo per i bisogni e inquietante per lo spirito, con quel buco grosso al centro che s’affossava nel nero profondo e finiva chissà dove. La giornata iniziava con tutte le squadre, così come si erano formate all’arrivo, distinte per sesso, schierate in ordine nel cortile per l’alzabandiera e l’inno. Una cosa piuttosto militare, ma che aveva un suo fascino. Composto e suggestivo Dopo, sciolte le righe, sempre sul posto un po’ di ginnastica del buongiorno.
La colazione di pane, burro, marmellata, caffelatte. I pranzi alla mensa erano niente male. A Dorotea piacevano in particolare le sogliole fritte in pastella e il pollo al forno. La cena era meno appetibile, spesso c’era pastina in brodo vegetale, per secondo un bel pezzo di svizzero o qualche fetta di prosciutto, verdure cotte e pane.
Dorotea dunque conobbe Lucy alla colonia estiva, non ricordava il momento preciso dell’incontro, ma nel corso della vacanza si accorse che la preferiva a tutte le altre compagne, non solo per giocare, ma perché sentiva ch’erano della stessa pasta, avevano gli stessi gusti, gradivano gli stessi cibi, gli stessi giochi.
Lucy aveva una sorella più grande Elena. Elena aveva gli stessi colori di pelle, capelli e occhi della sorella minore, un naso affilato, i capelli nella parte più alta aderenti alla testa, ondulati in punta, erano divisi da una riga centrale e sulla fronte tagliati a frangia. Elena era più grande, più alta, aveva già le forme di una donna e, ovviamente, altri interessi, i ragazzi innanzitutto e molti ragazzi s’interessavano a lei.
Lucy aveva anche un fratello Piergiorgio più grande di Lucy e più piccolo di Elena.
Piergiorgio era il ragazzo più corteggiato della colonia. Bruno di pelle e di capelli, un sorriso accattivante, denti bianchissimi, un bel fisico atletico, inoltre gentile, sorridente, disponibile anche con Dorotea.
Dorotea avrebbe potuto interessarsi a Piergiorgio ma per qualche ragione vederlo così desiderato e sentirlo, rispetto a sé, più grande, le faceva pensare che fosse del tutto fuori dalla sua portata. Anzi ancora più profondamente, Dorotea tendeva a stare lontano dai ragazzi. Li trovava strani, diversi. Lucy invece no. Lucy era bellissima. Una pelle ambrata perfetta, liscia compatta senza un difetto, gli occhi grandi verdi, due smeraldi nel viso. I capelli erano una danza di onde bionde. Del colore del sole, delle spighe dorate, accendevano il volto, splendevano di giorno, illuminavano la notte.
La vacanza in colonia scorreva in modo alquanto monotono, la mattina dopo la ginnastica e la colazione, passeggiata tra i boschi nei dintorni, tutti in fila per due ben accosti al bordo strada, alcune giovani maestre erano incaricate della sorveglianza e vigilavano ciascuna sul proprio gruppo composto da venti persone circa. Si cantava per ingannare il tempo durante il cammino, spesso i canti della resistenza oppure “Lo sciatore” o “La macchina del capo”, le preferite dai ragazzi. Sosta in qualche punto spianato e circoscritto per permettere il gioco. Ritorno agli alloggi. Dopo il pranzo e il riposino, altra passeggiata più breve, oppure visita a Gambarie o giochi nel cortile. Occasionalmente i Capigruppo organizzavano una giornata di giochi a squadre, tornei di ruba bandiera, partite di pallone per i maschi, la visione di un film nella sala di proiezione, gare canore nelle quali Lucy mostrava le sue doti perché era intonata e aveva una bella voce. Un giorno le chiesero di cantare il suo cavallo di battaglia, un successo del momento: “Un mondo d’amore” di Gianni Morandi.

C’è un grande prato verde
dove nascono speranze
che si chiamano ragazzi
Quello è il grande prato dell’amore

Uno : non tradirli mai,
han fede in te.
Due : non li deludere,
credono in te.

Tre : non farli piangere,
vivono in te.
Quattro : non li abbandonare,
ti mancheranno.

Quando avrai le mani stanche tutto lascerai,
per le cose belle
ti ringrazieranno,
soffriranno per li errori tuoi.

Grande interpretazione. Gli ascoltatori disposti tutt’intorno in cerchio applaudivano.
L’amicizia tra Lucy e Dorotea intanto cresceva, non con episodi particolari, ma nel quotidiano farsi compagna delle giornate di vacanza, per semplice vicinanza. Dorotea tuttavia si era resa conto che l’affiatamento con Lucy rendeva quest’ultima la sua migliore amica. Quando le era vicina si rallegrava, aveva voglia di scherzare, si animava. Sentiva che insieme avrebbero potuto essere una forza, un’alleanza. Nessuno avrebbe potuto spezzare il cerchio magico che le univa. Forte, luminoso, capace di allontanare amichette dispettose, noia, malumori e pericoli. Come i serpenti che abitavano il bosco e potevano saltare su da qualche mucchio di foglie o pietra, come le bacche che non bisognava mangiare perché facevano venire il mal di pancia. Come le macchine che passavano vicine o il burrone oltre il ciglio della strada. Una specie di talismano contro i tanti pericoli dei monti.
Dorotea e Lucy giocando inventavano storie fantastiche dove l’immaginazione galoppava tra fate, cavalieri, draghi da sconfiggere, oppure di ordinaria quotidianità di genitori, figli scuola, cucina. Terra, foglie, pietruzze e fili d’erba erano d’aiuto per preparare le pietanze da impiattare. Con i grani che crescevano sulla pagina superiore della foglia di un arbusto montano fabbricavano bracciali e collane. Queste escrescenze vegetali avevano le dimensioni di un chicco di farro e la particolarità di diventare col tempo legnosi, un canale naturale nel senso della lunghezza li rendeva sostanzialmente cavi, si prestavano perciò ad essere inanellati in collane. Le ragazzine li chiamavano “coralli” e c’era tra loro un fitto scambio di questi “preziosi”.
Verso la fine della vacanza ci fu un colpo di scena. Arrivarono i genitori di Lucy. Erano venuti a trovare i figli, ma visto che mancavano due giorni alla fine della vacanza, avevano deciso di portarli via con loro. Dorotea si dispiacque molto di non poter fare il viaggio di ritorno con Lucy, ma avendo scoperto che proveniva dalla stessa sua città le chiese il numero di telefono e le scrisse il suo su un biglietto, con la promessa reciproca di sentirsi.
La cosa più singolare per tutti però fu vedere piangere Elena, davvero scossa da questa frettolosa partenza. Per intercessione delle vigilanti si ottenne che Elena al di fuori delle regole della colonia si recasse pochi minuti nel dormitorio dei maschi per salutare Marco. Dorotea non conosceva gli intrecci relazionali tra i ragazzi più grandi e non capì il perché di tanta commozione. Cioè non le sembrava possibile che qualcuno potesse affezionarsi così tanto a una persona da giungere alle lacrime.
Pochi giorni dopo il ritorno a casa dalla vacanza Dorotea decise di telefonare a Lucy. Dapprima al numero che Lucy le aveva dato non rispondevano affatto. Lucy pensò ci fosse un errore e volle controllare sull’elenco telefonico, senza esito. Doveva essere un numero segreto. Poi finalmente ad un successivo tentativo qualcuno rispose, era Piergiorgio, ma le disse che Lucy non c’era, un’altra volta rispose Elena, tuttavia Lucy non la richiamava, sebbene Dorotea lasciasse detto di farlo. Provò a chiamare un’altra volta, un’altra ancora, fino a quando sentì con le sue orecchie dall’altro capo del telefono proprio la voce di Lucy dire alla sorella di riferirle che era uscita.
Dorotea capì, o meglio non capì, fu la sorella maggiore Gisella a spiegarle che Lucy non la voleva più per amica. Dorotea continuò a non capire, ma imparò il rifiuto. Continuò a non capire per anni e anni. Si era convinta che Lucy fosse di una famiglia altolocata, che non poteva coltivare amicizie ordinarie. Una specie di contessina o principessa, la figlia di un agente segreto o di un altissimo funzionario.
Ogni tanto, mentre diventava una giovane donna amabile e graziosa e poi madre e poi adulta, mentre invecchiava, ripensava alla vicenda. Continuò a non capire, e nonostante il tempo passasse, non trovò risposte o soluzioni. Non incontrò più Lucy. Come se non vivessero nella stessa città. Gli interrogativi stagnarono nella mente senza risposte. Si chiedeva quale fosse la macchia, la mancanza o l’errore che aveva commesso, cercava un possibile perché, ma si rendeva conto che tutti poi convergevano in una sola domanda, come una spina: in quale universo si fosse disperso, in quale anfratto si fosse nascosto il suo “mondo d’amore”.

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Rethorica novissima di Gualberto Alvino. Una lettura di Loredana Semantica

05 giovedì Mag 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Gualberto Alvino, Loredana Semantica, poesia contemporanea, recensione, Rethorica novissima

Rethorica_novissima_Gualberto_Alvino - Irelfe - cop.fronte

Ci sono letture più sfidanti di altre. Non solo da intendere come lettura del testo, riga dopo riga, fino alla sua fine, ma anche nel riferirne impressioni da lettore. L’opera Rethorica Novissima di Gualberto Alvino è tra queste. Si tratta di una raccolta di poesie, pubblicata nel 2021 dalla Casa editrice “Il ramo e la foglia”. Uno scritto che non lascia indifferenti. Impegnativo sarebbe aggettivo adatto, ma non sufficiente per chiarirne corpo e complessità. 
In premessa occorre dire che Gualberto Alvino è noto e stimato filologo e critico letterario. Già per solo questo fatto, è presuntuoso pensare di penetrare pienamente il senso poetico del suo degnissimo lavoro,  questo tuttavia sembrerebbe più un libro destinato agli “studiosi di poesia” che agli “amanti della poesia”. Non per niente in fine è riservata una pagina bianca per le note.
L’opera di Alvino già dal titolo presenta un’inclinazione decisamente colta. “Rethorica” con slittamento della muta nel cuore, piuttosto che con l’ortografia “Rhetorica”, è un chiamare in causa la retorica, cioè, insieme a grammatica e dialettica, una delle discipline d’insegnamento cardine delle scuole antiche medievali. Le origini di questa parola, già presente presso i latini, risale alla civiltà greca e alla sua ῥητορική, tecnica della parola, dalla radice del verbo εἴρω, eírō dico. L’aggettivo “novissima” superlativo dell’aggettivo latino novus declinato al femminile singolare concorda con la parola retorica e non può non riportare alla mente “i Novissimi”, Alfredo Giuliani, gli anni sessanta e lo sforzo delle neoavanguardie di rigenerazione del linguaggio poetico. L’opera s’intitola quindi Retorica nuovissima. Il titolo introduce al contenuto non meno della citazione di Proust posta al principio dell’opera riguardo alla necessità dello scrittore di farsi una propria lingua, similmente al violinista col suono.
“Rethorica novissima” è quadripartita ed ogni partizione raccoglie i testi secondo caratteristiche eminentemente formali espressive, raggruppate da un minimo di 4 componimenti – “Epigrammi” – ad un massimo di 12 componimenti  di “Salvo trasgredir norma”.
Quest’ultima, prima e più sostanziosa sezione, probabilmente è il canto a cui giunge il poeta seguendo il filo degli intenti dichiarati. Più oltre invece sembra che egli esponga il necessario attraversamento – deragliamento per giungere alla propria voce. Il titolo della prima sezione è, ritengo, la dichiarazione consapevole di contrapporsi al canone.
Aliena dal lirismo coltivato da secoli nella poesia, la poesia di Alvino si presenta in controtendenza rispetto al “poetichese” dominante, lo squalificato linguaggio poetico del nostro tempo intriso di sentimentalismi, farcito d’ego, con pretese di liricità, ma più spesso sconsolatamene privo di qualunque barlume di grazia poetica, ripetitivo, noioso, artefatto. L’autore nell’esacalogo per aspiranti poeti precisa “cos’è sbagliato in poesia”. Sono indicazioni che esprimono una critica al modo di far poesia oggi e che lette a contrariis verbis indicano gli elementi innovativi da introdurre nel linguaggio. Obiettivi:
• svincolarsi dalle connotazioni spirituali-auliche-vaticinanti
• sconfessare un ruolo sacro del testo
• eliminare parossismi e verticalizzazione del dettato, concedendo spazio ad asprezze sonore
• spogliarsi dall’enfasi autocelebrativa
• disporre accapo ad arte anche spiazzanti.
L’operazione di creare un proprio suono/lingua, può dirsi riuscita, ma non immediatamente percepibile. Le poesie infatti non poggiano volutamente il proprio dettato sull’”accattivante” del linguaggio: musicalità, nenia, refrain, paronomasia, assonanze ecc. e si delineano con le connotazioni dichiarate nei punti sopra riportati, per cui i tempi e suoni all’orecchio giungono asincroni e dissonanti. 
Riporto la seconda parte della poesia il cui titolo è lo stesso dell’intera raccolta.

“è indispensabile una conoscenza dell’evoluzione semantica
i vocaboli diventano specifici quando si applicano
termini generici a oggetti individuali resta il fatto
inoppugnabile che il significato di una parola
è indipendente dal suo etimo inutile dire
ci aiuta a conoscere la sapienza questo sì
e la poesia celata nelle radici nelle desinenze
a cercare nelle lingue i monumenti
degli abiti remoti e delle credenze
il criterio per distinguere i vocaboli affini
le variazioni di suono e senso
son cosa capitale a conoscere
oh se potessimo scordare le origini tutte”

Singolare leggere lo stesso passo disposto sul foglio come prosa. 

“è indispensabile una conoscenza dell’evoluzione semantica i vocaboli diventano specifici quando si applicano termini generici a oggetti individuali resta il fatto inoppugnabile che il significato di una parola è indipendente dal suo etimo inutile dire ci aiuta a conoscere la sapienza questo sì e la poesia celata nelle radici nelle desinenze a cercare nelle lingue i monumenti degli abiti remoti e delle credenze il criterio per distinguere i vocaboli affini le variazioni di suono e senso son cosa capitale a conoscere oh se potessimo scordare le origini tutte”

Si evidenzia maggiormente che gli accapo sono risultato di una scelta stilistica che mira a frangere il testo, costringendo il lettore a riprendere fiato in modo non consueto, non punteggiato, sfumano i disseminati enjambement spiazzanti. Mi tornano alla mente le esperienze di lettura passate dei testi di Eminia Passannanti e Marco Saya, animati da analoghi intendimenti antilirici, la prima per volere di contrasto alla “poesia dell’anima”. Il secondo per l’orecchio allenato alle sonorità del jazz.
La poesia della raccolta mantiene quanto promette: eminentemente antimelodica, non indulge in sentimentalismi, non conduce alcuna indagine psicologica, nessun scadimento confessionale o incursioni nell’intimismo, non è poesia emozionale come la s’intende spesso ed erroneamente da poeti giovani e meno giovani che animano l’attuale scena letteraria, non si specchia narcisisticamente, non si affligge, non si esalta, non piange, semmai osserva, ricorda, riporta, analizza, squarta. Sperimenta e scarta.
Proseguendo la lettura di “Rethorica novissima”, passando per “Epigrammi” – quattro distillati critico satirici – si giunge alla parte intitolata ”Humanitas”. Qui ci si rende conto che, senza un minimo di studi classici, la lettura si complica, la successione delle poesie, per quanto preminentemente descrittive e scientifiche, decisamente mitraglia la comprensione di chi non ha frequentato Catullo o Cicerone nella lingua originale. Il contenuto è talvolta scabroso, vestirlo di latino non maschera la minuzia dei vestiboli. Approfondisce il senso nella carne, non risparmiando genitali di entrambi i sessi. Sarebbe già sufficiente per qualunque stomaco poetico reggere tanta corporea ostentazione “fisica” e culturale, nel senso che qualunque lettore – o meglio il lettore qualunque – che non sia stato già scoraggiato in precedenza dalla scelta di preferire il latino lo sarebbe adesso per il vestito di perbenismo che molti indossano e del quale non riescono a spogliarsi, se non facendosi violenza. Questi testi raccontano gli organi, i corpi, le porzioni, i vasi, gli arti, essi vengono sezionati come avviene sul tavolo di un esaltato anatomopatologo, come fa Leonardo da Vinci per la conoscenza propria e altrui in preda alla furia di scienziato. Stare chini su ossa e legamenti, liquori e liquami e dire quello che avviene, taglio e ritrazione. Effetti dissoluzioni.
I più probabilmente preferiscono provare tali livelli di emozioni nel genere strappalacrime oppure applicati a youporn o ai film horror. E’ in una parola una lettura “sconvolgente”. C’è da ammettere che dalla poesia, ritenuta dai profani deputata a esprimere emozioni, da meno profani a provocare emozioni, dire (in) poesia qualcosa che riesce a provocare questa risposta ir-razionale è un risultato eccellente.
Metaforicamente, anzi per similitudine, “Humanitas” racconta ciò che avviene con i testi, quando si studiano approfonditamente, quando la filologia o la semantica si applicano a tutte le a, e, i, o, u delle parole. Scarnificandole fino al midollo, cercandone l’etimo e la radice, riconoscendone desinenza e origine. Senso, segno, significato, grafema. Misurando tutte le possibili “geografie” del suono. Affettando consonanti, lemmi, la loro polpa, il fegato, estraendo i loro denti.

“Autopsia”, Enrique Simonet, 1987, noto anche col titolo “Aveva un cuore!”

Infine c’è la quarta sezione “Varianti formali”. In questa parte della “Rethorica novissima” il linguaggio, come comunemente inteso, è stravolto. L’operazione di “interpretazione”, è messa continuamente in scacco, ancor più di quanto non avvenga in precedenza, e il lettore si arrende all’evidenza, che la parola espressa non può essere compresa come avviene solitamente nella comunicazione. Incomunicabilità e rescissione, dissoluzione e frammentazione sono coordinate del  “sorvegliatissimo” testo. La lettura deve avvenire accantonando i normali strumenti di decodificazione del linguaggio parlato e scritto. Gli occhi singhiozzano tra le sconnessioni sintattiche, i salti, le obliterazioni, il verso crolla alla sua fine, il senso affonda appresso, è un groviglio caotico. Al contempo questo magma verbale si intuisce essere come il brodo da cui, per sgrammaticature, segni grafici, numeri, caratteri corsivi, richiami tecnologici e rovi si perviene a estrarre il neonato, appena prima che venga gettato insieme all’acqua sporca, vestito d’amnio, quando non sguazzante nel meconio, senza nessuna camicia. Dentro la lingua, fino al suo cuore, come una dannazione pervicace e disperata insieme.

Perché se è vero che “la poesia può comunicare ancora prima di essere compresa” (Thomas Stearn Elliot), allora sembra di leggere qualcosa espressa dalla mente di qualcuno reso folle. Folle d’amore per la parola. 

“non saprei ma sia chiaro fin d’ora
che lo sconfinato amore per la lingua
rivendico il diritto d’affermare
in piena scienza e coscienza
è il primo movimento d’un percorso
florebat olim
a raggiera in mille direzioni
che ne sarà del ciliegio?”

da “Pepe” in “Varianti formali”

Eppure nell’atto dello scrivere – non meno del leggere –  non si può non riconoscere con Giorgio Caproni che” Nessuno è mai riuscito a dire/cos’è, nella sua essenza, una rosa” senza con ciò intendere che si debba desistere dal tentativo, anzi tutt’altro, e ciò finché permangono l’incanto, il bisogno, l’osservazione, le percezioni, lo  stupore, gli interrogativi. L’ esperienza individuale, il personale orizzonte esistenziale proiettano necessariamente nell’espressione poetica la propria “visione” della lingua (che dice) del mondo. “Io vedo il mondo come un caos e nel centro una rosa” (Julio Cortazar). Nonostante il lucido controllo del dettato, emerge dal conato del dire il parossismo che pervade, se non il singolo testo, comunque nell’insieme un’opera, che, in quanto autenticamente poetica, tenta con ogni mezzo verbale l’impossibile. D’altra parte come non pensare a quanto diceva di sé Pablo Picasso “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”.
Deliziosa la dedica iniziale. La piccola pasta di zucchero, con apposizione felice, ne sarà lieta. La benedizione degli affetti, uno spaccato di tenerezza.

 

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“Ode alla madre” di Mariangela Ruggiu. Una nota di lettura di Loredana Semantica

30 mercoledì Mar 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Loredana Semantica, Mariangela Ruggiu, Ode alla madre, Recensioni

Mariangela Ruggiu, è poetessa sarda della quale leggo spesso in rete poesie che condivide generosamente, già intervistata da Limina mundi qui, in occasione della pubblicazione de “Il suono del grano”, Mariangela mi ha fatto gentile omaggio della sua raccolta “Ode alla madre”.
Ricevo volentieri “Ode alla madre”, per la grazia della confezione, piccola silloge pubblicata per i tipi di Terre d’ulivi Edizioni, nella Collana di poesia 15×15. Il nome della Collana – appare evidente – si riferisce proprio alle dimensioni del libretto, che si caratterizza per l’eleganza dell’elaborazione grafica di copertina, ma ancora di più per il fatto d’essere a sagoma quadrata di quindici centimetri per lato. Il libretto trasmette un senso di semplicità che anticipa e introduce alla lettura di altrettanta sobrietà di versi contenuti nella raccolta. Si tratta di diciannove poesie – a confermare una certa propensione editoriale a preferire raccolte brevi – “titolate” con primo verso del componimento. In verità il primo verso, posto in cima al componimento è in carattere grassetto, come se si trattasse di un titolo, tuttavia, non essendo poi ripetuto successivamente nel corpo della poesia, nonostante il carattere grassetto, in effetti non è un titolo, ma l’incipit.
Nella lettura della poesia di Mariangela, si riconosce che il suo versificare appartiene alla Sardegna al suo modo chiuso e luminoso d’essere isola. Appartiene alle cose buone di una terra naturalisticamente stupefacente. Buone come il grano e la mietitura, buone come il fragore delle onde, il sole che matura i frutti, il vento che soffia iodio e salsedine. Una poesia che fa della dimensione umana dell’essere l’architettura, e dell’appartenenza alla natura la chiave di lettura. Secondo l’autrice non può pienamente comprendersi l’essere uomo se non passando dalla comprensione piena del concetto che egli è creatura tra le creature, complessità dentro l’Unicità, se non compiendo quindi l’atto necessario di umiltà di riconoscersi tutti appartenenti al consesso dei viventi e del creato. Da questa consapevolezza scaturisce una poesia di profondo sentire, d’analisi dei sentimenti, afflizione, compartecipazione per la condizione di sofferenza del singolo o collettiva di profughi, naufraghi, reietti, aggrediti, umiliati. L’osservazione partecipata della prostrazione degli ultimi si traduce in un’esortazione al superamento degli iati e conflitti attraverso la comunanza della fraternità, l’invocazione dell’amore, l’indicazione a fare della speranza la stella polare universale, la bussola del proprio agire. Poesia dei buoni sentimenti, dunque, di chi nel dolore supera, nella pace riflette, nella poesia denuncia, stucca le crepe, offre conforto, ritrova il senso dell’appartenenza, indica la bellezza.
Queste stimmate della poetica sono una sorta di naturale conseguenza dell’essere poetessa isolana immersa nel mondo e tradizioni della sua terra, un mondo che affonda le radici nella pietra, soda, compatta che tiene saldamente la materia come àncora, rispetta la natura, la sua ricchezza e sacralità. Luogo dove si tramandano il senso di rispetto della terra, e nel farsi comunità un ‘esigenza  per superare le difficoltà di sopravvivenza, di permanenza, l’ imprescindibile punto di forza contro le avversità della sorte e dei fenomeni.
La cifra stilistica della poesia della Ruggiu potremmo definirla di semplicità ispirata. Certamente avviene nel processo creativo di questa autrice una ricognizione profonda dell’esperienza e della memoria che porta alla luce pensieri autentici, genuini. Essi emergono dall’amnio dello spirito ammantati di verità e freschezza. Non è presente nei testi alcun compiacimento erudito, lo stesso periodare è breve e composto, solo segni di punteggiatura forti, nessuna virgola, rare parentesi, la spaziatura differenziata tra le righe concorre a separare i versi e scandirne il tempo. I lemmi scelti sono piani provengono da linguaggio usuale e delicato, quasi la poetessa intenda essere massimamente comprensibile al lettore, portatrice di un messaggio essenziale e trasparente. Un versificare sotto l’egida della chiarezza, puro, sfrondato da orpelli eruditi, citazioni colte, figure retoriche, ricco di umanità. Un poetare tanto lontano da voli criptici quanto dall’oscurità del trobar clus. L’ atteggiamento è introspettivo e al contempo alieno da complessità superflue, da abbandoni alla disperazione, allo sconforto, piuttosto improntato alla saggezza antica di una cultura forte, pragmatica.
Ode alla madre si muove nelle stesse coordinate e rappresenta ciò che dice nel titolo, un componimento di lodi e di omaggio per la madre – presumibilmente la madre dell’autrice – esprime il legame amorevole con la figura materna, l’esaltazione del suo ruolo di genitrice, la veste di guida, maestra di vita e veicolo di sapienza da tramandare.
Si avverte nella scelta terminologica dei componimenti la predilezione di riferimenti al corpo, alla fisicità/carnalità di un rapporto: mani, cuore, parto, pelle, grembo, corpi, occhi, abbraccio, baci; alla sfera dei sentimenti e degli affetti familiari: amore e dolore principalmente, ma anche tenerezza, pianto, madre, figlia, sorella; alla terminologia rurale/vegetale: seme, grano, pane, spine, con attenzione ai fenomeni della natura e all’avvicendarsi delle stagioni.
La maestria del pane, è espressione che riferisce con estrema sintesi tutta una filosofia di generosità produttiva, di sapienza laboriosa, cura, artigianalità, risposta al bisogno di nutrimento. 
Si percepisce nell’ode la pena del travaglio, la commozione, la nostalgia dei ricordi, l’ineluttabilità dell’assenza, l’accompagnamento verso l’oltre. Appartiene all’eredità di figlia, quest’ultima diventata madre a propria volta, il riconoscimento nei figli delle forme di volti cari ormai scomparsi: lo stesso naso, gli stessi occhi, il che dà pienamente il senso del lascito, dell’unico vero lascito costituito dai genomi, una treccia elicoidale che da padre e madre a figlio o figlia trasferisce nell’impercettibile, nell’infinitesimale un corredo infinito di informazioni di carne e sangue e forse anche molto di più di ciò che crediamo. Anche impensabili esperienze immagazzinate in modo non ancora noto e soltanto ipotizzato, ma che ci fanno consapevoli d’essere selezione di selezione, l’approdo di tutto un tramandare.
Tra tutte riporto la seguente toccante poesia, rispettando la formattazione della stampa, col primo verso in carattere grassetto, per come ho accennato in premessa.

vai
tu che sei la mia carne e sangue
e i capelli bianchi

tu che sei i miei occhi di pietra
i miei silenzi i gesti muti

e sei il dolore dello strappo
la gioia di averti avuto
madre compagna e seme

sei oltre i limiti del tempo
e sorridi negli occhi dei miei figli

e risuona nello spazio dei silenzi
il tuo nome

 

Loredana Semantica

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Ciao Monica

10 giovedì Mar 2022

Posted by Loredana Semantica in Cinema, Grandi Donne, PERSONAGGI, SPETTACOLO

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Grandi Donne, Loredana Semantica, Monica Vitti

Poco più di un mese fa, il 2/2/2022, a Roma è scomparsa l’attrice italiana Monica Vitti, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli. Premiata con 5 David, 12 Globi d’oro, 3 Nastri d’argento. Sebbene poco nota ai più giovani perché ritiratasi a vita privata da circa vent’anni, è una figura rappresentativa del cinema italiano nel mondo, non meno di Sofia Loren, Claudia Cardinale, Gina Lollobrigida, Mariangela Melato.  

Attrice di cinema e mattatrice della commedia italiana, versatile e talentuosa, capace di essere considerata al pari di attori quali Alberto Sordi, Marcello, Mastroianni, Nino Manfredi, cioè di figure maschili  che hanno dominato la scena cinematografica degli anni 60-80.

Maria Luisa Ceciarelli divenne Monica Vitti nel 1953, ispirandosi al cognome della madre, Vittigli, scegliendo un nome che aveva letto poco prima in una rivista, seduta a un bar vicino a casa. In un nome può esserci un destino? Sarebbe stata ugualmente famosa mantenendo il nome anagrafico?

Di certo più del nome determinante nella sua carriera fu l’incontro col regista Antonioni che la proiettò nell’universo cinematografico di successo. Senza quell’incontro e, forse, anche senza quel nome Monica Vitti sarebbe rimasta una qualunque Maria Luisa Ceciarelli. Personaggio talentuoso in cerca d’autore. O forse all’inverso il cinema di Antonioni non avrebbe brillato ugualmente senza la musa ispiratrice di Monica Vitti.

In un’ intervista nel 1963 condotta da Oriana Fallaci  la stessa Monica racconta il momento topico della rinominazione:

“Il mio vero nome è Maria Luisa Ceciarelli. Fino all’Accademia fui la Ceciarelli. Poi Tofano mi propose di diventare attrice giovane nella sua compagnia, di fare Brecht, Molière, e mi disse: “Guarda il nome che hai non è mica tanto da attrice, lo devi cambiare”. Allora io sedetti al tavolino di un bar e mi misi a studiare il nome.”

“Ora sono talmente Monica Vitti che mio padre e mia madre mi chiamano Monica anziché Maria Luisa ed io, quando devo firmare Ceciarelli, mi sento a disagio: quasi firmassi col nome di un’altra.”

Con un gioco di parole Vitti d’arte, vitti d’amore  è stato intitolato un film documentario promosso e trasmesso dalla Rai in anteprima presentato al Festival del cinema di Roma del 2021 per il novantesimo compleanno dell’attrice. Nata a Roma il 3 novembre del 1931, Monica ha vissuto a Messina e a Napoli. Proprio qui durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, comprese che la recitazione era la sua strada, inscenando rappresentazioni per distrarre gli altri bambini nascosti nei rifugi.

Tornata a Roma studiò recitazione e intraprese la carriera d’attrice. Con i maestri Silvio D’amico, che la indirizza a ruoli drammatici shakespeariani, e Sergio Tofano, che coltiva il suo lato istrionico, compie la sua formazione.

Monica da piccola era soprannominata dai familiari “Setti vistini”, cioè sette sottane (reminiscenza del periodo vissuto in Sicilia), per l’abitudine a indossare più indumenti uno sull’altro a causa della sua freddolosità.

Non era soltanto freddolosa Monica, non si allontanava volentieri dall’Italia e, quando lo faceva, non vedeva l’ora di tornare, soffriva le limitazioni imposte dalla popolarità che le impedivano una vita normale da persona sconosciuta, non amava i viaggi in aereo, il che ha sicuramente limitato la sua mobilità, ma non le ha impedito di lavorare con registri di livello internazionale, affermandosi come attrice, misteriosa, stralunata, ironica, spaesata, ironica, brillante, caratterizzata da bellezza, freschezza, grandi occhi e grande bocca, splendide gambe e da una voce roca, pastosa, particolare e indimenticabile, anticonvenzionale. Monica Vitti era diva e, al tempo stesso antidiva, non esaltandosi per il ritorno del successo, contrapponendosi per queste sue caratteristiche ai canoni estetici predominanti delle star.

La sua stella sorse nell’arco temporale dal 1960 al 1964. In quegli anni, diretta dal registra Michelangelo Antonioni che ne divenne anche compagno nella vita, Monica Vitti recitò ne L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso. Quattro film passati alla storia della cinematografia come tetralogia dell’incomunicabilità. Monica recita in ogni pellicola con ruolo di protagonista o coprotagonista, mettendo in luce il suo talento recitativo drammatico.

Preceduto da altri film nel filone della commedia italiana quali La cintura di castità e Ti ho sposato per allegria, di lì a poco segna una tappa importante della carriera di Monica Vitti il film “La ragazza con la pistola” del 1968 diretto da Mario Monicelli. La pellicola ottenne un grande successo di pubblico e consacra la Vitti grande attrice del cinema italiano, dotata di versatilità capace di sostenere con uguale disinvoltura sia ruoli drammatici che comici.

Nel film si racconta la storia di una ragazza siciliana Assunta Patanè, sedotta a abbandonata, caparbiamente determinata a vendicare il suo onore uccidendo l’uomo che l’ha disonorata, con questo scopo lo insegue in Inghilterra. La protagonista infine abbandona l’ intento, avendo compreso in un ambiente più emancipato che si può vivere con onore anche senza vendetta.

Nel video seguente Monica Vitti intervistata all’apice del successo, parla di femminismo, del rapporto con la madre rispondendo alle domande del giornalista Enzo Biagi

In linea con la dichiarata posizione femminista l’attrice preferiva interpretare nei suoi film personaggi femminili  problematici, nevrotici, fragili, rivestendo ruoli drammatici e comici al contempo, che suscitavano riso e commozione, in una recitazione naturalmente ambivalente, speculare.

Le sue donne manifestano il disagio conseguente alla ricerca di emancipazione in una società che le vorrebbe ancora imbrigliare in stereotipi di genere, portatrici pertanto di un disadattamento interiore  trasfigurato in chiave ironica e manifestato in una recitazione personale svagata, alienata, esuberante estremamente lontana da divismi, mitizzazioni e superficialità.

Sebbene le figure che interpreta siano spesso vittime della misoginia o del maschilismo, persino nel senso di subirne la violenza fisica, esse non appaiono mai sconfitte, mai domate e anche quando soccombono, lo fanno con la dignità di chi rivendica  fino all’ultimo la propria essenza e personalità, all’insegna dell’autoironia e senza chiedere o suscitare pena, al più tenerezza, senza indulgere nemmeno nel patetico e nell’ autocommiserazione, inducendo piuttosto al sorriso, nella velata irriverenza ad una società italiana consegnata prevalentemente a mani maschili. Per questa sua singolare capacità di interpretare le contraddizioni sociali del proprio tempo Monica Vitti conquistava sia gli uomini che le donne.

Ricercata da registi internazionali quali l’ungherese Miklós Jancsó che la diresse ne “La pacifista” del 1970, lo statunitense Michael Ritchie regista di “Un amore perfetto o quasi”, Jean Valère che la volle ne “La donna scarlatta”  del 1969 , Luis Buñuel  regista de “Il fantasma della libertà” del 1974, e André Cayatte  per il quale nel 1978 ha recitato in “Ragione di stato”. Ha recitato tra gli altri con Alberto Sordi in “Polvere di stelle” e “Io so che tu sai che io so”, con Marcello Mastroianni in “Dramma della gelosia”, Vittorio Gassman in “Camera d’albergo di Monicelli”. Col regista Massimo Russo ha recitato in “Flirt” del 1983 e “Francesca è mia” del 1986, questo rappresenta un caso di persecuzione da stalker ante litteram, culminato in omicidio.

In questo breve video la naturale verve comica dell’attrice si esprime, come lei stessa, amava dire, con la tipica serietà della grande tradizione comica italiana da Petrolini a Totò.

Monica è stata anche regista nel film Scandalo segreto del 1990, da lei stessa scritto e interpretato. 

Sentimentalmente, dopo la relazione con Michelangelo Antonioni e una storia col direttore della fotografia Carlo Di Palma, nel 1983 Monica Vitti si legò al regista Massimo Russo che ha sposato nel 2000. Il marito le è stato accanto fino alla scomparsa, tutelando la sua immagine da curiosità e paparazzi, permettendole la dignità di vita che richiede la cura di una malattia degenerativa.

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My valentine

14 lunedì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in SINE LIMINE

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Loredana Semantica, poesia

Buon S. Valentino

con la poesia “Filosofia dell’amore” di Percy Bysshe Shelley

Le fonti si confondono col fiume
i fiumi con l’Oceano
i venti del Cielo sempre
in dolci moti si uniscono
niente al mondo è celibe
e tutto per divina
legge in una forza
si incontra e si confonde.
Perché non io con te?

Vedi che le montagne baciano l’alto
del Cielo, e che le onde una per una
si abbracciano. Nessun fiore-sorella
vivrebbe più ritroso
verso il fratello-fiore.
E il chiarore del sole abbraccia la terra
e i raggi della Luna baciano il mare.
Per che cosa tutto questo lavoro tenero
se tu non vuoi baciarmi?

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“Zebù bambino” di Davide Cortese. Una lettura di Loredana Semantica.

20 giovedì Gen 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Davide Cortese; poesia contemporanea, Loredana Semantica, recensione, Zebù bambino

“Zebù bambino” è una silloge di ventuno poesie scritte da Davide Cortese. La raccolta, appena pubblicata da Terra d’Ulivi Edizioni, inaugura la collana “Deserti luoghi” diretta da Giovanni Ibello.
Le poesie sono brevi e si leggono tutte d’un fiato con la curiosità di scoprire la successiva avventura del piccolo demonio. Scrivere del diavolo senza scrivere del male non è cosa da tutti, eppure, mi sembra, Davide ci riesca bene. Già dal titolo stesso della raccolta: Zebù, vorrebbe contrapporsi e rivoltare in negativo la parola Gesù, ma ne esce fuori un nome, grazioso anche più del nome ispiratore.
Zebù bambino induce il lettore, se così possiamo dire, in tentazione di compiere la prima cattiva azione, quella di non soffermarsi sulle parole, sui versi della silloge, in altri termini di non meditare e maturare il pensiero poetico espresso, facendo ricorso alla pazienza del pensatore, ma di consumare i testi golosamente, come piccole caramelle frizzanti e intriganti.
Davvero però non direi questo un male, anzi dimostra che l’esposizione dell’infanzia diabolica ha la sua “ac-cattiva-nte” grazia, trasfusa nella leggera malia del ritmo che cattura, nell’assonanza sdrucciola di certe chiuse con echi d’accento speculari ai nomi chiave Gesù e Zebù e altre allitterazioni sparse.
Il demoniaco qui è serpeggiante, non manifesto, si nasconde, è accennato, mascherato, sembra trattenuto sull’orlo della promessa di un futuro che, svincolato dall’es e dal super-io, si farà grande, si manifesterà in azioni più eclatanti, più dichiaratamente malvage. Tuttavia non vi sono certezze di epifania, anzi al contrario molti sono i segni che il piccolo diavolo resterà piccolo in eterno.
Un segno è che Zebù si giustifica, si difende, è avvocato di se stesso nel suo j’accuse verso gli uomini, maestri di cattiveria.

A chi aspramente lo rimprovera
per qualche suo scherzo atroce
“L’ho imparato dagli uomini”
ogni santa volta dice.

C’è un vaglio morale in questa spiegazione. Riconoscere l’azione cattiva, imputarla a responsabili diversi da se stesso, significa prendere consapevolezza che il gesto è letto negativamente dal consesso dei “valutatori”. Coloro che esercitano il loro potere sul piccolo Zebù, rimproverandolo aspramente, si sentono quindi rispondere che sono gli uomini a commettere azioni riprovevoli e nel commetterle le insegnano a chi ingenuo, alle prime armi in fatto di cattiverie, non sa ancora farne. Zebù quindi è bambino, tabula rasa e per questo stesso anche innocente emulatore dei cattivi autentici: gli uomini adulti.
Non so quanto la risposta del piccolo si ascriva alle idee sulla bontà innata dell’uomo di Rosseau, ma, del resto come dargli torto, pensando all’importanza innegabile del cattivo esempio e all’effetto di condizionamento.
Un altro segno che induce a credere che il malvagio resterà eterno infante è il pianto di Zebù. E’ un pianto di tristezza, di infinita solitudine per la malinconia di un pensiero che predomina su tutti gli altri, che può essere il bisogno di amore, la ricerca di conforto o di consolazione, lo scorno di una malefatta malriuscita oppure scoperta. L’acquisita consapevolezza dell’errore, la dannazione pirandelliana dell’essere nato. E allora “nel silenzio che fa spavento”

Lacrima zolfo, il piccolo Zebù
gocce che sfrigolano
cadendo giù.

Tra i pregi della raccolta indubbiamente l’originalità. Chi altri ha indagato l’infanzia del diavolo? Lo stesso autore sottolinea che non è mai stata in precedenza materia poetica. Certo verrebbe di pensare che erroneamente non si è posta sufficiente attenzione in poesia alla radice del male, cioè all’operato del demonio nell’infanzia. Non lo si è chiamato col suo dannato nome. La ragione di molti comportamenti malati o malvagi degli adulti si trova nell’infanzia che essi hanno vissuto, nelle esperienze, insegnamenti, nel rapporto con le fondamentali figure affettive cioè i genitori e, subito dopo gli educatori. E’ di vitale importanza il loro approccio al bambino, il modo in cui affrontano il compito arduo di indirizzarlo, correggerlo, reprimerlo. Eccedere nelle misure di correzione, fargli mancare i gesti di affetto, manifestare freddezza o indifferenza, repulsa, preferenza, disistima. Essere colpevoli di assenza o avere tare nell’equilibrio mentale, son tutti comportamenti che lasciano segni indelebili nella discendenza o negli allievi. Ancora più grave se il bambino abbia subito forme di aggressione morali, fisiche, perverse. E’ lì in quel terreno soffice e tenero dell’animo infantile che il male pone i suoi semi. E il male vorrebbe che radicassero, facessero alberi e frutti approfondendo la breccia nel terreno fertile della mente vergine di un bambino. Questi assorbendo nutrimenti avvelenati a sua volta replicherà gesti e manifestazioni negative, repressive, perverse, in una spirale senza fine.
Osservazione, nascondimento, segreto, ricordo, emersione, esorcizzazione, sono passaggi che caratterizzano il processo attraverso il quale si produce la poesia della memoria, degli eventi dell’infanzia.
La poesia indaga la coscienza, ma non dimentichiamo che il demonio ne è privo, quindi nello Zebù che noi leggiamo vediamo il demonio per tramite dell’operato e delle azioni che, quanto più sono ingiustificate, tanto più sono autenticamente malvage, ispirate cioè dal signore del male.
Il demonio non è capace di scrupoli, non prova invidia, gelosia, amore desiderio di vendetta come un dio malvagio di reminiscenza greca o latina.
Capra, corna, fuoco sono simboli del portatore del male, ma il male realmente non si personifica in un essere, il male agisce attraverso gli uomini che operano nel mondo. Il demonio è un inconsistente manipolatore di coscienze, muove le fila come un burattinaio, combina eventi, suggerisce parole, spinge a gesti, fa in modo che tutto concorra al trionfo del male.
Sono gli uomini in realtà a compiere scelte e scelgono di fare del male, lasciando una scia di effetti che a loro volta diventano cause di altre condotte. Queste scie formano linee malvage, immaginabili come tracce di rotte aeree che si sovrappongono a formare una rete invisibile che s’intreccia. Produrre il male però non può restare senza effetto. Per legami imperscrutabili, misteriosi il male ritorna, in tempi diversi – e chissà, forse anche in mondi diversi – a chi l’ha compiuto. Questo, mi rendo conto, è un assioma e, nel contempo, un atto di fede. Come lo è affermare che solo il bene può spezzare la continuità e l’espansione del male.
Tirare le trecce alle femmine, succhiare il latte da tette di plastica, distruggere i giochi, spiare gli amplessi degli adulti appartengono alla “fedina penale” del piccolo Zebù.
Secondo la classificazione delle tipologie di peccato operati dalla tradizione cattolica, quelli descritti sono peccati “veniali”, ben lontani da quelli “capitali” che “de-capitano” il peccatore, cioè lo alienano dalla grazia celeste perché ne mortificano l’anima. Talvolta nei testi poetici s’alza qualche fiammata infernale di tentazioni mortali.
Tutta la raccolta appare a questo proposito disseminata dei riferimenti tipici degli insegnamenti cristiani, gli stessi personaggi protagonisti: Gesù, Madonna, Giuseppe, Bel-Zebù, sono figure della tradizione tramandata coi Vangeli.
Alla luce di questa analisi le azioni di Zebù bambino non sono demoniache perché giustificate dalla curiosità e dall’imitazione, di per sé sufficienti ad assolvere Zebù. E tutto lo sviluppo di questa breve nota critica vuole assolvere anche noi stessi lettori dal moto di tenerezza che sorge leggendo, che quasi si sarebbe voluto essere lì con Zebù per un abbraccio d’affetto, di consolazione per la comunanza di spirito con la sua indocilità, con la protesta e la disubbidienza, la fuga, il pianto, la disperazione, la ribellione. Tutte cose che ce lo rendono caro, perché tutti siamo Zebù o lo siamo stati o lo vorremmo essere. Ancora adesso. Per dare fuoco al malvagio ad esempio. Mortificare chi ci fa del male. Prima di affogare di rabbia repressa.
L’augurio è che questa silloge prosegua, con altre poesie, le prossime avventure di Zebù, il demonietto che tutti vorremmo per amico.
La raccolta si conclude con una densa postfazione di Mattia Tarantino a cui fa da contraltare la freschezza dei testi poetici preposti.

Loredana Semantica

Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edizioni EDAS), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” (Libroitaliano) “Storie del bimbo ciliegia” (Autoproduzione), “ANUDA” (Aletti. In seguito ripubblicato in versione e-book da Edizioni LaRecherche.it), “OSSARIO”(Arduino Sacco Editore), “MADREPERLA”(LietoColle), “Lettere da Eldorado”(Progetto Cultura) , “DARKANA” (LietoColle) e “VIENTU” (Poesie in dialetto eoliano – Edizioni Progetto Cultura). I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui “Poeti e Poesia”, “Poetarum Silva”, “Atelier” e “Inverso”. Nel 2004 le poesie di Davide Cortese sono state protagoniste del “Poetry Arcade” di Post Alley, a Seattle. Il poeta eoliano, che nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia, è anche autore di due raccolte di racconti: “Ikebana degli attimi” (Firenze Libri), “NUOVA OZ” (Escamontage), del romanzo “Tattoo Motel” (Lepisma), della monografia “I MORTICIEDDI – Morti e bambini in un’antica tradizione eoliana” ( Progetto Cultura), della fiaba “Piccolo re di un’isola di pietra pomice” (Progetto Cultura) e di un cortometraggio, “Mahara”, che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di EOLIE IN VIDEO nel 2004 e all’EscaMontage Film Festival nel 2013. Ha inoltre curato l’antologia-evento “YOUNG POETS * Antologia vivente di giovani poeti”, “GIOIA – Antologia di poeti bambini”(Con fotografie di Dino Ignani. Edizioni Progetto Cultura) e “VOCE DEL VERBO VIVERE – Autobiografie di tredicenni” ( Escamontage ). . “GIOIA – Antologia di poeti bambini”(Con fotografie di Dino Ignani. Edizioni Progetto Cultura) e “VOCE DEL VERBO VIVERE – Autobiografie di tredicenni” ( Escamontage ).

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Novembre di zucchero. Un racconto di Loredana Semantica

10 mercoledì Nov 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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2 novembre, commemorazione dei defunti, Loredana Semantica, novembre di zucchero, racconto

zucchero_filato

Benedetta il primo di novembre sentiva che si avvicinava la festa. L’aria frizzantina all’imbrunire si riempiva di fumo e dell’odore di caldarroste. Spuntavano le bancarelle dei giocattoli e caramelle. C’erano luci, musica, tutta un’animazione nelle strade, un viavai di gente con i pacchi e i cartocci di frutta secca: a simenza, a calia, i favi sicchi, a nucidda americana, i pastigghie *. I bambini passavano tenuti stretti per mano dalla mamma o dal papà, altrimenti nella confusione si perdevano. Nell’altra mano tenevano uno stecco di legno attorno al quale in cima era avvolta una nuvola bianca di zucchero filato. Mangiavano la nuvola, affondando il naso nel biancore e spalancando la bocca per accogliere la matassa dello zucchero, che, prima si addensava dove avevano dato il morso in grumo dolce, poi si scioglieva in bocca mentre naso, bocca e mani diventavano appiccicosi di zucchero, quando non subivano la stessa sorte i vestiti propri o i soprabiti dei passanti. Uno spettacolo era vedere quando preparavano lo zucchero filato. Di solito lo facevano presso le bancarelle che vendevano dolci, torroni, caramelle. Si servivano di una specie di pentola gigante a forma di tortiera per ciambelle, nel supporto centrale, rialzato rispetto al fondo, versavano lo zucchero che, riscaldato, cominciava a filare e si raccoglieva mano mano sul bastoncino di legno a formare la matassa sempre più grande, più grande fino a sembrare una nuvola di cotone. Anche il resto della bancarella era un piacere per gli occhi: l’ossa e motti**, i biscotti di miele, durissimi cilindretti lunghi arrotolati in due spirali opposte, i totò al cioccolato e quelli bianchi, col cuore morbido e fragrante, le ghirlande cellophanate di caramelle, i leccalecca, le caramelle sfuse di tutti i colori, gommose o dure, le gelatine di frutta, il torrone bianco, il torrone scuro di mandorle, quello di nocciole, ricoperto di glassa ai vari gusti, i torroncini avvolti nella carta luccicante, cioccolata a tavolette più o meno grandi, il nocciolato spezzato a grossi tranci, le meringhe dai colori pastello che sormontavano i coni di cialda croccante a imitare i gelati, i marron glacé, i ceci e le mandorle ricoperti di zucchero, le caldarroste, la frutta secca. Una festa della gola e dell’abbondanza. Le bancarelle più attraenti però erano sempre quelle dei giocattoli. Il mistero era che papà e mamma tirassero sempre via Benedetta  senza comprarle niente, lei perciò si doveva accontentare di guardare l’esposizione e i bambini coi loro giocattoli in mano.
L’indomani era il giorno dei morti, la festa cominciava già la mattina. Il papà e la mamma di Benedetta immancabilmente andavano al cimitero portando con sé le figlie Eleonora, la maggiore, e Benedetta, la più piccola. Per le bimbe il cimitero non era un luogo triste. Affollato di piante, alberi e persone, lo vedevano più simile a un parco che a un luogo di silenzio e commemorazione. Tutt’intorno il cimitero era delimitato da un muro alto in antica muratura, si entrava da un ingresso imponente con tre archi, ma quello era l’ingresso principale, ce n’erano altri secondari e nel giorno dei morti li aprivano tutti. Da quale entrare dipendeva da dove si trovava parcheggio.
Posteggiare la fiat 600 blu era un’impresa, ma in qualche modo un buco lo trovavano, tra lo strombazzare delle auto e i pedoni a frotte. Prima di entrare al cimitero c’erano tante bancarelle di fiori di tutti i tipi e colori. Il papà di Benedetta prendeva sempre sei garofani rossi per la sua mamma. Poi, camminando di fretta per i viali del cimitero, si recava al colombaio dove c’erano i loculi di suo padre e sua madre. Vicini, ma non troppo. Benedetta lo seguiva, ma nel frattempo aveva modo di osservare ai lati dei viali le cappelle dei defunti. Alcune modeste, altre grandiose, tutte guglie, cupole, cuspidi, come piccole chiese. Poi i decori, i vetri colorati, gli stucchi, le inferriate. Le statue soprattutto erano affascinanti. Quelle degli angeli in tutte le pose e dimensioni, così ieratici e bianchi, le madonne a mani giunte, bellissimi bimbi che sembrava dormissero un loro sonno di pietra, adagiata la testa su cuscini ornati dalle nappe, la malata nel suo letto con le coperte poggiate fino ai fianchi, il busto eretto e le braccia protese ad abbracciare la morte, le statue dei soldati caduti con la divisa le armi, l’elmetto. Le tombe nella terra erano quelle che maggiormente la inquietavano. Pensava ai corpi abbandonati all’umido, al freddo degli inverni, coperti da implacabili lapidi di marmo sulle quali si leggevano dediche struggenti.
C’erano tombe curate coi fiori freschi, le piante, la teca di vetro che conteneva la Madonna benedicente, un Cristo pietoso o sofferente. C’erano tombe trascurate, il marmo spezzato, le lettere della lapide staccate, la costruzione cadente. Similmente le cappelle.
Giunti al loculo della nonna, Eleonora, Benedetta e la mamma dicevano le preghiere. Tre “L’Eterno riposo” e poi si concludeva “Anime sante, anime purganti, pregate Dio per noi che noi pregheremo per voi affinché Dio vi dia presto la grazia del Santo Paradiso”. Papà pregava mormorando a fior di labbra, un po’ in disparte, da solo. I colombai erano a più piani e si accedeva salendo le scale. Nei vari piani e per le scale era tutto un andirivieni di visitatori.
Poi si tornava a casa e veniva il bello. C’erano i doni che avevano portato i morti. Non mancava mai qualcosa per Benedetta ed Eleonora che fosse vestiario, giocattoli o dolci. La volta che Benedetta fu sopraffatta dalla sorpresa fu quando ricevette una bambola bionda, vestita di verde e ornata di pizzi, corredata di carrozzina per portarla a spasso. La carrozzina con la capote color turchese era perfettamente dimensionata alla statura di una bambina. Anche Eleonora ricevette una bambola, la sua però aveva i capelli neri, il vestito rosso. La capote era blu. Giocarono tutto il giorno, divertendosi. I cugini maschi nel frattempo, si sparavano per finta coi i botti veri delle caps* nelle pistole di latta e nei fucili argentati. Anche loro felici, schiamazzanti, accaldati.
Tutti i bimbi di quegli anni pensavano che i morti fossero buoni, portavano dolciumi e giocattoli, anzi che i defunti fossero persone care, alle quali volere bene perché loro si ricordavano dei vivi e lo dimostravano portando loro doni.
Benedetta, diventando grande, vide sbiadire queste tradizioni e sorgerne altre che mettevano i cari defunti sullo sfondo, ricollegandoli più alla perdita e al dolore che al ricordo e ai regali, per questi ultimi si preferivano figure più colorate, allegre, fantasiose o pittoresche come Babbo Natale o la Befana.
Poi si diffuse anche la festa di Halloween che nella notte del 31 ottobre impazzava tra i giovani con tutto il corredo dei simboli suoi propri: le zucche, i dolcetti o gli scherzetti, le mascherate da creature della notte.
Benedetta ebbe due figli: Francesco e Nicolò, detto Nico. Cercò di trasmettere loro un’idea positiva dei defunti facendo dei doni nel giorno del due novembre, dicendo “Questi sono regali da parte del nonno Vito e della nonna Pina”, ma non c’erano più le bancarelle e la festa, non c’era il cimitero monumentale, perché la famiglia aveva cambiato città, non c’erano i viali, le panchine, le statue. I ragazzi non si recavano volentieri al cimitero e tendevano a defilarsi, tutti presi dagli impegni tra giovani: serate e amici.
Il due novembre divenne sempre più un’incombenza per adulti. Una visita al cimitero, fiori sulle lapidi, la tristezza del ricordo e la solitudine della mancanza. Benedetta si rendeva conto che di quella festa del due novembre di quand’era bambina s’era perso tutto il fascino, s’era spenta la magia.

* semi di zucca salati, ceci tostati, fave secche, noccioline americane, castagne secche
** ossa dei morti, dolci tipici che si preparano nel periodo della commemorazione dei defunti in Sicilia, come anche i biscotti al miele e i totò
*** munizioni per armi giocattolo

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“Parabole” di Cipriano Gentilino. Una nota di lettura di Loredana Semantica.

03 mercoledì Nov 2021

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni, SINE LIMINE

≈ 3 commenti

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Cipriano Gentilino, Loredana Semantica, Nulla die, Parabole, poesia contemporanea, recensione

Cipriano Gentilino è affezionato lettore di questo blog e scrittore di poesia. Ci ha inviato la sua ultima pubblicazione “Parabole” che ha appena visto la luce nella Collana “I Canti” della casa editrice “Nulla die”.
La raccolta è un’antologia di cinquanta poesie, aventi ciascuna il proprio titolo, dalla prima “Parabola” all’ultima “E infine”. Parabola non è solo la poesia che apre la silloge, ma anche quella a cui l’autore ha dato al singolare il titolo col quale, ricorrendo al plurale, nomina l’intera opera.
In genere con la parola “parabola” s’intende riferirsi al Vangelo e alla predicazione di Gesù il quale ricorreva appunto alle parabole, cioè alla narrazione di episodi facilmente comprensibili, per spiegare concetti ben più complessi ai quali ammaestrava le folle e gli apostoli che lo seguivano. La parabola è un procedere per similitudini o esemplificazioni. Analogamente potremmo ipotizzare che Cipriano Gentilino abbia fatto ricorso alla poesia come strumento più idoneo – sintetico, catartico, evocativo – per veicolare vicende che, narrate altrimenti, non avrebbero potuto trovare la giusta angolazione di lettura, banalizzate dall’oggettività di un racconto asettico, cronachistico o travisate nell’ipertrofia del romanzo. Non si tratta pertanto di una reale semplificazione, quanto piuttosto di una nobilitazione nella quale il rimando al Vangelo, al cristianesimo, alle parabole di Gesù, potrebbe anche far pensare all’atto caritatevole di raccogliere e metabolizzare. Accogliere e consolare. Ricevere e trasformare. In un abbraccio tanto poetico quanto pudico, ammantato dal velo discreto e scardinante del dire in versi.
La poesia iniziale adombra probabilmente la matrice dell’intera raccolta – la sofferenza – e nel commento in corsivo (Maria, sopravvissuta al manicomio criminale, angosciata mi chiese: “fai parlare queste parole”) – l’intento – che si trasfigura nelle successive poesie diventando una narrazione del travaglio umano, “a cercare parole/ come se ancora ne avessimo”
Far parlare le parole è il mestiere del poeta che trae dall’esperienza quegli incontri, approfondimenti, complessità, che mescolano pensiero, natura, memoria in un mix orchestrato nei suoni, elaborato nelle costruzioni e articolato nei versi in modo da restituire suggestioni, delineare arabeschi verbali e trasmettere un senso che l’autore spera trovi l’attenzione di un lettore, e poi nel lettore quell’ accoglimento che restituisca una risposta “a cercare parole/come se ancora ne avessimo”, giusto come tentano queste righe di commento.
L’intera raccolta è dedicata “Ai migranti”. Cioè alle figure che in questi ultimi decenni rappresentano agli occhi del mondo la deriva umana, la fuga, lo sradicamento, la tragedia, e di contro sono portatori di un desiderio di pace, benessere, felicità e riscatto così brucianti, da spingere intere famiglie, compresi bambini o donne incinte, a rischiosi viaggi per raggiungere mete improbabili, idealizzate come l’Eldorado. Accade, e non proprio di rado, che questi viaggi si trasformino in episodi di disgrazia e lutto, nella quasi totale indifferenza del resto del mondo. Quel mondo che più facilmente che affrontare e risolvere chiude gli occhi. Per alcuni questa indifferenza è più colpevole che per altri, coloro che si muovono e hanno ascolto sulla scena politica nazionale e internazionale certamente dovrebbero e potrebbero impegnarsi maggiormente. I più essendo impotenti e comunque tutti consapevoli che si agitano forze molto grandi e controverse sulle quali il singolo e anche i gruppi, lo stesso potere politico ben poco possono. Per essere più concreti non è semplice pacificare gli stati di guerra, intervenire sul processo decisionale dei leader estremisti, sulle ragioni dei conflitti che nemmeno la diplomazia è in grado di stemperare.
Per tornare al lavoro di Gentilino ben venga dunque questa dedica che mette in risalto, con una sola parola, una piaga del nostro tempo.
Essa illumina di luce drammatica ogni testo poetico contenuto nella raccolta. Diventa la chiave per aprire alla comprensione: l’insufficienza delle parole della prima poesia, l’incontro con l’archetipo della madre generatrice, con la figura femminile, con le lucciole e i clochard, con lo stupro e gli abusi che tanta parte hanno nell’esperienza di creature che fuggono da scenari di guerra, di sfruttamento, di povertà o degrado. Esse echeggiano in “Venere Ericina”, in “Concavi” e già nelle prime composizioni della raccolta: “Notre dame”, “Dictaturae”, “Aironi” “Non abbiamo saputo”.
Quest’ultima in particolare ci inchioda al rammarico per l’incapacità di riconoscere e dare sollievo alla sofferenza.

Non abbiamo saputo
sentire nel vento
il lamento dei cristi
sui golgota,
né le rose selvatiche
sfuggite al tagliaerba,
distratti anche ora
che piove già il rimpianto.

Un testo che flagella il lettore non meno di “Profughi”, che, nel concreto riferimento allo stato d’animo dei profughi, potrebbe d’altra parte anche esprimere la condizione accomunante ogni essere che ha perduto il proprio Eden.

Scrosciati dalla terra,
decimati,
consumati,
degradati,
siamo tornati a casa,
profughi.

L’occhio del poeta si posa ancora sul disagio degli ultimi, disadattati ed esuli sulla terra, in “Concavi”.

Siamo concavi
di silenzio rugoso
stridio di clochard
senza cielo e coperte,
crepe di rimpianti
nel fiato trattenuto
sui vetri all’occaso.

Ultimi e umili ai quali, talvolta, nemmeno coloro che sarebbero deputati a dare conforto, chiusi nei loro “confessionali ipocriti”, sono capaci di dare aiuto. Credo sia questo il senso di “Né padri né madri”.

I titoli delle poesie spesso sono ripetuti nel corpo delle stesse, ma non sempre lo rendono più chiaro, anzi lo arricchiscono di mistero, essendo dettati da reminiscenze che si agganciano al “caso poetico” per vissuto personale o culturale dell’autore. Il lettore quindi è sollecitato alla ricerca dei possibili significati del lemma o della locuzione che costituisce  il titolo in rapporto al testo.
Nel caso specifico ad esempio dire “concavi” i clochard, quando notoriamente concavo si oppone a convesso ben potrebbe esprimere l’opposto dell’impermeabilità in un continuo riempirsi di rifiuti, insaccare umiliazioni, inzaccherarsi d’acqua che piove dal cielo. Il cielo a volte non copre e le coperte non bastano mai.
Le poesie della raccolta posseggono tutte i pregi della brevità e della ricchezza lessicale alle quali si contrappone una certa asciuttezza del testo che non indugia in descrizioni e particolari ma delinea con precisione netta l’argomento, il sentimento; rapidamente giunge al suo cuore e l’inchioda.

La precisione rispecchia probabilmente l’attitudine dell’autore, che è medico psichiatra, e come tale deve esaminare il caso clinico, sfrondandolo di tutto il superfluo per focalizzare l’essenziale e pronunciare una diagnosi, fornire un parere. Centrare l’attenzione al nucleo problematico è la necessaria premessa dell’individuazione del rimedio, cioè della cura, consapevoli – medico e paziente –  che “In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione…”, così Franco Basaglia, riportato da Gentilino nella raccolta.

Mi  sovviene, a proposito del peso che ha la professione nell’espressione poetica, Gottfried Benn, poeta tedesco, medico anatomo patologo, che nelle sue poesie offriva al lettore inquietanti e precise visioni del suo tavolo operatorio e della sala circostante, a conferma che la professione non è indifferente nel lessico e nel portato testuale del poeta, anche nella scrittura di Pessoa, che faceva traduttore, ci sono chiari riferimenti al mondo lavorativo, altrettanto per Pavese e ciò per dire solo i primi nomi che mi tornano in mente.

Alla caratteristica di esprimersi con sintesi di Gentilino che, ritengo, come ho detto sopra, scaturisca dall’esperienza professionale, s’affianca un’altra inclinazione, più sotterranea, data dalla sensibilità poetica per la quale l’individuazione dell’indicibile corre parallelo all’evidente e non può essere detto se non poeticamente, cioè solo con la trasfigurazione dell’elemento parola in composizione significante-evocatrice.

Talvolta il filo conduttore della raccolta – che è di attenzione ai disagiati – sembra interrompersi per qualche ben riuscito inserto di composizione che sonda l’intimo e si distende in un gesto di tenerezza verso l’altro.

Vieni,
siediti accanto a me,
verrà presto il buio.

Dormi il filo
del tuo sogno.

Troveremo l’uscita.
Siamo già noi
labirinti.

oppure quando, giocando sul filo dell’ironia o strizzando l’occhio dell’allegria, prospetta una serata in compagnia di illustri scrittori e studiosi della psiche.

A est di Freud,
dietro il vetro
rifratto,
aspetta anche
Jung
ma resto a casa
questa sera,
bevo birra
a Dublino
con Joyce,
domani
scaffale a sud
con Luigi e altri sei
e poi tutto Lacan
a luci spente!

Singolare che spesso si ritrovi nei testi la descrizione di paesaggi tipicamente mediterranei con gli effluvi dei gelsomini, la rugosità argentea degli ulivi, la fragranza dei capperi, quando l’autore vive a Mondovì in Piemonte. Egli però è originario di Erice, l’incantevole borgo in provincia di Trapani, il che tuttavia non ci dice se questi siano lacerti delle memorie proprie o, com’è più probabile, almeno in alcuni casi, il frutto dei racconti d’altri. Convince tuttavia questa natura disseminata nei testi perché concorre con potenza a fare da contraltare alla durezza dei temi trattati, allo sconforto che scaturisce dall’osservazione delle piaghe della condizione umana.
L’ultima poesia “E infine” racconta un posarsi sulla terra, con gli alberi, le rose, un melo rosso in un ritorno a far parte della natura che è la conclusione di un percorso, non solo poetico, non solo proprio.
Devo dire, approssimandomi alla conclusione di questa breve nota di lettura, che mi ha sorpreso che la raccolta “Parabole” mancasse di una prefazione o di una nota di commento. L’introduzione ai testi di un autore costituisce per chi si accinge a leggerli, specialmente se profano, ma anche per chi frequenta la poesia e la critica poetica, un veicolare significato, un ausilio alla comprensione, un sottolineare la specificità dell’autore, le caratteristiche della scrittura, la storia personale, la tematica trattata, il backround dal quale scaturisce la parola. E’ un approfondimento utile in molte direzioni anche, non ultima, quella di esaltare nella giusta luce la poesia, cioè la forma letteraria più profonda e autentica. Ora vero è che si potrebbe obiettare che la poesia parla da sé, che essa sussume tutto quanto l’autore ha da dire nella migliore e più sintetica forma possibile, ma appunto per questo lo sforzo di chi la legge, senza i riferimenti costituiti da una prima lettura compiuta e filtrata da un lettore qualificato, credo sia maggiore e la comprensione rischia d’essere superficiale.
Aggiungo che non solo mi ha sorpreso che per Cipriano Gentilino e per “Parabole” non ci fossero note introduttive e/o postfazioni, ma mi ha sorpreso ancora di più perché la sua scrittura merita attenzione. Sarebbe certo improprio parlare di attesa di una maggiore maturità per Cipriano, non solo per l’età dell’autore, ma anche perché è evidente che egli ha una notevole esperienza dell’esistenza e dell’esistente, una certa padronanza dello strumento poetico e rivolgersi alla poesia risponde a una sentita esigenza che, a mio avviso, dà buoni frutti.
Forse sarebbe stata opportuna una sistemazione delle cinquanta poesie in partizioni ragionate dell’opera, come i paragrafi, titolati opportunamente, in modo da favorire una lettura più organica e articolata delle poesie; un’organizzazione del genere potrebbe comportare un ordine diverso rispetto alla sequenza attualmente proposta.
Concludo con un accenno al dialetto isolano siculo, l’unico palese nella raccolta, e, precisamente, nella poesia “Dumani si viri”, nella quale il primo verso suona: “Dumani si viri soccu agghiorna”, traducibile in “domani all’alba si vedrà cosa succede”. La poesia è preceduta dalla citazione di Leonardo Sciascia “Come volete non essere pessimista in un paese dove il verbo futuro non esiste?”. Ecco probabilmente Cipriano Gentilino, pur essendo vissuto per tanto tempo in provincia di Cuneo, non ha mai perso le stimmate della sicilianità: la riservatezza, l’essenzialità, il pessimismo, la sfiducia, il senso di fratellanza, l’accoglienza, e solo ultima – appena un barlume – la speranza . E quel che è più triste è che ha ragione. Ancora adesso, è così, come dice Sciascia e purtoppo, ormai,  non solo in Sicilia.
E lo vede bene la sua poesia col respiro internazionale degli occhi multietnici. lo vede e lo dice con la consapevolezza di “Ave madre”

Ave madre di ebrei,
tutsi, hutu e twa,
madre delle madri
di curdi, armeni
e schiavi neri
madre che ci hai partorito
senza memoria
solo pelle nuda unta di te.

Biografia

Cipriano Gentilino ( Erice, 1953 ) vive a Mondovì . Dopo il liceo Classico e la laurea in Medicina si è specializzato in Psichiatria.
Operativamente partecipe alla riforma basagliana si è occupato di deistituzionalizzazione, cura e riabilitazione di persone sofferenti per gravi disturbi psichici.
Formatosi in Psicoanalisi di gruppo è stato docente incaricato di Psichiatria – Università Torino e Responsabile di un Centro di Salute Mentale.
Attualmente si occupa di psicoterapia di gruppo.
Interessato sia ai linguaggi del mondo interiore che alle tematiche sociali amministra un blog di poesia.
In tale ambito ha partecipato all’e-book -Soffi di Poesia- curato e pubblicato dalla poetessa Silvia de Angelis e all’e-book -Facciamo due passi incauti -su Libri amArgine curato dal poeta Flavio Almerighi .
Ha pubblicato poesie sulla rivista Ispirazioni e su riviste letterarie on-line.
Ha auto pubblicato l’e-book Pareidolie su Amazon.
Con Oèdipus ha pubblicato -Versi nel retrobottega – ed ha in corso di pubblicazione – In attesa di risacca-
Con Nulla Die nel settembre 2021 ha pubblicato – Parabole.

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Irene nel Paese delle Meraviglie

17 domenica Ott 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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irene nel paese delle meraviglie, Loredana Semantica, racconto

Liberamente ispirato al capolavoro di Lewis Carroll, un racconto surreale di Loredana Semantica

Irene aveva cominciato a lavorare piuttosto giovane. Nel senso che con i suoi quasi ventiquattro anni  d’età, non che fosse giovanissima, ma, vista  la fame di lavoro che c’era, poteva ben considerarsi fortunata.

Giunto il grande giorno di partire per recarsi al luogo di lavoro, il Bianconiglio l’accompagnò alla stazione. Lui era commosso, lei stranita. Bianconiglio le regalò un pennapugnale, un pallottoliere, una museruola. Lei li conservò nella sua grande borsa alla Mary Poppins. Quando Irene iniziò il viaggio erano più o meno le sette di sera. Passò attraverso lo specchio, prese un treno al binario ventisette, cenò su uno scomodo sedile, poi si ritirò nella cuccetta sospesa a mezz’aria. Man mano che si approfondiva la notte, le sembrò che gli altri viaggiatori diventassero zombie. Il Bianconiglio le aveva consigliato: “Se ti dovessero aggredire, sfodera il pennapugnale” Irene si addormentò pensando: “ Per questo ne uccide più la penna che la spada.” E sognò nel sogno che li avrebbe uccisi tutti e che, prima o poi, sarebbe tornata a casa.

Albeggiò  ch’era ancora intera. Solo allora si accorse che gli zombie non potevano vederla. La sera prima aveva mangiato un panino col prosciutto avvolto in una carta argentata dove c’era scritto: “Mangiami” e si era fatta piccola piccola, fin  quasi all’invisibile. Bevve l’acqua dell’accrescimento da una bottiglietta di plastica dove c’era scritto: “Bevimi”. Ripose il pennapugnale nella borsa tra il pallottoliere e la museruola. Dopo un giorno e una notte di viaggio giunse al luogo di lavoro. Era tutto scale da scendere e salire. Bisognava sorridere sempre, chiedere tanti permessi, inchinarsi nei corridoi, mangiare caffè e brioches. Irene ben presto si accorse di essere stata assunta nel Paese delle meraviglie. Nel Paese delle meraviglie c’era sempre qualche guerra da combattere o partita da giocare. All’inizio la sua squadra era quella dei Naningenui, formata da undici neoassunti, Irene inclusa; erano tutti bravi ragazzi. Gli altri, gli avversari, erano la squadra dei Tantomatti, tra questi s’erano infiltrati i Poconesti, che avevano un’aria furtiva e la faccia di piombo. Dopo una conversazione tra il Re di Picche e il Granpapà, una delle neoassunte fu trasferita ai Pianialti. Irene non capì cosa avesse potuto dire il Granpapà al Re di Picche, fatto sta che Irene assieme agli altri del gruppo continuarono a incidere la pietra a mani nude,  l’altra andò dove si usavano i guanti. Irene imparò che nel Paese delle meraviglie le conversazioni a quattr’occhi tra Re e Granpapà producono frutti.

Dopo molti anni e molto impegno e dopo aver inciso tante e tante tavole di pietra, Irene riuscì a farsi trasferire ad Altrove, più vicino a casa. Per farlo dovette compiere una giravolta e battere i tacchi. Un po’ come Dorothy nel Mago di Oz, ma con più pathos. Nel luogo dove giunse avevano un modo antiquato di lavorare e lei cercò di proporre delle innovazioni. Aveva nuovamente bevuto l’acqua dell’accrescimento e questo l’aveva fatta ridiventare grande grande. “Capovolgiamo i fogli” disse Irene a Teresa, la collega anziana, “così devono leggere a testa in giù, il sangue gli andrà alla testa e tutti penseranno meglio.”

Il giorno dopo il Re di Fiori emise un editto che faceva Teresa Gran governante, Irene l’ultima addetta. Irene pensò bene di mangiare un panino col prosciutto. Ridiventò di nuovo piccola piccola, quasi invisibile, tirò fuori dalla borsa la museruola, la indossò e tacque. Aveva capito che nel Paese delle Meraviglie era meglio tacere.  Tacere e annuire poteva portare buoni frutti. Non passò molto tempo che la chiamarono al Pianodisopra, c’era bisogno di una testa e la sua sembrava piuttosto grossa. “Purché non me la taglino” pensò Irene. In effetti non volevano tagliarla ma usarla, la misero in un bel posto tutto di legno lucido e scuro, ma non come una bara, piuttosto come una stanza da pranzo. Ci misero la testa ancora attaccata al tronco. Insomma Irene tutta intera, che lì, in pace, passò molti anni lavorando con gusto, mangiando panini, bevendo tanta acqua.

Poi avvenne che il Mondodiqua e il Mondodilà si riunirono. Adesso al comando c’era il Re di Quadri e a lui serviva una che sapesse contare. Irene non era brava a farlo, ma aveva il pallottoliere e lo sapeva usare. La misero sulla scacchiera a fare il cavallo e lei saltava tra un quadretto e l’altro, in diagonale, poi segnava i punti col pallottoliere e dava ordini ai Pedoni.

In quel periodo apprese che nel Paese delle meraviglie i Pedoni hanno due facce. Una a vista, l’altra nascosta. Che Giano in confronto era un principiante. E Duefacce di Batman un essere angelico. I pedoni praticavano spesso la menzogna, ancora più spesso l’ipocrisia, entrambe dirette a trarre tutti i possibili vantaggi per se stessi. Intanto i mondi che si erano riuniti presero un nuovo nome:  Unicomondo. Dove, a questo punto, arrivò il Cappellaio Matto.  Lui, spronando Pedoni, Cavalli e Alfieri, vinse ogni battaglia. Fece stragi di preferenze, lo acclamavano tutti, ma presto dovette andar via. Nuove battaglie e nuove avventure lo attendevano. Ad Unicomondo la scacchiera fu messa da parte e contare non ebbe più importanza. Irene, afflitta, subì la stessa sorte. Allora cambiò vestito. Mise quello della determinazione. Era stanca di ingigantire e rimpicciolire. Le girava terribilmente la testa. Chiese al Nuovore  di Unicomondo di nominarla Ciambellano, ma i Pedoni non furono d’accordo. Si mossero tutte le Torri  insieme, la accerchiarono per farla precipitare. Dietro di loro, nascosti e maldicenti, i Pedoni a due facce. Nuovore però fu presto rimosso e Lunicoverore, giunto al suo posto, non si lasciò intimidire. Questi era un grande condottiero e andò dritto per la sua strada, riportando Unicomondo, scosso da tante tempeste, sulla retta via. Pacificò le squadre, mise tutti al lavoro come un unico coro. Solo pensò di lasciare il compito della nomina del Ciambellano alla sopraggiunta Donnadicoppe che non era tanto forte. Perciò nominarono Irene, ma solo Mezzociambellano e l’altro mezzo arrivò dopo, quasi inavvertitamente.

Sembrava che per Irene adesso tutto andasse bene, ma il viaggio non era ancora finito e nemmeno il lavoro. Ancora battaglie, ancora ferite. All’orizzonte un’altra avventura. Quella in cui Unicomondo fu sopraffatto da Altromondo, non tanto per una guerra, ma per un terremoto. Quelli di Altromondo piombarono su Unicomondo, erano rapaci e privi di scrupoli, come Orchi del Signore degli Anelli. La stessa bocca schifosa, piena di bava e di denti, la loro voce era gutturale, la gola profonda emetteva suoni inumani. Irene fu rimossa da Ciambellano per occuparsi delle Cucine. Divenne Gran Cuciniere e sfornava piatti su piatti, alcuni perfetti, altri un po’ cotti, altri un po’ crudi. A Irene non piaceva cucinare, preferiva altri lavori, chiedeva a gran voce che la mettessero al sole e non la lasciassero nel buio degli scantinati, ma nessuno la ascoltava. Languiva, si accorse di fare sempre più fatica nel lavoro, come se spingesse una montagna, finché, sfinita, non bruciò una frittata. Allora la Falsaregina, che in quel momento aveva il potere, dispose che le tagliassero la testa. La Falsaregina, Irene lo sapeva, era solo un Pedone travestito, ma non se ne accorgeva nessuno. Tutti i Pedoni obbedivano e gli Orchi ringhiavano vendetta. Irene provò a gridare che la Regina era falsa,  che aveva il sorriso ipocrita dell’impostore, ch’era stata messa sul trono dai Granpapà senza nessun merito, nessuna nobiltà, ma il cuore le batteva all’impazzata, il respiro era mozzato, la voce non le usciva.

Nella piazza principale di Altromondo s’era riunita una piccola folla di Orchi e di Pedoni curiosi di vedere l’esecuzione. Al centro della piazza c’era una fontana grandiosa, tutta statue, marmi e giochi d’acqua. Fu letta  la sentenza che disponeva  le tagliassero la testa. Irene chinò il capo e solo allora vide se stessa. Si rese conto che a bruciare non era la frittata, ma il suo vestito e tutto il suo corpo, corse verso la fontana per spegnere il fuoco e si accorse che tra le statue di marmo, nascosta dai veli d’acqua, c’era una porta. La aprì, ne oltrepassò la soglia, poi chiuse la porta dietro di sé e questa, come d’incanto, si dissolse.

Altromondo era sparito, sparito il Paese delle meraviglie, i Pedoni, gli Orchi, la Falsaregina.

Irene si guardò intorno, si accasciò sul pavimento e pianse, il viso tra le mani: finalmente era tornata a casa.

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Psychodissey di Eleonora Federici: una lettura di Loredana Semantica

26 domenica Set 2021

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni

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Eleonora Federici, Loredana Semantica, poesia contemporanea, Psychodissey, recensione, Terra d'ulivi edizione

La giovane poetessa perugina Eleonora Federici, classe 1995, è l’autrice di “Psychodissey”, una raccolta breve di poesia, appena pubblicata per i tipi di Terra d’ulivi edizioni.
Il volumetto è prefato da Emidio De Albentiis, la postfazione è di Sergio Pasquandrea.
Il contenuto dell’opera, la seconda pubblicata dell’autrice dopo “Misteri” nel 2016, si rivela nel titolo. Declinato con riferimento alla lingua inglese esso è composto da due termini congiunti, il primo è la radice inglese psych che rimanda alla psicologia, alla psiche, alle situazioni patologiche della mente, l’altro invece è un richiamo all’Odissea, cioè al celeberrimo poema di Omero, che narra le peregrinazioni di Ulisse di ritorno dalla guerra di Troia alla sua isola Itaca durate dieci anni.
La parola odissea nel linguaggio comune è quindi passata ad indicare le peripezie di un percorso che sembra non avere mai fine, costellato da avventure, incontri, esperienze. Metaforicamente le si attribuisce il senso del viaggiare dell’uomo nel tempo della propria vita fino all’approdo finale che accomuna tutti. La poesia “Itaca” di Costantino Kavafis, che parla di tesori ed esperienza accumulati lungo il percorso, ne è uno splendido paradigma.
Eleonora quindi ci racconta in forma di poesia questa tappa del suo viaggio esistenziale, “i tesori” che ha accumulato, le esperienze che ha vissuto, e lo fa ricorrendo al mito di Ulisse e vestendo le poesie delle nominazioni del poema greco.
L’ elemento autobiografico si intuisce anche dall’epigrafe, dall’aver scelto l’incipit del romanzo “La strada di Swann” di Marcel Proust: “Per molto tempo mi sono coricato presto la sera”, non soltanto perché significa in sé preferire il sonno alla veglia e quindi ricorrere al sonno per avere sollievo dalla coscienza del presente, ma perché tutta l’opera di Proust, nei suoi sette romanzi della “À la recherche du temps perdu”, sono pervasi di autobiografismo, ricordi, analisi interiore.
Ispirarsi all’Odissea significa esprimere la propria conoscenza e ammirazione del mondo letterario classico, ma è anche un modo di trasfigurare la realtà e i luoghi dove si vive disagio psichico. “Qui tutto fa schifo”. è questo il primo verso della raccolta contenuto in “Proemio”, titolo della prima poesia. Un “proemio”, quasi è superfluo dirlo, è premessa imprescindibile in un’opera poetica che si ispira ai poemi greci classici.
“Fango è il mondo” è l’altro verso chiave presente nella poesia, citazione di Leopardi e del suo “e fango è il mondo” della poesia “ A se stesso”. E’ espressione di disgusto invincibile di ciò che si è costretti a vedere o vivere. Il verso finale di “Proemio” “E a me, non resta che tacere” è un’affermazione della necessità del silenzio in un’ora vissuta, subita, comunque non verbalmente scardinabile. Tuttavia è prossima la catarsi, la reazione all’ineluttabile, essa sta appunto nelle ventisette poesie della raccolta che dimostrano come di certo il poeta non tace. Dice ciò che ha da dire, e lo dice quando è giunto il momento di esprimere l’indicibile. A conferma hanno detto poeticamente la  drammatica esperienza di degenza Alda Merini e Maria Marchesi.
Dopo la prima poesia “Proemio” la raccolta è ripartita in tre sezioni. La prima “Benedizione” contiene, tra le altre le poesie “Troia che brucia” e “Il Cavallo di Troia”. Esse contengono l’antefatto dell’Odissea, lo scontro, la vittoria o la sconfitta, le schiere degli opposti, l’inizio del climax, di certo una sofferenza, traumi che infieriscono “tra le bestemmie le urla, gli strepiti, stridono i denti rotti da troppi pugni – della – vita” . C’è la guerra del resto. Uccisioni, ferite e ossa rotte. Dolore al di sopra di tutto.
Le ultime tre parole del lacerto che riporto sono intervallate dal trattino disgiuntivo, esso impone una lettura cadenzata del testo, come a volerne sottolineare ogni termine, quasi fossero scandite, perché il senso sia chiaro, compreso, perché s’imprimano bene nella mente del lettore. Questa particolare forma col trattino lungo inframmezzato alle parole sarà ripresa successivamente anche in altre poesie della raccolta, soprattutto in “Viatico”, che riporto più sotto
L’ultima poesia di questa sezione ha per titolo “Tre volte santo”, un mantra – refrain consolatorio che rallenta una corsa a precipizio, separa la crisi dalla cura, sancisce il raggiungimento di un luogo ch’è ricovero, ma anche il passaggio dal clangore di fuoco e fiamme verso il viaggio dell’Odissea.
La seconda sezione è la vera e propria “Psychodissey”, qui entrano in scena personaggi noti del poema omerico: “Ulisse”, i “Lestrigoni”, “Circe”, i “Proci” e altri che sono titoli di altrettante poesie. Non mancano le “Sirene” e un “Polifemo” che drammaticamente si lancia nel vuoto. La raccolta è dedicata a Elena, Francesca e Marco. Due di questi nomi sono ripresi nel corpo dell’Opera a fianco dei titoli costituiti dai nomi mitici di “Atena” e “Tiresia”.  E’ legittimo pensare che le poesie siano ritratti di compagni d’avventura, flash delle loro essenze, momenti topici dell’interazione. Soprattutto però è Ulisse che catalizza l’attenzione, Ulisse ha lo sguardo all’orizzonte di barlumi, è il ricercatore della conoscenza, è il protagonista, il re, il viaggiatore, il vittorioso, l’errante, il portatore di una visione di speranza che i versi dell’omonima poesia “e qui dimora in noi,/ nella catapecchia del cuore,/la speranza.” rimarcano.

In “Sirene” e “Polifemo” è presente il nome che Ulisse riferì a Polifemo come proprio e cioè: “Nessuno”. Un inganno che contribuì alla salvezza sua e dei suoi compagni, una volta fuggiti dall’antro del Ciclope appena accecato. L’indefinitezza del pronome non consentì a Polifemo di denunciare Ulisse, autore dell’accecamento. In Sirene troviamo il verso “Il mio nome è nessuno,/ come tutti.” e nella poesia Polifemo il verso “Nessuno sei, nemmeno io”. Espressioni che si riferiscono probabilmente a un dialogo. Attribuirsi alla maniera di Ulisse il nome “nessuno” intende sottolineare il senso di annientamento e perdita d’identità dei malati ricoverati in strutture nelle quali l’alienazione è il sentimento più comunemente provato. La spersonalizzazione e lo sradicamento possono essere  alleviati dai momenti in cui si può dichiarare, interagendo con qualcuno, il proprio non nome. In questa stessa dichiarazione affermano di contro la propria essenza, esprimono  la sofferenza del sentirsi annichiliti.
I Lestrigoni,  sono i mitici giganti che nell’Odissea distruggono la flotta di Ulisse a colpi di pietre, uccidendone i compagni con gli spiedi. Nell’omonima poesia i giganti si servono come armi di parole pesanti come pietre. Le pietre nel testo poetico sono virgolettate, locuzioni di un linguaggio colloquiale prevalentemente d’affetto, non si sa se autentico, ma anche di disprezzo “mi fai schifo”, che si altera caricato di elementi negativi incorporati, pesantissimi nel contesto di situazioni parossistiche. Testimonianza di come le parole possano ferire più della spada. Mettere le pietre in bocca a giganti è dare alle figure che le pronunciano un’importanza preponderante, similmente a ciò che accade nei disegni dei bambini, dove le figure disegnate più grandi, sono quelle predominanti.
In tema d’amore alle parole dei Lestrigoni , “non c’è pietà,/ né amore in quelle” si contrappongono nella poesia “Fortuna” i versi “Diciamo di ciò/ che non sappiamo;/ forse questo è l’amore.” Al sapere di Emily Dickison “Che sia l’amore tutto quel che esiste/É ciò che noi sappiamo dell’amore;” si contrappone un sapere similare. L’arte della divinazione alla quale fa riferimento l’incipit  della poesia non è altro che un pretesto per cogliere i desiderata universali, la lettura dell’oroscopo un modo attraverso cui tradurre il sentire comune. L’essere amati, volere e voler vivere l’amore diventa l’altra faccia della disperazione.
Volere che non è sopraffatto dalla sofferenza ma vivo e vitale oltre gli amari calici di “Nausicaa” (perché sono/così gli uomini?), le “pasticche” di “Eolo, il prosaico ” tanfo di ascelle nella metropolitana” dei “Lotofagi”.
La terza sezione è “L’isola della morte”. Essa si apre con “Viatico”, dove ritroviamo i Santi di psichiatria, e amore, vita, morte. La poesia è estrema tra pavimento e asfalto, la si direbbe prostrata, ma la chiusa è d’argento, come le pupille, “Tutto questo è dell’amore; il resto ci sfugge”.  Ne “L’isola della morte”, che dà il titolo alla sezione il ritmo è spezzato e fermo, l’osservazione distaccata espressa è memoria d’infelicità. “Qui i corvi beccano/il cadavere di quello/che siamo stati.” La raccolta si chiude con il componimento “Anno 0”, dove non può che essere ciò che è: vita dopo la morte, coi segni delle ferite sul corpo, la cura del tempo e la parola che cura.

Viatico

Il rosso sull’asfalto,
il nero del pavimento,
l’argento delle mie pupille;
Tutte queste cose abitano
nell’amore – bugiardo.
La morte, la vita – in – viaggio,
la benedizione degli infermi,
i – Tre – Volte – Santi in Psichiatria;
Tutto questo è dell’amore;
il resto ci sfugge

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Anime e animali

27 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Anime e animali, Loredana Semantica, racconto

Camilla amava i gatti. Ne ammirava il corpo proporzionato e flessuoso, la piccola testa triangolare, gli occhi gialli, verdi, azzurri, tutte le fessure oblunghe delle pupille piantate nel buio a scrutare la notte. Bello il loro pelo variopinto, la sua lucentezza briosa, dalle tonalità del bianco, al rosso, al nero, declinato in tutte le molteplici sfumature del marrone, gli ineffabili grigi. Affascinanti i balzi eleganti dei gatti in barba a tutte le leggi della fisica, la disinvolta indifferenza del loro  incedere nel mondo e di contro i picchi di curiosità sfacciata e intrigante. Lo strusciarsi ruffiano contro le gambe, le fusa, le onde positive di vibrazioni che queste  diffondono, il magnetismo animale della presenza, il sicuro piglio del passo sui cornicioni a chilometri dal suolo, la capacità di giocare con un filo di lana, una pagliuzza d’erba, una foglia secca.

Avere davanti agli occhi un piccolo felino, con i pregi di quelli selvaggi e senza i problemi che quelli darebbero, era per Camilla un incomparabile regalo della natura. Guardare giocare due micetti la riconciliava col mondo, come ammirare un albero nel suo rigoglio, un fiore nel suo splendore. Era una sorta di danza, una fusione di tenerezza e bellezza, dove la morbidezza del pelo e i corpicini dai movimenti incerti e goffi si mescolavano nel gioco all’esercizio per la lotta necessaria alla vita futura.

Camilla ne aveva avuti tanti gatti nel suo giardino. Fino ad una ricca colonia di sedici animaletti, molti anni prima. Ancora adesso ne aveva intorno.  Da quando suo marito Oscar aveva montato una tettoia di policarbonato sul gazebo del giardino, i gatti del quartiere avevano deciso che quello era un luogo congeniale. La tettoia non era spiovente, ma piana, come Oscar avesse potuto montare una tettoria piana in un gazebo  progettato col tetto spiovente era un miracolo di inventiva.  Come avesse potuto sormontarla da un telo di polietilene era un mistero ancora più profondo. Il telo risultava praticamente inutile, esteticamente orribile, ed era stato strappato dal vento in più punti.

A dispetto di ciò i gatti avevano eletto quel luogo come prediletto.  Il telo di polietilene era diventato un tiragraffi ideale. C’era un gatto bianco latte pezzato a macchie grigie, con una testa quasi tonda e l’aria soddisfatta di chi non teme nemici, che amava schiacciare un pisolino nell’angolo sinistro della tettoria. Un altro tigrato rosso tutto pelo passava ogni mattina,  calpestando con le zampette guantate una passatoia in ferro  nero di appena otto centimetri. Non mancava di farsi vivo uno splendido gatto nero, lucido di pelo e muscoloso, simile a una pantera in miniatura, con magnetici occhi gialli. Compariva in modo spettacolare, ergendosi statuario in tutto il suo splendore. Almeno altri due o tre felini bazzicavano quel posto tra i quali un elegante persiano grigio polvere, probabilmente non randagio. Era diventato un luogo trafficato come il corso principale di un paese. Non potevano mancare le zuffe animate da soffi, zampate e miagolii che si concludevano con l’allontanamento dell’ultimo invasore. A Camilla non erano chiare le dinamiche degli scontri per cui qualche volta restava alla finestra per studiarle. Il gazebo era antistante alla finestra, la tettoia da quel punto di osservazione appariva come un palcoscenico.

Camilla amava i gatti, ma non solo. L’amore per gli animali le era semplicemente connaturato, pensava che fossero parte del creato e dovessero essere rispettati come abitanti della terra, espressione della natura e, se domestici, come amici.

Per questo motivo Camilla, quando era bambinetta di sette o otto anni non capì perché in quella bella pineta in montagna, con la giostra e l’altalena, le panchine e aiuole, un posto ideale per divertirsi e giocare. Non capì dicevo, perché  quel giorno un gruppetto di tre bambini, appena più grandetti, torturò e uccise un passerotto che aveva avuto la sventura di finire tra le loro mani. Dopo esserselo passato l’un l’altro tirandolo come una palla, l’ultimo del gruppo lo lanciò in aria e gli sferrò un calcio mandandolo a sbattere contro un tronco. Neanche il tempo di un grido. Camilla rimase attonita e sconvolta. Questo episodio si stampò indelebilmente nella memoria, finché fu capace di darsi ragione di questa crudeltà.

Divenne grande. Allora capì che  quei ragazzini si dicono balordi, e più in generale che gli uomini si dividono in due categorie i buoni, che operano per il bene e i cattivi, capaci di gesti simili, non soltanto con le bestie, ma anche con i simili. Capì che c’erano mille sfumature tra questi estremi. Di solito chi era crudele con gli animali non era benevolo nemmeno con le persone, solo che su queste avesse un briciolo di potere. Ne concluse che la vera natura di una persona emerge col potere. Decise che avrebbe imparato a riconoscere gli uomini e avrebbe sempre operato perché il potere fosse dato ai buoni. E così fece.  Indicibile impresa.  

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Sogni

20 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA E POESIA

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Loredana Semantica, racconto, sogni

“Balloons girl” Banksy

Giselda sognava ad occhi aperti. Mamma voleva che mettesse in ordine la cucina dopo pranzo. Da un lato le insegnava a rivestire il ruolo di brava donna di casa, dall’altro si faceva aiutare nelle faccende. Giselda comunque non era una cenerentola, aveva due sorelle e insieme si organizzavano. A volte in buon accordo, a volte bisticciando. Una lavava i piatti, di solito Amelia, la maggiore che si sbrigava in venti minuti e filava via. Alice era la più piccola, veniva adibita ad asciugare le stoviglie. Il resto era per Giselda. Vale a dire riporre le stoviglie, riordinare la stanza, spazzare e lavare i pavimenti. Giselda non faceva in fretta come Amelia, era più mogia, cincischiava, perdeva tempo, alla fine restava sola in cucina. Non le piacevano le faccende di casa, forse era pigra, col tempo si rese conto che non era portata, le faceva per dovere e per necessità, non certo perché far brillare la casa fosse la sua vocazione. Se ne rese conto solo quando incontrò qualcuno che l’aveva. La vocazione. Allora realizzò che siamo tutti fatti in modo diverso.

Nella grande cucina luminosa Giselda, rimasta sola, s’immergeva nelle sue peregrinazioni mentali ancora più profondamente, mentre riordinava, passava la spugna sui ripiani o spazzava il pavimento. L’ora assolata in quella stanza era grande abbastanza per i sogni, era perfetta per sognare. Lei entrava in una specie di torpore immaginifico dove s’inventava storie. A volte erano astruse e surreali: il disegno della piastrella, ad esempio, si animava e diventava un aquilone. Altre volte la statua di legno del gatto nero era un gatto vero con cui giocare. Spesso sognava di se stessa. Da grande farò la scrittrice, pensava. Scriverò un romanzo bellissimo, specchio dei tempi e della società, una sorta di Gattopardo, oppure sarò una specie di Emily Bronte di  Cime tempestose, meglio ancora Antoine de Saint-Exupéry. Spesso nei suoi sogni c’entrava la scuola, la ricerca di un successo, un apprezzamento, lodi mai avute da professori indifferenti.

La notte nondimeno Giselda era preda della sua immaginazione. Il sonno sembrava non arrivasse mai. Le ombre, i rumori la tenevano all’erta. Una volta temette che qualcuno dietro la porta d’ingresso strusciasse i piedi in modo sospetto. Lo disse a suo padre, che inaspettatamente non la mise a tacere, ma le diede retta. A sua volta vegliò per scoprire che erano le scope dei netturbini che spazzavano le strade. In fondo anche questa era una fantasia, una storia inventata che il confronto con la realtà trasformò in una cosa banale, routinaria, simile alle pulizie di casa. La nettezza urbana.

Non passò molto tempo che Giselda perse la capacità di sognare ad occhi aperti e visse la sua vita di lavoro e di affetti. Solo molto molto tempo dopo Giselda la recuperò. Capì che quel sognare era come tornare all’infanzia, invecchiare diventando bambini, ma non smise di farlo, come non smise di invecchiare.

Allora il suo sogno più grande diventò di andare a vivere in un casale in campagna, scrivere racconti, romanzi, articoli, poesie. Dipingere, coltivare piante. Per realizzarlo dipinse un unico quadro, un autoritratto e lo mise in vendita ad una cifra esorbitante. Esattamente quella che occorreva. Non dico quanto, nemmeno se riuscì nel suo intento, ma i sogni si realizzano solo se desiderati.

Le stelle aspettano sempre che noi facciamo un balzo e le raggiungiamo. E’ certo che ciò avvenga non sappiamo quando. I sogni li plasmiamo noi stessi con le nostre mani. Sono come bolle di energia che scagliamo nell’ universo.  L’universo le accoglie, a volte rotolano per anni, a volte per secoli, prima di esplodere, ma è certo che a un dato momento quella bolla di energia esploderà, tanto più violentemente quanto più grande il desiderio che la forma. Ci sono bolle che scoppiano in modo fragoroso e le vibrazioni si propagano come onde nello spazio e nel tempo. Bolle che fanno “flop” e si afflosciano in un secondo come palloncini sgonfi. Quelle che implodono ci danno dolore, quelle che esplodono gioia, ma ancora più importante è fabbricarne tante e tante da non poterle contare o tanto grandi da non poterle contenere. Il difficile allora sarà restare ancorati alla terra.

Loredana Semantica

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La festa dell’amore: 7 poesie sul tema

13 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Rose di poesia e prosa

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Cristina Campo, EMILY DICKINSON, Frederic William Burton, Giovanni Raboni, Jacques Prevert, Loredana Semantica, Maria Marchesi, Tamara de Lempicka, William Shakespeare

Il sottotitolo di questo articolo avrebbe potuto essere “Niente di nuovo sotto il sole”, l’amore infatti è un mistero che si ripete da ere, inoltre le poesie proposte, alcune o tutte, di certo le conoscerete. D’altra parte quando vi chiedono “cosa fai per S.Valentino?” rispondete pure “polpette”, come me, poi leggetevi queste poesie qua e se non vi piacciono o non le capite, sorry avete perso molto, non delle poesie, della vita.

Ah dimenticavo, in mezzo mi ci sono messa anch’io, con un mio testo di oltre 10 anni fa, e, a seguire chi volesse può accodarsi. Il post è aperto ai contributi.

Incontro sulle scale della torre, Frederic William Burton, 1864

Non sia mai ch’io ponga impedimenti
all’unione di anime fedeli; Amore non è Amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio:
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

William Shakespeare

–

Che sia l’amore tutto ciò che esiste
É ciò che noi sappiamo dell’amore;
E può bastare che il suo peso sia
Uguale al solco che lascia nel cuore.

Emily Dickinson

.

I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è soltanto la loro ombra
Che trema nel buio
Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini
la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Loro sono altrove ben più lontano della notte
Ben più in alto del sole
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore.

Jacques Prevert

Tamara de Lempicka, Il bacio,1922

Primavera è a un passo, mi colma
d’azzurro e di riverberi, mi chiude
nel desiderio che fa duri i seni
e fa sussultare la vagina. Al canto
delle rane uscirò nuda per le strade.
dovranno vedermi che sono bella
e piena d’ardori. Lui verrà a saperlo
e perderà le staffe. Lo sa che anche il vento
può farmi godere da forsennata.

Maria Marchesi

–

Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l’ultimo gradino…
ora è sparsa l’acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.
T’ho barattato, amore, con parole.
Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava –
ti riconoscerò dall’immortale
silenzio.

Cristina Campo

–

Innamorarsi è un attimo
contro la parete bianca
penombra verdeggiante
liquida e beffarda
un salmone argenteo
che nel guizzo
risale la corrente
le pupille d’acero filante
s’allargano di luce
affondando nere nell’addio
un abbraccio brevissimo
e la gola
d’apnea rossa s’annoda
all’ugola trafitta da stupore
chiodi sopra il muscolo cardiaco
come fosse un puntaspilli
annegato nella stretta
pulsante il cuore grida
al vento quasi morto
amore t’amo
l’afasia di mille volte.

Loredana Semantica

–

Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.

Giovanni Raboni

Egon Schiele, Men and woman (Embrace), 1917

 

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Proprio quella

13 domenica Mag 2018

Posted by LiminaMundi in Poesie

≈ Commenti disabilitati su Proprio quella

Tag

Alessandra Fanti, Deborah Mega, Francesco Tontoli, Loredana Semantica, Maria Rita Orlando

Bernardino Luini, Madonna del Roseto, 1510

Chiede Lilì: “Ma dimmi, babbo mio,
come hai potuto indovinar da te,
proprio la mamma che volevo io,
proprio la mamma che va ben per me?”

Lina Schwarz

 

Sono madre: il tuo trampolino per il salto

Sono madre: il tuo trampolino per il salto.
Dove tuffarti devi saperlo da te.
Io guarderò il tuo avvitamento
sarà comunque perfetto
anche tra gli schizzi più alti
e insubordinati.
Non farti troppo male, se puoi.
Disinfettante e cerotti
qui per te non mancheranno mai.
Sbagliare, ferirti, fallire
tutto ti è consentito.
Riuscire, centrare il bersaglio, vincere
tutto ti è permesso.
Sono madre, la lettera iniziale è minuscola
e non è un caso.

Alessandra Fanti

Farsi madre è per ali forti

Farsi madre è per ali forti
farsi madre come cagna
o gatta per la salda presa
del collare per la lingua
che al caldo della cuccia
lecca ruvida di spugna
il pelo ai corpicini.

Farsi madre
di mammelle e latte
pancia utero vagina
tra le zampe soffici di piume
per la cova delle uova
nella paglia il guscio rotto
la placenta amniotica
l’albume.

E sono belli i pulcini
vividi di giallo alti snelli
con o senza barba
con gli occhi chiusi sulla strada
prodighi di tempo e sonno
madre ti dico nella conta
di tazze salici staffette
notti innevate transazioni
nell’attesa del decollo
oltre il nido l’ingresso
l’illuminazione.

Loredana Semantica

Io (una) madre
 
Ricordo ancora
 
il torpore del risveglio
 
il riemergere al reale
 
con la mente vuota
 
incapace di pensare
 
voci confuse da lontano
 
attraversano il silenzio
 
di oblìo simile alla morte.
 
 
Dalla cortina di assenza
 
un ricordo inconsistente
 
diviene paura concreta.
 
È viva? È sana?
 
Provo a muovere le membra intorpidite
 
anestetizzate da staticità imposta
 
a lungo protratta.
 
 
Un dolore tagliente
 
mi annebbia la vista.
 
Mi rispondono
 
che sei viva sei sana
 
(Avrò parlato dunque?)
 
sollevata sprofondo
 
ancora nell’oblìo.
 
 
La prima volta che ti ho visto
 
mi sei apparsa
 
un angelo di Dio
 
il miracolo mio
 
di donna.
 
Avevi la pelle di luna
 
le linee di velluto
 
il mio stesso odore.
 
 
Eri il prodotto puro dell’amore.
 
 
Ora il miracolo è svegliarti
 
scoprendo i segni della crescita
 
gioire e piangere con te
 
che sei parte di me
 
(ancora lì dove sei stata concepita)
 
la mia miglior parte
 
il futuro roseo
 
di attese e di speranze.
 
 
Ti accompagnerò
 
finchè sarà concesso
 
non ripeterò gli errori
 
di mia madre
 
ne compirò di nuovi
 
quelli che solo le madri fanno
 
per eccessivo amore.
 
Deborah Mega

Mi hai sottratto presto il tuo corpo

Mi hai sottratto presto il tuo corpo
l’hai sottratto alle mie mani accudenti
hai imparato presto a lavarti, a vestirti
e già mangiavi da sola quando sei nata
nella tua casa nostra.
Era troppo abitare nelle nostre vite
per te abituata ad essere di nessuno?
Credo sia stata una fatica dura
per te bambina forte di mancanze antiche.
Poi sei tornata a me per abbracciarmi
madre bambina di me bambina madre
nonostante gli anni passati a salvarmi
dal non amore con amori santi.
Avevo una lezione da imparare
avevo da scoprire la distanza adatta
per essere vicina senza soffocare.
E tu, nascosto il corpo, ti sei fatta presente
tempo da dove non scappare
materia ad aumentare
respiro spiato la notte
risate e scoperte da far figliare.

Alessandra Fanti

 

M.A.D.R.E. 

Mediatrice
Attenta
Disincantata
Rimani
Essenza.

Io.

Ribelle
Indomita
Troppo
Ancora

Figlia.

Maria Rita Orlando

Lettera a mia madre

Sono arrivato a pensare ai tuoi ricordi e a toccarli

a cosa sarà della tua memoria quando non ci sarai.

Me lo hai fatto capire quando li hai messi in fila

e ancora una volta sei andata più in là nel tempo

arrivando a prima di quando ero bambino

al mondo di prima che io venissi al mondo

-è esistito!- mi hai detto.

Ci sono persone che spingono per farsi ricordare

e bussano alla tua memoria tutte le notti

ti chiedono quell’aiuto che ormai non puoi più dargli.

Mi hai detto che sei andata a cercarle nei vicoli

che hai setacciato i semi che tuo padre comprava

e di un piccolo furto ordito con tua sorella

dove avevate rubato due lire a tua madre.

E io come figlio ho pensato

alle piccole e grandi cose che devo averti rubato.

Ma i tuoi ricordi sono più grandi dei miei

e corrono nella tua testa veloci

ti fanno ritornare nei luoghi dove nessuno può andare

donano una nuova luce ai tuoi occhi ciechi.

Ti sei fatta ascoltare anche sapendo che magari

non ti avrei ascoltato con l’attenzione che richiedevi.

Abbiamo questo tempo consumato e riparatore

che ricuce le diverse trame di tessuti dimenticati

e a incollare il vaso si rischia di vedervi altri disegni

rovistando gli angoli bui che sanno solo i sogni.

Mi hai parlato di almeno un migliaio di scandali

e di cose che si lasciano in deposito

perché le godano gli altri che vengono.

E tutta quella roba che arrivava nella tua testa

io non sapevo dove metterla e cosa farne.

Come sempre e come tutti non ho saputo trarre profitto

della carne delle generazioni venute prima della mia.

E allora devo aver pensato anche a quello che lascerò io

se i miei figli mi ascolteranno quando sarà il momento

se avrò il tempo di farlo e se riuscirò a scandire gli attimi

come hai fatto tu senza aver trovato un interlocutore credibile.

Ma devo aver capito che parlavi più a te stessa che a me

ti confessavi e rimpiangevi amori e morti

e loro ti ripagavano con parole e volti

nella fuga delle storie avvenute o immaginate.

Avevi il bisogno di parlare che solo i vecchi hanno

e che pochi sanno esprimere in pieno.

Sorprende il grande silenzio di non sapere più dire nulla

e il non sapere più farsi ascoltare.

E noi sempre a valutare se poi vale la pena

stare a parlare con qualcuno, fosse pure nostro figlio

sangue del sangue , seme del seme.

Francesco Tontoli

L’immagine della rosa che funge da divisorio tra le poesie è una creazione di Maria Rita Orlando. PER FESTEGGIARE INSIEME LE NOSTRE MAMME, INVITIAMO GLI AMICI POETI A INVIARE ALLA NOSTRA MAIL liminamundi@gmail.com, ENTRO LA MEZZANOTTE DI OGGI, UNA POESIA SUL TEMA DELLA MATERNITA’.

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