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Per una traccia di sentiero, segnata da innumerevoli piedi nudi fra le erbe e le canne della valle dell’Idro, le donne scendono all’alba a Otranto con ceste piene di cicoria e di caciotte; hanno grandi occhi neri, capelli lucidi, aggrovigliati, andatura fiera. Mentre le piante dei piedi si espandono, illese, sul sentiero, esse guardano con la pupilla fissa in direzione del mare, uno sguardo asciutto, ereditato da generazioni di otrantini vissuti in attesa dello scirocco e della tramontana, per regolare su di essi pensieri e faccende. Arrivate alle mura della città, depositano cicoria e caciotte ai piedi della torre di Alfonso d’Aragona, e d’un tratto si mettono a urlare; come invasate da un improvviso oracolo, si scuotono dentro le nere vesti e gridano in faccia al passante : “Cicorie fresche, cicorie rizze !”

A questo punto, se ‘è un forestiero presente, rimane inchiodato sul lastrico, all’ombra della torre, guardando gli occhi nero-viola delle donne, la pelle bruna, domandandosi perplesso : “sangue greco ? o arabo ?” “Sangue otrantino”, gli risponde la vecchia nenia che le donne cantano ai lattanti per addormentarli, “sangue otrantino, / saporito come menta e petrusino / sangue forte e fino, / contro il turco malandrino.”Vista dal mare, Otranto appare ancora una fortezza, con i bastioni a picco sull’acqua, ma dietro la vuota abbondanza di mura e torrioni, un prodigio di viuzze bianche in salita, in discesa, di casette bianche, di palazzotti tufacei. In queste viuzze i fatti della storia sono rimbalzati, come pomi maturi, da un secolo all’altro, e giunti fino a noi: qui le palle delle bombarde turche, scagliate cinquecento anni fa, reggono i gradini d’accesso alle case o adornano la soglia al “salone” del barbiere, all’ufficio postale, situate ai due lati dell’ingresso. Viene sera, le ragazze siedono presso le palle, stessi occhi, stessi capelli delle venditrici di cicoria, e da un uscio all’altro si danno voce, parlano dell’innamorato che “fatica alla Svizzera,” mentre una vecchia, trascinando per un braccio un bimbo seminudo riluttante, che batte dalla rabbia i piedini per terra, grida : “Statte ‘ncortu, ca li turchi te ne portano pe llu mare,” al che il piccolo smette di battere i piedini nudi e comincia a piangere, un pianto monotono, slungato, salentino.Prende spicco al centro della minuscola città una strada in salita, che man mano s’allarga, il cui lastrico è lucidato dalle scarpette nere dei seminaristi : in cima, la piazza della cattedrale. Gravando sulla roccia con il peso dei suoi muri romanici, la cattedrale è il cuore di Terra d’Otranto, perché dentro ci sono Loro, in fondo all’abside, a destra, come il nocciolo in un frutto.Ogni anno, il quattordici agosto, da tutto il Salento vengono uomini, donne, bambini a salutarLi: alcuni arrivano lentissimi sui traballanti e impolverati sciarabà, altri così e così, in bicicletta, in lambretta, altri in Giulietta Sprint e hanno l’aria di correre ai campionati mondiali; tutti fanno merenda sulla spiaggia con sovrabbondanza di melloni brindisini, mentre i pescatori a passo lento avanzano, bruni e muscolosi, sulla sabbia, seguendo il ritmo del passo con la testa; offrono cestelli di cozze e gridano:”Le caramelle de lu mare!” Per l’occasione la banda suona il Nabucco o I Lombardi alla prima crociata, le bancarelle vendono nocciole e copeta, un impasto stranamente duro e di rara dolcezza, che resiste al coltello, ma si sfalda alla presa di una mano volenterosa e la lusinga. Un dolce degno di Loro. Meglio andarLi a trovare in un giorno qualunque. Per raggiungerLi si percorrono le lunghe navate della cattedrale, dove, per prima cosa, si vorrebbe non avere piedi, bensì alucce che consentano di saltellare come dei passeri fra i tre enormi alberi della vita, fioriti in tessere policrome di calcare sul pavimento, e così non contribuire alla consumazione del prodigioso mosaico. [..] Il mosaico arriva sino alla soglia dell’abside, dove ci sono Loro, che di solito dormono dietro i fragili vetri degli ossari. […]Vi sono due modi di accostarsi a Loro; l’uno, per cosi dire, turistico. il forestiero, che giunga in Terra d’Otranto e vi sosti per breve tempo, ascolta dalla bocca della guida l’antica storia di coraggio e di sangue, di molto sangue, aggrotta le sopracciglia, chiede schiarimenti, fissa dietro le vetrine i mucchietti di scapole, di tibie, di femori e di crani, smemorando per qualche attimo; poi se ne riparte con un ritmo irreale, di favola, nell’anima, lo stesso ritmo delle vecchie cronache locali. […]Ma mettiamo di sogiornare a lungo nella vecchia Terra d’Otranto, di scendere al crepuscolo verso il molo del porto, durante una bufera di tramontana, quando i pescatori siedono in terra alla turchesca, la pelle abbronzata, guardando pian piano il mare, riflettendo da soli, aspettando in silenzio, come suoi fidati amici, che quella furia gli passi. E’ suppergiù come aprire una finestra che dia in un luogo segreto e appartato. Le cose allora cambiano, ogni distanza nel tempo cade, ogni senso di favola si fa impossibile : sono ancora Loro che abbiamo davanti, qualche frastuono momentaneo attorno alla loro persona; gli stessi piccoli uomini dalla squisita capacità di comportarsi bene, nell’ora destinata. Si fa un gesto di saluto; rispondono :”Buon vespro a signoria,” e tornano a tacere, ad aspettare : un silenzio puro, che si espande all’intorno come la chiara luce dell’alba sul colle della Minerva, dietro la città. E’ da quel silenzio che affiorano le antiche voci e tremano al di dentro di una brillante giovinezza, che era la loro vita. Si ha l’impressione di aver scoperto un evento felice, ci si allontana dal molo pensando che quanto narrano le cronache non é lava impietrata, ma ancora calda in questo corno d’Italia, sus la senestre corne d’Ytaile, e che i pescatori d’oggi hanno solo dato il cambio, a metà del viaggio. 

Maria Corti, L’ora di tutti, 1962, Introduzione

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Cent’anni fa, nel 1915 nasceva Maria Corti, filologa, critica militante, teorica della letteratura, scrittrice e semiologa. È stata una delle figure di spicco del panorama culturale italiano del Novecento. Milanese, dopo la scomparsa prematura della madre, visse la sua adolescenza in collegio mentre il padre lavorava in Puglia come ingegnere prima a Taranto dove Maria frequentò le scuole elementari e poi a Maglie dove strinse le prime amicizie con Oreste Macrì, Vittorio Bodini, Alfonso Gatto, Luciano Anceschi; successivamente rientrò al nord ma continuò a frequentare la Puglia durante le vacanze estive anche perché il padre aveva sposato in seconde nozze una magliese. Dal 1949 al 1954 partecipò al progetto culturale dell’Accademia Salentina, ideato da Girolamo Comi, e alla rivista L’albero, come si evince dalla lettera sotto riportata con cui la Corti ringrazia Comi dell’invio di alcune copie della rivista. Da notare l’empatia e la freschezza della comunicazione e del messaggio.

                                                                                                   Como 29-11-55

Caro Comi, perdoni il ritardo con cui la ringrazio dell’invio di parte delle copie dell’Albero, ma la colpa di tale ritardo sta nella vita assurda che faccio quest’anno (ginnasio a Corno e università a Pavia); così assurda che per poco la continuerò. Ma di questo discorreremo a voce a Natale. Ora non desidero che discorrere dell’Albero, del bellissimo numero dell’Albero; dico bellissimo non per farle un complimento, né perché proprio tutti gli articoli mi piacciano, ma perché il numero è costituito da una ricchezza di apporti e da una varietà di ricerche che veramente fa della rivista una realtà non paragonabile ad altre – l’Albero è nato e resta una rivista speciale, su cui scrive un poeta maledetto di fianco a un filologo, un cattolicissimo di fianco a un marxista, e, qui viene il bello, il tutto fa unità, fa lo spirito dell’Albero. Come questo avvenga è difficile a definirsi, ma avviene; e buona parte del merito sta nel suo direttore, nello spirito della casa del suo direttore… – Ecco perché è lei che dobbiamo ringraziare di donarci l’Albero. Dei particolari discorreremo a voce; è veramente un numero interessante. Esso poi è penetrato questa volta in nuove sedi, per l’invio delle copie fatto da me, e a voce le dirò i favorevoli commenti. Le altre copie promessemi non si prendano il disturbo di spedirmele; me le daranno a Natale e io le invierò dalla Puglia stessa. Arrivederci presto e, speriamo, con calma; vorrei fare una lunga e bella chiacchierata con lei e con gli amici. Come sta? Se sapesse che autunno dolcissimo di odori e di luci abbiamo avuto sul lago questo anno; vi erano giorni in cui tutto era biondo, le colline cariche di foglie ingiallite, le case, i tetti, il cielo pieno di sole. Da due giorni è scesa la nebbia, che sempre mi confonde e mi incanta per quel suo rendere tutte le cose tremanti nell’ombra. Ieri era così fitta che ho sbagliato strada; che c’è di più bello che essere condotti a dover scoprire daccapo il proprio paese e la propria casa? Se non mi desse in dono i reumatismi, la nebbia mi farebbe felice; è l’aspetto più avventuroso che il mondo possa prendere. Ma quanto chiacchierare! Mi perdoni. Tanti affettuosi saluti

Maria [Corti]

La Corti fu allieva del linguista Benvenuto Terracini e del filosofo Antonio Banfi, relatori delle tesi che discusse per le lauree in lettere e in filosofia. Giovanissima, cominciò a lavorare come insegnante di scuola media prima in provincia di Brescia, poi a Como e a Milano. Il legame con la Puglia rimase sempre vivo e presente: la Corti sentì suoi la storia, il paesaggio, il profumo e i colori del Salento infatti rivolse la sua attenzione agli aspetti linguistici  e letterari della Grecìa Salentina, in particolare alla conoscenza del griko e alla persistenza di valori arcaici già approfonditi da Vittorio Bodini e da Rina Durante. Anche successivamente, nonostante l’intensa attività accademica e creativa, partecipò al dibattito culturale su L’immaginazione diretto da Anna Grazia D’Oria per i tipi dell’editore Manni con cui nel 2007 sarebbe uscito postumo il romanzo La leggenda di domani. Negli stessi anni svolse l’incarico di assistente presso l’Università di Pavia e descrisse l’esperienza del pendolarismo nel suo primo romanzo, Il treno della pazienza presentato al Premio Libera Stampa di Lugano nel 1949 ma pubblicato molti anni dopo con il titolo Cantare nel buio (Farfengo, 1981). Dopo la seconda guerra mondiale, si dedicò con entusiasmo alla carriera universitaria e ricoprì, a partire dal 1962, la cattedra di Storia della lingua italiana presso l’Università di Lecce, incoraggiata da Gianfranco Contini. All’epoca l’ateneo leccese non poteva offrire molto sul piano delle attrezzature e delle strutture scientifiche, tuttavia la Corti non solo accettò l’incarico ma, con slancio e intraprendenza, contribuì alla crescita dell’università, trovandovi un ambiente vivo e stimolante. In seguito continuò l’attività accademica presso quella di Pavia, dove con i colleghi Cesare Segre, Dante Isella, Silvio D’Arco Avalle, fondò una scuola di filologia italiana, nota come Scuola di Pavia. Alla Corti si deve anche la creazione del Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei per la raccolta e lo studio delle loro opere. Il primo nucleo del Fondo nacque nel ’68, quando Montale donò alla Corti appunti e poesie. La stessa Corti, nel libro Ombre dal Fondo (Einaudi, 1997), narra le difficoltà incontrate nella raccolta delle carte, le piste seguite per rintracciare i manoscritti, gli incontri con eredi diffidenti, ecc. Oggi l’Archivio possiede scritti di valore inestimabile; tantissimi poeti e prosatori, Montale, Bilenchi, Fenoglio, Saba, Moravia, Bertolucci, Levi, Calvino, solo per citarne alcuni, risposero all’invito della Corti e consegnarono i loro scritti alla fondazione. La Corti è nota anche per alcune edizioni di testi antichi, moderni e contemporanei: Rime e lettere di P.I. De Iennaro (Commissione per i testi in lingua, Bologna 1956), Entro dipinta gabbia.Tutti gli scritti inediti, rari e editi, 1809-1810 di Giacomo Leopardi (Bompiani, Milano 1972), Le opere narrative di Elio Vittorini (Mondadori, Milano 1984), l’edizione critica delle Opere di Beppe Fenoglio (Einaudi, Torino 1978) e di quelle di Ennio Flaiano. Anche a Dante Alighieri ha dedicato alcuni saggi: Dante a un nuovo crocevia (Sansoni, Firenze 1981), Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante (Einaudi, Torino 1983), La felicità mentale (1983), Percorsi dell’invenzione (Einaudi, Torino 1993). È stata tra i primi a diffondere i metodi di analisi strutturalista e semiologica dei testi letterari in Metodi e fantasmi (Feltrinelli, Milano 1969), I metodi attuali della critica in Italia, scritto in collaborazione con Cesare Segre (Eri, Torino 1970), Principi della comunicazione letteraria (Bompiani, Milano 1976), Il viaggio testuale.Le ideologie e le strutture semiotiche (Einaudi, Torino 1978). Intensa è stata anche l’attività di pubblicista: ha infatti fondato e diretto alcune prestigiose riviste culturali come Alfabeta, Autografo, Strumenti critici e ha collaborato negli anni 1965-79 a Il Giorno e negli anni 1980-2002 a “la Repubblica”. Fu un’accademica della Crusca e anche per la scuola elaborò un testo di grammatica, Una lingua per tutti (1978). Ricevette diversi premi: il Premio Flaiano nel 1989, l’Ambrogino d’oro e nel 1999 il premio Ministro dei Beni culturali dall’Accademia dei Lincei e, nello stesso anno, il Premio Campiello alla carriera. Nel 2002, ancora in piena attività di critica e studiosa, venne ricoverata all’ospedale San Paolo di Milano in seguito a una crisi respiratoria, vi morì il 22 febbraio e la salma venne tumulata nella tomba di famiglia a Pellio Intelvi (Como). La Corti è stata anche autrice di racconti e romanzi come L’ora di tutti (Feltrinelli, Milano 1962), Il ballo dei sapienti, dedicato al mondo della scuola e dell’università (Mondadori, Milano 1966), Voci dal Nord Est (Bompiani, Milano 1986), Il canto delle sirene (Bompiani, Milano 1989), Cantare nel buio (Bompiani, Milano 1991), Catasto magico, che ha come protagonista l’Etna, luogo a lei caro, ricco di miti e leggende (1999), La leggenda di domani (Manni, Lecce 2007). La leggenda di domani testimonia il primo impegno della Corti nella narrativa: si tratta di un romanzo breve che all’inizio pensò di pubblicare. Dopo il rifiuto di qualche editore si concentrò sul Treno della pazienza, a cui lavorò a lungo ma che arrivò alle stampe molti anni dopo. In questi anni scrisse il racconto In un guscio di noce, edito nel 1947 sulla rivista pugliese Libera Voce che qualche anno dopo la Corti stessa definirà un “prodotto da piccola catecumena della scrittura”. Fonte di informazioni sono le lettere scritte dalla Corti a Benvenuto Terracini, conservate presso il Fondo dell’Università di Pavia. In una lettera del 10 agosto 1945, la Corti informa il suo maestro della stesura di un romanzo, probabilmente Masseria di S.Damiano, il cui lavoro letterario non la soddisfaceva per “il tallone d’Achille dell’autobiografismo”. Il romanzo viene abbandonato ma se ne recupera la prima parte che, riscritta in terza persona e con alcune varianti di linguaggio e contenuto, diventa La leggenda di domani. La protagonista, la milanese Paola, sedicenne orfana dei genitori, fugge dal convento che la ospita per chiedere asilo al pescatore mastro Oronzo. S’inserisce nella sua famiglia, poi parte per sposare l’ingegnere torinese venuto in Puglia per costruire la strada costiera fra Otranto e Santa Maria di Leuca. La polarità Milano-Salento è una costante della vita e dell’invenzione narrativa della Corti; Emilio Corti inoltre, padre della scrittrice, fu proprio l’ingegnere che si occupò della costruzione della strada e che si trasferì in Puglia laddove prese la residenza. La solennità delle parole e degli atteggiamenti dei suoi personaggi è attinta dai proverbi popolari, dagli aforismi, dalle leggende locali, insieme a una empatica attenzione e osservazione del mondo degli umili che sembra riecheggiare il neorealismo di quegli anni. In un’altra lettera del 26 gennaio del 1948, la Corti dice di aver approfondito le sue conoscenze sulla distruzione di Otranto del 1480 e sugli ottocento martiri decapitati dai Saraceni. La vicenda sarebbe stata narrata in L’ora di tutti, di cui la Leggenda rappresenta il pròdromo. La Corti non voleva che le sue opere fossero considerate dei “romanzi”, le definiva infatti testi creativi, frutto di invenzione, narrazione diaristica, evocazione memoriale. In L’ora di tutti la tramontana soffia impetuosa mentre gli spruzzi delle onde giungono fino al basamento della torre del Serpe, da cui i pescatori, intenti a scrutare l’orizzonte, assistono all’arrivo di galee turche. Seguiranno giorni di terrore e di violenza durante i quali gli abitanti di Otranto, pescatori e contadini difenderanno la città con falci e forconi mentre i soldati spagnoli stanziati in città fuggiranno né arriveranno rinforzi da Napoli. Attraverso le voci narranti dei pescatori Colangelo e Nachira, della bella popolana Idrusa, degli ufficiali Zurlo e De Marco si ripercorrono le varie tappe dell’invasione ottomana dallo sbarco fino alla liberazione passando attraverso la breccia, l’assedio e le decapitazioni. La Corti ci offre cinque punti di vista differenti per una visione completa di un drammatico evento storico, l’affresco corale di un popolo coraggioso, pronto a difendere la propria terra fino al sacrificio estremo. Nonostante la tragicità della vicenda la Corti costruisce un’atmosfera arcaica e suggestiva fatta di riti e superstizioni, tradizioni e rispetto, stenti e piccole soddisfazioni, un mondo semplice in cui la saggezza popolare sembra contare più delle decisioni dei potenti, siano essi aragonesi o turchi. Da parte loro, a distanza di secoli niente è cambiato, prima si assiste indifferenti al sacrificio delle vittime, poi si innalzano al ruolo di eroi e tutto ciò è sottolineato dalle parole di De Marco “Ma, secondo te, a quella fanfaluca della fine del fazzoletto e della servitù ci crederanno? Alzai le spalle. Il colle della Minerva in quel momento era per metà nell’ombra: il sole stava calando e il mondo sembrava molto grande. Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?”. Direi proprio di no, il riferimento al tema “tutto cambia perché nulla cambi” di gattopardiana memoria resta attuale.

Deborah Mega

*Pubblicato in QuiLibri n.29, maggio/giugno2015, pgg. 33-35