Lento sorge il giorno su Venezia in un’alba nebbiosa di marzo. Anno 1690. Il selciato umido della notte, le pietre delle rive scavate e divorate dal muschio, lo sciabordio dell’acqua nei canali scuri, le calli ancora addormentate nella magia dell’ora dell’incanto, che tinge di rosa pallido i riflessi della laguna. Un passo risuona in lontananza, si avvicina. Nell’aria bianca si disegna la sagoma scura di una figura. Supera agilmente un ponte. E’ una ragazza. Le guance sembrano ancora arrossate di quel sonno che abbraccia i bambini la notte. Ma il passo è sicuro. Da donna. Nella camera, prima di chiudersi l’uscio dietro le spalle, ha lasciato il cestino con il ricamo appoggiato sul letto e, attenta a non svegliare la madre e le sorelle, ha preso dalla dispensa un pezzo di pane, l’ha chiuso in un fazzoletto, ha stretto tra le dita la chiave di ferro e, coperta la testa con lo zendale, ha iniziato il suo giorno. La porta della bottega di Antonio Balestra si sta aprendo proprio quando lei arriva, un po’ affannata dalla strada percorsa in fretta nel labirinto noto di una Venezia addormentata.
Il volto del maestro sporge tra lo stipite e il battente, un brusco cenno di saluto è il benvenuto all’allieva. C’è molto da fare oggi. Bisogna preparare i colori, mescolare i pigmenti, ultimare le ultime commissioni. Rosalba è felice. Contenta che i genitori le abbiano concesso di continuare a studiare la pittura presso quel maestro, un po’ burbero ma di talento, è desiderosa di imparare in fretta. Si toglie rapida lo zendale, appoggia da una parte il fazzoletto con il pane, si rimbocca le maniche e si siede su un panchetto davanti a un tavolaccio di legno. Disposti davanti a lei piccoli oggetti, preziose tabacchiere, sotto le sue dita sottili si arricchiscono di colori vivaci, di guizzanti figurine galanti, graziose damine, bouquet di fiori, piccoli paesaggi. Rosalba lavora e inventa. Inventa figure e un modo nuovo di lavorare su quei piccoli oggetti. Le immagini, prima precise, ben definite dalla linea di contorno e da campiture decise di colore, cominciano a farsi evanescenti, a perdere nitidezza. Il piccolo volto di una dama si confonde con l’ombra del cappello, il mazzolino di fiori che tiene tra le dita diventa un arabesco colorato. Quando Rosalba, ancora bambina, ha visto nelle chiese la grande pittura veneziana, ha sentito un fremito dentro di sé e ha capito: perché accontentarsi di precisi tocchi di colore quando tutto in questa città è riflesso, movimento di acqua, gioco di luci e di ombre? Adesso che è vecchia, e le notti si fanno lunghe e vuote, le piace lasciarsi trasportare dai ricordi di una vita, che si compongono come un caleidoscopio di immagini. E le sembra di avere ancora davanti quei piccoli capolavori, luccicanti di inserti di avorio, che avevano presto fatto il giro dei salotti veneziani. Ben presto la bottega di Balestra non le era bastata più. Si era messa in proprio, aveva affittato una stanza per lavorare. Ricorda ancora quel giorno, quando aveva lasciato sui gradini lo sguardo perplesso del paron de casa e si era chiusa la porta dietro le spalle. Ricorda la luce del grande ambiente vuoto, il pavimento che risuonava al suo passo, le tele portate su per le scale con fatica. Ripensa adesso alle ore di lavoro silenzioso in cui, come nei merletti su cui lavorava da bambina sotto lo sguardo attento della madre, le dita tracciavano tanti punti leggeri con i pastelli colorati. Dalla miniatura e dagli smalti alla tela e ai pastelli il passo è breve quando sai che vuoi una pittura soffice, leggera, galante, sincera. Sono giorni di intima gioia. Le piace inventare una tecnica tutta sua, le piace regalare luminosità alle sue opere, e si concentra sulla figura: ritratti e autoritratti si susseguono in una galleria ideale della società galante veneziana. Ma il lavoro sul suo volto si rivela illuminante: quasi a voler scandagliare il proprio animo, Rosalba punteggia il suo percorso di autoritratti che, visti in sequenza, documentano un itinerario esistenziale completo.
Il giorno è già alto quando Rosalba viene chiamata nella nobile dimora dei Sagredo Barbarigo. La contessa si è appena alzata e la accoglie nel suo boudoir. Le grandi finestre coperte di tendaggi filtrano la luce del sole, le cameriere portano un bricco d’argento di cioccolata e si allontanano silenziose sui soffici tappeti d’Oriente. Le due donne, sedute una di fronte all’altra sembrano due amiche. Rosalba è entrata nei palazzi e nelle simpatie di quel ceto di signori raffinati ed eccentrici, che non disdegnano di intrattenersi a conversare con lei, a suo modo una curiosità degna delle stravaganti Wunderkammern tanto di moda più a nord. Una donna che lavora. Una pittrice. Ma pur sempre una donna. Che ama conversare e lo sa fare con garbo e arguzia, ama stare in società e sentirsi ammirata, ama vestirsi con i begli abiti che può permettersi grazie al suo lavoro e non per la generosità di un marito. Nelle settimane che le richiede quel ritratto impara a conoscere ogni dettaglio di quel salottino che si trasforma sotto il suo pennello in sbuffi di vapori grigi di uno sfondo su cui si stacca l’ala bianca di una veletta appuntata al tricorno vezzoso di velluto nero. La dama ha i capelli bruni arricciati e raccolti dietro le orecchie, i grandi pendenti di perla che dai lobi scendono a sfiorare le guance, la pelle di porcellana del volto illuminata da uno sguardo limpido e grigio e da un sorriso appena accennato di elegante mondanità. Le grosse perle della collana le sfiorano il mento e attirano lo sguardo sull’ampia scollatura, racchiusa lateralmente da un serioso bustino nero. Sensualità e rigore, consapevolezza del proprio ruolo sociale, delle radici antiche, ma anche di una personalità fuori dagli schemi, tipica di un’aristocratica dalla condotta eccentrica, come solo una ricca donna libera può concedersi. Ricca e colta, come piace a Rosalba che la sente intimamente vicina a lei, nella differenza di estrazione sociale.
Seguendo questa idea, questa fascinazione, la ritrae ancora come l’immagine della rivincita libertina femminile, con la testa leggermente reclinata all’indietro a esporre la gola e il petto, gli occhi un po’ sfrontati, l’austro abito nero aperto sul davanti e illuminato da un nastro rosso fuoco annodato al filo di perle, il tricorno di velluto nero appoggiato lateralmente sul capo. E ancora Caterina Sagredo ritorna come Berenice, con le forbici in mano e lo sguardo serio ma seduttivo, fasciata in un elegante e prezioso abito di seta gialla ricamata, come subito prima di partecipare a un ballo.
Le ore della notte le riportano alla mente altre immagini. I ritratti di Cristiano di Meclemburgo, del duca Carlo di Baviera, di Federico IV di Danimarca, del principe Augusto di Sassonia, dei duchi di Modena, della corte di Vienna e di quella di Dresda.
E un ricordo fra tutti le è caro: l’ invito del giovanissimo Luigi XV a recarsi a Parigi, per raffigurare la sua famiglia. Il suo diario, aperto davanti a lei alla luce della candela, conserva l’appunto del primo agosto 1720: “Ebbi ordine da parte del Re di fare in piccolo il ritratto della Duchessa Vantadour: ed in questo giorno ne cominciai uno piccolo dello stesso Re”. Aveva così preparato con entusiasmo i bauli e qualche settimana dopo si trovava a corte, al cospetto del re ragazzino. Nella reverie nostalgica l’anno parigino assume i contorni di una scenografia ben precisa, la dimora del collezionista Crozat, che le aveva dato ospitalità, e soprattutto il grande giardino dove amava sedersi all’ombra degli alti alberi, camminare lungo le aiuole ben curate, osservare i colori dei fiori, ascoltare i richiami degli uccelli nascosti tra i rami in quel pezzetto di paradiso nascosto, chiuso tra le pareti grigie di un austero palazzo nel centro di Parigi. Proprio in quel giardino, mentre era intenta a leggere una lettera dei suoi da Venezia, le era giunta la notizia della nomina a membro dell’Accademia Reale di Pittura. Era la prima volta che una donna veniva accolta in quella istituzione tanto prestigiosa. Venezia era diventata lontana, eppure Rosalba ci pensava con una fitta nel petto. Una nostalgia che a volte la assaliva violentemente. Ma c’erano tante cose a cui pensare. Il lavoro, prima di tutto. E anche i rapporti sociali. E poi la vita mondana. Il turbinio di inviti. Le cene. Le feste. Quei committenti così desiderosi di assicurarsi, pagando bene, qualche giornata del suo lavoro si aspettavano da lei choses petites et merveilleuses.
Al rientro in Italia c’era ad attenderla una bella notizia: il suo amico inglese Christian Cole era riuscito a fare in modo di introdurla nella importante Accademia di San Luca di Roma. Per l’ammissione aveva presentato un dipinto, Una ragazza con la colomba, dove aveva giocato con il bianco porcellana e il blu cobalto.
I mesi e gli anni scorrono via veloci, come la cera che si scioglie dalla candela notturna. Se ricorda qualcosa, non sono i fatti precisi. Forse l’ora tarda è favorevole a quell’amara amica che l’ha accompagnata per tutta la vita, una malinconia struggente che non le ha lasciato la mano nemmeno nei momenti dei successi più gratificanti. Come se le mancasse sempre qualcosa. Come se nemmeno l’eccezionalità della sua vita potesse bastare a dirla felice. Perché poi arriva il tepore della primavera e giornate come quella: il cielo terso, i colori che punteggiano il verde, un abito di organza che fruscia ad ogni passo sulle gambe nude, il sole sulla pelle chiara. Una primavera disattesa dalle stagioni interne che sembrano girare le lancette al contrario. Dovrei aprire le stanze, si dice, fare entrare il sole sui muri, scuotere la polvere dalle coperte stendendole all’aria, aprire armadi dove l’ombra ha fatto dimenticare il sole di altre estati.
Dovrebbe ma non riesce. Le finestre restano socchiuse, il sole non disegna arabeschi sulle pareti in penombra, l’armadio non si apre al tepore della stagione riempiendo il letto di cose da piegare. Resta tutto fermo. Bloccato nel tempo del silenzio. Aspettando che il rumore della vita accompagni quello del cuore, ritmico pulsare dove solo la meccanica dei fluidi è segno dell’esistere, e non può fare a meno di rivolgere un’occhiata distratta alla sua immagine riflessa in uno specchio nella penombra della stanza. E’ l’opera che sta dipingendo, il punto di arrivo della sua vita. Il suo volto è un volto di vecchia su cui la vita ha scritto molte pagine. La tragedia della progressiva perdita della vista è forse l’ultima, con gli esiti dolorosi di un intervento non riuscito alla cornea. Un volto laureato, ma triste. Un volto dipinto con i grigi. Pensa che tra un po’ la luce della candela non le servirà più a vegliare i ricordi nelle notti che non finiscono. Pensa che nemmeno il sole potrà più brillare sugli incarnati di porcellana che deve ancora dipingere. Beffardo destino per uno sguardo intelligente e attento cui non sfuggiva nemmeno il più piccolo dettaglio. Amara e definitiva ironia per una pittrice della luce dalla vita eccezionale e malinconica. La giornata è passata, il lume che tiene in mano disegna ombre lunghe e guizzanti sui muri screpolati. Ha un’idea per i nuovi lavori, ne parlerà domani con il maestro Balestra. La stanza è piena del sonno delle sorelle. Si spoglia in fretta e si avvolge nella coperta, l’ ultimo sguardo è per la fiammella che si spegne.
Raffaella Terribile
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